Eduardo Nicol e la «Scuola di Barcellona»

1. Premessa

Il dibattito sull’esistenza o meno della cosiddetta «Scuola di Barcellona» vede molteplici partecipanti, ma Eduardo Nicol è stato probabilmente il principale protagonista della nascita stessa di tale etichetta storiografica. Infatti, fu soprattutto la seconda parte del suo saggio El problema de la filosofía hispánica (Tecnos, Madrid 1961), intitolata La escuela de Barcelona, a dare avvio alla discussione se tale scuola sia effettivamente esistita, e quali siano stati i suoi limiti e il suo contributo alla filosofia ispanica contemporanea. A questo proposito, ci sentiamo di affermare che essa è, probabilmente, più un mito che una vera e propria categoria della storiografia filosofica, come vedremo. Proprio Nicol fu il primo a dubitare dell’esistenza di una tale scuola, tanto che iniziò il suo saggio affermando: «So bene che non esiste una scuola di Barcellona (intendo una scuola filosofica)»1. Eppure una ragione per l’esistenza di una definizione così precisa ci deve essere, e si può ritrovare in alcuni (seppur non molto marcati) tratti comuni tra i pensatori catalani esiliati dalla guerra civile. Di per sé, il termine fu usato per per la prima volta da José Gaos (1900-1969) nel suo saggio Los «transterrados» españoles de la filosofía en México, scritto nei primi anni ’50. Lo scopo di Gaos, però, era solamente quello di riunire sotto un nome comune (creando così un parallelismo con la «Scuola di Madrid») il gruppo di filosofi catalani che giunsero in Messico in seguito alla sconfitta della Repubblica nella guerra civile. Ciò che giustificava l’esistenza di queste due «scuole» differenti era che «solo nelle Università di Madrid e di Barcellona si poteva frequentare il corso di studi completo in Filosofia, ragione fondamentale perché si possa parlare di una scuola filosofica di Madrid e un’altra di Barcellona»2. Ma mentre per quel che riguarda Madrid la presenza di un maestro che ne determinasse l’orientamento fondamentale è sicura e certa (stiamo parlando di José Ortega y Gasset)3, non si può trovare a Barcellona nessun pensatore che abbia ricoperto un ruolo simile. Probabilmente Joaquim Xirau avrebbe avuto la levatura intellettuale e pedagogica per fungere da «maestro» delle nuove generazioni culturali catalane, verso le quali, non fosse stato per la guerra civile e l’esilio in Messico (dove morì a cinquantun anni nel 1946), avrebbe potuto esercitare un magistero filosofico molto simile a quello di Ortega y Gasset. Ma questa, seppur suggestiva, è solo un’ipotetica possibilità, seppur in parte suffragata da Nicol, come vedremo, e anche da Gaos: «Da questa [la Scuola di Barcellona] vennero in Messico: il maestro per eccellenza di tutte le generazioni posteriori, don Jaime Serra Hunter, e la figura più eminente di tutta la scuola, Joaquín Xirau; due dei membri più di spicco tra gli ultimi laureati, Juan Roura ed Eduardo Nicol; e Juan David García Bacca, che non si formò precisamente a Barcellona, [… ma] può esser considerato come procedente da questa scuola»4. In questo passo si riconosce che «il maestro per eccellenza di tutte le generazioni posteriori» fu Jaume Serra Hunter, ma che «la figura più eminente di tutta la scuola» fu Xirau, anche se questo non significa che uno dei due abbia svolto il ruolo di «Ortega y Gasset barcellonese», né tantomeno che si possa affermare l’effettiva esistenza di una vera e propria linea filosofica di cui l’uno o l’altro fosse il maestro. Per quel che riguarda Serra Hunter, molto dipese dal fatto che non giunse mai a costruire il proprio sistema filosofico in maniera completa, e forse di lui rimase poco nei suoi allievi perché aveva poco da lasciare: alla fin fine, soltanto una generica avversione nei confronti del relativismo soggettivista e una propensione al realismo spiritualista. Per quel che riguarda Xirau, invece, forse la sua stessa natura non lo avrebbe privilegiato come maestro di una vera e propria scuola filosofica, come ben descritto da Lluis de Llera: «I risultati di Xirau furono senza dubbio positivi e numerosi suoi discepoli che arrivarono a occupare la cattedra di filosofia, quasi quanto quelli di Ortega. Il suo insegnamento, però, nonostante abbia tracciato un percorso, non risvegliò tuttavia lo stesso interesse e le stesse prospettive. Gli mancava il carisma di Ortega ed eccedeva in discrezione e umiltà»5. Pur non essendoci un maestro unico né una dottrina comune, quello che caratterizzò la «Scuola di Barcellona» furono «qualità di tono e di stile»6, cui possono essere ricondotte anche le caratteristiche principali descritte alla voce Barcelona (Escuela de) del Diccionario de Filosofía di José Ferrater Mora (1912-1991), altro allievo di Serra Hunter e Xirau: «Senso di realtà e una stessa opposizione alla riduzione della filosofia sia a una mera teoria astratta sia a una semplice forma di vita; opposizione al verbalismo; una certa inclinazione per il senso comune (in un senso molto ampio); sfiducia per la mera brillantezza in filosofia; senso della continuità storica»7. La differenza tra Gaos, Nicol e Ferrater Mora è che i primi due si riferiscono solamente a quella generazione che gli eventi bellici costrinsero all’esilio, quella cioè che si formò a Barcellona negli anni precedenti alla guerra civile. Ferrater Mora, invece, indica come facenti parte della scuola di Barcellona anche filosofi ottocenteschi come Jaume Balmes, Ramon Martí d’Eixalà e Francesc Xavier Llorens i Barba. Noi in questo articolo ci concentreremo soltanto sul pensiero e sulle influenze di Serra Hunter e di Xirau, lasciando da parte la possibilità o meno della continuità con la filosofia catalana dell’Ottocento, considerando quindi come «Scuola di Barcellona» solamente quella della generazione degli anni immediatamente precedenti la guerra civile spagnola.

2. Il pensiero di Jaume Serra Hunter

Jaume Serra Hunter nacque a Manresa nel 1878, si laureò in Filosofia a Barcellona nel 1902, addottorandosi poi a Madrid nel 1909, anno in cui vinse la cattedra di Logica fondamentale all’Università di Santiago de Compostela, dove rimase fino al 1913, quando tornò nella capitale catalana per occupare quella di Storia della Filosofia. Nel 1931 divenne rettore dell’Università, dimettendosi nel 1933, dopo esser stato eletto al parlamento regionale di Catalogna. Nel 1939, con le truppe franchiste ormai alle porte della città, fuggì in Francia, dove rimase fino al 1942, quando l’avanzata dei nazisti lo obbligò a esiliarsi in Messico. Qui, ammalato di cuore da tempo, le sue condizioni andarono via via aggravandosi fino alla morte, avvenuta l’8 settembre 1943. Filosoficamente, Jaume Serra Hunter ebbe una tendenza verso un idealismo moderato con forti influenze da parte dello spiritualismo francese. Come ricordò il suo allievo Francesc Mirabent Vilaplana (1888-1952) nella Necrologia de Jaume Serra Hunter, «il punto di partenza della sua dottrina deriva dallo spiritualismo leibniziano e dallo spiritualismo della scuola scozzese e s’intreccia con il realismo psicologista di Llorens i Barba attraverso gli spiritualisti francesi della prima metà del XIX secolo»8. In effetti, Serra Hunter si definiva uno «spiritualista», termine che può avere molti significati, ma che in questo caso significa l’adattamento catalano della filosofia accademica francese di fine Ottocento: quella di Félix Ravaisson (1813-1900), di Jules Lachelier (1832-1918) e, soprattutto, di Émile Boutroux (1845-1921). Per Serra Hunter la filosofia «non deve dare solamente una concezione del mondo, bensì anche una soluzione pratica ai problemi della vita»9 e per questo motivo diventa fondamentale l’idea che lo psicologismo e il logicismo filosofico degli inizi del XX secolo avevano portato a una grave crisi filosofica e culturale. Crisi la cui causa andava cercata nel relativismo e nel soggettivismo che tali correnti di pensiero portavano inevitabilmente con sé, oltre che nell’abbandono della cultura spiritualista e nella polemica tra scienza, filosofia e religione che caratterizzò il XIX secolo. L’unica via d’uscita da questa situazione era, secondo il pensatore catalano, il recupero della funzione spirituale della filosofia, cioè di una metafisica come dottrina della idealità che portasse a un «adattamento armonico di tutte le facoltà agli interessi superiori dell’uomo»10. Questa «filosofia dell’ideale» venne esposta in maniera completa nella conferenza L’Apologia de l’Ideal, data a Girona nel 1933. Qui si spiega che l’ideale «è una rappresentazione intenzionale della pienezza di perfezione in un ordine determinato della realtà. L’ideale è come un’unità simbolica del pensiero e dell’azione»11. Questo agisce su di noi in tre momenti: in un primo tempo vi è la contemplazione dell’Ideale e un’attrazione verso di esso; segue poi un’inquietudine la quale comporta la necessità di lavoro intellettuale perché l’Ideale possa, alla fine, incorporarsi al nostro io e divenire la forza interiore che ci «guida nelle cose della vita»12. Joaquim Xirau definì il pensiero del proprio maestro come «un ritorno alla meditazione platonica», nel senso di un «meraviglioso paradosso: per uscire da quel “idealismo” che ci domina e tormenta abbiamo bisogno dell’appoggio vigoroso e decisivo del creatore di ogni idealismo, dell’inventore delle “idee”»13. Il «platonismo» di Serra Hunter si deve alla sua volontà di andare oltre la pura soggettività in cui sfocia l’idealismo moderno (che quindi per sua stessa natura è relativista), attraverso un recupero della metafisica come dottrina dell’idealità. In effetti, egli sosteneva che la filosofia deve tornare a essere un sapere perenne e superiore, una specie di enciclopedia dello spirito, capace di guidare l’umanità fuori dallo stallo gnoseologico dovuto al soggettivismo e al relativismo. Il cammino verso questo concetto di filosofia è un percorso per gradi che comincia con un duplice punto di partenza metodologico: prima si deve compiere un’analisi di carattere psicologico che determini le basi e le condizioni della conoscenza, in seguito bisogna eseguire una ricerca metodologica sull’uso della ragione. Solamente dopo queste attività preliminari si può passare alla filosofia vera e propria, che si struttura in un sistema articolato in tre gradi crescenti: il problema gnoseologico o critico, la metafisica e l’etica. La metafisica, inoltre, si divide in tre aree: la cosmologia (che si occupa dell’essere finito), l’ontologia (che indaga l’essere indefinito) e la teodicea (che riguarda l’essere infinito). Serra Hunter, però, non giunse mai a costruire questo sistema in maniera completa né tantomeno a descriverne la caratteristiche specifiche in maniera precisa, limitandosi ad abbozzare quella che ne sarebbe dovuta essere la struttura generale.

3. Il pensiero di Joaquim Xirau

Joaquim Xirau naque nel 1895 a Figueras, si laureò in Filosofia a Barcellona nel 1917, e si addottorò nel 1921 a Madrid. Nel 1926 vinse la cattedra di Logica all’Università di Salamanca, ottenendo nel 1928 seguente il trasferimento in quella di Barcellona, dove nel 1933 divenne preside della Facoltà di Filosofia. In questi anni fondò il Seminario di Pedagogia, da cui poi prenderà vita il corso di laurea in Pedagogia dell’università catalana. Nel 1939, a causa dell’avanzata dell’esercito franchista, dovette fuggire prima in Francia e poi in Messico. Qui divenne cattedratico di filosofia nell’Universidad Nacional Autónoma, incarico che mantenne fino alla tragica morte, il 10 aprile 1946, quando fu investito da un tram mentre si recava a tenere una lezione all’università. Nel 1927 pubblicò El sentido de la verdad (Editorial Cervantes, Barcelona 1927), in cui affrontò direttamente la questione sulla verità e la sua relazione con le cose, giungendo alla conclusione che la verità va intesa nel senso di adæquatio del giudizio alle cose, ad è quindi possibile in maniera oggettiva, in quanto scollegata dalla soggettività del soggetto che giudica. Questo bisogno di oggettività, che chiamiamo scienza, comporta la necessità che la realtà venga, per così dire, «standardizzata». L’amor i la percepció dels valors (Universitat de Barcelona, Barcelona 1937) analizza con grande chiarezza e precisione questo problema: la ragione esige l’identità, in quanto solo con essa è possibile un discorso scientifico. Questo è il primo passo della scienza e il motivo della sua efficacia: la riduzione del mondo a quantità identiche che ne permettono l’analisi e la comprensione. Il problema però sorge quando questo paradigma della scienza viene assunto come paradigma di tutta la realtà: la fisica, che si occupa di un solo aspetto del mondo (e cioè quello misurabile in quantità esatte come energia, atomi, masse…) viene assunta come la verità dell’esistente e assolutizzata. Ma questo secondo passo che compie la scienza (e con essa la filosofia) «è evidentemente abusivo e non vi è nulla che lo giustifichi. Non vi è alcuna cosa che giustifichi la riduzione del Cosmo allo strumento impassibile, schematico e astratto che ne offre la fisica. Il mondo è questo. Ma non è solo questo»14. Xirau, quindi, individua nel «razionalismo» la dottrina che ha saputo dare una risposta alla necessità dell’uomo di esercitare un controllo sulla natura che lo circonda: per poter intervenire efficacemente nel mondo, l’umanità aveva bisogno di poter interagire con esso in maniera efficace e precisa. A tale scopo, l’universo viene articolato e fossilizzato come un sistema di strutture permanenti, nel quale si manifestano cambiamenti accidentali. Si tratta del grande avanzamento della scienza moderna, la quantificazione matematizzabile della realtà, cosicché essa sia interpretabile attraverso formule. Il filosofo catalano identifica nella Mathesis universalis di Cartesio e Leibniz lo strumento che ha sì permesso le magnifiche sorti e progressive della scienza moderna, ma che allo stesso tempo ha irrigidito la percezione della realtà in modo che essa sia solamente quantitativa, cioè misurabile e calcolabile. Il che significa che la realtà così come noi la interpretiamo è un essere unico e indifferenziato in cui ci sembra possibile usare la ragione e progredire con la scienza, per la quale vale il principio d’identità e quello di contraddizione; A, quindi, deve sempre e solo essere A e non può essere nient’altro, e così «l’antica policromia diviene triste e grigia. I luoghi, le cose, i momenti dell’Universo divengono punti uguali, fissi e intercambiabili. Una sostanza identica costituisce la realtà. L’essere diventa univoco, non è altro che puro essere»15. In questo modo, però, l’uomo viene messo in secondo piano dalla scienza e la sua stessa vita viene ridotta a mera funzionalità scientifica. Ma la scienza non è un’alternativa alla vita, bensì una delle sue componenti. Il problema della sua onnipresenza non sorge, quindi, da essa in sé, ma da una falsa ed erronea interpretazione dei suoi risultati, che hanno sì permesso il miglioramento dell’uomo, che dalle caverne è arrivato ai grattacieli, ma hanno anche fatto sorgere il problema essenziale della vita umana quando «con la pretesa di sopprimere ogni metafisica, si è surrettiziamente trasformata la scienza in una nuova metafisica, in una concezione del mondo adatta a risolvere tutti i problemi della vita umana»16. In Lo fugaz y lo eterno (1942), Xirau chiarì bene questa sua posizione, rendendo esplicite idee che nelle altre opere aveva lasciato solamente accennate. La scienza non è una «nemica» dell’uomo, ma una sua alleata. Sempre e soltanto, però, quando essa è cosciente della propria specificità. La verità, secondo il filosofo catalano, è un dovere morale per l’uomo, ma questa verità non è più la verità assoluta della scienza, bensì quella «relativa» della vita. La verità diventa un ideale regolato in senso kantiano, e dunque va perseguita allo scopo di migliorare la vita dell’uomo, pur coscienti che essa non potrà mai essere posseduta. Nell’ultimo periodo della filosofia di Xirau, corrispondente all’esilio messicano, troviamo un’importante influenza da parte del pensiero dei pragmatisti statunitensi, specialmente di William James, che però viene sempre filtrata da una profonda sensibilità europea. Così, se è vero che «non è più possibile pensare a una concezione unitaria del cosmo [… poiché] la verità non è altro che uno strumento per l’azione, la verità è in ogni caso “la mia verità”, la verità utile per me o per un gruppo di esseri con una struttura analoga alla mia»17, è anche vero che l’esistenza non si limita alla semplice utilità, e che ci sono valori che vanno ben oltre l’immediatezza empirica del pragmatismo. Infatti, per esempio, «credere in Dio per la sua utilità non significa credere in Dio, bensì nell’utilità»18. E per Xirau il mondo al di fuori del mondo della scienza è estremamente importante, anzi possiamo affermare che è più importante del cosiddetto «mondo reale», che viene tendenzialmente identificato con il cosmo matematizzabile delle scienze esatte. Ma, come abbiamo già riferito, «è chiaro che il visibile non esaurisce la sfera del luminoso»19, perché il «luminoso» viene completato dai valori, che sono quelle idee, o ideali, che danno un ordine e una gerarchia alle cose, predisponendole ad avere un significato che altrimenti rimarrebbe inespresso. Questa è l’attività vitale dell’uomo, che sfugge all’ordinamento scientifico per lasciare spazio a tutto il resto che compone il mondo della vita: è l’esplosione del vitalismo e dell’amore, che dei valori è il più alto. Questa trasformazione del mondo attraverso i valori (o meglio, attraverso l’amore), si compie in due momenti distinti, il primo comune a tutti gli animali, il secondo proprio invece degli uomini. Il compito della filosofia è proprio quello di aiutare e guidare l’uomo in quest’opera di restituzione, perché la filosofia non è una scienza. Infatti, ogni scienza è schiava dell’oggettività e dei suoi schemi astratti e superficiali, mentre la filosofia è molto di più, in quanto «si trova al servizio della “soggettività”. In essa cerca un senso per la vita intera»20. E ciò che dà un senso alla vita è l’amore, inteso non tanto come sentimento romantico, bensì come il relazionarsi col mondo in maniera essenziale, così da poter dare alle cose il significato che esse hanno bisogno d’avere e potendo così ricevere da esse la significazione più piena della propria esistenza. Solo così la vita potrà essere ciò che più autenticamente è, e cioè, quel «movimento, rischio, desiderio, dedizione»21 a cui l’uomo di deve dedicare completamente.

4. Eduardo Nicol nella «Scuola di Barcellona»: Serra Hunter

L’esperienza in quella che verrà poi denominata «Scuola di Barcellona», per Eduardo Nicol fu abbastanza breve, anche se coincise con gli anni della sua formazione filosofica. Nato nella capitale catalana nel 1907, si iscrisse alla facoltà di filosofia dell’università barcellonese nel 1928, dove iniziò insegnare nel 1934 (dopo essersi addottorato a Madrid), per poi esser costretto all’esilio dall’avanzare delle truppe franchiste in Catalogna nel 1939. Rifugiatosi in Messico, fu professore all’Universidad Nacional, dove svolse tutta la sua carriera accademica fino alla sua morte nel 1990. È anche a lui che si deve la nascita del dibattito sull’esistenza o meno di questa scuola filosofica, come si è accennato all’inizio di questo saggio, eppure proprio dalla sua opera è deducibile l’inconsistenza di tale etichetta storiografica. Nicol stesso ne aveva percepito la fragilità, quando descrisse «l’ambiente indefinito che oggi chiameremmo scuola di Barcellona»22, che in fondo non fu altro che una koinonía in cui coincisero alcuni pensatori, che poi svilupparono le proprie riflessioni indipendentemente dalla propria partecipazione a tale una casa comune. Casa comune che, a un primo sguardo, potrebbe sembrare essere fondata sul seny, ovverosia la versione catalana del Common Sense della Scuola Scozzese, che in Catalogna ebbe una certa fortuna a partire da Jaume Balmes (1810-1848), le cui influenze scozzesi sono però piuttosto vaghe, ma soprattutto da Ramon Martí d’Eixalá (1807-1857) e il suo allievo Francesc Xavier Llorenç Barba (1820-1872). Questi ultimi furono ritenuti i veri fondatori della Scuola Catalana del Senso Comune da Serra Hunter e Carreras Artau, che si sentivano, in qualche modo, loro discepoli e continuatori. Ma niente di tutta quella riflessione si ritrova nella generazione di cui ci stiamo occupando, nemmeno in Nicol, che si limita a identificare l’Essere con la realtà, senza nessuna necessità di un appello a un qualche «senso intimo» (come lo definì Balmes) che ne certifichi la certezza. D’altra parte, Nicol ne Il problema della filosofia ispanica descrive i propri maestri degli anni universitari più sotto il punto di vista delle loro personalità che del loro pensiero filosofico. Esemplare a questo proposito è il bel ritratto che fa di Jaume Serra Hunter, sottolineandone la discrezione e il rispetto nei confronti dei propri studenti, tanto che «nonostante una convivenza alquanto intima e prolungata, non mi resi conto se non dopo la sua morte del fatto che […] fosse un cattolico praticante»23. Un maestro, quindi, che non approfittava della propria privilegiata posizione dietro alla cattedra per imporre ai propri uditori il proprio pensiero, ma che si «limitava» a permettere a ciascuno di sviluppare il suo, liberamente. Non per nulla Nicol si chiede se «è miglior maestro quello che imprime nei suoi discepoli l’orma del suo pensiero, o chi utilizza il suo pensiero per abituarli a cercare la propria orma»24. In effetti, delle riflessioni di Serra Hunter non si trovano tracce nelle opere di Nicol, se non un certo anti-razionalismo (o meglio, un’avversione nei confronti degli esiti più estremi del razionalismo), che però è piuttosto comune in quasi tutto il pensiero europeo del secondo novecento. Per Nicol, la filosofia tradizionale ha inteso la ragione «pura» sempre e soltanto come ragione astratta. Certamente, la ragione è logica, ma forse è meglio descriverla come dia-logica, visto che è nel linguaggio che si esprime la complementarietà degli esseri. L’errore del razionalismo è quello di credere d’aver trovato tale complementarietà in una struttura meramente logica, mentre essa va cercata nella funzione simbolica, che inizia con l’atto della nominazione, quindi in una relazione con l’altro da sé che precede, in un certo senso, la logica stessa. Per Serra Hunter si deve andar oltre la pura soggettività del relativismo idealista moderno attraverso un recupero della metafisica come dottrina dell’idealità, e Nicol sembra aver percepito questa lezione, interpretandola però in maniera simbolica. O meglio, dandole una struttura simbolica che significhi la realtà logicamente ma, allo stesso tempo e soprattutto, dia-logicamente. Ma il legame è, evidentemente piuttosto flebile, come d’altra parte non era molto poderoso nemmeno il sistema filosofico di Serra Hunter, il quale però era stimato como buon professore, tanto da lasciare una profonda influenza nella formazione filosofica dei propri studenti. Nicol lo dichiarò apertamente: «Serra Hunter poteva spiegare, per esempio, la dottrina kantiana come se fosse immerso in essa, impregnato in essa (come effettivamente era), e dare all’esposizione un’enfasi che riusciva a mostrare i problemi con più autenticità e chiarezza dell’esposizione fatta da uno studioso sostenitore del kantismo. […] Spiegando le filosofie, Serra Hunter insegnava quello che è filosofia; e non lo faceva elaborando una teoria personale, ma vivendola e manifestando in modo non intenzionale, solo con la sua presenza, in cosa consiste essere un filosofo».25 Fu quindi la sua opera come professore di storia della filosofia quella che segnò più profondamente quei giovani che si vorrebbe raggruppare come «Scuola di Barcellona». Ma anche se Gaos lo indica come «il maestro per eccellenza di tutte le generazioni posteriori»26, in realtà fu «soltanto» loro professore, non tanto il loro vero e proprio maestro. La sua personalità discreta, oltre che i molti impegni politici, ne fecero un uomo da cui imparare molto, ma non sufficientemente carismatico per essere un filosofo alle cui dottrine aderire e ispirarsi.

5. Eduardo Nicol nella «Scuola di Barcellona»: Xirau

Un discorso leggermente differente lo si deve invece fare per quel che riguarda Joaquim Xirau, verso il quale Nicol non dimostra la stessa simpatia e lo stesso affetto riservati a Serra Hunter, pur lamentando il fatto che la sua morte prematura «in piena maturità intellettuale, impedì che si coronasse un’altra speranza, una di quelle che si stavano realizzando»27. Xirau aveva sicuramente una personalità filosofica più importante e solida rispetto a Serra Hunter, e in fin dei conti anche rispetto a Eugeni d’Ors, il «Pantarca» della cultura catalana d’inizio Novecento. E dovette avere anche un carattere più forte e irruento rispetto ai suoi colleghi dell’Università di Barcellona, mostrando forse un atteggiamento accademico e magistrale che, in qualche modo, non piaceva o risultava molesto al giovane Nicol, che così lo descrisse:

Aveva un carattere più complesso di Serra Hunter […]. Il senso pedagogico di Xirau era attivo e pragmatico, direi curioso o partecipe. Era un riformatore e un entusiasta. Le sue convinzioni forse non erano più solide di quelle di Serra. Forse in alcuni punti coincidevano. Ma il temperamento di Xirau, impetuoso, febbrile a volte, lo spingeva a cercare le vie per esercitare influenza. Non gli bastava quell’«azione di presenza» della quale lui stesso parlava. Doveva completare la semplice esemplarità con il dialogo, e questo con l’azione direttiva, con la creazione di istituzioni, con il reclutamento di adepti per la buona causa. Aveva il potere pregnante di chi concepisce la propria vita come il servizio di una missione redentrice. Xirau sarebbe stato, per tutte queste sue caratteristiche, un caposcuola.28

Sembra trasparire, dalle parole di Nicol, una certa difficoltà nella relazione con Xirau, quando non una sorta di disistima o di poca considerazione, che si esplicita descrivendolo come «uno dei meno autentici, di casta meno genuina»29, sostenendo poi che le influenze filosofiche ricevute durante la sua formazione e quelle esercitate durante il suo magistero, sembravano non poggiarsi sulla tradizione viva che costituiva (o si voleva costituisse) il fondamento filosofico della «Scuola di Barcellona». Una tradizione che si era venuta costituendo a partire dagli insegnamenti di Serra Hunter, d’Ors, Carreras Artau, Maragall, Torras y Bages, ecc. e che costituiva la «casa comune» in cui si riconoscevano i giovani delle nuove generazioni filosofiche barcellonesi e catalane. Xirau viene, quindi, etichettato quasi come uno «straniero», almeno sotto questi aspetti, a causa di una formazione che non si risolveva, e forse nemmeno si riconosceva del tutto, in quelle basi ma che, a ben guardare, era molto più amplia ed europea. Eppure, prendendo in considerazione anche solo Critica della ragion simbolica (1982), non vi si trovano che labili tracce di quelle che sarebbero dovute essere tali radici del pensiero nicoliano, mentre è possibile intravvedere una certa assonanza, come «un’aria di famiglia», con alcune inquietudini di Xirau. A titolo d’esempio, possiamo affermare che uno dei principali interessi di Nicol è quello di assicurare la razionalità del tempo, sottraendola alla razionalizzazione soggettiva cui l’ha relegato la tradizione filosofica occidentale, sempre considerando che «il tempo culturale d’occidente si può dividere in due dimensioni: prima della filosofia e dopo la filosofia»30. E questo è un aspetto di cui si era già interessato Xirau in uno dei suo ultimi articoli, intitolato Volume del tempo (1944), in cui si notano importanti influenze da parte delle nuove teorie fisiche di Albert Einstein, soprattutto della sua critica al tempo assoluto, che Xirau, in un certo senso, fece propria, iniziando il proprio saggio con un richiamo preciso: «Il pensiero filosofico nacque e si mantenne, in gran misura, in virtù del conflitto tra le aspirazioni e la natura transitoria della sua condizione terrena… ogni filosofia ha avuto sempre al centro dei suoi insegnamenti il problema del tempo e la sua relazione con l’essere. Il relativismo storico e la vitalità hanno semplicemente modificato l’asse di equilibrio su cui riposava quella relazione, per mezzo di una dialettica implacabile il cui risultato conduce a far sì che l’essere sia assorbito e si dissolva nell’evanescenza del passar del tempo».31

Solo attraverso una nuova concezione del tempo è possibile cercare una nuova fondazione per l’ontologia, ma per fare questo si doveva prima criticare le varie interpretazioni che del tempo si sono date nella storia: quella fondata sulla dimensione del «presente», che dominò la filosofia fino al Rinascimento; quella del «passato» che caratterizza la filosofia moderna, soprattutto nei suoi versanti scientifici; infine quella che pone l’accento nella dimensione di «futuro», che è propria dello storicismo. In ciascun caso il tempo è stato interpretato in funzione di una delle sue dimensioni, ma in questo modo il tempo si auto-distrugge e sfocia nell’immobilità temporale perché tali dimensioni non sono che la faccia di una realtà molto più ampia, che viene irrigidita così in un solo suo aspetto limitato. Un tempo puro (inteso in una delle caratterizzazioni sopra dette) non può esistere, infatti, le dimensioni del tempo non sono uniche od originali, ma sono derivate da un’esperienza più ampia e fondamentale: quella di una realtà/tempo voluminosa e con una massa, cioè un tempo che non si limita a un punto o a una linea, ma che assume tutto il proprio significato di «quarta dimensione», con un volume proprio e quindi una «massa» propria. Solamente restituendo i propri limiti al carattere temporale della vita e dell’essere, le sue dimensioni possono essere riassorbite in un Cosmo, permettendo così di fondare l’Ontologia su nuove strutture. In un certo senso è questo quel che ha tentato Nicol: dare un nuovo fondamento alla dottrina dell’Essere, determinandone la natura eterna e la sua relazione con l’ente, perché «l’Essere non è un problema; è la ragione che ha creato il problema dell’Essere. Fin dal primo razionalismo eleatico, la Ragione (che qui si deve scrivere con la maiuscola) sostituisce l’Essere nel luogo culminante del principio; pretende di dare ragione dell’Essere, quando in verità, essendo l’assolutamente incondizionato, l’Essere non ha ragione d’essere»32. Quindi, noi possiamo dare ragione soltanto della temporalità dell’ente, che è l’unico a essere soggetto alla dialettica temporale, perché soltanto all’esistente si può predicare l’affermazione e la negazione. L’Essere è di per sé estraneo a esse ed estraneo alla temporalità che ne deriva. L’Essere è la realtà, quindi, ma il problema della verità è un problema che rimane aperto ed è la chiave di lettura di tutto il testo nicoliano. Anche in questo è possibile intravvedere un’ombra del pensiero di Xirau, il quale ne El sentido de la verdad (1927), affrontò proprio il problema della verità e la sua relazione con le cose. Nell’ultimo capitolo di quest’opera, egli fornì una definizione di verità, che «non è un fatto né la si può derivare da un fatto. […] È un’idea atemporale ed eterna, indipendente dal pensiero e dal fatto d’essere pensata da qualcuno»33. La verità, cioè, non è un oggetto, bensì una qualità, ma non una qualità delle cose in sé, ma dei giudizi che vengono formulati sui fatti. L’essenza della verità, infatti, è determinabile solamente attraverso la relazione tra un giudizio e i contenuti da esso posti: «In questo senso assume un nuovo significato la vecchia definizione secondo la quale la verità è Adæquatio intellectus et rei; intendendo per intellectus il giudizio e per rei l’oggetto corrispondente a esso. Il che equivale a dire […] che la verità di un giudizio è la sua concordanza con la realtà»34. La verità è quindi l’attributo di un giudizio, di cui determina la maggiore o minore corrispondenza con la realtà. Nel rapporto simbolico della ragione con la realtà di cui parla Nicol, in un certo qualsenso, si possono rintracciare, seppur vagamente, alcune di queste inquietudini di Xirau. La distanza è grande, naturalmente, ma non ci sembra essere del tutto lecito negare una seppur debole affinità. Altro punto in comune tra i due filosofi catalani, è una certa avversione nei confronti del carattere univoco e uniformante della scienza. Per Xirau la ragione ha bisogno di oggettività per poter pensare e operare sul mondo e questo bisogno di oggettività è ciò che si esplicita in ciò che chiamiamo scienza, la cui caratteristica essenziale è che la realtà venga, per così dire, «standardizzata». Ne L’amor i la percepció dels valors (1937) egli analizzò con grande chiarezza e precisione questo problema, affermando che «l’opera della scienza consiste essenzialmente nell’intento sistematico e metodico di sostituire la realtà immediata, soggettiva e fuggitiva, con una realtà ipotetica, oggettiva e stabile»35. Ora, nella Critica della ragion simbolica è chiaro che il discorso dell’uomo verte sulla realtà, anche se a volte non è chiaro che tra il linguaggio e le cose c’è una relazione simbolica, che va oltre la comprensione dei soggetti, cosicché gli oggetti non siano ridotti a semplici occasioni di comunicazione. A questa deriva del simbolico può portare un’eccesso di omologazione, come sostiene Nicol: «Gli uomini abbandonano le proprie forme d’essere genuine, autoctone e distintive, sia in occidente che in oriente, quando devono fare la stessa cosa, e alla stessa maniera in cui si fa in ogni parte. L’uniformità della tecnologia è la morte della cultura. La tecnologia non è un principio; è universale perché è forzosa, e non può fare distinzioni né promuoverle»36. Tra queste riflessioni di Nicol e quelle di Xirau forse non vi è un’eccessiva somiglianza, ma vi si può intravvedere sicuramente una certa «aria di famiglia», come una sorta di comunanza nel sentire e nell’interpretare problematiche che, nei cinquant’anni che separano le due opere, si sono certamente evolute ma verso le quali permane un similare diffidente approccio.

6. Scuola di Barcellona?

I legami di Nicol con la «Scuola di Barcellona» sono piuttosto vaghi, e legati più a ragioni d’affetto, rispetto e nostalgia nei confronti dell’ambiente culturale e universitario barcellonese negli anni Trenta che a vere e proprie influenze o radici filosofiche. Forse soltanto con Xirau è possibile intravvedere (ma si badi, solamente intravvedere) alcuni punti di contatto o una seppur lontana sensibilità comune. Per il resto, non troviamo nell’opera di Nicol nessuna traccia e nessuna prova dell’esistenza di una vera scuola di cui egli sarebbe stato parte. Così come essa non è percepibile nemmeno negli altri supposti componenti, come Juan Roura, Josep Ferrater Mora o Juan David García Bacca, i quali hanno seguito strade e intrapreso ricerche e riflessioni proprie, senza dimostrare alcun legame o affinità tra loro o con altri «condiscepoli». La «Scuola di Barcellona» rimane, quindi, soltanto una possibilità mancata, una potenzialità a cui fu impedito di realizzarsi dalle circostanze storico-belliche, che ne dispersero i potenziali componenti per vari paesi. A questo si deve aggiungere la repentina morte di Serra Hunter, avvenuta pochi mesi dopo il suo arrivo in Messico, e la tragicità del fato, investito da un tram al culmine della propria carriera, quando effettivamente avrebbe potuto diventare quel caposcuola che tutti si aspettavano sarebbe diventato. Per concludere, ricordiamo quel che scrisse nel 1969 il poeta e saggista Joan Fuster (1922-1992), quando rilevando con fastidio la mancanza di una profonda cultura filosofica nei paesi catalani nonché la totale assenza di una filosofia propriamente catalana, affermò che «una consultazione al Dizionario di Josep Ferrater Mora, o l’esame del capitolo “La Scuola di Barcellona” ne Il problema della filosofia ispanica di Eduardo Nicol, ci induce a sospettare che una sorta di “pietà filiale” abbia indotto questi due filosofi a sopravvalutare (per lo meno un po’) la tradizione locale»37. Un giudizio molto lucido, forse un poco tranchant, e che non può non essere condividerlo, almeno nel suo concetto fondamentale: non vi fu mai una vera e propria «Scuola di Barcellona». Certo, che ci sia «pietà filiale» significa certamente che c’è stato qualcuno di cui essere figli, e quindi la sopravvalutazione di cui parla Fuster si deve ricondurre a un «debito di riconoscenza» nei confronti di chi aveva formato quella generazione intellettuale. Ma nella creazione della scuola, e nella sua mitizzazione, ha probabilmente un ruolo assai maggiore una sorta di nostalgia per un ambiente culturale, quello dell’università barcellonese negli anni precedenti alla Guerra Civile, in cui si formarono quei giovani intellettuali. I quali, però, poi svilupparono il proprio pensiero indipendentemente gli uni dagli altri, non avendo in comune nient’altro che una sorta di «Belle Époque giovanile», tragicamente e violentemente interrotta.


  1. E. Nicol, Il problema della filosofia ispanica, traduzione e note di M. Porciello, La Città del Sole, Napoli 2007, p. 171. ↩︎

  2. J. Gaos, Filosofía mexicana de nuestros días, Imprenta Universitaria, México D. F. 1954, p. 287. ↩︎

  3. Cfr. Nicol, Il problema della filosofia ispanica, p. 171: «La scuola di Madrid rimarrebbe dunque definita dal pensiero del suo maestro [Ortega y Gasset], dal numero esatto dei suoi discepoli e dalle date in cui il suo insegnamento è incominciato e la sua influenza è andata diffondendo». ↩︎

  4. Gaos, Filosofía mexicana de nuestros días, p. 287. ↩︎

  5. L. de Llera, Introduzione, in Nicol, Il problema della filosofia ispanica, p. 11. ↩︎

  6. Nicol, Il problema della filosofia ispanica, p. 172. ↩︎

  7. J. Ferrater Mora, Diccionario de Filosofía, nueva edición revisada, aumentada y actualizada por el profesor Josep-Maria Terricabras, Editorial Ariel, Barcelona 2004, p. 314. ↩︎

  8. F. Mirabent Vilaplana, Estudios estéticos y otros ensayos filosóficos, Consejo Superior de Investigaciones Científicas/Instituto «Luis Vives» de Filosofía, Barcelona 1958, vol. II, p. 199. ↩︎

  9. J. Serra Hunter, Sentit i valor de la nova filosofia, Polonio & Margelí, Barcelona 1934, p. 68. ↩︎

  10. Ibidem. ↩︎

  11. J. Serra Hunter, Apologia de l’Ideal: conferència inaugural del curs de 1925-26 a l’ateneu de Girona, Tipografia d’El Autonomista, Girona 1926, p. 7. ↩︎

  12. Ivi, p. 11. ↩︎

  13. J. Xirau, El sentido de la verdad, in Id., Obras completas, edición de R. Xirau, Anthropos, Barcelona 1998- 2000, vol. I, p. 42. ↩︎

  14. J. Xirau, L’amore e la percezione dei valori, traduzione di N. Bombaci, Morcelliana, Brescia 2012, p. 69. ↩︎

  15. J. Xirau, Il problema dell’essere e l’autonomia dei valori, in Id., Il fugace e l’eterno e altri scritti di filosofia sulla crisi, a cura di N. Fioraso, Asterios, Trieste 2017, p. 55. ↩︎

  16. Ibidem. ↩︎

  17. J. Xirau, Il fugace e l’eterno, in Id., Il fugace e l’eterno, p. 101. ↩︎

  18. Ivi, p. 104. ↩︎

  19. Ivi, p. 107. ↩︎

  20. Ivi, p. 120. ↩︎

  21. Ivi, p. 121. ↩︎

  22. Nicol, Il problema della filosofia ispanica, p. 190. ↩︎

  23. Ivi, p. 182. ↩︎

  24. Ibidem. ↩︎

  25. Ivi, pp. 183-184. ↩︎

  26. Gaos, Filosofía mexicana de nuestros días, p. 287. ↩︎

  27. Nicol, Il problema della filosofia ispanica, p. 185. ↩︎

  28. Ibidem. ↩︎

  29. Ivi, p. 189. ↩︎

  30. E. Nicol, Crítica de la razón simbólica, Fondo de Cultura Económica, México D. F. 1982, pp. 138-139. ↩︎

  31. J. Xirau, Il volume del tempo (Il tempo e le sue dimensioni), in Id., Il fugace e l’eterno, p. 124. ↩︎

  32. Nicol, Crítica de la razón simbólica, p. 122. ↩︎

  33. J. Xirau, El sentido de la verdad, p. 64. ↩︎

  34. Ivi, p. 71. ↩︎

  35. Xirau, L’amore e la percezione dei valori, p. 64. ↩︎

  36. Nicol, Crítica de la razón simbólica, p. 135. ↩︎

  37. J. Fuster, Un cert dèficit de filosofia, in Id., Obres Completes, Edicions 62, Barcelona 1968-1977, vol. IV, pp. 342-343. ↩︎