Il male all’origine del soggetto e l’io all’origine dell’essere nella filosofia di Jean Nabert

1. Jean Nabert: un filosofo ai margini della vita accademica

Tra i filosofi francesi del ventesimo secolo, il nome di Jean Nabert non è certamente tra quelli che hanno goduto o che godano oggi di una notorietà eclatante. Tuttavia la traccia da lui impressa nel pensiero filosofico francese contemporaneo non è andata dissolvendosi come nel caso di molti altri autori.

Nato nel 1881, Jean Nabert è vissuto ai margini della vita accademica francese. Amico di G. Marcel, di L. Lavelle, fu professore presso il Liceo di Saint-Lo e di Brest. Partecipò alla Prima Guerra Mondiale dalla quale rimase ferito, fisicamente, ma anche spiritualmente. Successivamente insegnò in diversi licei parigini, tra cui il Luis-le Grand, il Lakanal e l’Henri IV. Nel 1944 fu nominato ispettore generale per l’insegnamento della filosofia e successivamente direttore della biblioteca Victor Cousin.

L’opera di questo filosofo sembrerebbe essere connotata dal medesimo carattere discreto e rigoroso con cui i suoi contemporanei e amici hanno ricordato e descritto la sua persona.1 Le tre opere pubblicate in vita, ossia Exepérience intérieur de la liberté (1924), Éléments pour une éthique (1943), Essair sur le mal (1955), non hanno mai cessato di essere presenti nella filosofia francese. La pubblicazione postuma, del materiale che il filosofo francese stava preparando per quella che avrebbe dovuto essere la sua ultima opera — materiale che è stato riunito e pubblicato sotto il titolo Le désir de Dieu (1966) — ha contribuito alla rinascita di approfonditi studi di tutto il suo pensiero.2

Nabert viene tutt’oggi considerato come il più autorevole esponente, del ventesimo secolo, di quella filosofia riflessiva i cui contorni egli stesso contribuì a delineare in maniera definitiva stendendo la voce Philosophie réflexive per l’Encyclopédie francaise. Certo Nabert non raggiunse, vivente, gli allori della notorietà internazionale, ma in Francia non pochi pensatori furono influenzati dalle sue opere e tutt’ora dichiarano il loro debito nei suoi confronti. Dopo la sua morte, l’interesse per le sue riflessioni è andato superando i confini della sua terra natìa.

Oggi si ritiene che la sua ripresa sia indispensabile proprio per la radicalità con cui s’impegnò a portare ai suoi limiti estremi la filosofia della coscienza. Tutto un filone del pensiero filosofico occidentale, quello appunto della filosofia riflessiva, sembra confluire nelle sue speculazioni, e qui raggiungere un notevolissimo livello di sintesi. Sulla scorta dello stesso Nabert, è possibile distinguere due filoni principali del pensiero riflessivo: uno derivante da Kant e preoccupato soprattutto della formulazione di una teoria del sapere e dell’io trascendentale, l’altro attento alle espressioni della interiorità dell’io nelle esperienze pratiche della vita.^[3]Se pure Nabert dichiara espressamente di essere discepolo del secondo, ripropone nelle sue riflessioni tutte le istanze critiche del metodo Kantiano. Infatti l’analisi riflessiva applicata alla conoscenza e quella applicata all’agire si presentano inevitabilmente come complementari e necessarie, onde evitare il puro intellettualismo e lo sterile irrazionalismo. Da qui l’attenzione di Nabert alle esperienze e agli atti in cui si manifesta la soggettività dell’io, attenzione che si colloca in un piano etico da cui svilupperà la sua riflessione sul male.

Nel saggio Ermeneutica dei simboli e riflessione filosofica, Paul Ricœur ricorda che «storicamente la visione etica del male sembra segnata da due grandi nomi, Agostino e Kant».3 Nabert scruta l’abisso della nascita della libertà collocandola nella coscienza in quanto causalità libera e impura perché causalità di una coscienza empirica, finita. Finitezza che è il male, che non connota la soggettività ma che ne è l’origine. In Nabert, piuttosto che di libertà minata all’origine, parliamo di atto della causalità impuro nell’origine, impurità che è la causalità della coscienza e che, fin dagli Éléments pour une éthique, conduce e da corpo a quello che, accanto al male e alle esperienze negative della colpa, dello scacco e della solitudine, è l’altro grande polo in cui si gioca il valore dell’opera nabertiana: la giustificazione di ciò che per sua natura è ingiustificabile.4

2. L’analisi coscienziale e l’ermeneutica filosofica.

Il rapporto tra il male e la libertà è antico quanto l’uomo e si può affermare che per Nabert tra i due concetti vi sia una congiunzione ermeneutico-esistenziale che, grazie alla filosofia riflessiva, si rende esplicita nel percorso dell’uomo. È possibile parlare di congiunzione ermeneutico-esistenziale, infatti, proprio perché il percorso compiuto da Nabert non è caratterizzato da un’analisi regressiva, propria della riflessione filosofica e quindi, da un’analisi rivolta al passato e alla ripresa di una volizione per comprendere la decisione e i motivi di un atto. La via intrapresa dal filosofo francese è invece, quella dichiarata e perciò rivolta al futuro, ma molto attenta a non lasciar cadere sul piano dei fatti le idee che nascono dall’atto e, grazie alle quali è possibile risalire alle motivazioni che lo hanno permesso.

La filosofia riflessiva, infatti, rappresenta il percorso tramite il quale si costituisce il soggetto e grazie al quale questo può cogliere le leggi e le norme dell’attività spirituale presente in ogni dominio. Proprio per questo il percorso riflessivo si sviluppa a partire dalle esperienze esistenziali del soggetto, esperienze che destano la necessità nella coscienza di comprendersi, e di farlo a partire dalle esperienze negative che distruggono la soggettività, e che Nabert individua nelle esperienze della colpa e dello scacco riconducibili al peccato, e all’esperienza della solitudine legata al male di secessione. Il soggetto a partire dalle esperienze negative può scoprire le proprie caratteristiche: la finitezza e la libertà.

La finitezza si esplica in quello che Nabert definisce il male di secessione che si individua sempre in un rapporto lacerato da un atto malvagio: l’uccisione o la menzogna; è il male che rappresenta l’interruzione di un rapporto di reciprocità. Proprio il concetto di reciprocità rappresenta il superamento della formula cartesiana del cogito ergo sum che non soddisfa la certezza di sé perché, che io sono me ne assicura il pensiero, ma che cosa sono posso comprenderlo solo considerando la mia diversità dagli altri: l’io senza l’altro non è. Una coscienza, stando a Nabert, è tale solo in virtù del rapporto reciproco che intrattiene con le altre coscienze perché all’origine le coscienze sono legate da un principio unitivo che le fa essere tali e questo principio non è una res trascendente, ma una figura originaria: l’Uno. La finitezza non si determina in seno ad un paragone dell’io con il suo stesso principio ontologico, bensì rappresenta un limite insito nell’uomo che emerge nell’incapacità di eguagliare il suo essere al suo dovere. Infatti, spesso riaffiora nell’individuo il sentimento di insicurezza nonostante si sia data una risposta positiva alla legge morale. Proprio per questo l’Essair sur le mal si apre proprio con l’accusa di inadeguatezza delle leggi morali rispetto alla giustificazione del male: una coscienza che subisce il male, anche dopo averlo sussunto sotto un dovere essere, non smette di accusarne l’ingiustificabilità. Quindi l’ingiustificabilità del male è l’irriducibilità del male stesso di fronte al quale il riferimento ad un dover essere fallisce. Nonostante ciò, rispetto al male radicale descritto da Kant come l’esistenza di una tendenza depravata e radicata nell’uomo derivante dall’esperienza e che, in quanto tale, si presenta insufficiente a scrutarne la natura, Nabert non si ferma di fronte alla impenetrabilità del male, ma ne scopre la potenza euristica proprio a partire dalle esperienze negative che rendono il soggetto consapevole di non essere (realmente o effettivamente) ciò che è (assolutamente). Questa affermazione esprime il significato di un’esperienza emozionale alla quale nessun uomo può sottrarsi, esperienza che è l’affermazione dell’esistenza nella coscienza di una forma di Assoluto alla quale si risale attraverso le travail d’exhaustion che permette alla coscienza di comprender-si. Infatti, venendo meno ogni risorsa della legge morale rispetto al male, la coscienza è spinta, dal desiderio di trascendenza, a cercare ciò che rende autentica la sua reazione al male, partendo proprio dalla domanda: Qui suis je? Domanda con cui nasce la riflessione e il soggetto che, esaurendo l’immediatezza estrinseca, giunge a cogliere quella forma assoluta che è Assoluto Spirituale.

La comprensione e il soggetto nascono in virtù del negativo, perché nella negatività l’io coglie la certezza assoluta della sua esistenza che è Affermazione Originaria in virtù della quale la coscienza può comprender-si proprio perché quel «si» della comprensione e il suo senso stanno nell’assolutezza che può essere conosciuta solo nella coscienza stessa.

La finitezza, dunque, è da considerarsi non come il risultato di una opposizione tra finito e infinito, ma come ciò che è finito e concreto e che è percorso e attraversato da una tendenza ad essere infinita. La finitezza è tale in seno ad una positività che attraversa il soggetto. L’«io sono» è da considerarsi tanto in rapporto all’io finito (Moi) che in rapporto all’io puro (Je) che è affermazione assoluta da cui scaturisce la Positività della Finitezza. L’io opera al legame tra la coscienza pura e quella empirica, legame che lo rende soggettività che è proprio l’operazione di divenire coscienza di sé. Infatti, da un lato non esiste una coscienza di sé che non sia anche coscienza dell’affermazione originaria; dall’altro l’io concreto coglie la propria finitezza nell’uguaglianza tra il suo essere e il suo dovere, perciò il nostro essere è sempre ineguaglianza a se stesso. È questa la crasi storica in cui nasce la soggettività e in cui si innesta il male. E il problema del male è sempre legato alla tematica della libertà e al manifestarsi di quest’ultima nell’azione dell’individuo.

La libertà è rivelata dall’esperienza del peccato che si individua sempre in funzione di una norma contravvenuta, infatti già a partire dalla «critica al Patto Antico» sollevata da Paolo emerge la necessità di capire se sia la legge in funzione del peccato o il peccato in funzione della legge,

che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non per mezzo della legge […]. Ma sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha preso vita ed io sono morto; la legge che doveva servire per la vita, è divenuta per me motivo di morte.5

La legge impone un divieto, una proibizione. La legge è quel «no» che da vita alla libertà umana e al tempo stesso si rivolge ad essa: perché rimette all’arbitrio dell’uomo l’ubbidire o il disubbidire al «no».

La proibizione di Dio è il primo «no» della storia del mondo. La nascita del «no» e la nascita della libertà sono congiunte, infatti l’uomo con il libero arbitrio potrà ignorare il divieto e dire «no». La conseguenza di ciò sarà che l’uomo potrà dire di no anche a se stesso. Infatti, sottolinea Nabert, una coscienza che agisce contro una norma è una coscienza che nega a se stessa di aver già deciso contro la legge, per questo la libertà con cui è compiuto l’atto non è che la concretizzazione di una libertà Prima che altro non è se non compiacenza dell’io per sé. Il fatto che questa compiacenza a sé sia posta in atto dalla nostra libertà, è il segnale che il vero rifiuto è quello operato nei confronti del vero sé e che la libertà è radicata nel soggetto e in una causalità che non è sottomessa alle leggi della natura, ma in una causalità generatrice di libertà, cioè nella causalità della coscienza. Infatti, già nel 1924, in Exepérience intérieur de la liberté, Nabert si propone di sottrarre la libertà al piano cosmologico e quindi alla contingenza che va posta, necessariamente, in relazione alle leggi di natura. In questo modo la contingenza si presenta come strumento capace di creare una opposizione tra una causalità sottomessa alle leggi della natura e una causalità generatrice di libertà. Nabert perviene alla causalità della coscienza attraverso la distinzione tra il sentimento del libero arbitrio e l’esperienza della libertà.

Il sentimento del libero arbitrio affonda le sue radici nella coscienza ed è impossibile determinare la sua apparizione indipendentemente dalla deliberazione o dalla scelta soggettive, infatti il libero arbitrio partecipa delle leggi della rappresentazione, ed è qui che in modo molto garbato Nabert supera la concezione spinoziana affermando che il libero arbitrio non può essere spiegato facendo riferimento all’ignoranza delle cause dei nostri atti, bensì connettendolo ad un atto reale della coscienza e quindi alle leggi di rappresentazione immaginativa: più ampie sono le possibilità di azione che immaginiamo di avere e più intenso sarà il sentimento del libero arbitrio.

Rispetto all’esperienza della libertà Nabert, ritenendo di non poterla dedurre attraverso la ragione, ma soltanto nell’esperienza, abbandona la lettura speculativa e metafisica ripensando la nozione di causalità che, a questo punto, deve essere confrontata con l’istanza psicologica, perché la libertà non coinvolge soltanto il soggetto ma anche la sua azione. L’azione che si concretizza nell’atto è determinata dalle motivazioni che, attraverso l’analisi riflessiva, risultano essere conseguenza dell’atto. Proprio per questo il filosofo francese insiste sulla comune origine dell’atto e delle motivazioni individuando una duplice natura del motivo: contemporaneità all’atto di cui è espressione e partecipazione alle rappresentazioni in cui è tutt’uno con i fatti psicologici. La simultaneità dell’atto e dei motivi, l’affermazione che l’atto rinvii al motivo e che quest’ultimo spieghi l’atto stesso, avvia un processo ermeneutico che permette di superare la contrapposizione kantiana tra fenomeno e noumeno attraverso la causalità della coscienza. Il mondo della coscienza trova il luogo della sua rappresentazione nei motivi, per questo la filosofia riflessiva di Nabert considera l’azione e l’atto compiuto come il testo da cui partire per risalire alla causa dell’atto, la coscienza. Alla base di una decisione, per Nabert, vi sono una serie di motivi che, in quanto causati dalla coscienza, muovono il soggetto. Tutti questi motivi che restano allo stato di possibilità sono atti incompiuti della coscienza e, poiché all’origine della deliberazione vi è la coscienza stessa, allora anche essa è un atto incompiuto. L’essere atto incompiuto costringe la coscienza ad articolarsi nella vita psicologica ed è per questo che si delinea il distacco tra il mondo oggettivo e il mondo della coscienza, cioè tra l’intelletto e la ragione. Il Nostro rispetto a questo supera la concezione biraniana secondo la quale l’attività della coscienza rappresenta una forza iperorganica del corpo legata allo sforzo muscolare, sottolineando che la volontà si relaziona con i segni e con i motivi e per nulla affatto con il sistema muscolare.

Già Kant aveva avvertito l’insufficienza di un intelletto ordinatore della sensibilità, per affermare il bisogno di sottrarre la libertà al tempo (per eccellenza categoria dell’intelletto). In effetti la concettualizzazione dei motivi ci nasconde la qualità dell’intenzione e questo è attestato dal sentimento d’insicurezza che si prova, spesso, nonostante si sia data risposta positiva alla legge morale. E proprio nell’Essair sur le Mal si parlerà della causalità impura che narra la storia di un atto che per sua natura resta incompiuto. Ed è proprio l’aggettivo «impura» che serve a Nabert per esautorare ogni ragione del male che sia estrinseca alla coscienza dell’uomo.

La causalità impura non è ancora il male realmente compiuto, bensì ciò che ne orienta la definizione, proprio perché il male non si colloca nelle tendenze della natura a cui potrebbe cedere l’uomo, perché tali tendenze sono consustanziali alla preferenza dell’io a sé. La causalità è sempre causalità di un atto, ma è «impura» fin dalla sua radice perché in ogni azione e in ogni atto c’è sempre una compiacenza dell’io a sé. Quindi l’impurità è intrinseca alla coscienza e non è il male il quanto tale perché, affinché quest’ultimo si verifichi, occorre la volontà di operarlo; ma anche una buona azione è impura perché tale è la coscienza che la origina.

3. Colpa, scacco e solitudine.

Dopo che Adamo ed Eva mangiarono il frutto dell’albero, dice la Bibbia, «si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture».6 Improvvisamente l’uomo si vede dall’esterno, non si sente più al sicuro nel proprio corpo e riflettendo scopre che, così come lui si vede, lo vedono anche gli altri. Inizia il dramma della visibilità e la prima reazione è quella di tornare nell’invisibilità. Chi per il sentimento del peccato vorrebbe sparire, non desidera soltanto cancellare l’atto compiuto, ma se stesso in quanto autore di esso. Ecco perché «la sofferenza legata al peccato attesta, tuttavia, che quest’ultimo riguarda il rapporto dell’io con se stesso e l’approfondimento di tale rapporto segna il passaggio dall’esteriorità all’interiorità».7

Il sentimento del peccato è strettamente legato a quello della colpa che, così come viene interpretato dalla psicologia moderna, è un sentimento di autocondanna rispetto ad un’azione specifica (che non doveva compiersi e si è compiuta o viceversa); il rimedio è connesso alla confessione, alla ricerca del «perdono» e, quando è possibile, alla riparazione. Il sentimento della colpa provoca un senso di avversione e di condanna verso il proprio sé percepito come deficitario, imperfetto, inadeguato, come qualcosa che «non va». «Da quel momento la coscienza sembra assillata dall’alternativa: o di non separare più la causalità dell’io dall’azione compiuta, o di sconfessare se stessa e, dimenticando, di tentare una sorta di rottura con il suo essere».8 Il sentimento del peccato è strettamente intrecciato con il sentimento della colpa e ne ripercorre gli stadi dello sviluppo. Così al carattere puramente oggettivo, esterno e sociale della colpa, corrisponde una concezione del peccato come realtà malvagia.

Nel momento in cui la coscienza viene intesa come irriducibilità dell’agire umano a sequenze di eventi puramente oggettivi, necessari e inevitabili, a causa dell’emergere dell’interiorità soggettiva, e, di conseguenza, della responsabilità e della coscienza etica, il peccato viene interiorizzato e, a quel punto, corrisponde alla coscienza morale della colpa. Tuttavia nel sentimento della colpa l’effettività dell’azione compiuta e l’oggettività dell’ordine infranto contano molto meno della coscienza dalla quale è stato guidato l’agire. In Élements pour une éthique, Nabert sottolinea come il sentimento della colpa — irriducibile al ricordo di un’azione determinata contraria ad una regola, né appagato dal compimento stesso del dovere — pur essendo relativo a dei valori morali, è supportato e sostenuto da un sentimento d’ineguaglianza dell’essere a se stesso. Il sentimento della colpa, infatti

si riferisce, in primo luogo, al ricordo di azioni contrarie al dovere e, inoltre, a delle possibilità di azioni a cui essa ha rinunciato; ma che, al di là delle une e delle altre, si riferisce all’esperienza d’una differenza continuamente rinascente tra ciò che costituisce realmente la causalità dell’io e ciò di cui essa dovrebbe essere capace per eguagliare l’io al suo vero essere.9

Il sentimento della colpa lascia quindi intravedere, attraverso la rottura dell’essere dell’io, la duplice relazione che intrattiene contemporaneamente, e che lo costituisce: da un lato con un non essere essenziale in cui è implicata la libertà; dall’altro con un principio assoluto dal quale l’io deriva non soltanto il suo desiderio d’essere, ma anche quello di rigenerazione.La colpa spesso è rivelata alla coscienza dallo scacco che, ad avviso di Nabert, proprio per questo, potrebbe essere interpretato come il prolungamento della colpa. Infatti per quanto concreti possano essere tali rapporti, essi non debbono indurre ad un’assimilazione tra il sentimento della colpa e quello dello scacco.

Lo scacco subìto dalla coscienza è relativo a un fine non raggiunto, alla costatazione di non essere in grado di ottenere ciò che ci si era prefissati.

Dunque, tornando al mito biblico del peccato originale, non è la conoscenza del bene e del male il male in sé, ma è male ciò che Adamo ed Eva se ne ripromettono. E quel che se ne ripromettono, suggerito dal serpente, è di divenire come Dio. «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio».10 In tal modo la conoscenza del bene e del male acquista un senso nuovo, venendo ora a significare il desiderio di essere come Dio.

È chiaro perciò che gli uomini, in grado di intendere e di volere, sono indotti in tentazione dal proprio desiderio. La libertà implica la responsabilità, ma spesso anche la volontà di sbarazzarsi di quest’ultima: Adamo scarica la colpa su Eva, che a sua volta accusa il serpente; ma Dio non accetta i pretesti né dell’uno né dell’altra. Il mito del peccato originale è, nonostante la figura del serpente, la narrazione di una vicenda che si svolge tutta tra la legge divina e la libertà dell’uomo. Infatti, «quando la coscienza non muove a se stessa l’accusa di essere andata oltre ad un divieto, essa vede nella propria iniziativa il segno di un desiderio, di un’aspirazione che avrebbe dovuto reprimere e vincere».11

Lo scacco, spiega Nabert, svela che nell’uomo il volere e il potere non sono equiestesi, perché esso si impone come una sanzione, non soltanto di fronte alla trasgressione di una regola morale, ma anche rispetto all’ignoranza di un imperativo. Nell’uomo, infatti, il volere e il potere non sono sincronizzati, egli vuole sempre di più e altro da quel che può, e può di meno ed altro da quel che vuole. All’uomo manca dunque la conoscenza di se stesso: non sa qual è il suo volere, ma conosce, per altro, il suo potere soltanto quando la sua azione, confrontata con l’idea, «non solo non la eguaglierà, ma produrrà uno scarto crescente tra l’ambizione presente nell’idea e il fatto».12 La comprensione della colpa, dello scacco, ma soprattutto del male non può prescindere, stando a Nabert, dalla costatazione della incongruenza tra le azioni dell’uomo e il suo essere autentico.

«Chi sparge il sangue dell’uomo dall’uomo il suo sangue sarà sparso».13 Dopo il diluvio universale, Dio promette all’uomo di conservare il mondo e l’uomo promette a Dio di osservare quanto da lui imposto.

Basta riflettere sul fatto che, quando Caino commise il fratricidio, Dio aveva espressamente evocato a sé il diritto di punire: «E il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato».^[15]Adesso gli uomini si tuteleranno vicendevolmente esercitando il diritto di punire. Continueranno ad essere figli in rapporto a Dio, ma tra loro sono ormai adulti e devono gestire la propria autoconservazione. L’uomo è un essere che non vive solo nel presente, ma si vede innanzi un futuro incerto e si trascina dietro il suo passato. Una volta che l’assolutismo del presente è stato rotto dalla coscienza temporale, viene meno il riparo rassicurante dell’hic et nunc. L’orizzonte del tempo diviene minaccioso e soltanto per effetto di questa minaccia incombente nasce il desiderio di potere. Il potere vuole sempre più potere; esso si consolida solo accrescendosi e accumulandosi. Questo però inevitabilmente conduce a lotte di potere, apportando un risultato contrario allo sforzo originario di cautelarsi contro il futuro.

L’istinto di autoconservazione non è altro che il desiderio di salvare, attraverso il tempo, il proprio sé, afflitto dalla coscienza della propria temporalità. Ognuno però cerca di salvarsi attraverso il tempo per conto proprio, infatti «le coscienze si chiudono, si sottraggono le une alle altre come se volessero salvare ciò che vi è in esse di contingente e di non essere».14

Il continuo bisogno di potere, espresso da persone influenti o da intere nazioni, può essere letto come una reazione alla solitudine. Nabert, sottolinea che la solitudine contiene sia la depressione sia la reazione, sia la fuga sia la ricerca; e quando l’uomo riesce a contrapporre la disperazione della vita alla speranza, si percepisce che la solitudine non è solo disperazione, ma anche speranza e forza, conquistata nel riconoscimento di una propria individualità. Per questo

l’ordine dei rapporti secondo il dovere non riguarderebbe tanto gli interessi supremi della coscienza, se esso non raffigurasse un ordine di rapporti in cui si verificherebbe una vita unitiva, che solo delle coscienze, alle quali la solitudine ha fatto conoscere il loro essere vero, pensano come possibile speranza.15

È proprio in questo modo che si ha il superamento della concezione cartesiana attraverso la necessità dell’individuo di comprendersi considerando la propria diversità dagli altri. Ecco perché Nabert individua nell’Uno il fondamento del rapporto reciproco che le coscienze intrattengono l’una con l’altra. La funzione di tale principio «non è quella di abolire la differenza tra le coscienze e di dare vita a una sorta di assimilazione delle stesse».16 Si tratta, al contrario, di fecondare lo scambio facendo perdurare «solo ciò che in esse c’è di valido»,17 ossia il riferimento ad un principio di unità immanente alle relazioni stesse, principio che in tali relazioni si verifica e ne fonda la possibilità. Una coscienza è tale solo nella reciprocità con altre coscienze: è nella comunicazione e nello scambio con gli altri che essa scopre se stessa. L’interruzione di tale comunicazione determina la chiusura della coscienza nella propria solitudine. «Nell’impoverimento della relazione di reciprocità inizia a prendere corpo l’idea che l’altro è solo ed esclusivamente un altro».18

La tensione tra gli uomini persiste. Questo accade perché l’uomo, in quanto essere dotato di coscienza temporale, si preoccupa anche della futura autoconservazione e aspira a differenziarsi dagli altri. «Ciò che il peccato è nei riguardi dell’intimità della coscienza la secessione lo è al pari nei rapporti delle coscienze le une con le altre».19

L’opera devastante che inizia con la rottura della reciprocità si compie nella solitudine dell’io per il quale

ritirarsi da una relazione significa esiliarsi da ciò che genera il suo essere ma significa anche, reciprocamente, creare in modo assoluto l’altro in quanto altro; significa escludersi ed escluderlo da ogni partecipazione all’unità che fondava tanto l’accordo quanto l’opposizione tra le coscienze.20

La memoria collettiva dei miti e il lavoro concettuale dei filosofi s’imbattono regolarmente nella situazione elementare dell’ostilità. Si ritorna al primordiale per cercare di cogliere il momento dell’unità; ma questo, troppo spesso, recede come l’orizzonte a mano a mano che si avanza. Ma l’unità è, ad avviso di Nabert, garantita dall’Uno che sta soltanto nell’esperienza della comunicazione della coscienze e si afferma solo in questa comunicazione. Tuttavia

la comunicazione può veramente unire le coscienze, solo se è permesso a ciascuna d’esse di comprendere per sé, sia la solitudine alla quale sono condannate da ciò che esiste in esse di contingente e di dato, sia il principio d’unità che le rende capaci d’amore.21

Non è difficile comprendere, già in Éléments pour une éthique, anche se in modo sottile, il legame che vi è tra la finitezza umana e il male. Infatti Nabert sottolinea in Essai sur le mal che le diverse forme del male di secessione, dalla menzogna all’uccisione, «sono preannunciate o abbozzate nella spontaneità dei movimenti interiori compiuti da una coscienza che si ripiega su di sé».22 Questo ripiegarsi è già una separazione, una rottura della reciprocità che gli atti compiuti non faranno che approfondire in maniera sempre più tragica. Ma ciò che permette, rende possibile questo male è «la finitezza che le coscienze traggono dal processo dal quale sono nate in quanto tali», ossia per il quale sono ognuna singola coscienza. E

il male originario è in questa finitezza, e si capisce perché ciascuna coscienza è più assillata dal tentativo di salvarsi risalendo verso il proprio principio piuttosto che di comprendersi tramite le altre coscienze e mediante quel principio di unità immanente al loro reciproco riconoscimento.23

4. Ingiustificabilità del male.

Il male esiste, categoria universale, esiste in sé, o non è solo privatio boni, o defectus essendi, quindi mancanza? La domanda formulata in modo retorico e la risposta affermativa ad essa, tendono a depotenziare la realtà del male riducendola a momento dialettico di una totalità in cui la negatività sia comunque dipendente da una più elevata positività. Tendono a disconoscere una realtà ontologica al male, attraverso la sua sottomissione al bene, attribuendogli carattere di strumentalità rispetto al Bene. Se la domanda non è retorica, invece, porta al cuore della vexata questio: ammettere l’esistenza di un principio originario malvagio indipendente significherebbe accettare il dualismo metafisico incompatibile con la libertà della creazione. E, per contro, ogni forma di monismo, che riconduca all’unico principio creatore l’origine del bene e del male, contraddice l’originaria bontà della creazione. Negati o rifiutati, dualismo e monismo rimarrebbe la sola possibilità della determinatezza storica del male e, quindi, anche la possibilità che esso sia soltanto un’interpretazione umana negativa degli avvenimenti: bene è ciò che storicamente viene considerato come tale, male è ciò che storicamente contraddice il bene. Ma ci si trova così sul piano dell’ermeneutica storica e della fenomenologia. Rimane però insondato il piano del senso e dell’essenza.

Il dolore, la sofferenza, ciò che chiamiamo male fa esplodere nella persona la richiesta del «perché», del «donde»: la richiesta di una definizione del senso del male, richiesta che esprime intrinsecamente la necessità di motivarlo e di originarlo. Al di là della dimensione e dell’interpretazione storica, è solito attribuire al male un valore morale, quindi metastorico, un senso autonomo; tuttavia, «abbiamo della buone ragioni per credere che le norme non delimitino sempre il campo dei sentimenti e dei giudizi di valore».24

Gli avvenimenti del XX secolo, che hanno un peso notevole nella vita e nella filosofia di Nabert, inducono a pensare che l’approccio antropologico non riesca a contenere la grandezza di alcune manifestazioni del male: le motivazioni storiche riescono a descrivere il processo di formazione, e da questo trarre giudizi di condanna. Da qui l’accusa alla inadeguatezza della legge morale, infatti

di fronte ad atti di crudeltà, alla bassezza di alcuni uomini o dell’ineguaglianza suprema delle loro condizioni di esistenza, riusciamo a comprendere appieno le ragioni implicate nella nostra protesta, se ci limitiamo a fare appello all’idea di un disaccordo tra questi fatti e le regole della morale?25

La legge morale non può giustificare il male compiuto o subìto, perché, come sostiene Carla Canullo, nel male grida quell’iperbole positiva della finitezza che il male stesso nega. Nabert ritiene, infatti, che la finitezza è tale in forza di una positività che la attraversa e che in essa si afferma non per il paragone con un infinito che estrinsecamente le si impone. La positività è proprio l’affermazione originaria e l’«impresente» presenza dell’Uno. Così come la finitezza è tale per un principio positivo che la attraversa, il male è ingiustificabile in forza dello stesso principio positivo che esso nega. Il male è ingiustificabile perché nega l’io, nega quel piano della positività che lo rende se stesso. Perciò il male è ingiustificabile, immotivabile, senza ragione sufficiente, perché nega l’io dall’interno in quanto nega quel principio di positività che costituisce l’io stesso; perciò, mentre per tale positività si può parlare di una finitezza positiva, per il male non si può che parlare di ingiustificabile finitezza.26 Il male è finito, come tutto ciò che riguarda l’io e, come si è potuto vedere, si esprime o come peccato o come male di secessione, il male più radicale e ingiustificabile. Il male ingiustificabile, è tale perché non ha giustificazione possibile, ma è colto perché, così come la finitezza, è sentito. Il sentimento dell’ingiustificabile è, infatti, come gli altri sentimenti che Nabert ha interrogato in Éléments pour une éthique, ossia della colpa, dello scacco e della solitudine, un dato della riflessione, è la materia della riflessione, ciò di cui la riflessione si alimenta. L’attestazione della presenza del male è insuperabile e su questo Nabert insiste lungo tutto l’arco della sua produzione. In un articolo pubblicato nel 1955 su Les Études philosophiques, egli precisava proprio su questo punto le sue divergenze dall’amico Le Senne: contro l’ottimismo idealistico di Le Senne, che nullificava il peso del male e della contraddizione spiegandoli con i ritardi della coscienza soggettiva nei confronti di una ragione e di un sapere oggettivi, assoluti, Nabert ribadiva che il male non può essere considerato una privatio, e che il negativo non è solo una derivazione del positivo; e in ogni caso, anche così concepito, il male sarebbe inconciliabile con la sussistenza di un Dio oggettivo, onnisciente e onnipotente, così come viene postulato dalle ontologie e metafisiche tradizionali.

5. Dalle esperienze negative alla riflessione: il cammino dell’etica.

La riflessione non trova la coscienza impreparata, anzi, come si è visto, essa è tutt’uno con la presenza di un sentimento profondo che Nabert definisce metafisico, richiede delle esperienze e su di esse si appoggia, affinché possa, attraverso la riflessione venire in superficie. Questo è il sentimento dell’ineguaglianza del sé a se stesso che, attraverso la riflessione sulle esperienze della colpa, dello scacco e della solitudine, pone le basi della possibilità dell’etica. Questa base preriflessiva richiede che, a partire da un non essere, si giunga ad una affermazione originaria in cui l’ineguaglianza di sé a se stesso si espliciti. Il viaggio che la coscienza compie, attraverso la prassi, per superare o attenuare il sentimento metafisico, per realizzare quel desiderio d’essere che l’ineguaglianza ha svelato, è l’etica. Quel sentimento, colto come desiderio d’essere, non si inserisce in alcuna filosofia dell’essere ma è vissuto direttamente sul piano esistenziale della coscienza che ricerca, nella sua riflessione, la sua giustificazione. Esso è sempre pieno e completo nella coscienza e nessun momento della prassi sarà in grado di annullarlo. Tuttavia il sentimento dell’ineguaglianza a sé non è l’unico che la coscienza preriflessiva avverte come costituente la sua struttura,

alcuni sentimenti potrebbero essere come annunciati, prefigurati, sul registro dell’affettività, l’inquietudine del comprendersi: quando la coscienza, momentaneamente liberata dall’obbligo di dire me o io, prova questa sorpresa, questo choc, di essere se stessa e tutte le cose al tempo stesso, di essere l’esistenza e al tempo stesso nulla di tale esistenza, o ancora di ritrovare se stessa nello stesso tempo che cominciava a concepirsi altra cosa da se stessa.27

Così al fondo della coscienza, in relazione a questi due sentimenti, si scopre il coesistere di due desideri: quello d’essere e quello di Dio che non sono riconducibili l’uno all’altro e sono tali che la loro coesistenza è tutt’uno con la loro irriducibilità. Perciò l’analisi nabertiana è rivolta a porre in rilievo l’autonomia dell’etica, il suo ancoraggio in un sentimento, quello della ineguaglianza di sé a se stesso. L’elemento che contraddistingue la filosofia riflessiva è nel non essere intesa come una regressione analitica con cui la coscienza finita scopre che il proprio essere si radica in un essere che si riflette in essa e le dà lo slancio per ricongiungersi al proprio principio, ma nel porsi come riflessione che resta in una prospettiva di immanenza, in cui non si pone più il rapporto tra pensiero finito e quello infinito, bensì tra la coscienza individuale e la coscienza trascendentale. In questa prospettiva

ciò che contraddistingue la riflessione, è di considerare sempre lo spirito nei suoi atti e nelle sue produzioni, per appropriarsene il significato, nonché di considerare lo spirito nell’atto iniziale col quale il soggetto si assicura di sé, del proprio potere e della propria verità.28

Il metodo riflessivo si caratterizza per il rifiuto delle categorie dell’intelletto, relativamente agli atti dell’io sono in quanto atti della coscienza. Questo rifiuto è tutt’uno con l’abbandono delle filosofie costruite intorno alla nozione di finito in relazione con l’infinito o di essere in relazione con l’Essere. Così, il metodo riflessivo si pone in antitesi con la filosofia speculativa e, in questo modo, tutte le filosofie precedenti finiscono con il dissolversi e, con esse, le certezze che garantivano la coscienza. Il metodo riflessivo segna la fine di queste certezze ed opera su un gruppo di esperienze, significative di un ambito avente in sé un’omogeneità, un foyers de la réflexion che il pensatore definisce etico, quali la colpa, lo scacco e la solitudine, per avviare un cammino, di comprensione di sé da parte della coscienza. La rottura che il metodo riflessivo opera con la tradizione filosofica segna anche l’interruzione della comunicazione costruita sui presupposti della filosofia speculativa, della coscienza sia con se stessa che con le altre coscienze; dalla riflessione su queste esperienze emerge infatti la presenza di un non essere al fondo dell’io, il bisogno per la coscienza di superare il mondo della moralità e del dovere, di cogliere una verità più amara, di toccare l’abisso della solitudine prima di poter trovare in sé una certezza in grado di ridare speranza e riavviare la comunicazione su un piano diverso da quello della moralità.

Occorre, per Nabert tenere ferma la netta separazione tra una riflessione che rinvia ad un assoluto trascendente ed una che muove dalla coscienza e ritrova la trascendenza nell’immanenza. Il percorso della prima riflessione è quello della regressione analitica che rinvia ad un Essere che si riflette nella coscienza finita, che muove da quest’ultima per giungere al suo principio; dove la regressione analitica indica le tappe da percorrere, le illusioni che devono essere dissipate affinché la coscienza di sé si scopra come coscienza dell’Essere, ovvero quello di un cammino dall’essere all’Essere per cui, «nell’oblio apparente dell’Essere, non cessa mai di essere messa in guardia, tramite la sua inquietudine, il suo desiderio, l’esperienza di una privazione, della presenza e dell’azione di una trascendenza».29 Il secondo percorso è quello avviato da Kant ed è inteso come una prospettiva di immanenza, riconducibile al soggetto, dove la coscienza individuale è posta in relazione con

la coscienza trascendentale per indicare che essa è coscienza costituente, che essa fonda l’opposizione tra atto ed evento allo stesso titolo dell’opposizione tra una necessità interna, tutta spirituale e la necessità osservabile nel mondo dei fatti e nell’universo.30

Nabert, così, stabilisce una distinzione netta tra due filosofie riflessive, sia sul piano metodologico, rimarcando la regressione analitica, che su quello ontologico dal momento che, nelle due riflessioni, il rapporto con l’essere subisce una diversa impostazione. Alla coscienza posta in relazione ad un principio fa da contraltare una coscienza che si ritrova in modo pieno e completo nei suoi atti, nelle sue produzioni, soprattutto nel suo atto iniziale. In questa seconda prospettiva, ci troviamo di fronte ad una coscienza da cogliere sia nel suo atto iniziale con il quale il soggetto si assicura di sé, che negli atti particolari in quanto atti della coscienza. È proprio quest’atto iniziale che segna la rottura rispetto alla tradizione filosofica. Infatti, in qualunque modo quest’atto si espliciterà: come atto del pensare, del giudizio, come atto che dà vita ad un segno che si coglie nello sforzo, esso coinvolge il soggetto e sostituisce completamente l’Essere, in quanto è mediante esso che il soggetto potrà realizzare una ripresa, senza che nulla di estraneo e di esterno lo solleciti. Esso presenta due tratti:

da un lato è annullata la differenza tra il raddoppiamento riflessivo che si appropria di esso e l’intuizione che lo apprende nella sua verità, dall’altro esso è rinnovabile in ogni tempo, in ogni luogo, mediante una decisione che sospende il corso della vita spontanea e fa passare nel presente, nell’istante un carattere di intemporalità o di eternità.31

È necessario sottolineare il rapporto tra il movimento preriflessivo ed il sorgere della riflessività avviata dall’atto. Questa si ritrova già in qualcosa che la prefigura e l’annuncia. In questo modo la filosofia riflessiva esclude che ci possa essere una contrapposizione netta tra natura e coscienza, che quest’ultima determini nella natura un salto improvviso. Si riconosce, a partire da una coscienza immediata e preriflessiva, che l’atto di riflessione è anticipato, per cui

sebbene libera, la riflessione non potrebbe sorgere se la coscienza umana non si prestasse a questo evento, ed una delle conseguenze più importanti dell’analisi riflessiva è di aver favorito e giustificato di rimando una comprensione della coscienza immediata che non fa di quest’ultima uno svolgimento o un susseguirsi di stati, ma sorprende fin dalle sue forme più umili una certa relazione attiva della coscienza con sé.32

La filosofia riflessiva è, dunque, rivolta al superamento della netta separazione tra natura e coscienza. Questo porta Nabert ad affermare che «prima che si interroghi su di sé, sulla propria esistenza, sulla propria verità, la coscienza non è prigioniera di una natura data o di una vita in cui il desiderio costituisce un tutt’uno con la cosa desiderata e non si distingue da essa.33È necessario, quindi, tenere separata l’analisi riflessiva dal metodo riflessivo. La linea di confine è data dal riferimento dell’analisi riflessiva all’essere, il suo restare ancora all’interno di una metafisica ontologica. In questa prospettiva la riflessione è il ritorno della coscienza finita al suo principio, scoprendo più di quanto non crei. Il metodo riflessivo proposto da Nabert, a differenza della riflessione filosofica, non si colloca in una metafisica ontologica, bensì nell’immanenza; esso non relaziona la coscienza con l’essere ma con la coscienza pura. Il metodo riflessivo è la forma comune delle analisi destinate a mettere in luce gli atti immanenti ai significati.

Si può affermare, con Ricœur, che la filosofia riflessiva non pone una prima verità, un punto di partenza radicale, un’intuizione dove tutto è già provato, ma riconosce che vi sono dei sentimenti e su di essi si avvia un processo di riflessione che ha come obiettivo il comprendersi. Perciò, «cominciare, per la filosofia riflessiva, non è porre una prima verità, è rivelare le strutture di ciò che precede la riflessione, le strutture della coscienza spontanea»,34 in grado di farci comprendere perché la riflessione è desiderio; perciò l’io sono che anima il desiderio ed al quale questo desiderio d’essere si sforza di eguagliarsi, è rivelato come la verità della riflessione stessa. Questo desiderio d’essere nella filosofia riflessiva non si pone come riposo, esso non è possesso intuitivo di se stesso. Mediante il suo flettersi nel mondo, la coscienza giunge ad una liberazione, assoluta ed irreale al tempo stesso; liberazione che per essere reale deve affrancare le inclinazioni degli oggetti, deve collocarle nella disciplina del lavoro, nelle istituzioni economiche, politiche e culturali. Si ha così una riflessione che parte dal sentimento e ritorna al sentimento, da un sentimento negativo, confuso ad un sentimento educato, da quello della separazione a quello della partecipazione. La riflessione è un momento nella storia del desiderio costitutivo del nostro essere.

È possibile affermare che, nella riflessione, si condensano due aspetti connessi intimamente, da un lato un processo di comprensione di sé che la coscienza avvia nel momento in cui ritiene i propri atti un testo da interpretare, dall’altro una rigenerazione del proprio essere. Da qui l’importanza dell’aspetto ermeneutico: esso è tutt’uno con la riflessione, salvo poi il chiedersi se esso esaurisca o meno la riflessione stessa. Questa rinvia a dei sentimenti che appartengono all’individuo e alla sua storia e sono espressi mediante i segni offerti dalla cultura, sono mediati dalle dottrine filosofiche, morali e religiose che nascondono il loro significato originario; essi indicano la possibilità di un progresso verso sé che non passa da un accordo immediato con le aspirazioni profonde dell’io, ma richiede che si intraprenda un percorso in cui, ad una prima riflessione che permette di superare l’immediatezza del sentire comune, attraverso l’accesso al sentimento fondamentale, subentri una certezza che Nabert chiama affermazione originaria. La riflessione, quindi, adempie al compito di dissociare i sentimenti fondamentali dalle condizioni storiche, in questo modo l’esperienza morale pone alla filosofia un duplice problema: giustificare l’autonomia della moralità dissociandola dalle altre funzioni della coscienza, da una parte; e determinare il suo rapporto con un’esperienza metafisica che colloca il primo posto nell’affermazione e nel progresso dell’esistenza, dall’altra. Si tratta di fondare escludere un moralismo che ferma la vita morale in se stessa e di fondare un’etica indipendente dalla religione. Questi due momenti son propedeutici al flettersi della coscienza, che si è scoperta mossa al tempo stesso da un non essere e da un’affermazione originaria, verso il mondo per verificare in esso il conflitto profondo che la fa essere.

6. L’anti-intellettualismo: la scelta della libertà.

La libertà, come si deduce, ha inizio quando, in una decisione concreta di cui non possiamo evitare il rappresentarci le condizioni, si apre a noi, come per uno choc, un surplus di realtà spirituale, per cui il pensiero cerca di uguagliarsi alla causalità della coscienza. Essa è il bisogno da parte dell’esperienza interiore di andare un po’più lontano nella produttività dei propri atti. Così, attraverso la riflessione, è possibile, mediante uno sdoppiamento dell’atto, appropriarci della causalità della coscienza e far nascere una credenza che racconta la storia della nostra libertà. È su questa produttività che occorre soffermarsi sapendo che essa non è oggetto di intuizione bensì di riflessione: «mediante questo duplicarsi dell’atto nella riflessione che si appropria della causalità della coscienza, nasce una credenza che racconta la storia della nostra libertà».35 Nabert richiede alla credenza: 1) di corrispondere all’elemento pratico della vita spirituale in quanto essa nasce con l’atto e dura finché dura la riflessione sull’atto; 2) di riferirsi ad una centralità del soggetto che è al di là del sapere; 3) di sviluppare delle idee in cui si precisa per noi e mediante il significato della causalità una coscienza attenta alle proprie scelte. Occorre partire dalla decisione in quanto in essa c’è un elemento refrattario ai processi intellettuali che si applicano allo studio di un dato. È sotto la pressione di questo elemento sull’esperienza interiore che nasce una credenza che precisa, rettifica e giustifica contemporaneamente la nostra prima certezza di produttività. Così, «l’esperienza interiore della libertà diviene anche la storia delle idee mediante le quali questa credenza, sfuggendo alla pura soggettività di un sentimento, fa apparire le categorie della libertà».36 Perciò la credenza nella libertà non può ridursi ad una tensione della coscienza in occasione di un atto; in essa non c’è un’evoluzione regolare, per cui la coscienza esprimerebbe in un modo sempre più completo un ordine o una realtà preesistente, come accade con le monadi. La libertà che nasce nei differenti momenti della storia della credenza ha per oggetto le decisioni concrete di una coscienza e per sostegno una causalità che resta sempre al di là delle idee o delle forme che essa riveste in e mediante una credenza, allora l’esigenza di intelligibilità, inseparabile da ogni riflessione sui nostri atti, è compatibile con la causalità della coscienza e non lega il sé e il per sé ad una legge che assegnerebbe una regola di sviluppo alla nostra attività. D’altra parte questa credenza è una esperienza ed essa non può immobilizzarsi.

Il nemico principale della credenza è l’intelletto nel suo bisogno di oggettività. Per cui «la vera opposizione non è tra libertà e determinismo, ma tra l’intelletto e la coscienza»;37 quindi il primo passo verso la libertà è quello di impedire che l’intelletto proietti la sua ombra sulla causalità della coscienza. Il messaggio metafisico perciò sarà che, se l’uomo non fosse libero, pur non essendo la pienezza della libertà, non potrebbe nascere la riflessione. Infatti, la libertà diviene esperienza effettiva proprio perché prende corpo in una credenza che inizia con l’atto volitivo e coniuga la riflessione del singolo soggetto su questo atto, con la storia della libertà comune. La libertà non comporta la necessità di giustificare il tutto, ma quella di conciliare l’ipseità del soggetto con la discontinuità dei suoi atti. È proprio questo che fa emergere la posizione anti-intellettualistica di Nabert, posizione che lo stesso avrà nel dibattito circa la possibile giustificazione del male, accompagnata dalla critica all’onto-teologia.

Il tema della libertà sfocia nel problema del rapporto tra essa e la ragione. Nabert riprende la distinzione kantiana tra ragione ed intelletto per coglierne il rapporto di complementarietà e distinzione. Certamente la ragione è legata all’intelletto in quanto capacità di elaborare delle norme, ma, in quanto attività spirituale e non semplice ideale sistematica del sapere, rivela una portata più ampia dell’intelletto. Per il Nostro, «l’intelletto non ritiene della ragione che le norme più appropriate ad una determinazione del reale, e prova una specie di diffidenza per quelle norme che sarebbero atte a rivelare direttamente la bellezza o l’armonia delle cose».38 Questo interesse per la ragione va posto in relazione al bisogno della coscienza, di uscire dalla colpa, dallo scacco e dalla solitudine nella quale, una libertà che poggiasse solo su di sé, sembrerebbe relegata. Tuttavia, il ricorso alla ragione spiega anche col fatto che la credenza nella libertà, pervenuta a porre un elemento di infinità, rischierebbe di ricorrere ad un principio trascendente la coscienza individuale, come se la libertà dovesse avere fuori di sé una regola del sua sviluppo. Così Nabert, si pone sul piano di una concezione immanentistica della libertà, rifiuta ogni riferimento ad una trascendenza al di fuori della coscienza, e ritiene che quella debba trovare in questa una regola del proprio sviluppo, ribadendo il rischio che ogni trascendenza ha per la libertà. Perciò «ogni filosofia che rinunci a conservare una uguaglianza essenziale tra l’atto di una coscienza individuale e l’atto di una coscienza più vasta in cui collocare la prima dovrà rendere conto dell’illanguidimento della libertà nelle coscienze finite».39 Escluso ogni rapporto della coscienza con la trascendenza resta il problema del bisogno della coscienza di uscire dai tre sentimenti della negatività. Da qui la ricerca di un legame tra coscienza e ragione. La domanda incalzante è: qual è il rapporto tra libertà e ragione? Non si tratta di una ragione che discende verso la libertà né di una libertà che si subordina alla ragione: «se c’è un commercio tra la ragione e la libertà, questo può avvenire tramite un’opzione di questa e non mediante la riduzione dell’una all’altra».40

Il riferimento alla ragione richiede un’opzione, un atto di scelta che la libertà compie in quella direzione, un intervento della coscienza che non esce fuori da sé. Occorre un atto di libertà per cogliere il rapporto tra la coscienza e la ragione, affinché la correlazione tra coscienza e ragione esca da un piano esclusivamente teorico. Per non accontentarci del legame meramente contingente tra libertà e ragione, occorre considerare il libero arbitrio non come capacità di agire contro la ragione, bensì come una di agire conformemente alla legge. Esso nella nostra libertà fa riferimento non ad una ragione incondizionata ma ad una ragione che nell’essere è sottomessa ad una dimensione sensibile. Il rapporto tra la causalità del soggetto non va colta come la causalità di una ragione decaduta dalla sua sovranità e che aspira a riprenderla. Nabert mette in guardia dal cadere nell’errore delle dottrine della libertà che non vogliono sacrificare nulla della ragione e vogliono al tempo stesso conferire un’indipendenza all’atto col quale il soggetto si innalza fino ad essa. Per il filosofo francese occorre muovere dall’identità dell’atto della coscienza individuale con la ragione, per cui, pur essendoci indubbiamente delle fasi differenti nella vita morale, questa identità va mantenuta. In ogni caso occorre muovere da una definizione di ragione in analogia con la volontà legislatrice kantiana, questa, «in se stessa non è libera né non libera, poiché essa non è una facoltà di scelta».41 Allora, se la ragione non è una facoltà di scelta, non è solo da essa che possono derivare i valori richiesti dall’azione. Se si analizza il valore, anche quello più vicino al desiderio, ci accorgiamo che in esso vi è sempre qualcosa di più rispetto ad un oggetto che soddisfa la nostra sensibilità. In questo senso il valore comprende qualcosa di più del desiderio, vi è nel valore qualcosa che fa si che noi desideriamo qualcosa per quello che essa è in sé piuttosto che per quello che essa è per noi. Questo elemento che pone il valore al di sopra della nostra sensibilità individuale, è la presenza di una norma alla quale l’oggetto si conforma. Ciò contribuisce al valore dell’oggetto perché risponde ad una norma. Ma questo non è sufficiente perché ci sia un valore; non basta affermare l’esistenza di una norma avente valore obbligante allo stesso modo di una legge naturale, occorre che vi sia un’adesione offerta liberamente. In questo modo Nabert opere una distinzione tra obbligo e costrizione. La norma ci obbliga ma non ci costringe, nell’obbligo è insita una gratuità che non è presente nella costrizione. È con un atto di gratuità che riconosciamo un’egemonia di essa sui nostri giudizi. È questo elemento di libertà che impedisce al valore di essere una semplice forza. Scrive:

La difficoltà che si incontra a precisare la natura dei valori e l’incertezza in cui si trovano molti filosofi quando occorre decidere se i valori sono, come si dice, oggettivi o soggettivi, proviene dal fatto che si misconosce la sintesi da cui essi provengono.42

Essi partecipano contemporaneamente ad una norma e alla libera decisione del soggetto. Così Nabert mette in guardia dalla facile conclusione cui si potrebbe pervenire, per cui sarebbe sufficiente che la riflessione scoprisse queste norme affinché esse potessero trovare immediata e piena realizzazione. È dunque chiaro che le norme di verità non si convertono in valori se non per mezzo della coscienza che le fa proprie e che opera alla loro promozione legandole per sempre alle azioni della coscienza stessa. Senza questa libera adesione, se si affermasse che la coscienza si annulla dinanzi all’idea, allora verrebbe meno la causalità del soggetto. Anche quando la coscienza si abbandona alla forza della verità e fa di questa norma un valore sul quale essa si regola, vi è sempre un consenso ed un atto che potrebbe sempre rivoltarsi contro di sé. Certamente allorché il valore si costituisce, frutto di una sintesi della norma e dell’atto libero, ben presto quest’ultimo è dimenticato, e consideriamo il valore indipendente dall’atto che esso originariamente racchiude, lo consideriamo in sé, giudichiamo la nostra libertà sul nostro attaccamento al valore, facciamo affidamento su di esso e sulla fedeltà che gli attribuiamo. Così si determina un transfert per cui il soggetto dell’azione scompare davanti a valori che egli ha contribuito a produrre. Il tranfert emerge con chiarezza nel concetto di responsabilità. Qui, la causa della coscienza indietreggia davanti ai valori morali, pur tuttavia, «i valori d’azione, i valori dell’etica propriamente detta sono legati allo sforzo che incombe alla coscienza individuale di rimettersi nella propria verità, cioè nella verità del tutto».43 Ciò che importa è che la nostra azione non vada oltre questi valori. È in funzione dell’ordine ideale cui essa si appoggia ed al quale è integrata che la coscienza giudica della propria responsabilità e, in ultima istanza, della propria libertà. Certamente la coscienza può trovare fuori di sé dei valori che superano la potenza creatrice dell’individuo, ma questo non è un motivo per pensare che la storia dei valori sia in contraddizione con i risultati dell’analisi filosofica. Sono le azioni ripetute e metodiche quelle che fanno emergere l’elemento razionale del valore, la norma che ne costituisce l’armatura; ma è una libera azione della coscienza che si coniuga con queste norme per precisare l’ideale da cui ci si sente dipendenti. Quindi, la storia dei valori consiste in un adeguamento incessante della libertà alle norme apparso e nel corso del divenire della ragione, nello sviluppo del pensiero scientifico e morale.

7. La giustificazione del male e la speranza di rigenerazione.

L’abisso tra la giustificazione e il male definito a partire dall’ingiustificabile è incolmabile, ma è anche una scissione, una separazione che non si gioca fuori dall’uomo, fuori dalla speranza. Nabert parla raramente della speranza, sebbene solo ad essa possa essere affidato il compito più difficile da affrontare: la giustificazione. È il compito più difficile perché sembra contraddire la finitezza e l’ingiustificabilità del male. Sembra contraddire l’esistenza che si afferma sempre tramite l’esperienza in atto o di un atto. Nessuna affermazione è possibile se non per un atto della coscienza. L’atto della speranza è, però, il più difficile: è l’atto che nasce in quella radice della finitezza la cui presenza fa incessantemente dichiarare il male ingiustificabile e irriducibile. Pur se difficile, la speranza è anche un atto speciale perché tende a ricomporre la frattura dell’umanità.

Non la salda, perché se così fosse verrebbe meno la finitezza stessa, che è tensione tra l’io puro e l’io finito. Verrebbe meno perché scomparirebbe la differenza con l’altro che rende la finitezza finita; perché se tale differenza fosse saldata la storia non sarebbe più quella scritta dalla finitezza. L’ineguaglianza dell’essere a se stesso, che è verità dell’esistenza, scomparirebbe se la speranza compattasse la crasi irriducibile della finitezza. Mentre la speranza è ciò che svela la medesima crasi nella quale s’innesta la ferita del male; perché essa non concede al male l’ultima parola sulla finitezza; perché, infine, il primo vertice della speranza è la sua tensione verso la giustificazione del male.

Il tema della giustificazione, difficile come quello della speranza, risuona per la prima volta nell’Essai sur le mal, sebbene sia un motivo che si presenta già in Éléments pur une éthique, dove si lascia dire nella figure della rigenerazione.

Giustificazione e rigenerazione, pur non potendo essere identificate, condividono uno stesso tratto, perché la giustificazione del male ingiustificabile non significa giustificare con ragioni e motivazioni il male fatto o subìto; significa, invece, ripristinare ciò che il male ha negato, ripristinare che è un ricomporre nel quale la giustificazione si spinge fino alla radice dell’io. Tanto la rigenerazione quanto la giustificazione, però, sono soltanto nel loro desiderio, ossia nella loro tensione verso una positività che si annuncia in esso, consistono nella traccia positiva della finitezza che non cessa di annunciarsi nonostante il male, la colpa, lo scacco e la solitudine. La rigenerazione e la giustificazione esistono solo nel desiderio che le rivela, desiderio che dà volto alla positività che rende la finitezza finita. Perciò, la rigenerazione e la giustificazione non accadono al lato della finitezza ma s’inscrivono in essa, ne sono la traccia: non sono a prescindere dal desiderio che le rivela, ma sono soltanto in forza di un desiderio che, desiderandole, le fa presenti, le presenta restituendole ad un’esperienza che il male sembra aver annullato. Desiderio di rigenerazione e desiderio di giustificazione sono espressioni che ricorrono continuamente e in luoghi diversi, indicando, però, sempre il medesimo fatto: rigenerazione e giustificazione hanno sempre a che fare con ciò che definisce la coscienza, ciò che la rende tale quale essa è, quell’io che è incessante tensione animata dell’assoluto il cui rifiuto è scaturigine del male. Di più, né la rigenerazione, né, e soprattutto, la giustificazione sono dette senza che sia, anzitutto detto il male o le forme della negatività che le invocano. Senza che, cioè, sia chiarito il motivo che travaglia il loro desiderio.

Ritornando sul testo che le sue azioni hanno scritto l’io desidera la rigenerazione del proprio essere, perché «uno dei fenomeni più misteriosi della vita morale — osserva Nabert — è la sorpresa della coscienza, dopo l’azione, non solo di non essere per sé ciò che era prima dell’azione, ma di non poter dissociare l’idea della propria causalità dal ricordo dell’atto singolare che essa ha compiuto».44 L’azione cambia l’essere della coscienza. Le azioni privilegiate da Nabert sono azioni ed esperienze al negativo, perché in esse «il desiderio costitutivo del nostro essere»45 si manifesta con più evidenza. Ogni azione, però, ci rivela a noi stessi perché ciò che siamo non si manifesta a prescindere dai momenti nei quali si testimonia rivelandosi. E tali momenti sono, appunto, le azioni compiute, le quali rivelano la causalità della nostra coscienza, rivelano il fatto che ogni atto ha la propria motivazione nella coscienza. Tale rivelarsi della coscienza sembrerebbe, tuttavia, avere a che fare con la comprensione di sé dell’io piuttosto che con la sua rigenerazione, la quale diventa indispensabile per l’io quando l’iniziale integrità è stata franta, sebbene la storia di tale frattura sia, in realtà, la storia della finitezza.

Desiderio di rigenerazione non significa sconfessare o dimenticare il passato; al contrario, «implica un rapporto continuamente mantenuto dell’io con il suo passato»,46 ossia con quel passato immemoriale che definisce l’io come costituito da due rapporti, «rapporto con un passato in cui sempre, in qualche grado, la sua libertà si trova implicata; rapporto col principio da cui egli deriva e il suo desiderio di esistenza e la sua forza di rigenerazione».47 Se la rigenerazione si riferisce sempre ad un passato immemoriale che le azioni svelano, la giustificazione sembra avere direttamente a che fare con il male fatto o subìto. In realtà anche la giustificazione del male implica che la positività che definisce l’io, e che il male nega, sia riaffermata. La questione posta dalla giustificazione non riguarda la sua definizione ma chiede, piuttosto, quale giustificazione sia possibile per un male che frange la finitezza, che spezza quel legame tenace nel quale l’io è reso a se stesso.

Proprio nel momento in cui l’io crede di essere sul cammino della sua rigenerazione comincia a venire alla luce non soltanto il sentimento di un possesso di sé radicalmente inadeguato ad un’aspirazione, a un desiderio di essere che ci chiede almeno di essere certi che la nostra causalità si sia liberata da tutto ciò che ci rende prigionieri di una natura ma, ancor più nettamente, comincia a farsi strada il sentimento dell’incompletezza radicale di una giustificazione che non sia in accordo con un principio di unità che possiamo verificare solo nella promozione reciproca delle coscienze.48

La giustificazione dell’io di fronte al male ingiustificabile sembra essere inutile, se non addirittura impossibile, per due motivi: in primo luogo perché, essendo il male di secessione quello più radicale, che rompe il principio di unità delle coscienze tra loro, la giustificazione di un singolo io non rigenera l’unità franta del noi. In secondo luogo perché, non può darsi giustificazione dell’ingiustificabile. Per parlare di giustificazione, allora, e per non decretarne l’impossibilità, occorre tradurre il termine, chiedendosi che cosa occorra giustificare prima ancora di interrogarsi su che cosa tale azione significhi:

Il male sta nell’impurità di una causalità spirituale, impurità resa visibile dalla generazione del possibile e dalla qualità dei motivi. Il male sta nell’insularità delle coscienze che traspare in ogni sorta di secessione e ostilità. Il male è la ferita che un tradimento ha causato ad un essere. Male è l’apparente inutilità delle sofferenze ammirevoli che sono state subìte per le cause più nobili.49

Di tutti questi mali «noi affermiamo che non debbono esistere», sebbene il nostro giudizio sia pronunciato in riferimento ad un imperativo cui si è disubbidito. Il male è ingiustificabile proprio perché non esiste imperativo contraddicendo il quale esso accade. La denuncia del male non si fonda su un dover-essere che il male contraddice ma su una certezza interiore. «Che la natura del male sia implicata nelle ragioni che ce lo fanno affermare» significa che esso deve essere cercato «solo nell’inclinazione cui cediamo incessantemente quando, facendo di ogni male un dato soggettivo, pensiamo che sia possibile coglierlo indipendentemente dall’operazione che lo fa essere e lo giudica»,50 ossia nel rifiuto di concedere alla presenza della positività il suo credito, nel rifiuto di dar credito alla positività della finitezza. Il contrario di tale rifiuto è un ricorso che «impedisca di minimizzare ciò-che-non-deve-essere e che impedisca che il male sia ridotto ad un’apparenza, ad una mancanza, ad una privazione, all’oblio della nostra permanenza nell’essere da cui siamo esiliati, da cui esiliamo, terra d’accoglienza in cui tutto è luce».51 Nabert, con ricorso, intende il ricorrere a qualcuno che, finito come colui che ha commesso o subìto il male, è capace di concedere al peccatore o alla vittima l’ultimo appello; è capace, ancora, di prendere a proprio carico tanto il male fatto quanto la sofferenza subìta.

Se il male più radicale è quello di secessione, perché rompe il legame di unità che lega le coscienze tra loro e, soprattutto, fa le coscienze tali quali esse sono, solo il credito concesso al principio del ricorso apre il cammino verso la giustificazione. Non giustificazione in quanto soluzione del male compiuto; non ripristino di unità, ripristino impossibile perché coinciderebbe con denudamento effettivo del nostro essere, ma giustificazione in quanto riaffermazione dell’unità negata dal male. Tale riaffermazione, nel piano storico, può accadere se interviene un’altra coscienza che prenda il male a proprio carico, riconoscendo la rottura con la positività che esso ha operato e desiderandone la ricomposizione. Il male non è tolto, né Nabert parla di perdono o cancellazione del male. Il pensatore sostiene, però, che il male ingiustificabile può essere condiviso; in tal modo «la reciprocità delle coscienze, spezzata di fatto dal male» può diventare nuovamente possibile se un’altra coscienza decide di riaffermare l’assoluto che definisce la finitezza. Non è perdono né, tanto meno, connivenza: si tratta di un credito concesso all’infelice o al malvagio, ossia a chi il male lo ha subìto o lo ha compiuto. Concedere questo credito non significa essere ciechi di fronte ad un male così radicale, ma vuol dire riaffermare ciò che definisce positivamente la finitezza; ciò che la afferma e non ciò che la nega. Perché negando l’assoluto che definisce la finitezza, il male nega il principio che definisce la finitezza stessa. Questa è l’estrema finitezza del male. Il movimento contrario non ne annulla la possibilità né può annullare il male compiuto. Il movimento contrario può riaffermare, però, ciò che il male spezza ma non distrugge, perché se lo distruggesse distruggerebbe la finitezza stessa. Il male può negare l’efficacia della positività, può spezzare la tensione che fa l’io finito, ma non per questo la distrugge. Tale negazione assume, nella storia, la figura, il volto di mali per i quali non c’è giustificazione possibile. Ad essere possibile è soltanto il cammino verso la giustificazione, che coincide con la storia del desiderio d’essere che si afferma in noi denunciando l’affermarsi di ciò che, per contro, lo nega. Lo denuncia incessantemente rivelando al contempo «la presenza in noi di un desiderio di eguagliarci al nostro essere tramite un adeguamento reale della coscienza pura e dell’io singolo».52 Adeguamento nel quale giustificazione rigenerazione si ricongiungono. Giustificazione del male non significa, quindi, cercare quelle ragioni che, il male, il quanto ingiustificabile, non ha. Significa ridare credito alla figura che definisce la finitezza, rendendola se stessa. Solo in questo senso può darsi una giustificazione del male ingiustificabile, ossia nel riaffermarsi di ciò che fa l’ingiustificabile tale quale esso è, cioè impossibile negazione della positività che definisce la finitezza.

8. La metafisica della testimonianza.

Resta una questione da sviscerare e chiarire: in che modo pensare il rapporto tra un divino il cui criterio sta nella coscienza e l’unicità di Dio? La metafisica della testimonianza di Nabert risponde a questo problema; inoltre, in essa si gioca la questione dell’esistenza di Dio non affermata a partire dal suo essere ma incontrata e testimoniata. L’unicità di Dio risiede nell’unicità del suo incontro che risponde al suo desiderio.

Il problema, evidentemente, riguarda il rapporto tra il fenomeno e l’assoluto. Se, infatti, andare a Dio è possibile solo perché tale viaggio è esperito, innegabile è il fatto che tale esperienza rientri nell’ordine del fenomeno. Ma essa è un viaggio che rivela altro da sé, nel quale l’assoluto non è il totalmente altro ma è l’altro della differenza, è l’altro che definisce la finitezza svelandola a se stessa e velandosi in essa. L’esperienza che rivela, che attesta, verifica non è «essenza, noumeno, idea» ma «affermazione»; riconoscere questo significa «preparare la filosofia alla testimonianza». La testimonianza, infatti, «è fenomeno che svela ed esprime un atto interiore e può essere compreso solo grazie ad un atto differente e tuttavia capace del primo».53 È fenomeno, o esperienza, in forza dell’altro che fa ogni fenomeno ed esperienza ciò che essi sono, ossia l’espressione di una tensione e di una differenza originaria. Il proprium della testimonianza è di non essere voluta o cercata come tale ma di «cercare di essere compresa come testimonianza».54 La testimonianza è fenomeno ed esperienza non di qualcosa che sta di fronte al testimone al modo dell’oggetto, ma è testimonianza resa da un atto a un altro atto. La testimonianza attesta un atto interiore che si proietta, s’implica, si dissimula nel fenomeno; e, reciprocamente, perché l’opera o la parola diano testimonianza, occorre un testimone.

Anche qui la reciprocità attesta il suo primato. A proposito del male di secessione, la sua radicalità era denunciata perché interrompeva il legame di reciprocità che precede la nascita della singola coscienza e che la abita come figura di positività. Qui la stessa reciprocità è individuata nell’ordine dell’esperienza religiosa: Nabert parla di Dio che si dà nella testimonianza perché un testimone lo accolga. Solo in questo lasciarsi testimoniare egli svela la sua esistenza. Così come l’Uno non è un principio ontologico che preesiste alla separazione, ma è positività che vive in ogni scambio e dialogo definendo la finitezza, allo stesso modo Dio non si dà a conoscere come essere trascendente ma si rivela nello scambio che intrattiene con coloro che lo testimoniano. Il senso della testimonianza.

«Possiamo discernere l’assoluto solo grazie all’assoluto che è in noi», osserva Nabert, complicando la questione per poi chiarirla immediatamente: «Ritroviamo sempre la stessa questione: fondare l’assolutezza dell’affermazione prima, distante tanto dalla soggettività come tale quanto dalla trascendenza, senza farla dipendere dall’irruzione di un assoluto trascendente».55 L’assoluto che è in noi è il criterio per discernere ogni assoluto. Questo non vuol dire che vi si identifichi: si tratta solo di ciò che ne permette il riconoscimento. L’alterità della presenza positiva è salvata ed è salvato anche il criterio di verifica della veridicità della testimonianza, perché solo l’assoluto che è in noi può essere criterio dell’assoluto che è fuori di noi e della verità della sua testimonianza. Se così non fosse, si ricadrebbe negli schemi della contrapposizione immanenza-trascendenza o della presenza il cui superamento è ormai noto. L’espressione Dio e la sua testimonianza, indica, quindi, che l’esperienza di Dio è affermata a partire dal suo consegnarsi al testimone. È dunque chiaro che, la questione della testimonianza chiama in gioco quella dell’esistenza di Dio.

Il senso della parola testimonianza può essere esteso fino ad indicare «sia un’azione che una opera, in quanto esse attestano sia volontà, intenzione, ispirazione, idea, sia il racconto di un testimone che riferisce di ciò che ha visto».56 Ora, se per un verso il problema della veridicità trova risposta nella non eccentricità del principio che si verifica nella coscienza, per altro verso l’eccezionalità della testimonianza resa all’assoluto non può mantenersi allo stesso livello di una testimonianza resa con un’azione e un’opera. Se però i piani fossero assolutamente separati, l’esperienza dell’assoluto e il suo mediarsi nella positività che definisce la finitezza perderebbe la propria scommessa nel punto più radicale della questione, ossia nel livello in cui il problema tocca l’eccentrica verità dell’Altro. Che tra testimonianza resa dall’arte o dall’etica e la testimonianza di Dio ci sia una differenza è un dato di fatto, e si tratta della stessa differenza che esiste tra le azioni che appartengono all’ambito dell’etica e quelle che rientrano nell’ambito della religione. Serve, perciò, un’ermeneutica che permetta il discernimento di tali azioni. Il ruolo del soggetto è, qui, decisivo, perché rappresenta l’apporto che attivamente la coscienza dà nella distinzione di ciò che si attesta nel piano della positività colta dalla coscienza in sé e ciò che, colto tramite questa positività, è, esiste come Altro dalla differenza. D’altronde, quando si esclude ogni realismo dell’assoluto, diventa essenziale sapere «come la coscienza si fa certa del fatto che le espressioni dell’assoluto che essa dichiara essere tali, siano autenticamente espressioni assolute dell’assoluto».57

Certezza per la coscienza, non significa conoscenza certa ma seguire la positività che la definisce, accettare che essa si affermi nell’esistenza anziché negarla o anche solo rifiutarla. A mano a mano che la promozione della coscienza si afferma, ossia che la positività è attinta dalla riflessione che da essa è animata e ad essa si volge, l’intervento arbitrario della soggettività diminuisce facendo spazio ad una positività che, colta dalla finitezza, ne è il suo effettivo altro. In questa promozione della coscienza c’è, naturalmente, una gerarchia di gradi, attraverso i quali l’assoluto si afferma progressivamente nella sua purezza. Nel più alto tra questi gradi, stando a Nabert

quando si produce un’affermazione che è, a seconda del punto di vista a partire dal quale la guardiamo, sia l’affermazione che afferma l’assoluto sia l’affermazione nella quale l’assoluto si afferma, la certezza della tesi può essere verificata solo in atti nei quali apparirebbe lo stesso adeguamento tra l’atto e il pensiero che lo ispira, o più ancora, lo stesso adeguamento che c’è tra l’essere che agisce e l’idea che «lo» agisce, o meglio che agisce in lui […]. l’ermeneutica dell’assoluto è fondata, giustificata come tale nell’orientamento della sua ricerca. Ma i segni sui quali esse fa fondamento per essere certa di essere un’espressione assoluta dell’assoluto comportano un margine di interpretazione.58

Questo margine consiste nel fatto che tali segni eccedono tutte le categorie del pensiero. Bisogna capire se di questo accesso si può dare testimonianza. Anche in questo caso il criterio è nella coscienza. Ancora, per comprendere dove il margine la eccede, occorre invertire la rotta: non più dalla coscienza all’assoluto ma dall’assoluto alla coscienza, poiché qui è l’assoluto che si manifesta, si dà, si offre al testimone. Ci sono atti ed esperienze, quali il perdono, l’amore o la stessa speranza, il cui criterio di riconoscimento è nella coscienza sebbene la loro assolutezza non appartenga alla coscienza stessa. Essi sono, per quest’ultima, il persistente invito ad aprirsi all’altro che in essa si manifesta, senza poter ridurre questo altro a se stessa. Se la coscienza lo facesse, contraddirebbe la propria esperienza. Questo altro non può essere, però, conosciuto; di esso si dà soltanto croyance. Questa parola può essere tradotta in «credere che», ossia nella sua valenza teoretico-oggettuale, o come «credere in», valenza che riconduce alla testimonianza e al credito dato al testimone. Croyance, però, non è il puro e semplice credere in qualcosa di non verificabile, ma è un modo di conoscere proprio di realtà non oggettivabili di cui, tuttavia, facciamo esperienza. Ne è un esempio la libertà che, come si è visto, non si conosce direttamente ma che ha una sua vera e propria croyance: noi non ci conosciamo liberi ma, dice Nabert, ci crediamo liberi.

La croyance, il credere, è un atto che accadendo attesta e rivela la presenza della positività; è atto e, in quanto tale, è un momento della coscienza, o meglio, della consapevolezza che la sua finitezza ha di sé. La dialettica dell’affermazione originaria, «resta in attesa del credere, ossia della testimonianza che la verifica e la conferma».59 Senza questa conferma, la certezza formale della presenza dell’io puro «soffre di incompletezza, attende la testimonianza concreta in cui vedrà non la prova della propria autorità ma il momento in cui la verità ed efficacia si mostrano».60 La croyance è perciò un momento veritativo nel quale la presenza della positività si verifica nella sua effettiva esistenza. Essa non deve, naturalmente, riconciliare l’al di là dell’essenza con l’al di qua d’esistenza, ma deve verificare una certezza che, nel momento in cui svela la propria presenza, non vanifica nessun atto concreto di amicizia, perdono, amore, fedeltà etc., ma ne presenta la verità. In ciò il credere è atto della coscienza accreditato dalla presenza del testimone e, in quanto fede data al testimone dell’assoluto, è al contempo luogo della «presenza» della testimonianza. Senza tale presenza la possibilità della verifica verrebbe meno. Infatti, nell’atto del credere, nella croyance, la presenza della positività trova il suo momento di verifica, ossia diviene esistenza certa perché senza di essa la stessa dinamica della coscienza resterebbe incompiuta. Se la positività non fosse verificata e, quindi, creduta, la stessa finitezza non sarebbe compresa per ciò che effettivamente è, ossia nella sua positività. L’esistenza che è altro dalle categorie del pensiero può essere affermata verificandone l’esperienza. L’esistenza dell’assoluto, affermata dalle esperienze che la sua presenza dà da sperimentare e, dunque, da vivere, si verifica nella croyance, nella quale ha il suo modo veritativo. Il credere, dunque, verifica una presenza, dà una certezza che non nasce al di fuori della finitezza stessa. Di fatto, però tale verifica deve uscire da sé, perché in caso contrario sarebbe l’affermazione auto-centrata della coscienza che smentirebbe la traduzione della coscienza e dell’io oltre la loro auto posizione, che ne svela l’originaria estaticità; originaria perché la coscienza e l’io si definiscono per l’Altro che li definisce. Altro che, sottraendosi all’essere e alla presenza, facendosi anzi annunciare soltanto dal desiderio e nella sua assenza, si dà solo in quanto ha da essere testimoniato in una testimonianza che ne verifica l’ordine e ne decreta l’efficacia veritativa. Ogni tentativo di dire Dio a prescindere dal modo in cui egli vuole dirsi è una surrezione idolatrica. La sua esistenza è verificata solo là dove si presenta, e non dove è pensato: «Dio passa in questo testimone e in questa testimonianza».

E ancora, l’assoluto, o Dio, che si incarna, non lo fa scegliendo questo modo tra numerosi altri di cui disporrebbe ma «ciò che si incarna non potrebbe bastare a sé e fare, così, a meno dell’incarnazione».61 Anche il termine «incarnazione» va tradotto perché non sta ad indicare l’assunzione, da parte di Dio, della carne ma il fatto che niente, dell’esistenza di Dio, può essere detto a prescindere da atti concreti. La speranza, il perdono, l’amore, sono atti concreti perché resi tali da ciò che essi stessi rivelano e che coincide con ciò che li rende possibili. Ma quello che li rende possibili è l’Altro dalla finitezza. l’esistenza di questo Altro, però, non è marginale, perché può invalidare o confermare la dinamica che definisce la finitezza stessa. Esistenza dell’Altro non pensata a partire dal concetto, ma creduta, ossia verificata nella testimonianza ad essa resa. Esistenza che si dà nella sua assenza e nel suo desiderio; che è impresente ma non, perciò, inesistente. La questione non è più, allora, quella di un Dio assente o presente, ma quella della sua esistenza affermata senza affermarne l’essenza. Dio esiste, è, perché, se non fosse, ciò che definisce la finitezza sarebbe un puro principio formalmente confutabile dal principio opposto. La sua esistenza, creduta, ha da essere perché la finitezza sia. Ma appunto, ha da essere, non è. Nabert sostenendo che l’essere ha da essere, indica che il primato epistemologico e concettuale dell’essere è deposto, perché ciò che è, è tale in quanto ha da essere, si dà solo nella verifica che lo coglie e nelle esperienze che di esso si danno. L’essere non è a prescindere da questa verifica; è, ma non in quanto momento iniziale. È originario, dice dell’originarietà di ogni esistenza finita, ma non è inizio. Questo è vero per ogni figura della positività: lo è per l’affermazione originaria, per l’io che fa ogni coscienza finita coscienza di sé; affermazione che non si afferma né conosce a prescindere dalla coscienza che la afferma, nella quale si dà come esperienza di una certezza d’essere e di valere al di là di ogni scacco subìto. Lo è l’Uno, che svela la sua presenza proprio nel male di secessione che lo nega.

Proprio perché Dio si svela, l’ermeneutica dell’assoluto continuerà sempre ad occupare un ruolo centrale nell’esperienza. Infatti, occorrerà sempre interpretare i segni nei quali Dio dà testimonianza di sé; segni che «possiamo ascoltare per comprendere il messaggio, interpretarlo, purificare le testimonianze, affermare l’autenticità del divino» anche se dobbiamo essere sempre «molto più cauti per quanto riguarda il soggetto nel quale esso si manifesta, si esprime e si comunica».62 Cautela che è imposta dal metodo che Dio stesso ha scelto: la sua mediazione. Un Dio che sia solo divino è un Dio che si dà solo mediandosi nella sua testimonianza, mediazione che è incontro dell’Altro. Cautela che è imposta anche dal fatto che indicando Dio in un soggetto, il metodo che lui ha scelto sarebbe contraddetto, perché la sua esistenza sarebbe prima decisa e poi esperita. L’assoluto, invece, non è soggetto, ma si incarna a in atti «di cui possiamo dire, con certezza e sicurezza, che si producono sotto il segno dell’unità degli esseri e dell’amore».63 Il desiderio di Dio, però, può approfondirsi solo «discernendo in sé questa passione per l’unico: esso non teme di affermare che in un momento determinato della storia è accaduto il più alto adeguamento concepibile tra l’assolutezza dell’io e un testimone».64 Questo è il confine fino al quale l’uomo può spingersi e riuscire ad andare, né può risalire a quei fatti e momenti nei quali tale adeguamento è stato possibile, fatti che sono accaduti e sono stati incontrati. Nella storia ci sono atti che testimoniano di accadere in forza di un «di più» che li pone e che, ponendoli, si fa capace anche di state di fronte al male che li nega. Puissance, forza vitale di un Dio che si dà nel suo incontro, nella sua testimonianza. Che si dà testimoniandosi in atti assoluti che sono, esistono solo mediandosi nel mondo.

9. Una riflessione oltre la filosofia riflessiva.

Il pensiero di Jean Nabert non ha trovato, evidentemente, larga diffusione tra gli studiosi, specie tra quelli a lui contemporanei. Questo si può indubbiamente addebitare alla difficoltà inerente ai suoi lavori che presentano una scrittura condensata, nel senso che nulla è casuale o generico ma ogni termine condensa una riflessione, spinge ad essa. Tuttavia non si può trascurare che, per comprendere la prospettiva filosofica del Nostro, occorre cogliere il senso della via nuova che egli ritiene di aver intrapreso. Questa è inseparabile da quell’«anti-filosofia» inerente al metodo riflessivo in quanto rifiuto del pensiero speculativo. È possibile, come si è visto, parlare di «pensiero esistenziale» in cui la riflessione si fa azione nel senso che, riflettendo sui propri atti, il soggetto opera una ripresa di sé, avvia una rigenerazione del proprio essere. Da qui l’impossibilità di ricondurre il pensiero di Nabert entro una prospettiva filosofica determinata. Senza ombra di dubbio è possibile porre delle convergenze col pensiero di Kant, nonché con la tradizione spiritualistica ma egli avverte il bisogno di ripensare ogni rapporto dualistico che ha attraversato la storia del pensiero. Con ciò la riflessione filosofica compie una svolta in quanto pone le esperienze negative della colpa, dello scacco e della solitudine a proprio fondamento. In tale prospettiva la filosofia di Nabert, in coerenza con la sua costante polemica con l’ontologia e la metafisica tradizionali, si presenta come una filosofia dell’immanenza, contraddistinta dalla radicalità della domanda sul male.

Il male non è comprensibile in termini metafisici, cioè, in ultima analisi, a partire dalla finitezza; la sua spiegazione è inseparabile da quella della genesi della soggettività; esso va chiarito quale possibilità dell’atto coscienziale.

Occorre dunque che rinunciamo a chiederci perché c’è un male o perché sia possibile che esso esiste in un universo il cui ordine e la cui bontà dipendono da un principio che se ne fa garante: la gamma delle risposte va dalla negazione del male o dal farne il momento negativo di un cammino dialettico che si concluderà con una positività finale, o ancora dal male come privatio essendi, all’idea di una caduta che apre il ciclo delle sofferenze e invoca una redenzione […] Le cose stanno altrimenti se, dalla più umile reazione di difesa contro il dolore o l’ingiustizia fino al riconoscimento del male che è in noi, causato da noi, e di quello che sta fuori di noi, ma al quale partecipiamo, il movimento è uno e identico e coincide con la scoperta e l’approfondimento della coscienza di sé, la quale si oppone al male inteso come negazione dell’atto spirituale per il quale essa è e si fa giudice di ciò che la contraddice.65

Siamo così rimandati alle strutture essenziali della coscienza stessa, e cioè allo scarto tra coscienza pura e coscienza empirica, tra affermazione originaria, pensiero dell’incondizionato, ed io contingente, empirico, temporale. All’origine di ogni movimento coscienziale viene riscoperta un’affermazione originaria, un pensiero dell’incondizionato, che è insieme tensione all’Assoluto. Tutta la ricerca di Nabert può leggersi alla luce del desiderio di trovare conferma nel reale di tale affermazione originaria insita nella coscienza: in questa prospettiva, in Éléments pour une éthique, indaga le azioni assolute e la sublimità morale che esse comportano; in Essai sur le mal studia le testimonianze dell’assoluto come antitesi dell’ingiustificabile e superamento della secessione delle coscienze, quindi del male più radicale; in Le désir de Dieu, infine, tende all’individuazione di un testimone Assoluto dell’Assoluto, che permetta alla coscienza di confidare nella giustificazione. Ma ogni qualvolta il discorso accenna ad un possibile superamento dei limiti trascendentalistici che si è rigorosamente posto, per approdare al riconoscimento o all’incontro di un Assoluto in atto, l’attitudine speculativa lascia il posto alla dimensione della fede e, esaurite le risorse del metodo riflessivo, deve affidarsi alla credibilità di testimonianze storiche che risultino corrispondenti alle più profonde esigenze coscienziali.

L’indagine filosofica si limita alle strutture della coscienza: il passaggio dall’operatio all’esse le resta precluso e l’affermazione di un essere trascendente resta perciò kantianamente, oggetto di sola fede. Anche l’ultimo Nabert si impone di non superare i limiti che permette l’idealismo critico, vietandosi deliberatamente di andare oltre. La prigione della soggettività non può essere fatta cadere. Ed è solo in questa riduzione delle sue pretese che si apre al soggetto la via della totale autenticità, della completa onestà con se stesso. L’esperienza della propria finitezza variamente attestata a livello esistenziale e conoscitivo, spinge il soggetto a porre la domanda: come mi accorgo della mia finitezza? Quali sono le condizioni di possibilità della mia riflessione? Per Nabert vi è uno stacco, che l’autenticità vissuta segnala, tra la coscienza del sé immediato, e la coscienza del sé ideale che si vorrebbe essere: l’esperienza del male, le tre esperienze della colpa dello scacco e della solitudine, nonché l’esperienza di una mancanza sono fondamentali nella stessa costituzione della coscienza di sé; questa vive appunto nella tensione tra la percezione della propria finitezza e l’esigenza d’incondizionato che le permette tale percezione. Questo non significa che la finitezza sia definita dal negativo, ma che quest’ultimo si rivela tale in forza della contrapposizione alla positività che definisce la finitezza stessa. Il negativo è tale solo per la permanenza della positività che esso contribuisce a svelare. E questa positività è ciò per cui Nabert sostiene che l’essere dell’io, nel suo passato immemoriale, è differire originario, tensione tra una positività che costituisce la finitezza e la possibilità della sua negazione.

Attraverso la colpa e mediante una riflessione sulla colpa, l’io scopre non solo il suo passato, ma, a monte di questo, un passato che va oltre il quadro dei suoi ricordi e di tutta la sua storia empirica. Qualunque sia stata infatti la sua iniziativa, e benché essa non si proponga in alcuna maniera di attenuarne la portata, la coscienza scopre che questa iniziativa non sarebbe stata sufficiente a produrre la colpa, se essa non avesse incontrato la complicità segreta di un passato più lontano, che oppone un limite assoluto ad ogni ambizione che si potrebbe nutrire sia di comprenderlo che di coglierne la generazione. Questo passato non rientra, se così si può dire, nella coscienza o le diviene accessibile solo col favore della colpa […] L’esperienza della colpa scopre […] la partecipazione dell’io a un passato di cui, con le proprie colpe, egli aumenta il peso, ma che si insinua in tutte le sue operazioni e ritarda l’espandersi della sua aspirazione.66

Si tratta della scissione che è all’origine della soggettività, quella separazione tra coscienza pura e coscienza di sé che rappresenta la crasi con la quale nasce la soggettività. Senza la colpa, sentimento che è esperito in forza di questa crasi originaria, tale separazione non si rivelerebbe. Il passato di cui parla Nabert non è, dunque, da considerarsi nel senso di un male originario presente nell’uomo, ma come crasi originaria nella quale si innestano tanto il male ingiustificabile quanto il cammino verso la giustificazione.

I tentativi e le possibilità che si offrono all’io per avvicinarsi alla giustificazione del male compiuto, come si è visto, vengono affrontati assieme a quelli della rigenerazione. Già nel ’43 Nabert parlava di desiderio di rigenerazione, come aspirazione invincibile che impedisce alla coscienza di pensare che ogni speranza di rigenerazione del suo essere sia ormai vietata. Questo desiderio, legato alla comprensione, si traduce come desiderio che lo strappo della soggettività non sia definitivo, che l’io possa rinascere e seguire il movimento ascendente ispirato all’affermazione che lo abita. Tuttavia, come sappiamo, l’ingiustificabile è tale non soltanto nel rapporto dell’io con sé, ma, soprattutto, nei riguardi delle altre coscienze. La tragicità di ciascuna delle determinazioni assunte dal male è data dalla «funzione dell’intensità con la quale la forma dell’assoluto spirituale si coglie in una coscienza particolare e, allo stesso tempo, coglie quest’ultima nel contesto di circostanze occasionali dell’esperienza umana».67

L’identificazione della finitezza con il male preclude, di per sé, la strada alle due alternative, forse le più ricorrenti e comuni, con cui la giustificazione è stata pensata, vale a dire il ricorso alla legge morale e il perdono del male compiuto. Quanto alla prima soluzione, sappiamo che essa non può rendere conto dell’ingiustificabile. Più complessa è l’esclusione della seconda ipotesi prospettata, quella del perdono. Il desiderio di giustificazione è il desiderio di quel soggetto cui il male ha rivelato la propria finitezza; perciò esso non può essere ricondotto all’ipotesi di un’assoluzione del male che non sanerebbe comunque la ferita generata dalla frattura dell’essere con cui il soggetto stesso nasce. Per le medesime ragioni, inoltre, la giustificazione non è, o almeno non è soltanto, rigenerazione. Questa seconda è una nuova nascita, mentre la prima si scontra con una sofferenza che chiude l’io in se stesso precludendogli ogni speranza. Il perdono non dà conto del legame con l’origine interrotto violentemente, motivo per cui occorre qualcosa di più, ossia un credito effettivamente aperto sul conto dell’infelice e del cattivo».68

Il desiderio di giustificazione recupera lo spazio che apparteneva allo scambio delle coscienze tra loro, spazio frantumato dalla secessione che ha reso incomprensibile la comunicazione. Questo spazio viene recuperato compiendo un atto che è speranza testimoniata da uomini che, nella loro vita, attestano la presenza dell’assoluto, testimoni dell’assoluto con i quali ci è permesso «misurare il nostro proprio essere».69 Il testimone dell’assoluto attesta che quell’io la cui finitezza è identificata con il male può arrivare nelle prossimità della giustificazione; egli attesta con un eccesso altrettanto iperbolico quanto quello dell’ingiustificabilità del male, che esiste una possibilità data al soggetto di non disperare nonostante il male compiuto e che, anzi, la possibilità che un altro essere accolga il nostro proprio essere è sempre presente, senza che sia necessario che l’io si spogli di sé. Ed è sempre presente perché si tratta dello stesso Uno, dello stesso Assoluto negato nell’istante della secessione e verificato nella reciprocità dei rapporti.

L’identificazione di finitezza e male resta pur sempre problematica e difficile; si tratta, tuttavia, di una difficoltà che fa sì che la giustificazione si ponga all’interno di una soggettività per la quale si apre un orizzonte che il male sembrava avere chiuso definitivamente. Esperienza, questa, che è di un ordine altro dal male ma non dal soggetto. La condizione di fenomenicità in cui l’uomo si muove è insuperabile per via semplicemente riflessiva. Si tratta di interpretare il fenomeno come testimonianza, ma la testimonianza stessa, di per sé, non rimanda che al soggetto. Scrive Nabert che essa, opera o parola che sia, attesta «un atto interiore che si progetta, si inviluppa, si racchiude, si dissimula talvolta nel fenomeno».70 Chi o cosa stia dietro tale testimonianza, quand’essa ci appare testimonianza del divino, incarnazione vivente di quel predicato che è in noi, la ragione riflessiva non è abilitata a dire. In sintesi: nella coscienza noi ritroviamo la forma a priori del divino (e non il divino stesso); per tale sua immanenza formale noi siamo in grado di discernere e discriminare le testimonianze del divino che ci siamo date; queste a loro volta ci permettono di purificare ed ampliare la nostra idea di divino; nella loro contingenza storica spaziale e temporale esse sollecitano una loro interpretazione come testimonianze di un Dio solo divino, che viene in ogni caso creduto per fede e non conosciuto in maniera razionale e positiva. Su queste tematiche si è svolta l’ultima riflessione nabertiana, che per qualche tempo era potuta sembrare una paga di un immanentismo idealistico di tipo fichtiano, ed era parsa riporre ogni compito coscienziale nel recupero di un’unità dell’io oltre la sua separazione in io puro ed io empirico.

La filosofia riflessiva, come si è visto, non si stanca di riflettere sull’io, sugli elementi della sua finitezza, sulle condizioni di possibilità del rilevamento di essa e della tensione al suo superamento. Ma a tali riflessioni viene a mancare, al di là della ricchezza di riferimenti fenomenologici, un preciso aggancio ontologico; la delucidazione del movimento coscienziale resta affidata più alla capacità di chiarificazione introspettiva da parte del soggetto che alla chiarificazione di un suo statuto ontologico attestato dalla ragione. Dalla riflessione sull’atto alla struttura della soggettività coscienziale: questo il movimento di pensiero nabertiano. Ma sia la scelta degli atti su cui riflettere, sia, conseguentemente, la chiarificazione della coscienza cui si approda, appaiono in tale prospettiva non adeguatamente fondati, al limite opzionali: la scelta dei sentimenti fondamentali in cui si manifesta la tensione al superamento della finitezza,71 delle intuizioni dell’atto fondante la coscienza e delle «certezze interiori invincibili senza garanzia speculativa» che animano la speranza religiosa, rischia di rendere fideistica non solo l’accettazione finale delle testimonianze del divino, ma tutto il discorso di Nabert. Non a caso egli stesso, in alcuni dei suoi appunti, giunge a confessare l’inspiegabilità ultima dello stesso movimento coscienziale, della sua genesi e della luce che lo illumina e lo guida.72 Se il rapporto all’Assoluto Essere non è alla radice stessa del movimento coscienziale, come qualificare tensioni assolute all’Assoluto le tensioni che animano la coscienza, e come fondare la formulazione di una criteriologia del divino che prepari un reale incontro storico, e non il semplice ritrovamento di un’idea, di una rappresentazione?

Nabert esclude un simile riferimento della coscienza all’essere: l’idea direttrice su cui occorre lavorare è da lui sintetizzata così: «sostituire ad un rapporto d’Essere infinito e essere finito, o al rapporto d’essere e di privazione d’essere, una relazione immanente di sé a sé, che muta col progresso della coscienza di sé, portando la coscienza di sé ad una più alta coscienza di sé».73 L’alternativa è per Nabert radicale, e bisogna decidersi tra la considerazione dell’essere come «l’atto d’essere, l’atto per cui si compie l’aspirazione dell’io» e l’essere «inteso come ciò che possiede per sé un’esistenza di cui l’io è privato eternamente, perché non è l’autore del suo essere».74 Questa contrapposizione, continuamente ritornante in Nabert, è forse rivelativa di un presupposto gnoseologico inconfessato che lo spinge a radicalizzare a tal punto la sua polemica con ogni impostazione ontologico-metafisica. Ci si può però chiedere: si danno davvero solo queste due possibilità di intendere l’essere, quale semplice atto coscienziale o come essere totalmente altro dal soggetto umano che verrebbe nullificato dalla sua assolutezza? Ed anche accettando l’ipotesi dello stesso Nabert, che riduce l’essere ad atto coscienziale, donde deriva alla coscienza singolare e finita, al di fuori di un suo costitutivo rapporto ad un essere che è anche altro da sé, quel principio d’incondizionatezza che anima tutto il movimento coscienziale? Donde deriva l’evidenza dell’affermazione originaria, se l’incoordinabile trascendente non può essere né detto né pensato? E se esso, d’altra parte, può venir intuito nelle azioni e nelle parole sublimi, nelle testimonianze del divino, che cosa dà sensatezza a questo riconoscimento, garantendo che possa non essere frutto di immaginazione?

Queste ed altre obiezioni possono essere mosse all’impianto della filosofia riflessiva nabertiana. E forse un suo superamento potrebbe derivare da un approfondimento di quel rapporto costitutivo del pensiero all’essere, e che Nabert non riuscì a chiarire adeguatamente, in ciò forse ancora prigioniero, per usare un termine heideggeriano, dell’«epoca dell’immagine del mondo». Solo tramite un tale approfondimento si aprirebbe la via non solo per un allargamento dell’ambito filosofico, ma pure per la fondazione di quei sentimenti fondamentali su cui Nabert impianta le sue analisi filosofiche.


  1. C. Canullo, La soggettività e il male, Introduzione a Saggio sul male, p. VII. ↩︎

  2. Nella bibliografia saranno indicate tutte le opere di Nabert. Sono qui segnalate le edizioni dei suoi testi, cui faranno riferimento le citazioni riportate in questa tesi: Experiénce intérieure de la liberté (= EL), Puf, Paris 1994; Élements puor une éthique (=EE), trad. italiana di F. Rossi, La Garangola, Padova 1975; Essair sur le mal (=EM), trad. italiana di C. Canullo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2001; Le désir de Dieu (= DD), éd. Du Cerf, Paris 1996. ↩︎

  3. P. Ricœur, Ermeneutica dei simboli e riflessione filosofica I, in Il conflitto delle interpretazioni, cit, p. 317. ↩︎

  4. C. Canullo La soggettività e il male, Introduzione a Saggio sul male, p. XXIX ↩︎

  5. S. Paolo, Lettera ai Romani, 7,7. ↩︎

  6. Genesi, 3,7. ↩︎

  7. EM, p. 80. ↩︎

  8. EE, p. 10. ↩︎

  9. Ibidem, p. 16. ↩︎

  10. Genesi, 3,5. ↩︎

  11. EE, p. 26. ↩︎

  12. Ibidem, p. 29. ↩︎

  13. Genesi, 9,6. ↩︎

  14. EE, p. 49. ↩︎

  15. EE, p. 43/44. ↩︎

  16. EM, p. 85. ↩︎

  17. Ibidem ↩︎

  18. Ibidem, p. 86. ↩︎

  19. Ibidem, p. 89. ↩︎

  20. Ibidem, p. 87. ↩︎

  21. EE, p. 51. ↩︎

  22. EM, p. 90. ↩︎

  23. Ibidem, p. 91. ↩︎

  24. EM, p. 5. ↩︎

  25. Ibidem, p. 3/4. ↩︎

  26. Cfr. C. Canullo, L’estasi della speranza, Cittadelle Editrice, Assisi 2005, p. 67. ↩︎

  27. DD, p. 413. ↩︎

  28. J. Nabert, La philosophie réflexive, cit., p. 399. ↩︎

  29. EL, p. 398. ↩︎

  30. Ibidem, p. 399. ↩︎

  31. Ibidem, p. 400. ↩︎

  32. Ibidem↩︎

  33. Ibidem↩︎

  34. P. Ricœur, Prefazione a Le désir de Dieu, Ed. du Cerf, Paris 1996, p. 5/6. ↩︎

  35. EL, p. 138. ↩︎

  36. Ibidem, p. 139. ↩︎

  37. Ibidem, p. 144. ↩︎

  38. Ibidem, p. 218. ↩︎

  39. Ibidem↩︎

  40. Ibidem, p. 219. ↩︎

  41. Ibidem, p. 222. ↩︎

  42. Ibidem, p. 223. ↩︎

  43. EE, p. 95 ↩︎

  44. Ibidem, p. 9. ↩︎

  45. Ibidem↩︎

  46. Ibidem, p. 17. ↩︎

  47. Ibidem, p. 18. ↩︎

  48. EM, p. 117. ↩︎

  49. Ibidem, p. 120-121. ↩︎

  50. Ibidem, p. 125. ↩︎

  51. Ibidem, p. 127. ↩︎

  52. Ibidem, p. 136. ↩︎

  53. DD, p. 273. ↩︎

  54. Ibidem↩︎

  55. Ibidem, p. 276. ↩︎

  56. Ibidem, p. 277. ↩︎

  57. Ibidem, p. 284. ↩︎

  58. Ibidem, p. 285. ↩︎

  59. Ibidem, p. 288. ↩︎

  60. Ibidem, p. 288-289. ↩︎

  61. Ibidem, p. 291. ↩︎

  62. Ibidem, p. 339. ↩︎

  63. Ibidem, p. 368, ↩︎

  64. Ibidem, p. 384. ↩︎

  65. EM, p. 122-123. ↩︎

  66. EE, p. 18. ↩︎

  67. EM, p. 121. ↩︎

  68. Ibidem, p. 130. ↩︎

  69. Ibidem, p. 135. ↩︎

  70. DD, p. 274. ↩︎

  71. Cfr. In particolare EE, EM. ↩︎

  72. DD, p. 112-113. ↩︎

  73. Ibidem, p. 32. ↩︎

  74. Ibidem, p. 34. ↩︎