Marco Damonte, Homo orans. Antropologia della preghiera, Fondazione Centro Studi Campostrini, Verona 2014.
La monografia di Marco Damonte, dottore di ricerca in filosofia e docente a contratto presso il Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia dell’Università di Genova, affronta il complesso tema del rapporto tra esseri umani e preghiera. Il progetto dell’autore è ambizioso e, al contempo, affascinante da molti punti di vista; due su tutti: da un lato, nel saggio con cui si apre il lavoro, egli mira a proporre una ragionevole filosofia del pregare in chiave antropologica,1 ovvero concepisce la preghiera come atto proprio degli esseri umani, in quanto soggetti caratterizzati dalla dimensione dell’intenzionalità; dall’altro, Damonte non si limita ad illustrare le sue tesi e a portare argomenti a loro supporto, ma, nella seconda parte del lavoro, dialoga con illustri esperti di diversa provenienza culturale, impreziosendo il saggio con l’analisi di svariate dimensioni della preghiera secondo la prospettiva dell’esperto intervistato. Il risultato di questo progetto innovativo, a cui si aggiunge una terza parte dedicata a dettagliati riferimenti bibliografici, è indubbiamente notevole, poiché ci consente di entrare nel cuore di una delle domande più affascinanti di chi professa una fede religiosa, stimolando alla riflessione filosofica sui problemi più sottili del rapporto tra essere umano e preghiera anche quanti sono più lontani dalla fede.
La prima parte del lavoro di Damonte, quella in cui l’autore articola la sua proposta di una nuova antropologia della preghiera, si apre con una lucida analisi dello stato attuale della questione circa la relazione tra gli esseri umani e il pregare come atto. La necessità di rivalutare questo gesto è data dal rendersi evidente di una serie di criticità — assenza di tempo, inutilità dell’atto, pretesa di autosufficienza da parte dell’essere umano — che ne hanno, almeno apparentemente, sminuito la portata e che hanno condotto, di conseguenza, ad una disaffezione nei confronti della preghiera. Tuttavia, l’universalità del pregare — ovvero il fatto che si preghi in ogni parte del mondo — e la perennità del gesto — cioè la sua persistenza nel tempo e resistenza ad ogni tipo di evento (l’autore nota, a tal proposito, che [d] opo Auschwitz si può pregare, perché ad Auschwitz si è pregato)2 — sono lì a dimostrare che le criticità del rapporto tra esseri umani e preghiera possono, e devono, essere superate. Di fronte alle mutazioni del fenomeno del pregare nella modernità (Damonte considera, tra le molte premesse al declino della preghiera, l’umanesimo di Marsilio Ficino, l’Illuminismo, l’idealismo trascendentale di Hegel e il soggettivismo di Schleiermacher), che ci hanno lasciato in eredità il modello di homo technologicus, in grado di superare (quasi) ogni ostacolo attraverso il progresso della tecnica, la filosofia e, in particolare, l’antropologia filosofica ha la capacità, quindi il compito, di sottrarre il pregare alla sfera della tecnica e ribadire che la vita umana è sempre al cospetto dell’Altrove.3
Damonte afferma di fondare il suo lavoro su un solo presupposto teoretico, cioè quello di considerare la preghiera un’esperienza realmente comunicabile e commensurabile con altre,4 condizione necessaria per poter sviluppare una autentica filosofia della preghiera. Vi è almeno un secondo presupposto — questa volta metodologico — nella proposta dell’autore, ovvero la scelta di non far proprio un unico metodo filosofico, ma, al contrario, di valorizzare quegli aspetti della fenomenologia, dell’ermeneutica, del pensiero wittgensteiniano, della filosofia analitica della religione e del personalismo antropologico, che sono funzionali all’obbiettivo generale del lavoro.
Nel secondo paragrafo del capitolo speculativo, l’autore enuclea il cuore della sua antropologia della preghiera, mostrando che le due principali forme di preghiera — quella di richiesta e quella di lode — sono entrambe azioni che obbligano ad uscire da se stessi5 e, pertanto, fanno emergere la dimensione relazionale dell’essere umano, quell’intenzionalità di cui non possiamo parlare, ma che possiamo wittgensteinianamente comprendere quando intraprendiamo il gioco linguistico tipico della religione, cioè il pregare.6 Nella prospettiva che Damonte difende, l’antropologia di stampo wittgensteiniano consente di superare la visione di un’essenza pura della preghiera,7 che, in quanto espressione autentica dell’intenzionalità umana, non segue l’essere religiosi, né lo postula8 come sua condizione di esistenza. È la dimensione relazionale del nostro essere umani che permette a chiunque abbia un interesse per l’attività del pregare il riflettere su di essa e il comprenderne il significato, a prescindere dall’essere religiosi e/o praticanti. Così si spiega perché il compito della filosofia non è giustificare la preghiera, ma chiarirla9: l’intenzionalità su cui si fonda il gesto della preghiera nella concezione di Damonte coincide con lo strumento per analizzare e comprendere il pregare. L’autore non nasconde una conseguenza evidente di una simile antropologia della preghiera: la dimensione relazionale che sta al fondamento del pregare richiede — in un certo senso, impone — all’essere umano di intraprendere quel rapporto dialogico con l’Altrove che la nutre. In questo senso, pregare significa de-centrare il sé e lasciare spazio all’Altrove: così Damonte vorrebbe dimostrare che la distinzione metodologica tra preghiera di richiesta e preghiera di lode svela due facce della stessa medaglia, dove la richiesta coincide con il desiderio di conformità alla volontà dell’Altrove, mentre la lode diventa desiderio di adeguazione.10
Nel terzo paragrafo del saggio, l’autore analizza i tratti peculiari della persona orante, in primo luogo mettendone in luce le diverse sfaccettature del suo squilibrio ontologico, tanto nella tensione moderna tra intelletto e ragione, quanto nelle più attuali forme dell’indifferenza, del cinismo, della rassegnazione, che non intaccano la cifra nostalgica della sua natura.11 Le altre dimensioni del soggetto orante su cui Damonte si sofferma includono il linguaggio, nella sua forma più autentica del parlare a Dio, piuttosto che «parlare di Dio,12 caratterizzato inoltre dalla precedenza dell’ascolto e dunque dalla presenza, quasi paradossale, del silenzio;13 la libertà che l’atto del pregare genera sia nella richiesta, che favorisce il processo di liberazione14 del soggetto orante, sia nella lode, che afferma la dignità della persona umana e con essa esalta la sua libertà;15 la socialità del gesto della preghiera che, anche quando eseguito in solitudine, dialoga con l’Altrove e si unisce alla comunità degli oranti nel tempo e nello spazio; il tempo che è richiesto dalla preghiera, ma anche il tempo che l’atto di pregare dilata, fino a renderlo memoria; infine, la conoscenza, quella conoscenza diretta della realtà — come entrare in relazione, non come decifrare per controllare16 — che la preghiera è in grado di fornire alla persona orante, per cui, come direbbe Wittgenstein, pregare è pensare al senso della vita.17
L’autore dedica, poi, il paragrafo Prospettive ad una serie di affondi teoretici, dall’analisi della relazione tra preghiera e fede, a quella del valore performativo della preghiera, soffermandosi sulla dimensione del sacrificio che contraddistingue quanti vivono la preghiera come un habitus e, in conclusione, sull’equilibrio tra tempo dell’attesa, dilatato dalla preghiera, e tempo dell’azione, che espone la persona orante al rischio dell’attivismo. Segue la conclusione del saggio, una Apologia della preghiera in cui Damonte richiama i nodi fondamentali della sua antropologia della preghiera e ci consegna l’immagine di un homo orans come viandante, soggetto aperto alla realtà e, per questo, alla continua ricerca della relazione con l’Altrove.
Come anticipato, al saggio speculativo fa seguito una ricca sezione dedicata all’approfondimento di innumerevoli aspetti della filosofia della preghiera proposta dall’autore, attraverso il dialogo con numerosi esperti. Anche in questo caso, colpisce l’ampio respiro dei temi trattati e la profondità dei contributi raccolti da Damonte: sulla portata filosofica dell’analisi e della proposta dell’autore, discutono Letterio Mauro, che si concentra sulle articolazioni storiche della filosofia della preghiera; Domenico Venturelli, che approfondisce il rapporto tra filosofia critica e religiosità; Damiano Bondi, che riflette sul tema del personalismo antropologico; Silvano Zucal, che specifica il contributo del pensiero dialogico al tema della preghiera; Mario Micheletti, il quale considera il ruolo della preghiera nella discussione interna alla filosofia di matrice analitica; e, infine, Paolo Vignola, che si concentra sul problema del pregare all’interno del cyberspazio, fatto di mondi e profili virtuali che si sovrappongono alla realtà. Una seconda linea tematica sviluppata dall’autore nelle sue interviste è quella dedicata al valore della preghiera nelle varie religioni: di esso tratta il dialogo con Claudio Doglio, che analizza i Salmi, così come quelli specificamente dedicati ad una particolare religione, con Roberta Aluffi (islam), Alberto Pelissero (induismo) e Gianfranco Bonola (buddhismo). Il cristianesimo può costituire un filone di approfondimento a sé, che Damonte sceglie di sviluppare dedicandovi un’altra serie di interviste: con Adalberto Mainardi discute del ruolo della preghiera nel dialogo interreligioso; con Guidalberto Bormolini della preghiera nel mondo giovanile; ad Angela Tagliafico chiede di specificare la relazione tra preghiera e mistica, mentre dell’esperienza monastica discute con Daniela Turato. Particolarmente interessanti sono le due interviste che l’autore conduce con esperti di linguaggio quali Marina Sbisà (filosofia del linguaggio) e Mariano Bianca (semiotica e teoria della comunicazione), poiché esse ci testimoniano l’importanza di un’analisi «laica» della preghiera come mera forma di comunicazione e dimostrano, pertanto, l’attenzione di Damonte per tutti i minimi dettagli della filosofia del pregare, inclusi quelli più lontani dalla dimensione della fede religiosa. Alla preghiera come espressione di un linguaggio che si fa cultura sono ancora dedicate le interviste a Roberto Mastacchi, che analizza il rapporto tra arte e preghiera, Marco Gozzi, che si concentra sull’espressione musicale della preghiera e, infine, Dario Edoardo Viganò, che ne descrive l’espressione cinematografica.
Questa breve ricostruzione delle linee essenziali del percorso di Homo orans mira a far emergere il valore del lavoro svolto da Damonte. Mi pare doveroso sottolinearne tre aspetti di pregio, a mio avviso indiscutibili: in primo luogo, esso dà un contributo alla riflessione di molte tipologie differenti di lettore — dal filosofo, al religioso praticante; dall’ateo interessato al fenomeno della preghiera, allo studioso di teologia — e lo fa in maniera veramente affascinante, costruendo ciò che è essenziale per reggere l’impalcatura della sua antropologia della preghiera e lasciando ai dialoghi il compito di rifinire i dettagli, di dipingere la facciata e arredare gli interni della sua proposta filosofica. Altrettanto saggiamente, l’autore sottolinea l’importanza dell’accostarsi liberamente alle varie interviste, lasciando che sia la prospettiva di partenza del lettore, il suo bagaglio culturale e di esperienza, a guidarlo nell’esplorazione della filosofia della preghiera.
Il secondo merito di questo lavoro è quello di riuscire a scendere nel dettaglio delle varie sfaccettature dell’antropologia della preghiera senza ridurne la portata e senza perdere eccessivamente in chiarezza concettuale. Volendo fare una critica all’autore, il presupposto metodologico da cui parte è però eccessivamente ambizioso e riuscire a rendere conto di tutte le correnti su cui questa filosofia della preghiera dovrebbe fondarsi è impresa forse troppo ardua. Questa difficoltà sembra trasparire nel paragrafo Prospettive, che non riesce a mantenere l’organicità dei capitoli precedenti del saggio e potrebbe dare al lettore un senso di smarrimento. Tuttavia, nel complesso, non vi è rischio di mancare i nodi fondamentali del percorso attraverso cui Damonte guida il lettore, né di sottovalutare la molteplicità e la ricchezza delle caratteristiche che il pregare come fenomeno e come gesto porta con sé. Anzi, ciò che traspare dalla proposta teoretica dell’autore — così come dal metodo del dialogo che egli adopera nella seconda parte — è la netta e realistica consapevolezza della necessità di non rinchiudere l’analisi filosofica della preghiera in categorie pre-costituite e destinate a rimanere immutabili, ma di privilegiare un atteggiamento di apertura e di attenzione al contributo che qualsiasi prospettiva è in grado di portare.
C’è, in conclusione, un aspetto di questo lavoro che l’autore — forse modestamente — sceglie di non sottolineare e che ritengo assolutamente pregevole. Mi riferisco alle domande che esso riapre, alla sfida che lancia tanto ai singoli lettori quanto alle correnti filosofiche e alle varie discipline che hanno (o dovrebbero avere) a che fare con la preghiera, dagli studi sul pensiero wittgensteiniano, all’ermeneutica, dalla fenomenologia al personalismo antropologico. Per non parlare delle svariate discipline con cui una autentica filosofia della preghiera deve essere in grado di dialogare, come dimostrano le interviste condotte da Damonte. A tutte queste correnti e a ciascuno dei lettori è chiesto di confrontarsi con una proposta filosofica limpida, che non rinuncia ad un’analisi concettuale laica del fenomeno della preghiera, né alla valorizzazione degli aspetti più legati all’esperienza di fede religiosa. Mi sia permesso condividere l’auspicio che la sfida lanciata dal lavoro di Damonte venga raccolta dai lettori e che il contributo offerto da Homo orans sia valorizzato in future discussioni.
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Damonte, Homo Orans, cit., p. 9. ↩︎
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Ivi, p. 21. ↩︎
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Ivi, p. 32. ↩︎
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Ivi, p. 37. ↩︎
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Ivi, p. 45. ↩︎
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Il riferimento è a L. Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, Einaudi, Torino 1995, I, 23, pp. 21-2. ↩︎
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Damonte, Homo Orans, cit., p. 54. ↩︎
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Ivi, p. 55. ↩︎
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Ivi, p. 56. ↩︎
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Ivi, p. 63. ↩︎
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Ivi, p. 71. ↩︎
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Ivi, p. 75. ↩︎
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Ivi, p. 77. ↩︎
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Ivi, p. 80. ↩︎
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Ivi, p. 82. ↩︎
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Ivi, p. 91. ↩︎
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L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1998, p. 217. ↩︎