Il rapporto tra amore verso Dio e amore verso il prossimo: una interpretazione nuziale. Riflessioni in dialogo con Franz Rosenzweig

«Maestro, qual è, nella legge, il gran comandamento?».

Gesù gli disse: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e il primo comandamento. Il secondo, simile a questo, è: Ama il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti» (Mt 22, 36-40).

È consapevolezza comune che il comandamento dell’amore verso Dio e verso il prossimo siano la base di tutta la morale cristiana, l’anima da cui dipendono tutte le azioni del credente. Tuttavia Gesù, almeno nella versione marciana e matteana, parla di due comandamenti di cui il secondo è simile al primo. Allora sorge una domanda che a ben vedere è tutt’altro che scontata: in che senso l’amore verso Dio è il primo comandamento? E soprattutto come si declina il rapporto tra amore verso Dio e amore verso il prossimo? In questo articolo cercherò di presentare sinteticamente alcuni tentativi di risposta elaborati soprattutto nel campo della teologia morale fondamentale cattolica. In un secondo momento traccerò, a partire da un’intuizione che è nata dallo studio del filosofo ebreo tedesco Franz Rosenzweig (1886-1929), una proposta speculativa, una chiave di lettura che mi pare possa essere particolarmente feconda per interpretare l’articolazione dell’amore verso Dio e verso il prossimo.

1. La differenza tra amore verso Dio e amore verso il prossimo

Una prima annotazione degna di rilievo, emersa da una ricerca condotta su diversi manuali di teologia morale fondamentale, è la sorprendente marginalità dell’analisi data al tema dell’amore. A fronte di un’affermata centralità nella morale cristiana del comandamento dell’amore, il suo significato e l’articolarsi della dimensione di amore verso Dio e verso il prossimo non viene che eccezionalmente affrontato.

Dalle poche pagine dedicate al tema si possono tuttavia rilevar alcune problematiche speculative di cui è utile tenere conto. Un primo filone di riflessione tende a mettere in rilievo la differenza tra amore verso Dio e amore verso il prossimo. La distinzione evangelica in due comandamenti, un primo e un secondo, esprimerebbe, almeno implicitamente, un ordine nell’amore dettato dalla differenza dei destinatari. Si riconosce che l’amore verso Dio presenta un primato perché si caratterizza per essere un amore senza misura. L’uomo deve riversare verso Dio tutto l’amore che gli è possibile: «con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze». Nell’amore verso il prossimo si dà invece una misura, poiché si dice: «amerai il prossimo come te stesso». La differenza quindi è dettata dal diverso destinatario che determina una differente misura. Dio, in quanto è l’origine e il fine di tutte le cose, richiede una totalità dell’atto di amore dovuta a Lui soltanto. L’amore verso il prossimo avrebbe invece una misura data dal quel «come te stesso» e che si traduce nelle diverse circostanze storiche che impegnano l’amore del singolo.1

Un’altra interpretazione circa la differenza delle due dimensioni dell’amore, a partire dalla tradizione tomista, sostiene che il primo obbligo della legge naturale è amare Dio al di sopra di tutte le cose. Questo amore verso Dio come fine ultimo chiama l’uomo ad ordinare a Lui tutti gli altri amori. L’amore verso Dio determina come deve essere il retto amore delle persone e dei beni creati. Chi ama Dio è naturalmente incline ad amare con ordine le sue creature orientandole alla conoscenza e all’amore di Dio.2 L’amore verso Dio si presenta quindi il principio primo e ordinatore dell’amore verso il prossimo.

Infine viene sostenuto che amore verso Dio e amore verso il prossimo presentano una modalità differente perché nei due casi è la stessa parola amore che assume un significato diverso. Infatti, il verbo amare, attribuito a Dio, presenta un’accezione differente rispetto al suo significato nei confronti dell’uomo. Riferito a Dio, amare significa credere in Lui, temerlo, sperare nella sua promessa, riconoscere la sua unicità e la sua fattiva presenza nella storia concreta. Amare il prossimo invece vuol dire «fare il bene» e possiede un senso maggiormente pratico.3 Per tale motivo l’amore verso Dio mette più in luce la spiritualità dell’uomo mentre quella verso il prossimo la dimensione morale.4

2. L’amore verso Dio come sorgente dell’amore verso il prossimo

Un secondo filone di riflessioni mette in luce la profonda unitarietà tra l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo. L’amore verso Dio non si realizza senza di quello verso il prossimo e il cammino verso il prossimo passa per l’esperienza di Dio.5 O meglio si sottolinea soprattutto il profondo nesso tra l’amore manifestato da (e non per) Dio nei confronti dell’uomo e l’amore che questo è chiamato ad avere verso il prossimo. L’amore di Dio si presenta come la fonte originaria, la motivazione e il modello paradigmatico dell’amore verso il prossimo. Già in Israele il dovere dell’opera di misericordia trova la sua motivazione nella precedente azione di Dio nei confronti del popolo eletto. Israele deve accogliere il forestiero perché ha fatto esperienza della premurosa attenzione di Dio mentre era forestiero in Egitto (Lv 19, 34). Nella pienezza dei tempi l’amore di Dio si manifesta definitivamente come agape trinitario nella carne del Figlio. Gesù Cristo con la sua vita ha mostrato la predilezione del Padre per i piccoli e i poveri, per gli ammalati e gli esclusi. Tale amore del Dio Uni-trino ha raggiunto la sua massima manifestazione nel dono totale e assolutamente inaudito del Figlio sulla croce. La Pasqua si viene a costituire così come la rivelazione suprema dell’amore trinitario di Dio e ne mostra la sua stessa intima natura: «Dio è amore». Prima però di morire in croce Dio dona il comandamento nuovo: «che vi amiate l’un l’altro come io vi ho amato (Gv 13, 34-35)». Quel «come» va inteso sia in senso imitativo che in senso fondativo. Il modo di vivere di Gesù offre una norma, uno stile di vita, ma anche Egli è colui che con il dono del suo Spirito rende possibile l’amore fraterno. Il cristiano quindi deve e può amare perché prima è stato amato da un amore che lo ha preceduto. Deve e può perdonare, perché prima è stato perdonato (Mt 5, 38ss; 18, 21ss). L’amore verso il prossimo nasce dunque dalla esperienza previa di essere amati che costituisce la condizione di possibilità di esistenza dell’amore verso il prossimo. In negativo la parabola del padre misericordioso fa vedere la durezza del cuore del figlio maggiore che non ha fatto l’esperienza dell’amore del padre e per questo non riesce ad essere misericordioso con il fratello minore.6

Inoltre il cristiano deve amare come il padre ha amato in Cristo, deve imitare quell’amore. Deve amare i nemici perché l’amore verso i nemici è quello che caratterizza il modi di agire del Padre che fa piovere sui buoni e sui cattivi (Mt 5, 43ss; Lc 6, 27ss). Il suo amore deve essere il modello paradigmatico per coloro che sono chiamati ad essere figli del Padre il quale, pur conoscendo le disposizioni intime dei malvagi e degli ingiusti, continua ad amarli. Gesù con tutta la sua condotta rivela questo amore instancabile di Dio che cerca i peccatori invitandoli alla conversione e che si pone come il modello.7 Il Padre chiede ai suoi figli un amore non meno generoso di quello chiesto al Figlio. «I figli dell’Altissimo» (Lc 6, 35) sono così invitati ad un «amore altissimo» che ricalca le orme del Padre facendo proprio quell’amore che ha assunto un volto e un nome concreto in Gesù Cristo.8 Il cristiano deve essere perfetto come è perfetto il Padre (Mt 5, 48), deve conformare tutti gli aspetti della sua esistenza a quel Padre riconosciuto come modello di vita.

In tal modo viene a stabilirsi un nesso causale tra amore verso Dio e verso il prossimo. Prima di tutto perché l’amore di Dio è la sorgente che rende possibile l’amore verso il prossimo. L’uomo è chiamato ad amare perché Dio lo ha amato per primo nella sua libera e gratuita iniziativa. L’amore ha in Dio la sua fonte che si è donata in Cristo. Secondariamente l’amore di Dio si pone come modello dell’amore dell’uomo, Il cristiano è pertanto chiamato a vivere in Cristo, con Cristo e per Cristo. Questo implica una imitazione degli atteggiamenti interiori di Gesù sotto l’azione dello Spirito Santo riversato dalla Pasqua nei nostri cuori.9 Al centro del comandamento dell’amore non ci sarebbe dunque l’osservanza formale di un precetto, ma sarebbe in gioco la stessa sequela Christi.10

3. I rischi di dualismo o monismo agapico

Tuttavia dall’analisi di questi tentativi di riflettere sul rapporto tra amore verso Dio e amore verso il prossimo emergono anche alcuni pericoli di derive riduttivistiche.

Il primo rischio è quello di una sorta di monismo agapico che finisce per dissolvere l’amore di Dio in quello del prossimo o al contrario che riduce l’amore verso il prossimo in quello verso Dio.

Infatti, quando si afferma che l’amore da Dio è la motivazione dell’amore verso il prossimo, che «nella luce» di Dio è amato ogni bene compresa la persona umana, si rischia di vedere nell’amore verso Dio solo il perché ultimo dell’amore del prossimo, la ratio dell’amore del prossimo. Questa impostazione rischia di dissolvere Dio in un incerto supererogatorio orizzonte di senso che sostiene a livello motivazionale l’amore del prossimo, facendo il tal modo perdere di valore il vero senso di come si possa amare Dio per se stesso. L’amore di Dio si colloca solo come causa assiologica dell’amore del prossimo, finendo ultimamente per screditare l’esperienza mistica in senso stretto e la contemplazione.11

D’altra parte è possibile che si verifichi un monismo agapico rovesciato, che dissolve l’amore verso il prossimo in quello verso Dio. Espressioni del tipo «amare Dio attraverso il prossimo» o «amare Dio nel prossimo» sono sempre passibili di una riduttiva interpretazione che, troppo preoccupata di amare Dio, perde la determinazione concreta del Tu umano. Un amore inteso in questo modo può anche inconsciamente cadere nella tentazione di considerare il prossimo solo come un incidente strumentale per amare Dio. Se si ama Dio nel prossimo, attraverso il prossimo, si rischia di non amare la persona propter se ipsum, ma meramente come mezzo funzionale all’amore verso Dio. L’amore del prossimo deve invece essere autentico, deve raggiungere il Tu nella concretezza storica della sua singolarità e unicità.12

In questa sede sembra utile recuperare l’analisi che Hannah Arendt rivolge al concetto di amore presente nel pensiero agostiniano.13 Secondo la pensatrice ebrea nel vescovo di Ippona solo Dio è il vero ante che dà consistenza all’essere dell’uomo. Virtù fondamentale è quindi per l’uomo l’humilitas, intesa come la coscienza del proprio fondamento. Tuttavia attraverso una concentrazione dell’attenzione nell’attualizzazione della relazione fondante con Dio, l’uomo entra in una negazione di sé e in una estraneazione del mondo. L’amor sui finisce per condurre l’uomo ad un redire al fondamento e avrebbe come conseguenza che l’amore del prossimo in quanto prossimo viene negato, lasciando il singolo nel suo isolamento.14 «La rilevanza del prossimo non è legata alla cristianità. Il vincolo risulta solo in seconda istanza.15ogni relazione diventa semplice passaggio nel cammino verso il rapporto diretto con Dio».16 Al di là del problema della correttezza dell’ermeneutica arendtiana, l’analisi mette in rilievo un problema decisivo: se nell’amore del prossimo si pone un a-priori (l’amore verso Dio), si rischia di non amare più veramente il prossimo, ma appunto solo Dio e ultimamente l’amore del prossimo è appiattito nella intentio dell’amore al proprio fondamento.

All’opposto del monismo agapico, è presente un ulteriore rischio che è quello di un dualismo agapico tra amore verso Dio e verso il prossimo che scinde le due dimensioni in una tensione inconciliabile. «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, e la moglie, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo (Lc 14, 26)». Il rischio è quello di percepire l’amore verso il prossimo come concorrenziale verso Dio, come estrinseco a quello nei confronti del divino. Se si perde l’intima connessione originaria tra le due dimensioni dell’amore si finisce per percepire un dualismo che riduce l’amore verso Dio ad un misticismo disincarnato e l’amore verso il prossimo a filantropia a-tea. Amore verso Dio e amore verso il prossimo vengono così a collegarsi solo in seguito, ma in tal modo finiscono per essere semplicemente giustapposti l’uno all’altro e ultimamente vengono percepiti come antitetici. L’esito finale è quello di una loro piena autonomia e solo secondariamente vengono posti in reciproca interazione, rimanendo però irreparabilmente separati e a-vversi.

4. La morale filiale

Un tentativo di conciliare i due aspetti dell’amore sembra trovare una adeguata risposta partendo dalla prospettiva filiale cristica. Gesù è il Figlio che vive fin dall’eternità un’esperienza agapica unica con il Padre. Egli vive nella consapevolezza di essere l’Unigenito, il prediletto del Padre sul quale riposa tutta la sua compiacenza. Allo stesso tempo Cristo sa di essere anche il Primogenito tra molti fratelli. Secondo il prestabilito disegno del Padre, il Figlio rivela il mistero nascosto nei secoli di raccogliere tutta l’umanità in se stesso. Nella persona di Cristo, il Figlio per natura, ogni uomo è costituito figlio per adozione e fratello del Verbo eterno. In Gesù Cristo quindi non ci sono due dimensioni giustapposte dualisticamente, ma una profonda unità di esperienza tra l’essere Unigenito e il Primogenito. Gesù si presenta dunque come unità vivente dell’amore filiale verso Dio e dell’amore fraterno verso prossimo. Il Figlio viene nel mondo per amore del Padre e perché fa suo l’amore di Dio per il mondo. In tutto ciò che Gesù compie, fino al culmine sulla croce, porta a termine la volontà amorosa del Padre nei confronti degli uomini. Gesù vive pienamente il suo essere figlio donandosi totalmente in obbedienza alla volontà del Padre, amando quegli uomini che il Padre ama. I due amori fanno dunque parte della sua identità filiale nel senso che Gesù ama i suoi in virtù di quella uscita dal Padre e di quel ritorno a Lui.17

A partire da tale identità filiale di Gesù, si può tentare di tracciare anche per l’uomo un raccordo tra amore verso Dio e amore verso il prossimo. L’uomo fin dalla fondazione del mondo è creato in Cristo e predisposto a ricevere la filiazione adottiva che si attua nel Battesimo/Cresima. Il credente diviene così partecipe dell’essere filiale di Gesù, in tutta la sua consistenza ontologica. L’uomo, che sacramentalmente riproduce in sé il volto di Cristo, è chiamato a vivere di questo duplice dinamismo di figliolanza del Padre e di amore verso i fratelli.18 Il comandamento verso Dio e verso il prossimo quindi si riallacciano al mistero filiale e fraterno di Cristo. L’essere credente è fondamentalmente caratterizzato dall’essere Figlio e la morale cristiana si traduce quindi nel camminare come Cristo ha camminato e di amare come Cristo ha amato.

In questa linea acquista tutto il suo spessore teoretico la categoria del cristiano come immagine di Cristo. La persona umana nella sua natura profonda è immagine del Figlio e quindi per essere se stessa deve conformarsi a Cristo, deve vivere in comunione con l’esemplare. Diventare se stesso è autenticare la propria condizione di icona, in un progressivo cum-formarsi con la forma originaria.19 In definitiva, l’imperativo dell’amore si traduce esistenzialmente nella sequela o imitazione del Figlio di cui si è immagine. Nella categoria di imago è quindi salvaguardato sia il legame dell’uomo con Cristo di cui è immagine, sia il rapporto con gli altri.20

Questa impostazione filiale certamente è centrale nella rivelazione e riesce a rendere conto di una pluralità di dimensioni. In primo luogo mantiene una differenza tra le due dimensioni di amore, l’amore paterno che si pone come unico e l’amore fraterno che è molteplice. In secondo luogo mantiene l’unità dei due amori perché l’amore paterno è originario, precede quello del figlio e rende possibile l’amore del figlio. In terzo luogo evita ogni dualismo perché l’amore del Padre è la fonte dell’amore fraterno, spinge il figlio ad amare i fratelli.

Senza negare la validità dell’impostazione della morale filiale, a partire da una intuizione nata della lettura di F. Rosenzweig, cercherò ora di proporre un altro modello che mi sembra altrettanto significativo.

5. F. Rosenzweig e la critica alla figura del mistico

Nella sua opera principale, La Stella della redenzione,21 F. Rosenzweig prende in esame i tre elementi del reale: Dio, mondo e uomo. Egli è tuttavia convinto che i tre elementi non siano comprensibili in se stessi attraverso la sola ratio, ma sono visibili le relazioni che li legano: la creazione (relazione Dio-uomo), la rivelazione (la relazione Dio-uomo) e la redenzione (la relazione uomo-mondo). Nella sua opus magnum la rivelazione viene intesa come relazione d’amore che trova nel Cantico dei Cantici il libro più adatto a descriverla. Dio è l’amante che chiamando per nome l’amata le fa prendere coscienza di sé e le ingiunge di ricambiare il suo amore. «Amami!» è la voce che scaturisce perennemente dall’amante e dà vita al dialogo della rivelazione. La relazione d’amore tra Dio e l’uomo è declinata dunque con un inequivocabile registro dominante: quello della nuzialità.

All’interno di queste pagine dedicate alla descrizione della rivelazione, che si distende tra accenti altamente poetici e contenuti profondamente speculativi, si può trovare una pungente critica attribuita alla figura del «mistico».22 Mentre il primo libro era stato testimone di una critica alla figura dell’eroe tragico, nel secondo libro è il mistico il destinatario delle critiche del pensatore ebreo. Entrambe le figure, infatti, l’eroe tragico ed il mistico, presentano alcuni aspetti paralleli che si rincorrono e che vengono giudicati negativi. L’eroe tragico è colui che rimane caparbiamente chiuso in se stesso nella negazione sia di Dio, sia del mondo e che, dotato solo della consapevolezza di sé, è capace di stabilire relazioni solo e unicamente con se stesso. Similmente il mistico è colui che, uscito dalla chiusura del sé e svegliato dalla parola dell’amante, si apre alla relazione d’amore con Dio, ma rimane caparbiamente chiuso in un limitante legame con Dio. Nel suo scoprirsi amato dal protagonista divino, il mistico cerca di essere il prediletto di Dio, reclama solo per sé l’amore ricevuto e vive in un’immobile staticità, crogiolandosi beato nel suo essere amato dal rivelatore. Il mistico diventa consapevole nella rivelazione della relazione con il divino maed è questo l’aspetto problematiconel momento in cui il mondo gli si presenta con la sua evidenza, egli opera un vero e proprio «rin-negamento» della sua dimensione creativa, trattandolo come non avesse una consistenza vera e propria.23 Il mistico si rivolge di volta in volta al mondo solo in modo strumentale, per le sue accidentali necessità del momento, come fosse un puro oggetto a totale disposizione dei suoi passeggeri bisogni.24 L’esperienza mistica si configura dunque come un rifiuto dell’uomo di passare dalla passività dell’amore ricevuto all’attività dell’amore donato al prossimo, come un egoistico tenere per sé l’amore di Dio senza infondere nel mondo quella forza che è capace di attuare la redenzione. F. Rosenzweig muove quindi l’accusa ad un certo modo di vivere la mistica, colpevole a suo avviso di perpetuare «un immorale disimpegno sul piano dell’etica e della politica».25 L’amata, che è figura dell’anima umana, invece, non deve rimanere chiusa nel rassicurante calore del suo sentirsi protetta tra le potenti braccia di Dio, ma è spinta dal comandamento dell’amore del prossimo a rispondere all’amore di Dio addentrandosi nel mondo per andare incontro agli altri uomini. Per questo il libro della rivelazione, che attraverso la metafora del Cantico dei Cantici descrive l’amore tra Dio e l’uomo, si chiude con il comandamento dell’amore del prossimo che apre il libro della redenzione, nel quale Dio spinge l’amore dell’amata ad uscire da sé ed a farsi incontro verso un terzo. Il mistico è, invece, colui che nega tutto questo e che si chiude in una riduttiva relazione con Dio considerato come il Tutto della sua esistenza, incapace di dare vita ad un movimento verso quel mondo di cui non sente assolutamente bisogno.26 Per questo suo atteggiamento mancante, il mistico viene definito «un uomo a metà»: in lui l’amore viene riduttivamente dimezzato, ristretto alla sola dimensione di passività, fatta di attendere, ricevere, accogliere, che rende l’uomo solo «un recipiente dell’esperire».27 Al mistico manca la parte attiva dell’amore: l’essere parola creativa e non solo risposta meccanica, il saper prendere il largo inoltrandosi nel mondo e non solo il rimanere chiuso nei propri rassicuranti e protetti confini.

A questa pungente critica alla figura del mistico sembra utile accostare anche la polemica che F. Rosenzweig porta avanti contro M. Buber e di cui è testimone una preziosa lettera che il nostro autore indirizza all’amico.28 Sulla base del profondo confronto intellettuale che lo legava con F. Rosenzweig, M. Buber chiede un aiuto all’amico sottoponendogli le bozze di quello che diventerà un famoso testo, pubblicato con il titolo di Ich und Du,29 chiedendogli una lettura critica. F. Rosenzweig si confronta, così, con l’idea chiave buberiana secondo la quale l’unica relazione autentica sarebbe quella intersoggettiva, che tratta il prossimo non come un oggetto, ma come un Tu personale. Non condividendo questa prospettiva, accusa l’amico di aver concentrato tutta l’attenzione filosofica alla Grundwort Io-Tu, operando un restringimento della relazionalità autentica alla dimensione intersoggettiva, in una sorta di riduzione ontologica.30 Nella lettura che ne fa F. Rosenzweig, la relazione che l’uomo intrattiene con il mondo, che Buber chiama «Io-esso», finirebbe per caricare la mondanità di un’accezione negativa, tanto che la categoria di «mondo» risulterebbe solo un oggetto fagocitato dalla soggettività umana, con il quale si vive una relazione solo strumentale.31 Il nostro autore tenta, invece, di allargare la prospettiva recuperando anche le altre relazioni del reale, inquadrando il binomio interpersonale «Io-Tu» all’interno di un più ampio orizzonte di carattere «cosmoteandrico».32 Nel reale si dà una triangolazione di relazioni (tra Dio, mondo e uomo) che si oppone ad ogni tentativo di ridurre la dimensione dialogica all’interno dell’intersoggettività umana descritta dalla relazione io-tu. Oltre alla relazione interpersonale uomo/uomo e uomo/Dio (che a sua volta ha due declinazioni: IO-tu dove l’uomo è il destinatario della parola d’amore di Dio e io-TU dove l’uomo, nella risposta a Dio, si percepisce come un io che si rivolge al Tu divino), F. Rosenzweig richiama la decisività della relazione di creazione (che esprime con la formula Egli-esso) e della relazione uomo/mondo (esposta dalla formula Noi-esso). Il Noi della comunità nasce dal fatto che l’uomo mantiene un rapporto con un assoluto Egli davanti al quale la relazione interpersonale umana io-tu è pensata come un noi.[^33] A differenza dell’Io-esso buberiano il mondo non è, dunque, solo un oggetto a totale disposizione dell’Io umano, con il quale si può instaurare solo una relazione reificante, ma in esso l’uomo è chiamato ad addentrarsi e ad instaurare una relazione d’amore che sfugge ad ogni fredda oggettivazione cosificante.33 Recuperando l’importanza decisiva della relazione creativa che il mondo intrattiene con Dio (Egli-esso), e al contempo liberando il mondo (esso) dal suo essere fagocitato dall’Io umano e dall’essere ridotto ad una relazione soggetto-oggetto, il nostro autore rivendica al mondo la sua piena autonomia, originalità ed irriducibilità nei confronti dell’uomo.34

È possibile, per tale motivo, delineare una certa analogia tematica tra le osservazioni mosse al riduzionismo buberiano e la critica rivolta ad un certo misticismo, chiuso nel suo rinnegamento della mondanità: entrambi, infatti, chiuderebbero l’amore entro un orizzonte bipolare, in un ripiegamento che esclude la presenza di una «terza» dimensione della relazione.

Il libro della rivelazione, invece, dopo aver descritto l’intimità dell’incontro tra Dio e l’uomo, termina con il comandamento dell’amore verso il prossimo, che impone all’amata di non accontentarsi del suo amore, ma, risvegliata dall’amore di Dio, le ingiunge di dirigersi verso il mondo. Emerge a questo punto il problema di come considerare il nesso esistente tra l’amore uomo/donna, che è l’analogato per descrivere l’amore Dio/uomo, e l’apertura di questa relazione verso l’esterno, un nesso a cui sembra corrispondere quello che la tradizione indica con la categoria di fecondità dell’amore umano.

6. L’apertura verso il prossimo e fecondità dell’amore

L’Io dell’uomo destato dall’incontro con il Tu divino riceve dall’amante l’ingiunzione ad amare il prossimo, a rispondere all’amore di Dio non direttamente, ma in maniera mediata, attraverso l’amore verso l’uomo. Il filosofo ebreo esprime la convinzione che non si possa riamare Dio direttamente perché nello scorrere della vita presente il volto dell’Altissimo rimane celato e inaccessibile alla concretezza dell’amore umano. La contemplazione del volto di Dio è esperienza riservata all’eternità, quando, nel sovra-mondo, lo si vedrà faccia a faccia; ma nel tempo presente è dato all’uomo di amare il prossimo e solo attraverso di lui l’Onnipotente. Si prospetta così un’intima connessione tra amore di Dio ed amore verso il prossimo, tanto che il pensatore tedesco afferma che l’altro viene amato sempre «all’ombra dell’Altissimo»: lo si ama «in Dio». In un certo senso, quindi, viene sostenuto che si può amare «più il prossimo che Dio» perché il volto del prossimo è l’unico che nel tempo si fa concretamente incontro e che si presenta come il Tu da amare.35 Solo dopo la morte sarà possibile vivere in modo distinto l’amore verso Dio e verso il prossimo, ma nei sentieri del tempo l’uomo è «costretto» ad esperire l’amore del prossimo e l’amore di Dio come un unico ed inscindibile amore, dove il prossimo è colui che con il suo volto rende presente l’Io di Dio.36

La profonda unitarietà dell’amore verso il prossimo e verso Dio viene sostenuta anche attraverso un simbolismo figurativo che accompagna l’intero percorso filosofico della Stella della Redenzione. Cuore dell’intento speculativo del libro è la ricerca della verità eterna che si svela solo nelle ultime pagine ed assume la forma (die Gestalt) della stella davidica a sei punte con il tipico aspetto dei due triangoli equilateri sovrapposti: il primo triangolo della stella è stato trovato nella prima parte del testo ed è costituito dai tre elementi del reale (Dio, mondo e uomo), mentre il secondo triangolo della stella è dato dalle relazioni del reale (creazione, rivelazione, redenzione) descritte nella seconda parte.37 Tuttavia, nelle ultime pagine del libro avviene un inaspettato e repentino rovesciamento di prospettiva: la figura della Stella, che descrive l’immagine della verità che arde in Dio, viene fatta corrispondere alla figura del volto dell’uomo dove le guance e la fronte formano il primo triangolo della stella, mentre gli occhi e la bocca delineano il secondo triangolo.38 Nella parte finale si giunge, dunque, ad affermare che la verità eterna di Dio, ricercata attraverso il lungo e faticoso percorso su cui si è snodata tutta l’opera, si riflette nel volto del prossimo.39 Dio si lascia contemplare nell’uomo, l’eternità mette radici dentro il tempo, il sovra-mondo è raggiungibile nel mondo. Poiché l’altro ha la capacità di rendere visibile l’Io invisibile di Dio, l’amore di risposta dell’amata passa attraverso un’apertura verso il volto dell’altro. L’amante divino non permette che l’amata si richiuda come il mistico nel calore di un abbraccio soffocante, ma con il comandamento dell’amore la sospinge verso il prossimo, verso ogni prossimo che in ciascun momento della vita si presenta come il più vicino: viene, quindi, incamminata verso il mondo intero. L’amore di risposta dell’amata è chiamato a percorrere orizzonti sempre più vasti in un’apertura che non conosce confini, ma che possiede una portata cosmica dentro la quale viene abbracciato il mondo intero.40

Nella Stella della Redenzione, pur utilizzando più volte le immagini sponsali dell’amante e dell’amata, soprattutto a partire dalla metafora del Cantico dei Cantici, non viene mai focalizzata in modo sistematico la tematica dei figli e della capacità generativa dell’amore uomo/donna.41 Tuttavia, pur non essendo esplicitamente presente il riferimento al figlio come frutto dell’amore coniugale, l’amore amante/amata aprendosi verso il prossimo ritrova quella dimensione di «terzo» che lo salva dalla chiusura e dal ripiegamento su di sé. La dimensione agapica possiede sempre una dinamica di espansione, di uscita da se stesso in un «traboccare»42 oltre il confine dell’Io-Tu per raggiungere l’orizzonte del «Noi tutti». L’amore che Dio dona all’uomo ha la capacità quasi misteriosa di uscire dagli argini della reciprocità interpersonale ed il comandamento dell’amore del prossimo si presenta, dunque, come un riflesso, un vero e proprio straripamento dell’amore inaudito che l’uomo riceve da Dio.43 In questo suo uscire da se stesso l’uomo sperimenta, con sua grande meraviglia, che «più si dà più si possiede»44 in una continua fecondità, dove l’amore cresce nel dono e dove l’intimità d’amore tra Dio e uomo, scoperta nella rivelazione, trova il suo compimento solo nella redenzione, solo se è capace di traboccare fuori di sé nel comandamento dell’amore del prossimo.

7. Amore e modello nuziale

Questo registro sponsale appare spesso nella Sacra Scrittura dove più volte il rapporto tra Dio e il suo popolo viene descritto utilizzando immagini tratte dall’ambito nuziale. In Osea e in Ezechiele l’elezione di Israele da parte di Dio è raccontata attraverso la metafora di uno sposo premuroso che si è scelto la sua sposa in modo assolutamente gratuito. Dio ha eletto Israele tra tutti i popoli e ne ha fatto la sua sposa circondandola di un immenso amore e facendola oggetto di tutta la sua predilezione. Tuttavia il popolo, nella sua stoltezza e ingratitudine, presto si è dimenticato dell’amore di Dio ed ha seguito altre divinità. Israele, nel suo atto di trasgredire il primo comandamento, è descritto come una sposa adultera che tradisce il suo sposo con altri amanti. Gli idoli «seducono» il suo cuore e lo inducono nel peccato. La dimenticanza dell’alleanza sinaitica si traduce in una rottura dell’alleanza nuziale. Ma Dio, nonostante l’infedeltà della sua amata, rimane fedele e sceglie, invece di ripudiarla come meriterebbe, di moltiplicare il suo amore. Decide di portarla nel deserto, nel luogo dove si sono conosciuti e dove Israele ha imparato a fidarsi del Signore. Nella predicazione profetica, il tempo di dura prova del deserto diventa, in uno slancio di trasfigurazione poetica, il tempo del fidanzamento. È stato il periodo dove Israele ha conosciuto il Signore e dove, nell’assenza di ogni sicurezza umana, ha imparato a fidarsi di Lui. Dio vuole portarla dove si sono innamorati per parlare al suo cuore, nella ferma speranza di riportarla all’amore dei primi tempi. Esiste quindi nel profetismo un ben noto filone narrativo che descrive la relazione tra Dio e il suo popolo attingendo all’ambito dei dinamismi sponsali.

In maniera ancora più eclatante anche il Cantico dei Cantici riprende la simbologia nuziale dell’amante e dell’amata. Questo libro è stato una vera crux per molti esegeti che si sono domandati che cosa ci facesse all’interno della Sacra Scrittura una raccolta di poesie puramente umane, dove la parola «Dio» non è praticamente mai presente. La critica più avveduta rifiuta sia una lettura puramente profana, sia una lettura allegorica del Cantico, proponendo invece una lettura simbolica di esso. Il Cantico dei Cantici parlerebbe di un amore autenticamente umano, ma dietro il gioco del cercare/nascondersi tra amante e amata del Cantico si rende presente il dialogo tra Dio e la singola anima. Dio è l’amante che, mosso dal suo amore, è alla continua ricerca del fedele che è la sua amata per instaurare con lei una comunione eterna.45

Nel Nuovo Testamento, Gesù stesso si presenta come lo Sposo messianico venuto ad inaugurare i tempi escatologici. Nel vangelo di Giovanni, il Battista, che ha la funzione di precursore, è definito «l’amico dello sposo» (Gv 3, 29). Gesù inaugura i suoi segni alle nozze di Cana con un miracolo molto particolare: trasforma l’acqua in vino. I miracoli nel quarto Vangelo non sono mai gesti che puntano a suscitare lo stupore del lettore, ma segni che hanno come scopo il rivelare l’identità personale di Gesù Cristo. Con il segno alle nozze di Cana, Gesù si presenta come lo Sposo messianico atteso. L’acqua viene attinta dalle giare di pietra che ricordano le abluzioni di quell’antica alleanza che con l’avvento di Gesù viene superata. Il vino nuovo conservato «fino ad ora», è simbolo della gioia degli ultimi tempi inaugurati dal Messia. Gesù quindi si presenta come lo Sposo che invita tutte le genti alla comunione con sé nella gioia di un banchetto nuziale. Questa immagine del banchetto nuziale ritorna anche nella parabola del re che prepara una festa per le nozze del figlio e invita tutti insistentemente a partecipare (Mt 22, 1-14). L’avvento del Regno dei Cieli viene fatto coincidere con le nozze escatologiche del Figlio dove il Padre prepara un banchetto per tutti i popoli. Gesù stesso, alla domanda sul perché i discepoli di Giovanni digiunano mentre i suoi non seguono le pratiche prescritte, risponde autorevolmente: «Possono gli amici dello sposo digiunare mentre lo sposo è con loro?» (Mt 2, 19). Il tal modo Gesù presenta tutta la sua attività come quella di uno sposo che invita tutta l’umanità alla gioia e alla comunione con sé. Le stesso donarsi in croce di Gesù spesso è stato interpretato come l’evento delle nozze mistiche di Cristo con l’umanità dove lo Sposo divino dona tutta la sua vita senza riserve all’umanità. Infine, anche l’ultima pagina dell’Apocalisse presenta la visione della Gerusalemme celeste «pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21, 2). È la Chiesa dei santi che, passata attraverso la grande tribolazione, incontra il Cristo suo sposo al quale è rimasto fedele nonostante le prove e le persecuzioni. L’incontro escatologico finale tra la Gerusalemme celeste e l’Agnello assume i tratti dell’intimità nuziale. Perfino le ultime parole dell’ultimo libro di tutta la Sacra Scrittura sono una appassionata invocazione a Cristo sposo ad affrettare la sua venuta: «Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni» (Ap 22, 17)».46

Dentro questo manifesto riferimento nuziale nel descrivere l’amore tra Dio e il suo popolo, si può intendere l’amore verso il prossimo come la fecondità dell’amore divino/umano.

Nella teologia recente non sono pochi i pensatori che cercano di descrivere i dinamismi della comunione trinitaria attraverso il registro della nuzialità.47 L’amore trinitario tra Padre e Figlio non rimane ripiegato in se stesso, ma trabocca ad extra nello Spirito Santo. Lo Spirito è l’ex-stasi di Padre e Figlio, è il fuoriuscire all’esterno dell’amore tra Padre e Figlio e ne mostra la perenne fecondità. Lo Spirito Santo è contemporaneamente espressione e frutto dell’amore del Padre e del Figlio. Il Figlio trova la sorgente del suo amore nel Padre e non trattiene il dono ricevuto nella dualità amorosa, ma insieme al donatore riversa l’amore ricevuto nello Spirito. La seconda persona della SS. Trinità è quindi costituita originariamente in una duplice relazione: una sorgiva che precedendolo lo genera e una di cui insieme al Padre è cum-protagonista. Lo Spirito infatti procede dal Padre e dal Figlio, o meglio dalla relazione amorosa dei due.

Analogamente l’amore tra Dio e il popolo non deve rimanere chiuso in se stesso, ma deve traboccare all’esterno manifestandone la fecondità. In questo senso sembra si possa leggere il comandamento dell’amore verso il prossimo in analogia alla fecondità dell’amore nuziale. Il primo comandamento ricordato da Gesù può essere letto come l’amore verso Dio/sposo che va amato con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Il secondo comandamento, quello dell’amore verso il prossimo, può essere interpretato come la fecondità del rapporto amoroso del primo, il fuoriuscire, il traboccare dell’amore tra Cristo sposo e la Chiesa sua sposa.

8. Frutti della prospettiva nuziale

Interpretare l’articolazione tra l’amore verso Dio e verso il prossimo in termini nuziali sembra offrire una chiave di lettura utile per comprendere la complessità e i dinamismi del mistero agapico. Tale prospettiva infatti riesce a tenere simultaneamente conto di diversi fattori che, come si è visto, sono implicati nel tentativo di pensare il declinarsi del rapporto tra amore verso Dio e amore verso il prossimo.

In primo luogo infatti questa prospettiva mantiene una differenza tra amore verso il Tu divino e il tu umano. L’amore verso Dio si pone come il primo comandamento mentre l’amore verso il prossimo viene detto «simile» al primo. Allo stesso modo l’amore sponsale si pone come qualitativamente differente rispetto a quello genitoriale. Interpretare l’amore verso Dio in termini nuziali ne mostra il «primato» nei confronti di quello verso il prossimo. L’amore verso Dio deve avere il carattere dell’esclusività, «con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente». Dio prova una «gelosia» nei confronti del suo popolo e chiede di essere messo al primo posto nel suo cuore in una dedizione totale. Allo stesso modo l’amore nuziale è per sua natura un amore esclusivo e totalizzante. Lo sposo per la sua amata non può essere «uno» dei tanti uomini della sua vita, ma chiede di essere riconosciuto come l’unico e irripetibile. Anche Benedetto XVI nella sua prima enciclica, la Deus Caritas Est, al numero 11 traccia un parallelismo tra il monoteismo ebraico e la monogamia. Il legame uomo/donna come anche quello Dio/uomo sono contraddistinti dai caratteri della «unicità e definitività». In questa ottica «il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa». All’esclusività richiesta dall’amore divino corrisponde l’esclusività richiesta dal rapporto nuziale. L’amore verso il prossimo invece come quello paterno/materno è differente e non richiede questa esclusività. Il genitore può avere una molteplicità di figli da amare senza che per questo venga meno la qualità del suo amore. Allo stesso modo l’amore verso il prossimo si indirizza ad una pluralità di soggetti, incontra molti «tu» nella sua vita, senza che per questo sia meno vero il suo donarsi. È possibile amare molti prossimi senza che questo sminuisca la radicalità e la totalità dell’atto agapico.

In secondo luogo paragonare l’amore verso il prossimo alla fecondità dell’amore sponsale con Dio, mantiene l’unità tra le due dimensioni dell’amore. L’amore verso il prossimo nasce come risposta, come il fruttificare dell’amore verso Dio. Esiste un primato in ordine temporale e una sorgività originaria dell’amore verso Dio. È questo amore che precede e che rende possibile ogni amore verso il prossimo. Gesù invita ad amarsi gli uni gli altri come Lui ci ha amati. Si è visto che nell’interpretare questa frase bisogna mantenere entrambe le accezioni dell’avverbio «come». Indica sia che l’amore di Cristo è il modello dell’amore verso il prossimo, sia che è ciò che lo rende possibile. Allo stesso modo l’amore paterno/materno è il traboccare, il fuoriuscire dell’amore sposale. L’amore genitoriale si radica, si nutre e cresce a partire dalla fontalità dell’amore coniugale. La relazione paterna/materna postula ed esige prima di tutto quella sponsale. Non solo la sessualità, ma tutta la realtà dell’amore tra i coniugi possiede inscindibilmente una dimensione unitiva e una procreativa. Non esiste vero amore unitivo che non sia aperto alla fecondità, ma anche non esiste fecondità che non scaturisca da un’unione che la precede e la sostiene. Il mettere al mondo un figlio nasce dall’incontro agapico dei genitori, ma anche ogni atto d’amore successivo ed il compito educativo che ne consegue continua ad essere sostenuto e a sgorgare da questa unione. Un bravo genitore è prima di tutto un bravo coniuge e ciò di cui il figlio ha in primo luogo bisogno è la stabilità della relazione coniugale. Non esiste quindi alcun dualismo tra le due direzioni dell’unico amore perché l’amore sponsale è la perenne sorgente dell’amore parentale. Questo elimina ogni concorrenzialità tra le due dimensioni perché ne mostra l’inscindibile nesso e il radicamento dell’amore verso il prossimo in quello verso Dio.

In terzo luogo individuare l’amore verso il prossimo come la fecondità dell’amore sponsale verso Dio salva il tu umano dall’essere un semplice instrumentum per amare Dio. Ogni singolo prossimo è amato come frutto di un amore che lo precede e non come mezzo per raggiungere un altro fine. Spinto da un amore che lo precede il fedele si addentra nel mondo per raggiungere ogni singolo prossimo e per amarlo propter se ipsum. Allo stesso modo l’amore verso il figlio non è un mezzo per amare il proprio coniuge, non è la modalità pratica per dimostrargli il proprio amore. Ogni figlio è amato in forza di un amore che precede e che non ha nessun fine se non amarlo per se stesso. È un amore che prolunga la fecondità dell’amore coniugale, che lo rende evidente, che lo rinsalda donandogli nuova profondità. L’amore parentale mostra l’amore sponsale e lo fruttifica, ma non lo di-mostra. Prova ne è che l’amore tra due sposi a cui la sorte non avesse concesso il dono dei figli, non per questo viene meno. Tale impostazione elimina quindi ogni monismo agapico che riduca l’amore verso il prossimo a semplice instrumentum per l’amore verso Dio. Infatti, il figlio è un frutto a posteriori non una dimostrazione apriori dell’amore degli sposi e per tale motivo può essere amato veramente in tutta la sua profondità.

Il tentativo fin qui suggerito di descrivere l’articolazione tra l’amore verso Dio e quello verso il prossimo, declinandolo nei termini della realtà nuziale, non vuole porsi come l’unico modello o il migliore possibile, ma offre una chiave di lettura che sembra aiutare a comprendere la complessità della realtà agapica riuscendo a rendere conto delle differenti dimensioni cum-presenti. Tale visione infatti, al termine dell’analisi, si è dimostrata capace di declinare i due tipi di amore, tenendo insieme «l’amami!» dell’unico Sposo e «l’ama il prossimo tuo!» dell’unico Padre.

  1. In realtà non è così semplice descrivere quante e quali sono le relazioni proposte da F. Rosenzweig tanto che nella raccolta delle sue lettere è inserita la fotocopia del manoscritto originale dove le relazioni risultano così espresse:

    »ER-Es, Ich-Du, Wir-Es ICH-Du ich-DU«

    (Lettera a Martin Buber non datata in F. Rosenzweig, Der Mensch…, cit., Band II, 826).


  1. L. Melina — J. Noriega — J.J Pérez Soba, Camminare nella luce dell’amore. I fondamenti della morale cristiana, Cantagalli, Siena 2008, 301. ↩︎

  2. R.G. de Haro, La vita cristiana. Corso di teologia fondamentale, Edizioni Ares, Milano 1995, 329. ↩︎

  3. G. Angelini, Teologia morale fondamentale, Glossa, Milano 1993, 462. ↩︎

  4. M.V. Garcìa, Nuova morale fondamentale, EDB, Bologna 2004, 244-245. ↩︎

  5. Ibidem↩︎

  6. G. Angelini, Teologia morale fondamentale…, cit., 464. ↩︎

  7. J. Galot, «Paternità di Dio e amore del prossimo», in La civiltà cattolica, CLII (2001) 3622, 349. ↩︎

  8. Ibid., 358-359. ↩︎

  9. B.F. Pighin, I fondamenti della morale cristiana, EDB, Bologna 1991, 93-95. ↩︎

  10. E. Chiavacci, Teologia Morale. Morale Generale, Cittadella Editrice, Assisi 1989, 47-49. ↩︎

  11. G. Gatti, Temi di teologia fondamentale, LDC, Torino 1998, 172-173. ↩︎

  12. J.M. Aubert, Compendio della morale Cattolica, Edizione Paoline, Milano 1989, 90-91. ↩︎

  13. H. Arendt, Il concetto di amore di S. Agostino, SE, Milano 2001. ↩︎

  14. Ivi, 119. ↩︎

  15. Ivi, 141. ↩︎

  16. Ivi, 146. ↩︎

  17. R. Tremblay, Voi, luce del mondo…la vita morale dei cristiani: Dio fra gli uomini, EDB, Bologna 2003, 57-63. Il testo riprende un articolo comparso in «La morale dell’«agape», una morale del Dio con noi», in Rivista di Teologia Morale, 33 (2001), 215-221. ↩︎

  18. C. Zuccaro, Cristologia e morale, EDB, Bologna 2003, 82-84. ↩︎

  19. T. Goffi-G. Piana, Vita nuova in Cristo. Morale fondamentale e generale, Queriniana, Brescia 1983, Vol I, 539. ↩︎

  20. M. Doldi, Fondamenti cristologici della morale in alcuni autori italiani, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000. ↩︎

  21. F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1988, trad. it. a cura di G. Bonola, La Stella della Redenzione, Marietti, Milano 1985. Ristampata in F. Rosenzweig, La Stella della Redenzione, Vita e Pensiero, Milano 2005. D’ora in poi si citerà l’opera semplicemente con Der Stern, riferendosi alla numerazione delle pagine dell’edizione tedesca e mettendo tra parentesi la numerazione della traduzione italiana dell’edizione del 2005. ↩︎

  22. La critica alla figura del mistico viene argomentata soprattutto in Der Stern, 230-238[213-221]. Per uno studio sulla critica alla mistica presente in Der Stern der Erlösung cf. F.P. Ciglia, La questione della mistica, in Id., Scrutando la Stella. Cinque studi su Rosenzweig, Cedam, Padova 1999, 123-154. Secondo questo studio in F. Rosenzweig, oltre ad un’esplicita pesante critica ad un certo modo di intendere la mistica, ci sarebbe anche un suo recupero nell’ultima parte della Stella della Redenzione dove sarebbe presente una sorta di mistica chiamata «sotterranea e segreta» che culminerebbe nella contemplazione silenziosa del volto Dio. Cf. anche la lettera a Margrit Rosenstock-Huessy del 1.II.1919 in F. Rosenzweig, Die «Gritli»-Briefe, Bilam Verlag, Tübingen 2002, 227 dove F. Rosenzweig definisce esplicitamente la terza parte di Der Stern der Erlösung una «mistica». Y. Kornberg-Greenberg sulla stessa linea attribuisce una grande importanza alla dimensione della mistica presente nel filosofo di Kassel che analizza soprattutto in Y. Kornberg-Greenberg, Better than Wine. Love poetry and prayer in the thought of Franz Rosenzweig, Scholar Press, Atlanta-GE 1996, 35-50. B. Casper sostiene che la critica alla mistica di F. Rosenzweig, in realtà, fornisca tacitamente una chiave ermeneutica per leggere Der Stern der Erlösung, ex negativo, come un «libro mistico». Dio sarebbe l’abisso (Ab-grund) che è il fondamento dei tre fenomeni primordiali (Urphänomena), e in questo modo F. Rosenzweig traccerebbe una fenomenologia che è caratterizzata da una esistenza basata sulla storia e sulla fede che è essa stessa una mistica in quanto Dio è il fondamento che riempie tutto di attualità. Cf. B. Casper, ««Alles fängt an und kommt aus dem Nichts«. Über den vielfältigen Vollzugsinn des Nichts im erfahrenden Denken Rosenzweigs», in Rosenzweig Jahrbuch 1 (2006), 97-113. ↩︎

  23. »Um das zu sein, um also nur das eine Geleis zu sehen, auf dem die Verbindung von ihm zu Gott, von Gott zu ihm läuft, muß er die Welt leugnen, und da sie sich nicht leugnen läßt, so muß er recht eigentlich sie ver-leugnen« (Der Stern, 231[215]). ↩︎

  24. »Er muß sie behandeln, als wäre sie nicht geschaffen, sondern würde ihm von Augenblick zu Augenblick grade für die zufälligen Bedürfnisse des Augenblicks, wo er ihr einen Blick schenkt, fertig zum Gebrauch hingestellt« (Der Stern, 232[215]). ↩︎

  25. F.P. Ciglia, La questione della mistica…, cit., 146. ↩︎

  26. Il mistico avrebbe il difetto di subire il fascino del pensiero dell’Uno e di concepire la realtà in termini di totalità dove «Tutto è Dio». Cerca di cogliere l’esistenza a partire dal proprio personale vissuto, dal proprio esperire (Erleben) e finisce per chiudersi verso qualsiasi alterità all’infuori dell’unico interlocutore divino. Cf. Der Stern, 435[419] e F. Rosenzweig, Das neue Denken in Id. Zweistromland. Kleinere Schriften zu Glauben und Denken, hrsg. von R. Mayer und A. Mayer, Martinus Nijhoff, Dordrecht/Boston/Lancaster 1984, 143, trad it. La Scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, Città Nuova, Roma 1991, 262. ↩︎

  27. »Der Mystiker aber ist kein Mensch, kaum ein halber Mensch; er ist nur Gefäß seiner erlebten Verzückungen. Er spricht wohl, aber was er spricht, ist nur Antwort, nicht Wort, sein Leben nur Warten nicht Wandeln« (Der Stern, 232[216]). ↩︎

  28. M. Buber fa pervenire all’amico F. Rosenzweig il manoscritto di Ich und du quando si trova ancora a livello di bozze chiedendoli un parere. Le osservazioni in risposta si possono trovare nella lettera a Martin Buber non datata in F. Rosenzweig, Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften, Briefe und Tagebücher 1918-1929, Martin Nijhoff, Haag 1979, Band II, 824-827. Sono stati pubblicati anche diversi commenti a questa lettera: B. Casper, «Franz Rosenzweigs Kritik an Bubers «Ich und du»», in Philosophisches Jahrbuch 2 (1979), 225-238 e successivamente in B. Casper, Religion der Erfahrung. Einführungen in das Denken Franz Rosenzweigs, Schöningh Verlag, Paderborn 2004, 101-116. M. Friedmann, «Martin Buber and Franz Rosenzweig: the Road to I and Thou», in Philosophy Today 3-4 (1981), 210-220. D. Biro, Franz Rosenzweig Kritik an Martin Bubers «Ich und du», in W. Schmied-Kowarzik, Der Philosoph Franz Rosenzweig, (Internationaler Kongress »Der Philosoph Franz Rosenzweig« Kassel 7.- 11. Dezember 1986), Karl Alber Verlag, Freiburg/München 1988, Band II, 689-696. F.P. Ciglia, (Più di) una parabola microcosmica in F. Rosenzweig, Il grido, Morcelliana, Brescia 2003, 154-158. ↩︎

  29. M. Buber, Ich und du, Insel Verlag, Leipzig 1923, trad. it. a cura di A. Poma, Il principio dialogico e altri saggi, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1993. ↩︎

  30. Secondo F.P. Ciglia, nella visione di F. Rosenzweig anche la mistica porterebbe ad un impoverimento o depotenziamento del pluralismo ontologico, con una riduzione o semplificazione dell’essere vanificando l’evento della creazione. Cf. F.P. Ciglia, La questione della mistica…, cit., 145-146. ↩︎

  31. H.U. von Balthasar sostiene che l’accusa principale mossa da F. Rosenzweig a M. Buber sarebbe proprio una certa negatività riferita al mondo, definito soltanto come un es. Cf. H.U. von Balthasar, TeoLogica, Jaca Book, Milano 1990, vol II, 42. ↩︎

  32. F.P. Ciglia, (Più di) una parabola…, cit., 155. ↩︎

  33. «Thus the “I” and the “thou” of the I-thou are not exclusively or even reciprocally relational; they are not exhausted by the relationality of the I-thou, and as such they are engaged in the I-thou encounter. Buber has missed all this. The relations of he-it and we-it, though irreducible to the I-thou and essentially exterior to it, transcendent, are equally and nonetheless in crucial relation to it. In a nutshell, this is Rosenzweig’s criticism of Buber» (R.A. Cohen, Elevations. The Height of the Good in Rosenzweig and Lévinas, University of Chicago Press, Chicago 1994, 93). ↩︎

  34. F.P. Ciglia, (Più di) una parabola…, cit., 156. »Wenn also Es doch ganz wirklich ist, so muß es eben in einem Grundwort stehen, das ebenfalls mit ganzem Wesen gesprochen wird, von dem der es spricht. Von ihm heißt dies Grundwort ICH-es. Von uns aus: ER-es« (Lettera a Martin Buber non datata…, cit., 825). ↩︎

  35. »Im Leben liebe ich den Nächsten, den, dem ich ins Auge sehe, der mir ins Auge sieht, und liebe ihn vielleicht «sitzend im Schatten Gottes», liebe ihn, «in» Gott. Ja ich liebe ihn mehr als ich Gott liebe, ja lieben kann. Denn es soll so sein. Gottes Antlitz «sieht kein Mensch und bleibt leben». Aber das Antlitz des Nächsten sehe ich, solange ich lebe. In der Ewigkeit aber sehe ich Gottes Antlitz und kann ihn lieben, wie ich in der Zeit nur den Nächsten lieben kann — Auge in Auge« (Lettera a Margrit Rosenstock-Huessy del 13.IV.1918 in F. Rosenzweig, Die «Gritli»-Briefe…, cit., 72). ↩︎

  36. »Weiss du nicht, ich schrieb dir schon einmal auf das Gleiche, was du mir heut vom Tod schreibst. Dass er uns zwingt Menschenliebe und Gottesliebe auseinanderzuleben. Solange der andre lebt, leben wir beide Lieben als eine. Aber wenn er stirbt, dann wird es zweierlei« (Lettera a Margrit Rosenstock-Huessy del 16.VI.1920 in Die «Gritli»-Briefe…, cit., 611). ↩︎

  37. Il piano dell’opera e la sua descrizione figurativa viene analizzata in 1.4. Si segnala come spesso F. Rosenzweig indichi, nel suo carteggio, la sua opera principale non con il titolo del libro (Der Stern), ma proprio disegnando la stella davidica a sei punte. ↩︎

  38. La descrizione del volto avviene in Der Stern, 470-471[433-434]. «Rosenzweig classifies the nose as the organs of pure receptivity and passivity. As receptive organs, the nose and ears represent creation and revelation. The eyes and mouth are active organs and have a double relation with the other, for they both receive and express. The eyes see and gaze, while the mouth consummates all expression with the kiss. They represent redemption, for the eyes see the absolute and the mouth is the instrument of language and the organ in which the ultimate encounter with God take place» (Kornberg-Greenberg, Better than Wine…, cit., 116-117). P. Ricœur in un suo studio sulla categoria di «figura» (Gestalt) presente in Der Stern der Erlösung fa notare come F. Rosenzweig non usa il termine Bild (perché sarebbe influenzato dalla sensibilità iconoclasta giudaica), né il termine typos (perché svalutato dalla lettura tipologica che il cristianesimo avrebbe applicato all’essere giudaico riducendolo ad uno stato d’ombra), né infine usa vocaboli Vorstellung e Begriff che richiamano direttamente la speculazione hegeliana tanto criticata. «Alors pourquoi figure? Une des clés nous est donnée par la merveilleuse rencontre en français entre les deux mots figure et visage (qui sont en allemand deux mots différents), mais que la spéculation juive avait déjà rapprochés à partir de l’expression biblique de la face de Dieu. C’est sous l’égide de cette expression, et de la spéculation greffée sur elle, que L’Etoile réunit les deux sens — figure et visage — dans une figure, précisément celle de l’Etoile» (P. Ricœur, «La ‘figure’ dans L’Etoile de la Rédemption», in Esprit 12 [1988], 136-137). Lo stesso tema ritorna anche in P. Ricœur, Lecture de Franz Rosenzweig: La ‘figure’ dans L’Etoile de la Rédemption, in A. Münster, La pensée de Franz Rosenzweig, actes du Colloque parisien organisé à l’occasion du centenaire de la naissance du philosophe, Conférence «Colloque Franz Rosenzweig«, Paris 4.-5. Oktober 1987, PUF, Paris 1994, 25-42. Subito dopo l’autore ricorda come il tema del volto sarà ripreso in modo «ampio e potente» dalla riflessione di Emmanuel Lévinas. Su questo tema si veda anche J. Phelan, «The face of the figure: an examination of the central metaphors in Franz Rosenzweig’s The Star of redemption», in Dialogue & Alliance Aut-Wint (2005-2006), 85-99. ↩︎

  39. »Wir sprechen in Bildern. Aber die Bilder sind nicht willkürlich. Es gibt notwendige und zufällige Bilder. Die Unverkehrbarkeit der Wahrheit läß sich nur dem Bilde eines Lebendigen aussprechen…Und wie die Wahrheit, die sich im Stern Gestalt gibt, innerhalb des Sterns als ganze Wahrheit wiederum zu Gott und nicht zur Welt oder zum Menschen zugeordnet ist, so muß sich auch der Stern noch einmal spiegeln in dem, was innerhalb der Leiblichkeit wieder das Obere ist: du Antlitz« (Der Stern, 469-470[433]). ↩︎

  40. Il prossimo viene designato anche con la categoria di «vicario» (der Platzhalter) del mondo, vale a dire ogni prossimo è il rappresentante di tutti i prossimi e, quindi, del mondo intero. L’amore indirizzato verso il prossimo in quanto vicario del mondo, si presenta come un amore in qualche modo indirizzato al mondo intero. Cf. Der Stern, 243[225-226]. ↩︎

  41. In questo senso potrebbe apparire come mancante una dimensione che tutta la tradizione sia ebraica che cristiana ha sempre considerato come elemento interno essenziale all’amore sponsale: quello della fecondità. Sull’importanza della fecondità nella tradizione ebraica cf. M. Kaufman, Love, Marriage and Family in Jewish Law and Tradition, Jason Aronson, Northvale-NJ 1992. Nell’elaborazione dell’essenzialità della dimensione della fecondità all’interno del matrimonio ha esercitato una decisa influenza sulla tradizione cattolica la dottrina conferita da Agostino ai tria bona del matrimonio. Cf. L. Dattrino, Il matrimonio secondo Agostino, Edizioni Ares, Milano 1995. Tra le numerosissime riflessioni contemporanee sul tema della fecondità dell’amore si cita A. Scola che descrive il mistero nuziale attraverso tre dimensioni che costituirebbero un inscindibile nesso oggettivo: differenza sessuale, dono di sé ed appunto fecondità. Cf. A. Scola, Il mistero nuziale. 1 Uomo-Donna, Pul, Mursia, Roma 1998, 91-143. ↩︎

  42. F. Rosenzweig parla di un amore «traboccante» (überquellen) che si oppone a quello «appassionato» che nasce da un bisogno. Cf. Der Stern, 127[118]. ↩︎

  43. F.P. Ciglia, «Intersoggettività umana e domanda teologica», in Humanitas 3 (2004), 526. ↩︎

  44. »Liebe gibt sich nicht bloß nicht aus, sie wächst sogar vom Ausgeben. Das weiss schon Giulia («Je mehr ich gebe, je mehr habe ich»). Wenn es anders wäre — wenn man sparen müsste — aufsparen, so wäre ich nicht, was ich nun bin und sein darf« (Lettera a Margrit Rosenstock-Huessy del 8.IV.1918 in Die «Gritli»-Briefe…, cit., 70). ↩︎

  45. Su questa tesi si veda G. Barbiero, Il Cantico dei Cantici, Edizioni Paoline, Milano 2004 e G. Ravasi, Il Cantico dei Cantici. Commento e attualizzazione, Dehoniane, Bologna 1992. Dello stesso parere è anche F. Rosenzweig secondo il quale, nel Cantico dei Cantici, il linguaggio d’amore tra l’amante e l’amata non è solo «metafora» del dialogo tra Dio e l’uomo, ma è «più che metafora» perché nella parola umana risuona «direttamente» la parola di Dio. Cf. Der Stern, 221-227[204-209]. ↩︎

  46. G. Mazzanti cerca di leggere tutta la storia della salvezza all’interno della categoria della nuzialità. Ci sarebbe una «inclusione nuziale» nella Bibbia, dalla Genesi alla Apocalisse, perché il primo libro della Sacra Scrittura inizia con il racconto di una coppia e l’ultimo libro si chiude con l’incontro tra Cristo sposo e la Chiesa sua sposa. Tutto l’arco della storia della salvezza sarebbe quindi il complessivo svolgimento di questo incontro nuziale. In questo senso anche la vita di Gesù, letta tutta come l’incontro dello sposo con la sua sposa, è caratterizzata da una inclusione nuziale, dalla incarnazione al suo insediamento escatologico, perché secondo l’autore la sponsalità costituisce la trama di tutta l’esistenza del Figlio di Dio. Cf. G. Mazzanti, Persone nuziali, EDB, Bologna 2005. ↩︎

  47. Su questo tema Giovanni Paolo II parla della comunione di uomo e donna come immagine delle relazioni trinitarie. L’uomo è creato a imago Dei non soltanto in forza della propria umanità, ma anche attraverso la communio personarum che uomo e donna formano fin dall’inizio. L’una caro di Adamo ed Eva è quindi «immagine di una imperscrutabile divina comunione delle Persone» (Giovanni paolo II, Uomo e donna li creò, Città Nuova Editrice-Libreria Editrice Vaticana, Roma 1985, 59). Su questo si veda anche la lettera apostolica Mulieris Dignitatem ai numeri 6-7-8 dove si parla di un generare umano dell’unità dei due che è a immagine del generare divino. Anche H.U. Balthasar sviluppa l’idea che l’uomo, la donna e il bambino siano l’analogia naturale più adeguata per parlare della Trinità e in questo senso ci sarebbe una nuzialità nella Trinità. Cf. H.U. von Balthasar, Teologica…, cit., vol. 3, 129-134. A. Scola definisce il mistero nuziale come il costituirsi dell’inscindibile nesso di differenza sessuale, dono di sé e fecondità e ritrova in modo analogico queste tre dimensioni anche all’interno delle relazioni trinitarie. Per tale motivo, allargando il concetto di sessualità, si può parlare di una nuzialità in Dio. Cf. A. Scola, Il mistero Nuziale. 1. Uomo-donna, PUL-Mursia, Roma 1998 e poi ripreso in A. Scola, Il mistero nuziale: una prospetiva di teologia sistematica?, Lateran University Press, Roma 2003. La famiglia come immagine della trinità si trova anche in M. Ouellet, Divina somiglianza. Antropologia trinitaria della famiglia, Lateran University press, Roma 2004. Con accenti diversi, ma anche secondo G. Mazzanti l’una caro di uomo-donna richiama l’una natura delle persone trinitarie. Cf. G. Mazzanti, Teologia sponsale e sacramento delle nozze, EDB, Bologna 2002. ↩︎