Recensione a Rocco Pezzimenti, De veritate. Cinque prospettive di ricerca. Con lettere di N. Rescher, R. Rorty e H. Putnam, Armando, Roma 2023, pp. 210.
Quello della verità può apparire un tema ambizioso, ma Rocco Pezzimenti ne è pienamente consapevole e lo ammette nell’avvertenza sul titolo con cui apre il volume. L’originalità del suo De Veritate sta nell’affrontare questo problema andando oltre l’aspetto filosofico/logico, ponendo prospettive in grado di proiettarlo oltre. Un lavoro realizzato nel solco tracciato da grandi autori cristiani come Agostino, Anselmo e Tommaso nei loro De Veritate.
Il volume di Pezzimenti, una delle voci più autorevoli del mondo culturale cattolico, presenta cinque riflessioni sul tema della verità sviscerato da punti di vista diversi.
Nella prima di esse dedicata a Verità e postmoderno, l’autore contesta ai filosofi postmoderni la contraddittorietà dell’asserzione secondo cui la verità non esiste: dicendo così, infatti, assumono un punto di partenza che può considerarsi esso stesso un’affermazione di verità. Pezzimenti si sofferma sui due autori del manifesto della corrente filosofica di matrice postmoderna: Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti ai quali si deve Il pensiero debole.
L’autore spiega che «la verità presa di mira dai postmoderni è quella foriera delle forme del più gretto autoritarismo» (p. 11) e contesta come la critica ad Hegel li abbia portati ad un rifiuto generalizzato di tutto il pensiero filosofico, sebbene quella del filosofo tedesco non possa essere considerata l’unica concezione della metafisica. Per Vattimo, osserva Pezzimenti, «la verità intesa come strutturata metafisicamente stabile è sempre e solo – sembra questa quasi un’ossessione – del principe o del despota di turno» (p. 12). Le implicazioni autoritarie della verità portano ad affrontare il tema del rapporto di Vattimo con il Cristianesimo. L’autore analizza la polemica indiretta del cosiddetto pensiero debole con gli scritti di Joseph Ratzinger evidente nella critica, presente in Addio alla verità, all’«insistenza […] sull’inseparabilità della carità dalla verità» che sarebbe «un segno che la Chiesa ha comunque sempre nostalgia della propria condizione di maggioranza, nella quale può far valere presso tutti la verità così come essa ritiene di possederla per dono di Dio» (p. 15). Pezzimenti contesta questa posizione, citando il giovane Ratzinger che nella sua tesi di dottorato sostiene come «tutto il credere e tutto l’amore dell’uomo serve a questo solo: alla conoscenza ultima della verità, poiché la Verità è Dio. E l’essere Madre da parte della Chiesa consiste nel fatto che essa ci apre la via a questa visione attraverso la fede salvifica» (p. 16). Infatti, osserva Pezzimenti appellandosi ancora a Ratzinger, «attraverso la pura fede non sorge ancora la casa di Gesù Cristo. Ciò avviene piuttosto mediante la fede che opera nell’amore» e dunque «da quest’evidenza deve scaturire il senso e l’obbligo della carità» (p. 17). Tutto ciò fa concludere all’autore che «più si vive nella carità, più si aprono spiragli sulla verità». Un’asserzione che Benedetto XVI, con la sua enciclica Caritas in Veritate del 2009, ha sentito il bisogno di ribadire nella contemporaneità ricordando quanto la carità si nutra nella verità e, al tempo stesso, la manifesti.
Sul rapporto tra Vattimo e il Cristianesimo, Pezzimenti fa notare che «il problema religioso sembra davvero angustiar(lo)», ma «il problema che lo perseguita è quello dell’imposizione» (Ibidem). Quella di Vattimo, però, è una visione viziata se, come afferma l’autore del volume, «chi si sente più vicino alla verità (vicinanza, si badi bene, sempre estremamente relativa), non ha l’obbligo di imporla, bensì di testimoniarla usque ad effusionem sanguinis, il che è sicuramente molto diverso» (Ibidem).
Il primo capitolo del De Veritate si concentra anche su Pier Aldo Rovatti. Pezzimenti contesta all’altro padre del pensiero debole la sua visione sulla cosiddetta scommessa di Pascal sull’esistenza di Dio proposta ne Il paiolo bucato. Secondo l’autore, «Rovatti ritiene, e io credo erroneamente, che la scommessa di Pascal è basata su “un trucco perché per credere a Pascal bisogna che qualcuno già creda che l’esistenza di Dio (la fede, la ragione, il Cristianesimo) sia una posta infinita» (p. 18). In effetti, non si può sottovalutare che il destinatario della proposta pragmatica di Pascal è un ateo, mentre chi ha fede non ha bisogno di scommettere. Ed è questo il messaggio del filosofo e fisico francese. Spiega Pezzimenti, contestando l’accusa di convenienza mossa da Rovatti all’argomento pascaliano, che «la scommessa è un’apertura per chi non crede, ma di per sé necessita un cambiamento di vita che si deve orientare all’esito della scommessa» (p. 19).
L’ineluttabilità della verità, secondo Pezzimenti, emerge dalle stesse argomentazioni portate avanti da Rovatti per rifiutarla: ad esempio, il filosofo postmodernista sostiene che «si naviga nel fuori, con il rischio dell’erranza e dell’errore, e il viaggio che facciamo […] è da un fuori, da un altro a un altro, mai da un medesimo a un quasi medesimo» (pp. 20-21). Una citazione che Pezzimenti ripropone per confutarla: «che vuol quel rischio dell’erranza e dell’errore? L’errore, per essere ritenuto tale, ha bisogno di un confronto con ciò che errato non si ritiene. Insomma, il problema della verità, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra» (p. 21). Ancora una volta, dunque, il volume ribadisce che affermare l’inesistenza della verità è essa stessa un’affermazione di verità. Pezzimenti si preoccupa di evidenziare che, a differenza della tesi postmodernista sulla consequenzialità tra rifiuto della verità e pluralismo, «a parere di molti, ricerca della verità e pluralismo non sono affatto incompatibili e che anzi possono essere il vero presupposto della democrazia» mentre «quello che occorre chiedersi è quale sia effettivamente il prezzo da pagare per la piena realizzazione del binomio pensiero debole e pluralismo» (p. 22).
Questo primo capitolo si sofferma, inoltre, sulla metamorfosi di Diego Marconi, indicato già in premessa come ispiratore del saggio. Pur essendo stato uno degli esponenti di punta dei postmoderni, Marconi ha più recentemente assunto posizioni meno tranchant sul problema della verità. In Per la verità. Relativismo e filosofia Marconi ha contestato che la verità sia una nozione relativa. Questo allontanamento dalle posizioni originarie è stato all’origine di una polemica con Vattimo. Per la verità, sottolinea Pezzimenti, arriva alla conclusione che «alcune regole oggettive di fondo sono fondamentali per vivere una vita autenticamente democratica» e che «non si può quindi fare a meno di alcune verità di partenza». L’autore risalta la presa di distanza di Marconi dal relativismo, citando alcune sue considerazioni su Imparare la democrazia di Gustavo Zagrebelsky intente a sostenere che la democrazia è intransigente e non relativistica. Esistono principi e valori, infatti, che per renderla non possono essere messi in discussione. Pezzimenti, inoltre, cita l’attacco al soggettivismo che fa Marconi quando scrive – sempre in Per la verità – che «se sono oggettivista, posso pensare di poter sbagliare […] se invece sono soggettivista, questa strada mi è preclusa: non ci sono altri valori oltre a quelli che io riconosco» (p. 29). Marconi riconosce che «il relativista morale ritiene che le forme di vita diverse dalla nostra e i valori altrui non siano giudicabili; e la ragione è che non c’è alcun punto di vista in cui collocarsi per giudicarli» (p. 30). Una visione delle cose smentita dalla realtà: cogliendo l’assist del postmoderno "pentito", infatti, Pezzimenti si chiede nel saggio perché ci dovremmo scandalizzare per i crimini dell’Isis o per quelli commessi dai totalitarismi in altre epoche se avessero ragione i relativisti morali.
In sintesi, quello che Pezzimenti contesta alla corrente postmoderna è la tendenza a confondere il fondazionalismo al fondamentalismo che, come ricordava Vittorio Possenti proprio parlando della questione della verità, è cosa completamente diversa perché «mentre il fondazionalismo è posizione teoretica che significa riconoscere l’esistenza di principi fermi del conoscere, il fondamentalismo è posizione della volontà che desidera imporre ad altri i propri convincimenti tanto dogmatici quanto relativistici».1
La seconda riflessione del volume, preparata originariamente per una conferenza rivolta a giuristi cattolici, si concentra su tema della fragilità prendendo in esame tre concezioni diverse tra loro: quella cristiana, quella marxista-socialista e infine quella freudiana. Un tema connesso, inaspettatamente, con autorità e verità. Nella premessa, Pezzimenti mette in risalto che «paradossalmente […] proprio quelli che si mostrano più forti, e che promettono ai loro simili di farli uscire da questo stato di precarietà, non solo accrescono negli altri la paura, ma ne sono essi stessi vittime» (p. 47). L’autore fa esempi che coprono un lungo arco cronologico, dal tiranno di Siracusa descritto da Platone fino a Stalin ma menziona anche il caso di Vladimir Putin.
Pezzimenti, poi, sottolinea l’importanza del tema centralità nel Cristianesimo in quanto discende da un problema centrale come quello del peccato e del male. Venendo al pensiero di Agostino, non si può tacere come «l’intrinseca fragilità dell’uomo lo porta ad affermare l’impossibilità di essere perfetto e di conseguenza l’incapacità di realizzare società perfette» (p. 49). Nel pensiero agostiniano la libertà di scelta viene intesa come un attributo della volontà ma l’uomo fa scelte sbagliate solo quando la volontà non è sostenuta da Dio. All’uomo non basta il libero arbitrio per fare scelte giuste ma necessita dell’aiuto di Dio tramite la grazia. Pezzimenti ricorda nel libro che per Agostino «la perfezione non è un male in sé» ma «la vita, di per sé, non ci consente di elevarci al di sopra del male se non ci rapportiamo al divino» (p.50). Scrive l’autore che «a seconda di come orientiamo la nostra volontà vuol dire che seguiamo due diversi tipi di amore: l’amor sui e l’amor Dei. Ciascuno di noi è, il più delle volte, intriso dalle due forme, che, allo stato assoluto, non potranno mai realizzarsi nella dimensione terrena» (p. 51). Dunque, per Agostino «la storia è prodotta dalla libera volontà umana non sempre coerente e rivolta al bene. Per far sì che questo trionfi occorre che i singoli come le istituzioni, o quello che più genericamente chiamiamo politica, operino per il bene dei più deboli» (p. 51). Ciò non avviene quando la direzione della volontà non è rivolta all’amor Dei. Non a caso, il santo di Ippona è convinto che i cristiani sapessero amministrare al meglio la cosa pubblica «tanto più fedelmente e tanto meglio quanto più fedeli e migliori essi sono» (p. 52). La caduta di Roma nel 410 in mani barbariche sconvolge Agostino: non c’è da stupirsi perché il santo di Ippona ammira l’Impero romano e lo ritiene conforme alla sua idea di Stato, incaricato di contenere gli elementi in grado di causare disgregazione interna.
La disgregazione come causa di caos e di conflitto nella società è una preoccupazione che da Agostino in poi attraversa la riflessione cristiana e che in tempi più recenti viene ripresa da Antonio Rosmini. Così come il Dottore della Grazia osserva la decadenza dell’Impero romano, il presbitero di Rovereto si trova a vivere il crollo delle monarchie europee e dunque ad interrogarsi sulla crisi delle società. Rosmini contesta «una riflessione sul male e sulla fragilità che si pone come alternativa a quella cristiana» (p. 52) ritenendo che «quando la società si disgrega il processo di riaggregazione non può certo considerarsi immediato e di facile attuazione» perché «per aversi una società occorrono […] vincoli intellettuali, morali, coscienza di un fine comune e dei mezzi necessari per conseguirlo» (p. 53). Sappiamo che Rosmini è in disaccordo con chi ritiene che il progresso sia da far coincidere con la crescita dei bisogni degli individui rispetto ai mezzi per raggiungerli in virtù dello stimolo alla società per soddisfarli. Al contrario, il teologo giudica pericoloso un aumento incontrollato dei bisogni artificiali in quanto porterebbe «alla instabilità degli ordinamenti politici e dei governi e al diffondersi delle utopie politiche e sociali, che promettono la soluzione totale e definitiva di tutti i mali della società» (p. 54). La visione cristiana di Rosmini sulla fragilità emerge laddove mette in evidenza che «nulla del finito può saziare la sete di infinito che è nell’intimo dell’uomo» (p. 55) bocciando, dunque, «una riduzione del male esclusivamente a questione sociale» ed issando al di sopra di tutto le virtù morali e religiose perché «si esce dalla precarietà e dalla fragilità solo se si esce dal proprio rigoroso egoismo, fonte di ogni male e dalla conseguente insicurezza» (p. 55).
Per arrivare alla concezione marxista-socialista di fragilità, Pezzimenti parte da Rousseau che viene ripreso dalla sinistra hegeliana e da Marx per la sua «visione del male […] esclusivamente terrena» caratterizzata da «una specie di peccato originale che, però, può essere cancellato dall’uomo stesso» (p. 58). Così come Rosseau, anche Marx «ritiene che le ragioni ultime del male vadano trovate nella storia e non nella natura umana, natura umana di per sé buona» attribuendo il male, di conseguenza, a «radici sociali che si possono estirpare solo cambiando radicalmente la società» (p. 64). Per l’autore de Il Capitale il proletariato è il solo detentore della verità «quasi fosse espressione di una nuova divinità e, proprio perché classe universale, può garantire la sua autoliberazione» (p. 65). Con Marx «la filosofia era ormai divenuta solo azione» come ammette nelle Tesi su Feuerbach scrivendo che «l’uomo deve rinunciare a tutto il suo retaggio metafisico» (p. 65). Così come Augusto Del Noce sosteneva che «si vede quindi come anticristianesimo e comunismo per Marx facciano uno» al punto che «è giusto dire che Marx è comunista perché anticristiano»,2 Pezzimenti rileva che nella visione marxista «il Cristianesimo deve essere eliminato perché rende impossibile la realizzazione terrena del regno» (p. 67). L’influenza esercitata dall’ateo Feuerbach su Marx lo porta ad affermare che l’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo.
Passando alla concezione psicoanalitica della fragilità e in generale del male, Pezzimenti sostiene che, rispetto a Marx, Freud «parte da un approccio più vicino al Cristianesimo tanto da ritenere che "ancor oggi la dottrina cristiana può aiutarci a risalire" alla natura dell’antica colpa» (p. 72). Anche perché il fondatore della psicoanalisi fa assurgere a tema portante del suo Totem e tabù la convinzione che «se il peccato originale fu una colpa contro Dio Padre, il più antico delitto dell’umanità deve essere stato il parricidio».3 Per Freud la convivenza umana scaturisce proprio dal senso di colpa per questo crimine che determina un’insicurezza interiore a cui si prova a porre rimedio facendo ricorso all’autorità, tentativo di riproporre la figura paterna. Tuttavia, Freud è convinto che «questo senso di colpa può essere eliminato solo dalla scienza, in questo caso da quella psicoanalitica» (p. 75) mentre considera la religione un ostacolo ad essa ed un pericolo per il futuro dell’umanità. Per queste conclusioni, Pezzimenti colloca il padre della teoria psicoanalitica «a quel ceppo di una parte dell’illuminismo […] che trova in Lessing il suo alfiere» (p. 75) , ovvero il filosofo tedesco che relega la religione nel campo dell’educazione dell’umanità, limitandola a costruzione storico-culturale.
Nella riflessione sul rapporto tra verità e democrazia, Pezzimenti si dice consapevole che il suo non è un compito facile perché la democrazia «nell’opinione di molti, si regge proprio sul fatto di non ricorrere al concetto di vero, soprattutto se lo si vuole intendere in modo assoluto» (p. 77) ma oppone a questa tesi quella che definisce un’ovvietà: «parlare di verità dovrebbe essere più facile in un sistema democratico che in qualunque altro sistema politico» (p. 77) vista la distorsione che ne hanno fatto i totalitarismi nel XX secolo, come emblematicamente dimostrare la scelta di Lenin di chiamare proprio Pravda (Verità) l’organo ufficiale del partito comunista sovietico. Eppure, c’è chi, come Gianni Vattimo, ha sostenuto che «l’addio alla verità è l’inizio, e la base stessa, della democrazia».4 Un’asserzione che Pezzimenti si dedica a confutare nella sua riflessione: intanto, ricorda l’autore, «dire la verità non esiste, equivale a dire una verità cioè quella che niente è vero» quindi è «insostenibile» (p. 79). Contestando la visione del teorico del filosofo debole che per suffragare la sua tesi tirava in ballo le bugie dell’amministrazione Bush usate come giustificazione dell’intervento in guerra contro l’Iraq, Pezzimenti ribatte che «le menzogne "volute" dei politici non inficiano l’esistenza della verità, ma la tengono nascosta» (p. 86). Attingendo al pozzo del buon senso, l’autore sostiene che «il fatto che […] la verità non possa essere mai appresa in modo definitivo, non significa che la verità non esiste, ma solo che il nostro modo di avvicinarla è parziale e dipende dal nostro modo di conoscerla o di rappresentarla» (p. 89). Chi pensa, come Vattimo, che la verità sia una questione di interpretazione cade in contraddizione. Pezzimenti lo evidenzia a proposito della presentazione del rapporto scienza-religione in termini di conflittualità: «si contesta, infatti, alla Chiesa cattolica, con le sue "pretese fondate sulla mitologia cristiana", di contrastare l’impatto ateistico della scienza finendo per negare al sapere scientifico le sue pretese d’obiettività e, quindi, di verità» ma questo «è contraddittorio […] poiché, dato che la scienza non dovrebbe avere “pretese legittime di verità, bensì è solo un’interpretazione come un’altra, perché la Chiesa non dovrebbe opporle, con pari titolo, la sua descrizione alternativa della realtà?» (p. 93). Contro il preteso carattere liberticida del concetto di verità che espone Vattimo, Pezzimenti cita la recensione critica dell’altro protagonista della scuola filosofica torinese Diego Marconi comparsa su Il Sole 24 ore il 7 giugno 2009 col titolo Senza verità siamo più liberi?. Soffermandosi sul rapporto tra verità e democrazia, l’autore mette in guardia dalla deriva che può assumere la politica abdicando al legame con la verità: come aveva capito sant’Agostino, infatti, «senza principi ultimi, la politica si può trasformare in una banda di ladroni che persegue unicamente i propri interessi, dimenticando ogni criterio di giustizia» (p. 115) mentre ogni sistema politico, democrazia compresa, ha «la necessità di ancorarsi a punti di partenza che ritiene veri» (p. 115) perché, come osservava Joseph Ratzinger, «la liberazione dalla verità non produce la pura libertà, ma la toglie».5
Il libro affronta il problema della verità anche in rapporto alla religione. Nel rimarcare che quello della verità è un problema ineludibile per la riflessione umana con il quale non bisogna aver paura di confrontarsi, Pezzimenti cita più volte Agostino e lo mette in correlazione con John Henry Newman. Non a caso, il cardinale Carlo Caffarra ha definito il più grande convertito dall’anglicanesimo come «l’Agostino della Chiesa moderna».6 Pezzimenti ricorda che i due, con secoli di distanza, condividevano «il desiderio di confrontarsi con tutti, perché chi è nella verità non può temere il confronto» (p. 134). L’autore riprende la contestazione allo scetticismo fatta dal teologo e filosofo inglese canonizzato da papa Francesco: «Newman […] ritiene che la critica alla fede, e in particolare ai miracoli, sia dovuta al fatto che essi non possono essere inseriti nelle leggi della natura e, soprattutto, nel rapporto causa-effetto. A ben vedere, però, sono per primi gli scettici a negare il rapporto di causalità, salvo, poi, servirsene quando vogliono attaccare la fede» (p. 145). L’uomo del primato della coscienza è un esempio da citare nell’affrontare il problema della verità in rapporto alla religione perché sostenitore del fatto che la vita non si possa ridurre alla sola ragione. Scrive Pezzimenti che «la razionalità che interessa Newman è quella "colta nella concretezza dell’esperienza umana", in altri termini non la ragione astratta di stampo illuministico, ma quella legata all’immaginazione, ai sentimenti, alle esperienze storiche» (p. 146). In questo modo, l’autore pone il santo inglese sullo stesso piano di Edmund Burke distanziandoli in egual misura dalla «tarda eredità dell’illuminismo che sarà poi sintetizzata da Hegel per il quale, appunto, tutto ciò che è razionale è reale e viceversa» (p. 148). Nel libro ritorna spesso la critica all’illuminismo sebbene l’autore si premuri di specificare che all’interno di questo movimento culturale ci siano così tante differenze, anche radicali, che forse sarebbe più opportuno utilizzare il plurale e parlare di illuminismi. In ogni caso, Pezzimenti espone l’impostazione agostiniana di Newman in base alla quale è il «rapporto diretto col Dio-Persona che incide in modo decisivo nell’esperienza personale dei credenti» rendendo il Cristianesimo un’«esperienza vitale del Dio "Uno e Personale" che si fa esperienza nei rapporti col prossimo» e va «ben oltre ogni intellettualismo» (pp. 148-149). Scrive l’autore che «se si vuole andare più in là dell’idea di Dio, per Newman occorre affiancare alla "via metafisica" quella "esistenziale" e questa non può che essere la "via morale"» (p. 152). Dall’esempio del santo inglese se ne deduce che «la fede riposa nella coscienza che non solo costituisce il principio fondamentale, ma è una sorta di principio primo "vivente praticamente"» perché «la coscienza rappresenta il principio non solo della fede, ma lo è sia della religione sia dell’etica» (p. 152). Dalla riflessione di Newman si arriva alla conclusione, a proposito del rapporto verità-religione, che «l’incontro con Dio avviene nella coscienza dell’uomo e, tramite questa, impone delle esigenze “alle quali egli deve sottomettersi» (p. 153).
Nell’ultimo capitolo l’autore presenta un tema di stretta attualità nonché di particolare interesse esaminando la questione della verità in rapporto all’intelligenza artificiale. Un punto di vista "cattolico" degno d’attenzione anche alla luce della partecipazione di Francesco alla sessione dedicata all’IA nella riunione del G7 a presidenza italiana. La lettura di Pezzimenti è tutt’altro che pessimistica e sostiene che «l’IA presenta alcuni rischi, che possono essere evitati e, comunque, offre anche maggiori opportunità a tutti gli utenti che la sanno utilizzare in modo responsabile. In una democrazia che si rispetti, il crescere delle opportunità dovrebbe essere visto come un vantaggio per tutti, anche perché tali opportunità facilitano lo sviluppo umano e relazionale» (pp. 155-156). La premessa della riflessione è che appare un controsenso parlare di macchine "intelligenti" mentre sarebbe più corretto definirle "statistiche" in quanto basate sul calcolo di algoritmi ma prive di duttilità. Le finalità dietro a questi calcoli restano esclusiva dei loro ideatori e quindi dell’intelligenza umana. Questa è la vera sfida che individua l’autore sottolineando come «nessuno sa in che potrebbe consistere la coscienza di una entità materiale come è una macchina» e dunque «tutti i problemi legati alla coscienza, compresi quelli morali, sono, per ora, da imputare ai loro progettatori» (p. 162). Pezzimenti solleva il problema etico della raccolta dei dati a supporto delle macchine intelligenti ed invoca «la necessità di ancorarsi a principi etici testimoniati dall’interesse crescente per la dimensione bioetica» perché al di fuori di essi la IA «può essere considerata come una minaccia alla dignità umana, in quanto può aprire possibili applicazioni/decisioni contro gli esseri umani o provocare danni agli esseri umani» (p. 167). Insomma, per Pezzimenti — che cita Laura Palazzani — «le macchine non dovrebbero competere, ma completare le azioni umane» (p. 167). In rapporto alla verità, l’autore indica tra i rischi dell’intelligenza artificiale l’agevolare l’affermazione di un «nuovo regime di verità» di fronte al quale occorre «cercare margini di libertà da sottrarre a questi sistemi algoritmici» per non rinunciare al «diritto fondamentale a ricercarla che mostra come effettivamente ricerca della verità e libertà siano inscindibili» (pp. 165-166). In conclusione, l’autore non demonizza l’IA ma mette in guardia dal pericolo di adagiarsi acriticamente al suo uso che finirebbe per snaturare l’uomo portandolo a rinunciare «al nostro vero desiderio che è quello di trascendere la nostra esistenza più che sottometterla alle macchine» (p. 187). Sollevando il problema etico, Pezzimenti vede nell’era delle macchine intelligenti la tendenza a confondere mezzi e fini, «spodestando l’essere umano dalla capacità di individuare fini e di progettarne autonomamente di nuovi» (p. 179). Il dibattito sulla verità, così come la ricerca della verità, è insaziabile e sta particolarmente a cuore all’autore che ammette nel finale di pensare a questo libro da decenni e lo arricchisce con tre lettere sul tema a lui da Nicholas Rescher, Richard Rorty e Hilary Putnam nella metà degli anni Novanta.
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V. Possenti, La domanda sulla verità e i suoi concetti, in V. Possenti (a cura di), La questione della verità. Filosofia, scienze, teologia, Armando, Roma 2003, p. 28. ↩︎
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A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, il Mulino, Bologna 1964, p. 245. ↩︎
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S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, in Opere, vol. VIII, Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti 1915-1917, Bollati Boringhieri, Torino, 2019, pp. 140-141. ↩︎
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G. Vattimo, Addio alla verità, Meltemi, Roma 2009, p. 16. ↩︎
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J. Ratzinger-Benedetto XVI, Libertà e verità, in Fede, ragione , verità e amore, Lindau, Torino 2009, p. 535. ↩︎
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C. Caffarra, L’educazione della coscienza morale secondo Newman, tratto da Tempi.it, relazione che doveva essere pronunciata a Londra il 21 ottobre 2017 in occasione del convegno The Education of Moral Conscience according to Newman, invitato dal John Henry Newman Cultural Centre. ↩︎