Fraternità: tra legge e mistero

1. La crisi del diritto

La finalità di questo articolo è quella di riflettere attorno al tema della fraternità. Nostra opinione è che, oggi più che mai, il tema si imponga come centrale per lo sviluppo della nostra civiltà. Il diritto, ambito che modernamente era stato presentato come medium universale di emancipazione è entrato ormai da quasi un secolo in una profonda crisi di legittimità. Perfino un universalista come Habermas ammette l’insufficienza del diritto come mezzo di regolazione sociale e la differenza tra legittimità e legalità.1 Questa crisi non è una realtà apparsa all’improvviso. Già nel XIX secolo la critica marxista aveva scalzato il diritto dal trono in cui il pensiero hegeliano l’aveva posto, affermando che la politica — e la sua incarnazione oggettiva: il diritto — non erano che sovrastruttura, e che la struttura reale dell’ontologia presente era l’economia.

Da allora, poco è cambiato. La filosofia del diritto sembra subire, lentamente, la stessa sorte che toccò alla teologia dopo la rivoluzione cartesiana: una progressiva perdita di centralità negli interessi e nella produzione filosofica e culturale contemporanei. Se si vuol trovare una spiegazione per questi fenomeni, bisogna prima riuscire a definire il cuore, il nucleo del diritto. La miglior definizione del compito del diritto, della sua finalità, ci viene per mano dei rivoluzionari francesi. Il diritto è ciò che deve portare nel mondo Libertà, Uguaglianza e Fraternità. Una spiegazione della crisi potrebbe quindi essere la difficoltà nel realizzare questi propositi.

Il diritto non ha saputo proporre, negli ultimi due secoli, sistemi effettivi di realizzazione per un avanzamento sostanziale della civiltà. In realtà, ed è sotto gli occhi di tutti, un progressivo miglioramento rispetto alla situazione socio-economica e politica di fine ’700 c’è stato. Quello che è invece mancato è un cambiamento drastico: la fine di ogni guerra o di ogni ingiustizia, l’avvento dello Stato di Diritto Universale, l’emancipazione mondiale o l’avvento del Regno di Dio sulla Terra… In questo senso, non esiste oggi una critica aggressiva al diritto: pochi osano mettere in dubbio la sua utilità come mezzo di regolazione sociale, semmai, tendono a sminuirne l’importanza e dimenticarlo. Ciò che viene meno è la credenza che, attraverso il diritto, sia possibile una riconciliazione finale, il raggiungimento di uno stato di benessere grazie al quale finiscano le più importanti privazioni umane.

Un esempio di questa tendenza contemporanea è la posizione di Vattimo.2 La sua critica non è infatti ostile alla «razionalità contemporanea» in quanto «irrazionale», superabile attraverso un cambiamento che annulli le sue contraddizioni interne — e quindi al diritto, come mezzo di materializzazione della razionalità,3 secondo un’idea moderna di stampo hegeliano. Non si tratta di superare la razionalità — o il diritto — con un altro mezzo di emancipazione universale,4 ma di vedere i limiti di questo mezzo dall’esterno: non si critica Tarski5 per una sua incoerenza,6 ma perché, nell’applicazione reale del suo principio, è sempre colui che detiene il potere a decidere la realtà. Il problema del diritto non risiede in una sua mancanza, in una sua debolezza, ma nel fatto che la sua coerenza interna è comunque ed in ogni caso schiava del gioco di potere. La razionalità è, secondo un’idea nietzscheana, un terreno di scontro politico.

Il diritto continua quindi, in qualche modo, ad essere il mezzo più universale d’espressione della razionalità, ma questa stessa razionalità è stata oggetto di critica: s’è persa, come direbbero Horkheimer e Adorno,7 la fede nella ragione. Se il diritto ha perso legittimità come mezzo di emancipazione universale, se la ragione è stata segno di una critica spietata, è per l’incapacità che negli ultimi due secoli si è dimostrata nel tentativo di applicare la formula «Libertà, Uguaglianza, Fraternità». Rispetto ai due primi concetti, la storia della filosofia ci propone sufficienti riflessioni e la Storia esempi concreti di applicazione. L’idea di Fraternità è invece più sconosciuta, indefinita, e per questo, a nostro modo di vedere, rappresenta l’anello debole di questa catena.

Nostra intenzione è quindi il cercare una definizione o, quanto meno, delle buone esemplificazioni che ci aiutino a comprendere l’essenza della fraternità. Solo attraverso questa discussione sarà possibile — forse — un nuovo interesse per il diritto e una nuova autocoscienza politica. Nelle nostre ricerche, abbiamo individuato un periodo fortemente interessante rispetto a questo tema: si tratta della Grecia a cavallo tra l’VIII e il VI secolo a. C. Ci proponiamo quindi una breve escursione nel mondo presocratico alla ricerca di esempi e proposte che possano aiutarci in questo nostro tentativo di recupero di un dinamismo intellettuale che riproponga con forza il tema dell’emancipazione nel panorama filosofico e politico contemporaneo.

2. La nascita della polis

Ci interessa ora avere un quadro generale sulla situazione greca a partire dal VIII secolo a. C. circa. Questo periodo, infatti, si caratterizza per un dinamismo che è tipico delle situazioni non anchilosate: la vecchia società è già superata, ma la polis non ha ancora un discorso ideologico preciso e un metodo consolidato di creazione e gestione dell’identità sociale degli individui. Lo spettro è quindi aperto a più proposte: in questa dinamica intellettuale cercheremo di individuare alcune piste per la definizione della fraternità.

Caduta la civiltà palaziale micenea, stretta attorno alla figura del anax, il re, la società greca rimane composta da due attori sociali: l’aristocrazia e il popolo. Nel fragile equilibrio politico fra queste due fazioni si iscrive la nascita della polis. Questa sorge, secondo Vegetti, dalla necessità della classe aristocratica di disporre di maggior coordinazione per far fronte alle minacce di un popolo sempre più numeroso.

La città si era formata, a partire dall’VIII secolo, sotto la spinta di processi lunghi e complessi. Da un lato, l’espansione demografica e lo sviluppo di attività non direttamente legate all’agricoltura — il commercio, la produzione artigianale — che richiedevano una localizzazione urbana; dall’altro, la necessità di concentrazione e coordinamento avvertita dalle grandi casate aristocratiche per consolidare il proprio potere di controllo su una società ormai più mobile, più complessa, più articolata all’interno e all’esterno, di quella agricola centrata sull’oikos padronale. Ma la stessa esistenza materiale della città, e gli scopi sociali per i quali essa era formata, imponevano una sua ulteriore trasformazione, da semplice aggregato urbano, esito di sinecismi quasi inerziali, a comunità politica sovrana; imponevano quindi — per quanto ora ci interessa — lo sviluppo di una attrezzatura ideologica, morale, giuridica, capace di rendere pensabile, riconoscibile, dunque anche fruibile, l’esito dei processi profondi che avevano lentamente ristrutturato la società arcaica.8

Quest’opera di adeguamento e modernizzazione che la nascita della polis comporta, implica inevitabilmente un cambiamento morale e culturale che, sul piano politico-oggettivo, si manifesta con una serie di provvedimenti legislativi. La nuova situazione sociale provocò, inoltre, un cambiamento rilevante nella costruzione identitaria personale. Laín Entralgo caratterizza il passaggio tra il VIII e il V secolo a. C. come il passaggio da una società basata sull’onore ad una basata sulla colpa.9 Questo dato ci permette di comprendere meglio la situazione greca. Se vogliamo estrarre dal diritto greco valide considerazioni sulla fraternità perché possano aiutarci nel dibattito politico contemporaneo, non possiamo prescindere da una contestualizzazione culturale, etica e religiosa dell’antica Grecia.

Le spiegazioni di questo possibile cambiamento sono due, una di carattere socioeconomico e l’altra più intimamente famigliare. In generale, assistiamo al passaggio da un’economia di sussistenza ad un’economia mercantile — con conseguente sviluppo delle città, dei trasporti, delle comunicazioni e quindi mescolanza delle culture e nascita della tradizione filosofica. Tutto questo si riflette, all’interno della famiglia greca, in un sostanziale cambiamento dei ruoli. Non si può dimenticare il carattere assolutamente patriarcale della famiglia greca.10 Di fronte alla nascita della democrazia e alla caduta del modello politico tirannico, i figli iniziano a vivere uno sdoppiamento della propria vita: da una parte, continuano ad essere obbedienti e rispettosi del proprio padre, ma al contempo iniziano a sentire la necessità di una maggiore autonomia e libertà: sono questi gli anni della nascita del mito di Edipo. Come possiamo vedere, questo sdoppiamento tra obblighi sociali e pulsioni personali è l’inizio di tutte le più celebri caratterizzazioni contemporanee: la disgiunzione freudiana tra Es e Super-io, la distinzione nietzscheana tra il dionisiaco e l’apollineo, la caratterizzazione di una società nevrotica come la nostra. In questo senso, gli autori citati contribuiscono a creare un vincolo potente e una grande riflessione sulle similitudini tra la società greca e la contemporaneità.

In un mondo profondamente religioso11 com’era la società greca, iniziano ad apparire curatori e santoni — maestri della catarsi, della purificazione — professionalizzati.12 In questo senso, possiamo comprendere lo sviluppo di diversi movimenti religiosi non olimpici — alternativi o comunque esterni al culto apertamente olimpico — come una manifestazione del malessere famigliare e sociale13 di allora: i figli, non potendo ribellarsi apertamente al padre, si ribellano alla figura di Zeus, abbracciando i culti misterici, l’orfismo o le sette dionisiache. Il malessere famigliare trova una manifestazione simbolica nel discredito della religione olimpica:14 non si tratta di un’aperta rivoluzione contro la figura di Zeus, ma di una perdita di centralità di questa figura, che non viene apertamente osteggiata ma che vede limitato il proprio potere d’imposizione e la propria autorevolezza autoritaria.

3. Orfismo e pitagorismo: diete e purificazioni

Data la loro rilevanza in temi politici, sociali e culturali — successivamente vedremo la stretta relazione tra santoni, saggi, curatori e legislatori nel difficile compito di creazione di un’identità culturale — non possiamo prescindere da una descrizione spicciola di due dei movimenti religioso-sapienziali più conosciuti e longevi — l’orfismo e il pitagorismo. Questo appartato non è perciò un semplice esercizio di erudizione, ma anzi riveste un’importanza capitale nel descrivere le necessità spirituali dell’epoca oggetto del nostro studio. Non potremmo capire le formulazioni greche della fraternità senza conoscere prima l’ambiente spirituale. Nella modernità si sono separati due ambiti che in epoche anteriori erano ancora uniti: quello della legge e quello della mitologia, a sostegno della legge. Nessuna legge può presentarsi autonomamente alla società, tutte necessitano invece dei racconti, delle situazioni che le giustifichino non solo da un punto di vista razionale ma anche emotivo. Così, mitologia e legge, spiritualismo e diritto non possono essere scissi — e per questo, ora, affronteremo il brevemente il tema dell’orfismo e del pitagorismo.

Prima di addentrarci in quest’universo di misticità parallela al culto cittadino, è bene notare che la religione olimpica è l’esatta riproduzione della polis greca — gli dei olimpici sono infatti il prolungamento illimitato degli eroi aristocratici — e infatti è diretta solo ai cittadini.15

L’orfismo è una religione che nasce attorno alla figura di Orfeo, un poeta mitico che nacque undici generazioni prima della guerra di Troia e che visse tra nove e undici generazioni.16 Secondo la leggenda, egli fu il primo mortale a compiere un viaggio nella terra dei morti e tornare, raccontando così i segreti dell’aldilà. L’orfismo si caratterizza quindi come una religione di prevenzione: si tratta di istruire l’iniziato ai segreti perché riceva un buon trattamento nell’oltretomba — gli oggetti orfici più caratteristici sono infatti «istruzioni» che si seppellivano insieme al morto, perché non dimenticasse ciò che doveva o non doveva fare una volta la sua anima fosse arrivata nell’Ade. Come possiamo vedere, questa dottrina — in aperta contrapposizione alla religione olimpica — è fortemente influenzata dalle dottrine indoiraniche dell’immortalità e dai culti sciamanici sciiti.17

Fra le caratteristiche più polemiche tra l’orfismo e la religione olimpica troviamo il rifiuto dei sacrifici: secondo gli orfici, l’uomo è frutto di una doppia natura: l’anima del dio Dioniso e il corpo dei Titani. Questi, gelosi del potere del dio appena nato, lo assassinarono. Infuriato per questo gesto, Zeus li fulminò, uccidendoli all’istante. Dalla mescolanza tra le ceneri dei Titani e l’anima del dio bambino assassinato nacquero gli uomini — che devono così scontare in vita la pena della parte malvagia dei propri progenitori.

Sulla stessa lunghezza d’onda, il pitagorismo si caratterizzò come movimento filosofico-vitale durante molti secoli. Del suo fondatore, Pitagora, sappiamo che fu una figura «mitologica»: oltre a farsi credere morto per 3 anni, salvo poi riapparire nel mondo dei vivi,18 compì vari miracoli. Tra questi, possiamo annoverare il conoscere il carico di una nave («Vedrete che questa nave vi porta un morto»), l’uccisione di un serpente velenoso — morso dal filosofo —, l’ubiquità, una coscia d’oro e una relazione privilegiata con l’aquila bianca.19 Tra le sue dottrine — tramandate solo oralmente e per questo giunte fino a noi per via indiretta — troviamo l’immortalità dell’anima e la sua trasmigrazione, una teoria che Pitagora ereditò dalla mistica egizia.

Gli Egizi per primi affermarono che l’anima dell’uomo è immortale, e che al perire del corpo emigra in un altro degli esseri che nascono di volta in volta. E quando essa sia passata attraverso tutti gli esseri, terrestri marini e volatili, rinasce di nuovo nel corpo di un uomo; e questo giro per essa si compie in tremila anni.20

Per questo, i pitagorici rifiutavano non solo i sacrifici, ma anche il consumo di carne, e predicavano la salvezza dell’anima attraverso esercizi e diete vegetariane. Questi esempi ci hanno aiutato a caratterizzare l’ossessione per la salvezza — non solo fisica, ma anche animica e religiosa — che contraddistingue il periodo tra il VIII e il V secolo a. C.

4. Tra catarsi e legislazione

Quest’introduzione al variegato mondo della religiosità e della mitologia greca dovrebbe aver dato abbastanza spunti per capire che, tanto tra l’VIII e il VI secolo a. C. come tra il XX e il XXI secolo d. C. la costruzione di un’identità sociale e collettiva sia una priorità importante nella vita quotidiana delle persone. L’antica Grecia, come i nostri anni, assistono alla caduta dell’ideologia dominante — l’etica omerica, che equivale per noi alle grandi ideologie del XIX secolo. Si crea dunque una situazione di atomizzazione e disperata ricerca di una nuova identità, prima su un piano mistico e poi, lentamente, su uno culturale e finalmente politico e giuridico. Ma se in Grecia elementi culturali e mistici si fondono con conseguenze politiche e giuridiche, non abbiamo motivo per credere che per noi le cose andranno diversamente.

Per continuare la nostra riflessione sul concetto di identità socio-culturale e sulla sua applicazione politica — la fraternità — ci serviremo della figura di Epimenide. Questi fu un saggio greco che visse tra l’VIII e il VII secolo a. C. e arrivò alla veneranda età di 154, 157 o 299 anni.21 Di lui si racconta22 che avendo smarrito una pecorella del gregge, fu a cercarla e non trovandola si addormentò. Dopo aver dormito per 57 anni (o 60, secondo altre fonti) si svegliò e, pensando di essersi addormentato per pochi minuti, tornò a casa. Passato il disorientamento iniziale, Epimenide riuscì a farsi riconoscere dal proprio fratello minore ormai invecchiato. Da quel giorno fu considerato come persona cara agli dei da tutti i greci.

Fu a lui, infatti, che si rivolse la città di Atene — colpita dalla peste — per una catarsi collettiva. Epimenide arrivò in città e, riuscendo a carpire dal passato informazioni sconosciute ai più, compì un rituale che aiutò a liberare la città dal morbo. Come ricompensa gli ateniesi vollero donargli una nave e denaro, ma il saggio rifiutò, chiedendo in cambio la stipulazione di un patto d’amicizia tra Atene e Cnosso.

Questo aneddoto ci permette di vedere lo stretto vincolo che, in epoca antica, univa i temi religiosi e di salvezza personale a quelli politici e legislativi. Questa relazione è probabilmente il dato più importante che abbiamo a disposizione per poter carpire un qualche aspetto della fraternità. Epimenide, amico di Solone, lo aiutò inoltre a rendere gli ateniesi ben disposti ai riti sacri e in generale più moderati nel lutto.23 Il lutto ricopre un ruolo essenziale nell’ambito della fraternità. È attraverso la relazione con la morte dei propri parenti che possiamo estrapolare considerazioni sul grado di unità e solidarietà di un determinato collettivo.

5. Lutto, omicidio e fraternità

Uno degli aspetti più importanti e simbolici nella storia del diritto greco è la regolazione delle vendette e degli omicidi.

La legislazione sull’omicidio segna il momento in cui l’assassinio cessa di essere un affare privato, un regolamento di conti tra gene; alla vendetta del sangue, limitata a una cerchia ristretta, ma obbligatoria per i parenti del morto, che può generare un ciclo fatale di omicidi e di contro-omicidi, si sostituisce una repressione organizzata nel quadro della città, controllata dal gruppo, e in cui la collettività si trova impegnata come tale. Questa universalizzazione della condanna del crimine, l’orrore ora ispirato da ogni specie di uccisione, l’ossessione del miasma che il sangue versato può rappresentare per una città, per un territorio, l’esigenza di un’espiazione che è in pari tempo una purificazione dal male, tutti questi atteggiamenti sono legati al risveglio religioso che si manifesta nelle campagne con l’impulso del dionisismo e che in ambiti più specializzati assume la forma di un movimento di sette, come gli «orfici».24

Il fatto che l’omicidio diventi non più una questione privata, di famiglia — intesa come relazione di sangue — ma collettiva, implica un certo cambiamento nella mentalità sociale. In qualche modo la comunità assume i privilegi e la posizione che prima era occupata dalla famiglia. L’orizzonte di obbedienza e fedeltà del singolo non è più circoscritto al solo legame famigliare, ma inizia a estendersi a tutta la città d’appartenenza. Il singolo non è più, come nelle società aristocratiche primitive, membro di un clan che — per circostanze di pragmatismo politico — si struttura dentro una collettività più grande, ma assume la propria identità individuale come appartenente, in primo luogo, alla propria città.

L’amore per la propria comunità si sviluppa in diversi ambiti e viene favorito dalle opere di legislatori e purificatori — come Solone ed Epimenide: non deve sorprendere che, in questo nuovo fervore comunitario, il saggio rifiuti una ricompensa individuale chiedendo invece un patto che favorirà le due comunità e aumenterà il prestigio di Cnosso, la sua città. Questo amore è, in realtà, ciò che noi intendiamo come fraternità.

La città smette di essere pensata come mera collettività di soggetti ed inizia ad assumere un carattere di famiglia, di comunità solidale e unita. Clinia — un cretese — mentre parla allo Straniero di Atene fa riferimento ad Epimenide dicendo: «Forse hai sentito dire che qui visse un tempo Epimenide, un uomo divino, il quale era nostro parente».25 Il riferimento ad un conterraneo come parente è l’esatta manifestazione di questa tesi. Il conterraneo non è più solamente un concittadino — così come un moderno potrebbe intendere quest’espressione — ma assume un carattere sopra-razionale. Non si tratta di condividere gli stessi diritti, di vivere nello stesso ambito geografico, ma di assumere un ruolo d’importanza e addirittura d’affetto nella vita degli altri.

6. Fraternità e uguaglianza, cittadino e parente

Il conterraneo è un fratello — questo è il senso della fraternità. Un parente non è solo e strettamente qualcuno con cui si condividono una serie di diritti — e quindi qualcuno con il quale ci si relaziona su di un piano razionale, così come succede invece per il concittadino. Non bisogna però pensare che l’uguaglianza e la fraternità siano due idee assolutamente separate e distinte. Ma procediamo con ordine. Il cittadino può sentirsi tale grazie all’uguaglianza, che si presenta come condivisione di alcuni diritti e principi, norme di vita e trattamento sociale.

Il luogo «medio» e neutro occupato dalla legge, il suo essere «uguale» (homoios) anche per chi resta socialmente diverso, fanno sì che i cittadini si eguaglino nella comune appartenenza alla dimensione politico-giuridica; che, al di là delle differenze individuali, di ceto e di censo, essi, in quanto cittadini, acquistino una omogeneità di fondo non solo di fronte alla legge ma proprio mediante la legge.26

Il compito del legislatore greco, rispetto alla comunità politica, è prima di tutto costitutivo. La legge deve assumersi il compito di eguagliare — non necessariamente in modo reale, economico e sociale, ma almeno giuridico e simbolico — i vari componenti della città. Solo a partire da quest’uguaglianza di diritti — che altro non è se non il riconoscimento dell’altro come fine in sé stesso e non solo come mezzo, secondo l’espressione kantiana dell’imperativo categorico — è possibile pensare alla città come a uno spazio umano. Una città in cui non esistessero cittadini, in cui appunto non si desse l’uguaglianza di diritti — una sorta di isocrazia simbolica — non sarebbe se non un’agglomerazione di case senza trascendenza. Se di città si può parlare è appunto perché esiste una certa unità al di là della pluralità.27 Quest’unità è data dalla legge, che stabilisce i termini dell’uguaglianza cittadina.

Non è necessario che la legge stipuli un’uguaglianza rigida — reale, allo stile spartano —, essa può anche affermare la disomogeneità dei componenti della città. In ogni caso, una cosa è certa: solo può esister legge laddove questa si presenta come serva della giustizia, di Dike, e cioè cerchi di dare uguale agli uguali. Nel caso di una società meritocratica, giusta è la possibilità di dare di più ai più meritevoli, e meno ai peggiori. Aristotele, definendo la giustizia, si sofferma sull’idea d’uguaglianza e di cittadinanza. Come si può notare, legge, giustizia e uguaglianza vanno di pari passo nella costituzione della cittadinanza.

Cerchiamo, dunque, di afferrare quanti significati ha il termine «uomo ingiusto». Si ritiene comunemente che ingiusto sia chi viola la legge, cioè chi cerca di avere più degli altri e che non rispetta l’uguaglianza, sicché è chiaro che giusto sarà chi rispetta la legge e l’uguaglianza. Dunque, la nozione di «giusto» sarà quella di «ciò che è conforme alla legge» e «ciò che rispetta l’uguaglianza», quella di «ingiusto» sarà di «ciò che è contro la legge» e di «ciò che non rispetta l’uguaglianza».28

Il primo passo per la costituzione di una comunità politica è quindi il riconoscimento dell’uguaglianza e la decisione dei criteri di applicazione pratica di questo principio. Ma non è tutto. La razionalità e il diritto non possono adempiere, soli, al benessere a alla crescita prosperosa di una comunità. Il passo seguente è d’ordine non più funzionale — legislativo — ma bensì culturale, ed opera nella formazione dell’identità. Questo secondo passo non può però pensarsi se non in continuazione e collaborazione con la stesura di leggi giuste. Infatti, come ben ricorda De Romilly, « [nomos] Il se rattache manifestement à la racine de nemô, qui veut dire partger (encore que le rapport sémantique avec nemô soit parfois difficile à préciser); et il désigne, en fait, toute espèce de règle en toute espèce de domaines. »29

La creazione di una percezione famigliare della città e della comunità passa quindi, in primo luogo, per l’esistenza stessa della comunità. Una volta stabilite le leggi d’uguaglianza — e cioè avendo stabilito i principi e le condizioni di possibilità della polis e della libertà individuale30 — si può procedere alla fraternizzazione della società. Per farlo, occorrono delle gesta epiche e simboliche — come il rifiuto della ricompensa personale di Epimenide —, gesta che scuotano l’animo delle persone, che non arrivino solo alla loro mente, ma che creino orgoglio d’appartenenza che è il senso stesso della fraternità. Non si tratta di un patriottismo — inteso come superiorità della propria patria rispetto alle altre, e quindi, in senso negativo — ma di un senso d’appartenenza di carattere positivo e propositivo.

7. Parmenide: legge, giustizia e rituali

Un ulteriore esempio di questa necessità di costruzione tanto dell’uguaglianza come della fraternità è l’opera di Parmenide. Filosofo del VI secolo a. C., Parmenide nacque e visse ad Elea, città fondata dai focei.31

Rampollo di una delle grandi famiglie aristocratiche di Elea, «pitagorico», sia pure in senso lato, Parmenide non avrebbe potuto non occuparsi di politica; era anzi automaticamente candidato a svolgere un ruolo di punta nel governo della sua città. In effetti ne fu addirittura il legislatore: per generazioni e generazioni i magistrati di Elea continuarono a giurare fedeltà all’ordinamento da lui stabilito, con un rito che si ripeteva all’inizio di ogni anno, al momento della loro entrata in carica; il geografo Strabone (I-II secolo d. C.) sosteneva che se Elea, nonostante il numero limitato dei suoi abitanti e la ristrettezza territoriale in cui versava, era riuscita per secoli a opporsi validamente alle mene aggressive dei potenti vicini, Lucani e Posidoniati, gran parte del merito andava ascritto alla solidità della costituzione datale da Parmenide e perfezionata da Zenone.32

Tutta l’opera di Parmenide è centrata sugli aspetti che abbiamo delineato in questo articolo: nel suo poema, lo stesso concetto chiave della sua metafisica — l’essere — è tenuto in posizione dalle catene della giustizia. Dike è colei che apre le porte del Tartaro, le porte dove si uniscono i sentieri del giorno e della notte, oltre le case della Notte — da dove provengono le accompagnatrici di Parmenide in questo viaggio —, colei che giudica e decide, che blocca o lascia passare. In base al volere di Dike, l’universo stesso prende forma.

Là fui portato. Infatti, là mi portarono accorte cavalle / tirando il mio carro, e fanciulle indicavano la via. / L’asse dei mozzi mandava un sibilo acuto, / infiammandosi — in quanto era premuto da due rotanti / cerchi da una parte e dall’altra —, quando affrettavano il corso nell’accompagnarmi, / le fanciulle Figlie del Sole, dopo aver lasciato le case della Notte, / verso la luce, togliendosi con le mani i veli dal capo. / Là è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno, / con ai due estremi un architrave e una soglia di pietra; / e la porta, eretta nell’etere, è rinchiusa da grandi battenti. / Di questi, Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi che aprono e chiudono.33 E neppure dall’essere concederà la forza di una certezza / che nasca qualcosa che sia accanto ad esso. Per questa ragione né il nascere / né il perire concesse a lui la Giustizia, sciogliendolo dalle catene, / ma saldamente lo tiene.34

Non solo la giustizia occupa i pensieri del filosofo. Questi vincola la propria opera politica a una riflessione metafisica sul senso dell’essere. Così, ritroviamo in Parmenide diversi elementi interessanti: giustizia, legge, politica e quindi cittadinanza e uguaglianza, ma anche metafisica, rituali, descrizioni mitiche e linguaggio poetico, e quindi creazione di un pathos, di una epica delle proprie idee. Invece di presentare le proprie riflessioni come tali, come semplici elucubrazioni mentali che vuol rivolgere ai propri concittadini, Parmenide organizza una fitta trama di denso significato simbolico — infatti sceglie di scrivere in versi con uno stile epico.35

Il dato fondamentale su cui bisogna riflettere è che siamo a conoscenza di due opere del filosofo eleata: il poema e la costituzione della propria città. Non possiamo quindi pensare ad una delle due opere come una creazione assolutamente separata dall’altra, ma anzi, possiamo addirittura supporre che il poema sia in qualche modo la giustificazione teorica delle leggi emanate. Non dobbiamo però pensare ad una giustificazione teorica solo in senso razionale, ma anche, appunto, una genealogia epica. Il proemio al poema è la storia del viaggio che Parmenide compì al Tartaro, al regno dell’oltretomba, nel quale vide le strutture invisibili che regolano l’ordine dell’universo. È grazie a questo viaggio che il filosofo può arrogarsi il titolo di legislatore e saggio: perché egli ha appreso direttamente dagli dei ciò che doveva sapere per poter regolare in modo giusto la propria città.

In questo modo il saggio fonda un ordine costituzionale basato su un’identità epica in cui tutti i cittadini di Elea possono riconoscersi. Non è casuale che i magistrati della città dovessero ogni anno giurare sulla costituzione durante un rito: all’inizio dell’anno, il ciclo di vita che regola la quotidianità, corrisponde anche all’inizio del ciclo politico. Cultura e politica, identità e legalità, fraternità e uguaglianza vanno di pari passo nell’ordinamento dettato da Parmenide.

8. Conclusione

Siamo partiti constatando lo stato di debolezza ed abbandono in cui versa il diritto oggi. Lontano dalla propria origine di medium per l’emancipazione culturale, questi sembra essere un semplice strumento del potere costituito cui — in situazioni di scarso conflitto sociale — non dare troppa importanza. Il disinteresse rispetto al diritto è una conseguenza della forza dello Stato. Dal XVIII secolo ad oggi, infatti, lo Stato ha assunto una struttura sempre più solida che ha condotto la società civile a considerarlo come «una costante sempre presente» e non più come «un’opera umana» da preservare. Lo Stato, nel suo periodo di forza, non necessita l’amore dei propri cittadini. Ma è proprio quando l’amore dei cittadini verso lo Stato inizia a scemare che questi entra in crisi.

Possiamo rappresentare la storia dello Stato con una serie di parabole: lo Stato debole — come nella Grecia presocratica — abbisogna della Fraternità, dell’amore, necessita della cura della gente. Lo Stato forte, invece, si fa vanto del fatto che non necessita l’amore di nessuno per esistere36 ma, una volta che questo amore è scemato del tutto, inizia una spirale discendente in cui lo Stato importa sempre meno ed è sempre meno funzionale. In quest’ultima fase — nella quale ci troviamo attualmente — nascono movimenti culturali che rivendicano una nuova forma d’identità parallela o alternativa allo Stato: il cosiddetto «risveglio della società civile». Se queste nuove forme d’identità riescono con successo a rispondere alle sfide del proprio tempo, iniziano a formalizzarsi e cristallizzarsi in una nuova organizzazione politica: inizia un’altra parabola dello Stato.

Il periodo di gestazione della polis greca è quindi un esempio importante del compito che ci aspetta oggigiorno: ricostruire un’identità collettiva e, a partire da questa nuova forma di vita, cambiare le istituzioni, lo Stato e il diritto, riuscendo così — almeno per un breve periodo — a realizzare la triade Libertà, Uguaglianza, Fraternità.

Per affrontare le sfide che ci aspettano dobbiamo capire le lezioni del passato. Per costruire la nuova struttura sociale gli antichi legislatori si sono avvalsi delle leggi per creare una situazione di uguaglianza e stabilire così la figura del cittadino, per poi collaborare con curatori e poeti epici nella creazione di un’identità collettiva che trasferisse l’ordine d’appartenenza dalla famiglia di sangue alla famiglia cittadina, creando così la fraternità tra i membri della comunità politica.

La fraternità si delinea quindi come un aspetto culturale e identitario d’appartenenza ad una patria — in questo caso ad una città-stato. Essa non può esistere senza l’uguaglianza, stabilita dalle leggi come applicazione della giustizia, a sua volta condizione e risultato della libertà politica che si gode nella polis. Libertà, Uguaglianza e Fraternità sono dunque facce di una stessa moneta. A livello sociale, l’uguaglianza è garantita dalle leggi e dalla giustizia — intesa come giusta proporzione: dare ugualmente agli uguali —, a livello politico, la libertà è la possibilità che gli uguali hanno di esprimere il proprio punto di vista nella gestione delle proprie vite individuali e collettive mentre a livello culturale, la fratellanza crea vincoli di solidarietà che mantengono coesa questa comunità.

Questa triade di concetti rappresenta la più alta aspirazione umana:37 sostituire alla famiglia naturale — in cui esiste una gerarchizzazione necessaria, in quanto i ruoli sono definiti e rigidi: un figlio non sarà mai padre del proprio padre — una famiglia culturale, in cui ogni individuo si senta rispettato e riceva in modo equo rispetto a ciò che è capace di dare. Se la storia umana deve avere un senso, questi non può che essere la realizzazione di libertà, uguaglianza e fraternità.


  1. Per approfondire la comprensione di questo aspetto, rimandiamo alla raccolta di articoli (tradotti in spagnolo): Jürgen Habermas, La necesidad de revisión de la izquierda, Tecnos, Madrid, 1991. ↩︎

  2. Gianni Vattimo, Addio alla verità, Meltemi, Roma, 2009. ↩︎

  3. In Addio alla Verità Vattimo cerca, infatti, di esporre l’idea del rifiuto della verità come un tema assolutamente politico: la sua tesi è che se si vuole evitare il platonismo politico — la tecnocrazia — e proteggere la democrazia, l’unica possibilità di farlo è abbandonando la pretesa di una verità oggettiva — una verità che autorizzi il suo detentore ad azioni di educazione anche forzata rispetto a coloro che ignorano questa verità. ↩︎

  4. Un superamento di questo genere continuerebbe infatti a perpetrare la logica moderna secondo cui esista un mezzo attraverso cui costruire uno stato di «fine della storia», sia questo il diritto — in Hegel — o l’economia — in Marx. ↩︎

  5. Il principio di Tarski afferma che «P» è vero se e solo se P, e cioè, che si possa affermare che «piove» dicendo la verità se e solo se effettivamente piove. Il problema è che, in casi più complessi, questa distinzione tra il «nome» e la realtà vengono meno. Vattimo si chiede: quando posso dire realmente che una cosa è buona o cattiva? E più in generale, chi è la persona preposta a definire cosa realmente è e cosa invece non è reale? Questo principio, secondo Vattimo, racchiude in sé l’essenza della lotta di potere nel campo dell’epistemologia. Potente è chi può definire socialmente la verità. ↩︎

  6. E cioè, ancora, non si vuole proseguire «razionalizzando» sempre più la razionalità, perfezionando la dinamica, continuando sulla via del progresso, ma, al contrario, si pretende uscire da questa dinamica e quindi non «superare» la razionalità (infatti la categoria del superamento è essenzialmente intrinseca alla razionalità). ↩︎

  7. Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, La dialéctica de la Ilustración, Trotta, Madrid, 2009. Si veda in special modo il primo capitolo. ↩︎

  8. Mario Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma, 2010, pp. 38-39. ↩︎

  9. Un’altra caratteristica fondamentale che segna l’origine di un cambiamento importante è il declino dell’idea di un soggetto autonomo. Dice Laín Entralgo (la traduzione è nostra): «La coscienza d’esser partecipato da potenze sconosciute ed esterne — ricordino che il daímon nacque nella cultura greca in quel periodo — si manifesta visibilmente nei greci posteriori ad Omero.». Pedro Laín Entralgo, La curación por la palabra en la antigüedad clásica, Anthropos, Barcelona, 2005, p. 39. ↩︎

  10. Una famiglia che ricorda molto la descrizione archetipica che Freud utilizza in Totem e tabù. Cfr. Sigmund Freud, Totem e tabù, Bollati Boringhieri, Torino, 1985. ↩︎

  11. Una differenza interessante tra la nostra società contemporanea e quella greca antica è infatti la forma di concettualizzazione: se noi tendiamo infatti ad astrarre — creando così costruzioni ideali: il suono che diventa una serie di onde e frequenze diverse — i greci tendevano invece a personalizzare — e il rumore delle spade in battaglia diventava il grido di rabbia di Ares. In questo senso, non dobbiamo intendere la profonda religiosità della Grecia classica come un sintomo di primitività — da un punto di vista positivista — ma semplicemente come una forma differente di concettualizzazione. ↩︎

  12. Che rivestiranno, come vedremo, un ruolo fondamentale nella creazione di un’identità collettiva aiutando l’opera dei legislatori. ↩︎

  13. Non dobbiamo pensare alla mitologia greca come una creazione letteraria apolitica. Gli dei rappresentano, nella propria caratterizzazione, i pregi ed i difetti della classe aristocratica dei tempi di Omero, e si distinguono da essa solo per la propria immortalità: un dio olimpico è un nobile che non muore né si stanca. La religione greca fu quindi la rappresentazione della società arcaica e la solidificazione dei vincoli aristocratici: ogni famiglia nobile pretendeva infatti discendere lontanamente da un eroe mitico. Questa caratterizzazione così chiaramente antropocentrica è stata oggetto di critica da parte di filosofi d’epoca posteriore come Senofonte. Per uno studio più approfondito su questi aspetti, consigliamo il testo di Vegetti in Jean-Pierre Vernant (ed.), L’uomo greco, Laterza, Roma, 2010. ↩︎

  14. E, in questo senso, la colpa psicologica si percepisce come colpa religiosa: sono innumerevoli i gruppi e le religioni minoritarie che prescrivono diete e purificazioni per redimersi. Tra le più famose, citeremo gli esempi dell’orfismo e del pitagorismo, che tratteremo in seguito. ↩︎

  15. La particolarità di questo interesse centrato sulla figura del cittadino è la totale dimenticanza della questione antropologica: non esiste, nella religione olimpica, una trattazione del tema della morte. Di questo si occupavano — in una relazione di integrazione e non di competizione — i misteri — dei culti notturni che agglutinavano tanto cittadini, come donne, schiavi e stranieri, accomunati tutti dalla stessa problematica: la morte. Paradossalmente, quindi, i misteri erano più aperti e frequentati del culto ufficiale olimpico, professato solo dai cittadini. ↩︎

  16. Orfeo, 1 A1 DK. Per i frammenti presocratici prediamo in considerazione l’edizione Giovanni Reale (ed.), I presocratici, Bompiani, Milano, 2008. ↩︎

  17. Cfr. Maria Michela Sassi, Gli inizi della filosofia: in Grecia, Bollati Boringhieri, Torino, 2009. ↩︎

  18. Pitagora, 14 A2 DK. ↩︎

  19. Pitagora, 14 A7 DK. Interessante notare come, in base a questi elementi, Pitagora fosse chiamato dai suoi concittadini Apollo Iperboreo — ricordiamo infatti che Apollo era considerato dai greci come il dio dei curatori. Cfr. Peter Kingsley, Nei luoghi oscuri della saggezza, Marco Tropea Editore, Milano, 2001. ↩︎

  20. Pitagora, 14 A1 DK. ↩︎

  21. Le differenze segnalate dipendono da una divergenza delle fonti che riportano quest’informazione. ↩︎

  22. Epimenide, 3 A1 DK. ↩︎

  23. Epimenide, 3 A4 DK. ↩︎

  24. Jean-Pierre Vernant, Le origini del pensiero greco, SE, Milano, 2007, p. 74. ↩︎

  25. Platone, Leggi, I, 642d — 643a. ↩︎

  26. Mario Vegetti, L’etica, cit. alla nt. 6, p. 45. ↩︎

  27. Perché, come direbbe Plotino, l’uno salva l’essere: non potremmo parlare d’esistenza della città se questa non fosse in qualche modo «una» pur essendo divisa in una molteplicità di elementi. ↩︎

  28. Aristotele, Etica nicomachea, libro V, 1129b. ↩︎

  29. Jacqueline De Romilly, La lois dans la pensée grecque, Les Belles Lettres, Paris, 2002, p. 14. ↩︎

  30. Perché, come ci ricorda Hobbes nel Contratto sociale, l’uomo solo e disorganizzato — nello stato di natura — non è libero, ma anzi, schiavo della paura e impossibilitato a progredire. «[…] lo stato naturale degli uomini, prima che si riunissero in società, era la guerra; non solo, ma una guerra di tutti contro tutti. Cos’è infatti la guerra, se non il tempo in cui si dichiara a sufficienza, con le parole e con i fatti, la volontà di lottare con la forza? Il tempo restante si chaima pace. Si giudicherà facilmente quanto poco una guerra perpetua sia idonea alla conservazione del genere umano, e di ciascun individuo.» Thomas Hobbes, De Cive, Editori riuniti, Roma, 1989, 1, 12-13. ↩︎

  31. La storia di Elea è alquanto interessante: i Focei, una popolazione della costa anatolica, erano abili naviganti e commercianti che si spinsero per primi oltre lo stretto di Gibilterra, verso nord e verso sud. Dominatori del mediterraneo, intrattenevano relazioni con Persiani, Fenici, Egizi, Africani e Spagnoli. Durante l’invasione persiana, i focei caricarono tutti i propri simboli sacri sulle navi e abbandonarono la città, in modo che i conquistatori non trovassero che strade deserte. Poi, quando a Focea non rimaneva che una legione di guardia e il grosso dell’esercito persiano era avanzato per continuare la conquista, i focei ritornarono e massacrarono i nemici. Infine partirono, giurando di non tornare più indietro. Questo popolo fiero e orgoglioso della propria libertà — il nome stesso indica la loro similitudine con le foche: essi infatti sembravano vivere sulle navi, ripudiando la stabilità e le limitazioni di una vita stanziale — dopo varie peripezie fondarono due colonie nelle quali portarono le proprie tradizioni mistico-religiose: Elea in Italia e Marsiglia in Francia. ↩︎

  32. Giovanni Cerri, Parmenide, poema sulla natura, Rizzoli, Milano, 2009, p. 51. ↩︎

  33. Parmenide, 28 B1 DK. ↩︎

  34. Parmenide, 28 B8 DK. ↩︎

  35. Questa scelta di stile è importante per vari motivi. Parmenide avrebbe infatti potuto scrivere in prosa o in un altro stile poetico. Invece scelse la poesia epica, una poesia che dai tempi di Omero era servita per proporre un’identità collettiva, sociale e culturale, che era servita ad uno scopo chiaramente politico. Se a questo uniamo il fatto che siamo a conoscenza del compito politico che Parmenide ebbe nella sua città, non possiamo che sospettare che dietro questa scelta stilistica vi sia una chiara intenzione politica: dare ai propri concittadini un’epica in cui riconoscersi e creare così una nuova fraternità tra gli eleati. ↩︎

  36. Infatti lo Stato forte bandisce la violenza e la vendetta nella repressione del crimine: non applica la legge del taglione ma vigila per rispettare i diritti umani e la possibilità di reinserimento dei carcerati. ↩︎

  37. Un’aspirazione che, probabilmente, è destinata a rimanere tale. Libertà, Uguaglianza e Fratellanza sono infatti orizzonti e non luoghi geografici concreti: non si può identificarli stabilmente e fissarli in un punto preciso ma solo tendere ad essi. ↩︎