Recensione a Domenico Burzo, La conversione di un uomo moderno. Pavel Florenskij e il sentiero dell’esperienza religiosa

Domenico Burzo, La conversione di un uomo moderno. Pavel Florenskij e il sentiero dell’esperienza religiosa, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 688.

Negli anni del liceo, durante gli studi in Filosofia, percorrendo gli autori nel manuale, la vita di molti viene letta quasi di sfuggita, quasi come se fossero pagine aggiunte al volume per creare spessore, la vita dei filosofi sembra non avere nulla a che vedere con la sostanza del loro pensiero. Eppure, la biografia dei filosofi ha sempre qualcosa da dire alla loro filosofia, al loro stesso modo di pensare, alla loro capacità di interessarsi alle questioni o al perché porsi alcune domande. Con questo non vogliamo affermare né che è la biografia a fare il filosofo né che serva un qualche trauma psicologico che potrebbe spiegare la filosofia di un autore. Vogliamo semplicemente affermare che la biografia di un autore può essere una chiave ermeneutica per comprendere la sua postura filosofica, e viceversa. Uno degli esempi più densi e che continui studi stanno portando alla luce è quello di Pavel Florenskij, raccontato nel libro di Domenico Burzo: La conversione di un uomo moderno. Pavel Florenskij e il sentiero dell’esperienza religiosa. Un poderoso volume in cui l’autore non cerca solo di presentare il pensiero del filosofo russo ma di riallacciare i fili fra il pensiero, la biografia e l’esperienza religiosa. Un libro che ci permette di entrare maggiormente non solo nelle vicende della vita di Florenskij ma all’interno del suo dramma interiore, delle rotture e delle discontinuità da cui far emergere la luce di altri mondi. Un pensiero non solo ricollocato all’interno della vita di Florenskij ma, al tempo stesso, in relazione con altri arguti filosofi dell’esperienza religiosi come Guardini, Eliade e Pareyson. La lettura di Domenico Burzo ci permette di entrare più intelligentemente dentro l’idea stessa di esperienza e, in particolare, dell’esperienza religiosa, posta sotto la luce dell’idea religiosa di conversione. In altri termini, la domanda fondante che Burzo si pone in relazione a Florenskij è: che significa 'conversione'? Quando avviene? Che implicazioni ha nella mia vita? Come faccio a sapere se è vera? Come cambia il mio modo di vedere il mondo? Cosa dice l’esperienza della conversione alla religione e alla filosofia? Per tentare di tracciare delle piste di risposta, ripercorriamo il libro di Domenico Burzo attraverso le tre sezioni di cui si compone l’opera: il cammino faticoso della conversione, l’esperienza religiosa e la filosofia della religione, l’ampliamento della ragione nell’abbraccio della Trinità.

Il cammino faticoso della conversione

Pavel Florenskij nasce ad Evlach in Azerbaijan nel 1882, da una famiglia benestante. Suo padre era ingegnere ferroviario mentre sua madre è una discendente di una nobile e colta famiglia armena. L’infanzia di Florenskij è segnata dall’esperienza del mare e dei paesaggi di Batumi, sulle sponde del mar Caspio. Egli stesso conserva viva la memoria di quegli anni nel suo scritto di memorie riservate per i figli, Ai miei figli, per l’appunto. Le descrizioni del mare, della natura, delle conchiglie, del cielo, dei colori e dei profumi, come anche il guardare un semplice arrotino o i gesti della famiglia, tutto viene riportato ad una primaria e fondante visione del mondo, alla vera e propria metafisica simbolica che Florenskij perseguirà per tutta la vita. Scrive Domenico Burzo:

La reale compenetrazione e coabitazione, all’interno di una medesima percezione concreta, di due differenti livelli del significato dell’essere – e quindi di due differenti livelli del reale che non si annullano l’un l’altro, ma vengono riconosciuti contemporaneamente pur nel loro differente valore –, questa unione nella differenza che si realizza nel simbolo, è la porta socchiusa sul mistero annunciato e reso presente dalla meraviglia. È lì, allora, “che bisogna guardare”, ed è lì che “bisogna tendere l’orecchio al mistero del mondo, pronti a cogliere l’attimo”, perché penetrare nell’ontologia del simbolo altro non è che “spiare il mistero”. Infatti, “dai simboli il mistero del mondo non viene celato, ma anzi rivelato nella sua vera sostanza, cioè in quanto mistero”. L’esperienza primaria della meravigliata percezione del mistero, che ha nutrito di sé l’infanzia di Florenskij e ha originato il suo sguardo sul mondo, diventò, da quel momento in poi, il vero motore e il fine consapevolmente cercato di ogni suo sforzo, non soltanto filosofico o teologico, ma anche scientifico ed artistico.1

L’infanzia, dunque, è per Florenskij una sorta di imprinting delle sue intuizioni filosofiche e delle percezioni della realtà in quanto simbolica. Florenskij, infatti, scrivendo la sua Autobiografia (Avtoreferat) per l’Enciclopedia delle Scienze dirà di se stesso che il fulcro di tutta la sua riflessione filosofica e scientifica è proprio il simbolo, il quale ha scoperto nell’infanzia e riscoperto solo successivamente. Infatti, il percorso biografico di Florenskij non è stato lineare, come il suo stesso pensiero d’altronde. Con la crescita, le percezioni dell’infanzia sono state abbandonate in favore di una visione del mondo più scientifica, più legata allo stampo positivista del padre, più matematica. Dopo gli anni del liceo, ritroviamo il giovane Florenskij come studente alla Facoltà di Matematica e Fisica di Mosca. Accantonati i giochi dell’infanzia, ora il giovane Pavel è un brillante studente universitario, tanto da suscitare l’interesse del suo professore Nikolaj Bugaev e stringendo una salda amicizia con il figlio, il poeta simbolista Andrej Belyj. Sono anni di forte fermento culturale per Florenskij, tanto da interessarsi alle idee matematiche di Georg Cantor, trasmesse dal suo maestro e professore Bugaev. Sono anni in cui Florenskij si vede posto dinanzi al dubbio, all’angoscia di sapere e di come sapere, al perché e al senso di tutto. La matematica, intesa come linguaggio positivista delle cose, non basta più a reggere il confronto con una realtà che sembra essere, sempre e comunque, eccedente rispetto alle mere trascrizioni o esperimenti. Si tratta, insomma, non solo di guardare la realtà, ma di conoscerne il senso, di giungere alle viscere ontologiche del reale. Il periodo storico che Florenskij stava attraversando è già eco di questo suo tormento interiore. Siamo a fine Ottocento, al tramonto dell’idea stessa del positivismo e del continuo misurabile che aveva già posto Cartesio dinanzi allo sdoppiamento dei piani di realtà: l’extensa e la cogitans.

Con ogni evidenza, Florenskij si trovò dinanzi ad un vero dilemma, sotteso alla sua tragica percezione dello sdoppiamento. Un dilemma capitale, che è allo stesso tempo un problema gnoseologico e ancor più ontologico, e che poggia su un ineludibile fondo religioso per il quale la domanda sulla possibilità di conoscere la verità si trasforma nella domanda radicale su Dio. È il problema di chi è colto improvvisamente dalla vorticosa tempesta del dubbio mentre cerca con tutte le proprie forze l’ancoraggio della certitudo, nella chiara consapevolezza di quanto sia ormai illusorio sperare di trovare ancora un punto fermo nel soggettivismo assolutistico sulla scia del cogito cartesiano e dell’idealismo moderno. Ciò di cui si ha bisogno con ogni urgenza è poter esperire una verità che si ponga e si offra all’uomo in modo da soddisfare con il dono della certezza la sua sete di sapere. Tuttavia, una simile verità – se esiste – non potrà che essere la Verità.2

La conversione di Florenskij nasce proprio dall’esperienza dello sdoppiamento. Sembra suggerirci Domenico Burzo, analizzando le opere giovanili del nostro filosofo, che ci troviamo dinanzi al dramma della scissione interiore. Ci troviamo, in prima istanza, dinanzi ad una realtà frantumata, doppia, fatta di catalogazioni e di determinazioni materialistiche, nulla di più. Ogni tentativo di guardare oltre, di tentare una visione unitaria del reale, di comprendere non solo il come ma il perché delle cose, sembra svanire dinanzi ad un placido e sconfitto scetticismo. Non a caso i personaggi che abitano il mondo florenskijano in questo periodo sono Amleto di Shakespeare e Sant’Antonio di Flaubert. Per quanto riguarda il dramma di Amleto, riflesso in Florenskij, siamo dinanzi ad una scissione esistenziale, fra i fantasmi del passato e le scelte del presente, una coscienza che si sdoppia fra il vivere e il non vivere, incapace di rimettere insieme i pezzi della propria storia. Invece, per quanto riguarda il Sant’Antonio di Flaubert, egli appare come un personaggio estremamente opaco, tipico dell’uomo moderno di fine Ottocento, incapace di rispondere e di argomentare dinanzi ad Ilarione, suo discepolo che gli dimostra l’incongruenza delle Scritture e i segreti della materia. Si tratta di due personaggi che, per il giovane Pavel, riecheggiano il suo dramma interiore, come anche il dramma della cultura rinascimentale e ottocentesca, che sperava di poter imbrigliare le forze della materia, di sminuzzare il reale, fino a coglierne l’intima essenza. Eppure, nel continuo fare a pezzi la realtà, Florenskij si accorge di non giungere mai ad un fine, di non cogliere mai davvero il senso della realtà, di non riuscire a cogliere la verità nascosta dietro gli elementi. Una verità, poi, che non è solo l’esattezza della convinzioni, la Pravda in russo, ma è la Verità intesa come senso ultimo, l’Istina. Ed è proprio quando le sue convinzioni iniziano a sgretolarsi sotto il desiderio di una Verità tutta intera, di una Tutt’unità (Vseedinostvo) che il cammino di conversione di Florenskij acquista uno slancio nuovo.

Venutosi a trovare personalmente nella situazione di Amleto e Antonio, Florenskij riuscirà a compiere quel passo, quell’atto cosciente che per loro era impossibile e grazie al quale s’incamminerà sul difficile sentiero della ricomposizione armonica tra οὐσία e ὑπόστασις. A diciassette anni Pavel avrà la forza di dare il proprio assenso alla Verità, di pronunciare il proprio “sì alla vita” perché, com’è stato efficacemente affermato, “la volontà incerta si divide, la volontà sicura sceglie”. Florenskij fu ben consapevole della concretezza di questo atto perché “credere significa conoscere spiritualmente una determinata realtà oggettiva”. Intorno a questo assenso, per nulla semplice e scontato, ruoterà, come su un perno, tutta la vita di Florenskij, fino alle decisioni estreme che lo porteranno alla morte. Per questo nelle memorie scriverà: “Dopo gli anni dell’infanzia è l’estate del 1899 il pilastro della mia coscienza”.3

Tentando di dare, dunque, una prima chiave di lettura filosofica al fenomeno della conversione, possiamo affermare che essa nasce nel momento in cui tutto crolla, che germoglia quando gli argini delle nostre convinzioni e convenzioni iniziano a sfaldarsi, aprendo alla discontinuità, altra parola chiave nella filosofia florenskijana. Tuttavia, ci occorre ora comprendere cosa la conversione abbia a che fare con l’esperienza religiosa e se sia possibile una conversione non solo dal fuori al dentro la religione ma anche fuori dalla religione o all’interno della religione stessa.

L’esperienza religiosa e la filosofia della religione

I problemi a cui ci richiama Domenico Burzo, soprattutto per quanto riguarda l’intreccio fra il pensiero florenskijano e l’esperienza religiosa, sono molteplici. La maggior parte sono riconducibili allo statuto epistemologico della filosofia della religione. Infatti, cosa si intende con filosofia della religione? Cosa la distingue dalla teologia? Chi è un filosofo della religione: chiunque o solo un credente? Come è possibile fare filosofia con certezze religiose che sono pre-filosofiche? Se la ricerca filosofica dovesse portare a risultati differenti da quelli del dato di fede, cosa accadrebbe? Tante domande a cui è difficile poter rispondere in maniera sintetica e che non trovano ancora oggi soluzioni univoche. Guardando agli sviluppi esistenziali e filosofici di Florenskij, Burzo scrive:

Anche il pensatore che non avvii la sua riflessione a partire da premesse confessionali, ma che si rifaccia ad un’impostazione metodologicamente atea – come auspicato ad esempio da Heidegger –, se vuole che il suo filosofare sia autentico non potrà disconoscere la funzione di cominciamento propria della meraviglia. Ma come negare a questo punto il carattere religioso che, come sottolineato da Florenskij, la meraviglia porta sempre con sé? Anche solo da un punto di vista cronologico, il primato non va riconosciuto ad un annuncio salvifico, cioè ad una rivelazione tramandata da una confessione assunta in modo preliminare e acritico. Il primato va piuttosto rintracciato nell’esperienza religiosa primordiale veicolata dalla meraviglia e contenuta in essa, di fatto legata alla dimensione dell’infanzia, e non innanzitutto nella relazione con un Dio che si rivela all’interno di un’appartenenza confessionale. Considerato in questo modo, l’ambito aperto dalla rivelazione esperita per il tramite della meraviglia non è innanzitutto quello delle religioni monoteistiche o di una chiesa, ma quello, della rivelazione originaria del sacro che si manifesta nel cosmo, a partire dalla quale Florenskij, tramite un cammino in cui non si può fare a meno di esercitare anche la ragione, giunge alla fede in Cristo.4

Guardando alla vita di Florenskij e alle percezioni dell’infanzia, soprattutto, il primo elemento che leghiamo alla conversione religiosa è quello della meraviglia. L’atteggiamento religioso, a questo punto, è lo stesso atteggiamento filosofico di chi, dinanzi alla realtà, ne prova stupore. Si tratta, infatti, di una esperienza primordiale in cui un evento eccede la ripetizione e l’abitudine del quotidiano, fino a destare la nostra attenzione, il nostro stesso interesse. In questa prospettiva, dunque, anche la visione scientifica del mondo non parte dalla spiegazione del reale ma dalla meraviglia del movimento, della materia, delle energie, del cosmo. Riunendo, dunque, i fili della biografia di Florenskij è proprio questa consapevolezza della radice universale della conoscenza che gli ha permesso una svolta religiosa. Ritessendo i legami fra percezione del mondo, filosofia, religione, scienza, Florenskij giunge alla meraviglia come unione dell’essere alla conoscenza, dell’ontologia alla gnoseologia. Ciò che la cultura moderna, dal Rinascimento all’Ottocento, passando da Cartesio a Kant, fino a Comte, era scisso, ora torna a vibrare in tutto il suo spessore.

Per questo, nell’affrontare i vari interrogativi epistemologici nei confronti della filosofia della religione, Florenskij si pone come un filosofo all’interno dell’esperienza religiosa stessa. Non si tratta, in altre parole, di fare filosofia all’esterno della religione o all’interno della religione, ma assumere l’esperienza religiosa come epistemologia stessa del pensiero, come chiave ermeneutica della realtà, come interpretazione olistica del reale, non riconducibile alle sue semplici parti. Tuttavia, qui siamo ancora nell’ambito dell’esperienza religiosa primordiale, ovvero legata alla meraviglia del reale. Come mai Florenskij giunge, invece, ad una esperienza religiosa confessionale, cristiana e di stampo ortodosso?

Ora, se abbiamo definito quella di Florenskij la conversione di un uomo moderno è proprio perché la sua riflessione segue in prima istanza la linea tracciata dalla modernità. Infatti, dopo aver dovuto mettere da parte la propria esperienza infantile – di per sé cultuale per il radicamento nella meraviglia –, la sua ricerca prese avvio del problema della credenza e quindi, com’è tipico della mentalità moderna, delle questioni relative alla convinzione personale riguardo la fede. Furono appunto queste le problematiche che egli dovette affrontare direttamente al momento della sua conversione. Questo spiega come mai, nel fare i conti con la cultura moderna, la questione della centralità del culto e le tematiche dell’antropodicea dovettero emergere in un secondo momento. Al di là di ciò che gli suggeriva la sua “intuizione primaria”, fu solo dopo aver risposto alle pretese del razionalismo e dello scetticismo, fondando nell’atto di fede la ragionevolezza dell’assenso alla Verità, che Florenskij poté recuperare con forza la dimensione del culto restituendole lo spazio e il primato che per natura le spettano.5

Dopo l’esperienza religiosa primaria legata alla meraviglia, Florenskij procede il suo percorso esistenziale all’interno della stessa Chiesa Ortodossa. Dopo la laurea in Matematica, rifiuta la cattedra all’Università di Mosca, per frequentare l’Accademia Teologica, per poi sposarsi ed essere ordinato presbitero ortodosso. Questo cammino nuovo che vede in Florenskij un impensabile prete ortodosso, è frutto della stessa esperienza di conversione religiosa che ha maturato nel corso degli anni e che emerge chiaramente anche nel suo pensiero. Si tratta, infatti, non di rifiutare o di scontarsi con la cultura a lui contemporanea, ponendosi in un atteggiamento di difesa, ma sviluppare una nuova ermeneutica in grado di guardare alla realtà nel suo insieme e, quindi, anche alla cultura moderna. Il desiderio che spinge padre Pavel non è quello di sviluppare un teismo irrazionale in grado di negare ogni progresso attraverso discorsi apologetici. La sua nuova prospettiva è quella di disincastrare la cultura dagli scogli del razionalismo, per spingerla oltre, nel terreno della ragionevolezza. Ma per fare questo c’è bisogno di un ritorno alla ragione, al Logos che si è rivelato in Cristo Gesù. In altre parole, invece di tentare l’eliminazione del mistero dalla realtà o tentare di ingabbiarlo nella superstizione o scetticamente fare finta che non ci sia, giungere alla consapevolezza che è il mistero stesso che parla, che si fa conoscere attraverso la ragione, il logos. Questa è la vera rivoluzione del cristianesimo e il fondamento dell’esperienza religiosa di padre Pavel, ovvero la possibilità di dire che il nucleo incandescente della realtà, la Verità, si manifesta a noi, in un certo senso, è Parola. In questo essere Parola-Logos, dunque, diviene criterio ermeneutico per conoscere la realtà in sé, nel suo sostrato ontologico. La riscoperta di questo percorso ermeneutico, in grado di tenere insieme la filosofia patristica e medievale con i linguaggi e i saperi contemporanei, è definito da Florenskij: teodicea e antropodicea.

Nella filosofia medievale, il concetto di teodicea esprime quell’insieme di dottrine che tentato di rispondere alla domanda esistenziale sul male in relazione a Dio: Se Dio esiste, perché il male? Domanda che ha attraversato anche l’Epoca Moderna con Leibniz. In Florenskij la teodicea è un percorso esistenziale, drammatico, esperienziale, agonico che giunge alla conoscenza della Verità in Dio Triunità. Percorso che Florenskij affronta in maniera epistolare nella sua celebre opera La colonna e il fondamento della Verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere. Opera che risulta essere l’elaborazione della sua tesi di dottorato presso l’Accademia Teologica e che cerca di raccontare non semplicemente cosa sia la teologia ortodossa, ma l’esperienza religiosa in sé e per sé, come essa si disincagli dal razionalismo e apra nuove vie ermeneutiche e spirituali, che trovano nell’amicizia il loro culmine. Alla teodicea, poi, si aggiunge l’antropodicea come percorso inverso, dall’alto verso il basso, come manifestazione della comunione trinitaria all’interno delle forme cultuali ortodosse e come queste forme possano generare una nuova cultura, come visione integrale del mondo. In questo connubio dinamico fra esperienza religiosa primordiale, teodicea e antropodicea, culto e cultura giungiamo ad una relazione fra la visione trinitaria di Dio e la ragionevolezza umana.

L’ampliamento della ragione nell’abbraccio della Trinità

Giunti al punto in cui la ragione si amplia alla Triunità, ecco che giungiamo ad una nuova ermeneutica della filosofia in relazione non solo a se stessa, non solo all’esperienza, non solo all’esistenza, ma a tutti i campi del sapere. L’idea che muove Florenskij e che viene rintracciata da Domenico Burzo è che la filosofia, nutrita dall’esperienza religiosa, possa interfacciarsi di ogni campo del sapere, di tutto ciò che è propriamente umano. Non si tratta, allora, di porre una nuova scissione fra Dio e il mondo, fra la teologia e le altre scienze, fra la vita di fede e la vita sociale. Si tratta, invece, di riconoscere come l’esperienza della conversione possa ampliare le possibilità stesse della ragione, rendendo da una parte più ragionevole la fede stessa e dall’altra più arricchente il pensiero umano, dalle scienze umane alle scienze sociali, passando per le scienze esatte. Ma per comprendere il come l’esperienza religiosa possa innestarsi, dialogare e arricchire la cultura, occorre riconoscere come la Verità si mostra nella sua oggettività.

Infatti, parlare di esperienza religiosa ci permette di guardare alla sfera esistenziale di un individuo, tuttavia, non ci permette ancora di comprendere cosa si ricerchi all’interno di una esperienza religiosa, a cosa ci si converta. In altre parole, come possiamo dire che una esperienza religiosa sia veramente alla ricerca di un Dio Verità? Cosa ci dice che la Trinità, così come viene presentata dalla fede cristiana, sia davvero la Verità? E se ci stessimo ingannando? Se pensassimo di avere già la risposta ancor prima di aver formulato la domanda? Infatti, una delle accuse fatte alla filosofia cristiana consiste proprio in questo aver trovato già la risposta ancora prima di aver posto la domanda, ovvero di aver già dato come risposta che il fondamento ontologico dell’esistenza sia dato in Dio e che questo fondamento non possa essere messo in discussione. Seguendo la traccia lasciataci da Florenskij, iniziamo con l’affermare che la Verità non si presenta a noi come risposta ben fatta, ma prima di tutto come domanda. Il primo quesito della Verità e chiedersi se esista o meno non una verità, ma la Verità, ovvero un fondamento in grado di raccogliere tutto l’essente. E se esiste, come si rivela a noi? La risposta che pone Florenskij è: l’antinomia.

In questo modo, la rivalutazione florenskijana dell’antinomia applicata alla filosofia della religione farebbe riemergere da una prospettiva differente la vicinanza della visione di padre Pavel all’ermeneutica e alla sua idea, più volte riscontrata, di un dialogo positivo tra esperienza religiosa e pensiero filosofico. Nell’ottica florenskijana questi potrebbero porsi come i due elementi strutturalmente polari di un’unità antinomica tutta interna alla cultura moderna, ma poggiante su una coappartenenza originaria di filosofia e religione. L’antinomicità dell’esistenza verrebbe così confermata non nella sua paradossale natura di scandalo, ma come modalità positiva dello stare nella divaricazione. Tuttavia, quest’ipotetico contributo che Florenskij potrebbe offrire al problema della filosofia della religione rischierebbe di far rimanere il suo pensiero, caratterizzato tanto dalla rivalutazione dell’antinomia quanto da una dura critica antimoderna, all’interno dei parametri culturali dei tempi nuovi, sebbene rimanga il dato di fatto inoppugnabile che interpretare il rapporto tra esperienza religiosa e pensiero filosofico in termini di antinomia ricondurrebbe comunque, in ultima analisi, all’affermazione della loro unità. Nella visione di Florenskij, infatti, l’antinomia non è mai il rapporto o l’unione artificiale di due realtà differenti, ma l’unità ontologica e originaria di una verità in sé antinomicamente complessa.6

Se guardiamo alla realtà concreta, notiamo immediatamente come essa sia piena di contraddizioni, come essa si manifesti nelle opposizioni e nelle differenze. La realtà, dunque, è una complessità di opposizioni, in cui una cosa non è mai solo e soltanto se stessa ma è in relazione con un altro oggetto, con un altro soggetto, con un’altra polarità. Aumentando l’analisi della realtà, poi, ci accorgiamo come anche sistemi complessi interagiscono fra di loro aumentando i gradi di complessità. La tentazione di semplificare e di sminuzzare la complessità è sempre dietro l’angolo, tuttavia uno sguardo filosofico sulla realtà cerca sempre di sviluppare un’ermeneutica in grado di trascrivere la complessità del reale in un pensiero, di tradurre la relazione e le interrelazioni all’interno di una spiegazione della concretezza. L’ermeneutica florenskijana, a tal proposito, gioca sulle opposizioni della realtà, rimarcandole in quanto spiegazione esse stesse della Verità. In altre parole, se la realtà è complessa in quanto frutto di continue opposizioni, allora la Verità stessa è in opposizione, è antinomica. Anzi, se ha la pretesa di essere la Verità, essa non solo è in opposizione ma è coincidenza delle opposizioni, coincidentia oppositorum. Non un tentativo di risolvere la contraddizione, ma esprimerla in tutte le sue potenzialità, in tutte le sue energie. Perché l’antinomia stessa non solo è solo la chiave per spiegare la realtà ma è anche ciò che permette alla realtà di vivere, di essere una realtà vivente e, al tempo stesso, una Verità Vivente. Dal flusso di elettroni alla costituzione di civiltà, dalla storia sociale alle forme religiose, passando per gli ecosistemi, tutto è in opposizione, non nel senso di perenne conflitto ma di dialettica, di confronto, di interscambio. La Verità stessa, allora, non solo è antinomica ma è anche generatrice di vita, di tutto ciò che è. Per questo motivo, la Verità è Dio stesso, Uno e Trino, al tempo stesso. Senza la pretesa di risolvere la contraddizione, senza il tentativo di dare ragione ad un polo piuttosto che ad un altro, cosa che ha fatto il razionalismo.

La Verità come antinomia, poi, è alla base della concezione stessa del simbolo, in Florenskij. La realtà è simbolica, non soltanto perché è rappresentata attraverso segni ma perché un ente rimanda ad un altro, in una catena di opposti di cui il segno simbolico è espressione. Un simbolo, dunque, non rimanda solo ad un oggetto, ma rimanda alla relazione che intercorre fra noi soggetti, il segno e l’oggetto e dall’oggetto ad un infinito attuale. Quindi il simbolo è la chiave ermeneutica per giungere alla Verità in quanto è capace di tenere insieme i vari elementi della realtà, in una visione complessa e complessiva. Questo è stato il motore che ha permesso a padre Pavel di affrontare ogni campo del sapere, dalla tecnica alla chimica, passando per l’estetica, l’etimologia, l’etnografia. Si tratta, dunque, di un pensiero che non si perde e non si infrange dentro tanti saperi ma cerca di fare sintesi di ogni sapere in una sola Weltanschauung religiosa che abbia come fondamento l’esperienza di fede in Dio Triunità. Un’esperienza, poi, che non nasce come un fungo ma si innesta nel terreno dell’ortodossia e, in particolare, della teologia palamita. Come ben fa notare Burzo:

Parlando di Palamas, V. Lossky sostiene che “il punto di partenza del suo pensiero teologico è la Trinità”. Ciò vale indubbiamente anche per Florenskij, se riconosciamo che l’Eternità da cui si sentiva chiamato fin da bambino altro non era che l’energia della Trinità che si rivela ad extra nel mondo. Le energie sono infatti la manifestazione esteriore della Trinità, ovvero il riflesso dell’antinomia intratrinitaria sulla realtà tutta, alla luce increata della Trinità che irradia il mondo e che per l’uomo è visibile per gradi, secondo la sua capacità di partecipazione. “È la manifestazione economica della Trinità: il Padre opera mediante il Figlio nello Spirito Santo”, perciò, “tutte le cose sono state create per mezzo del Logos”. Ora l’intuizione che ha condotto Florenskij a recuperare l’esperienza della Verità nel sapere religioso universale è tutt’uno con l’atto per il quale il terrore dello sdoppiamento e della scepsi è stato definitivamente vinto. Nell’esperienza del giovane Pavel ciò ha voluto dire che la liberazione dagli sviamenti della modernità e il compimento del sentire religioso si raggiungono soltanto nell’atto di fede in Cristo, nel quale la luce della Trinità s’incarna ad un livello nettamente superiore rispetto a quello delle creature e raggiunge l’uomo come Volto carnale dell’Altro.7

Siamo a conoscenza dei vari campi di interesse di Florenskij, della sua fama nel mondo culturale russo post-rivoluzionario come anche della sua prigionia all’interno dei gulag fino alla fucilazione e al conseguente oblio. Anche la sua vicenda biografica sembra ricollegata a questo suo essere pensante, entrambe raccolte sotto il segno dell’incompiutezza. Perché un pensiero del genere, meravigliato, assorto, contemplativo della realtà, continuamente alla ricerca del discontinuo che apre alla Verità, non poteva che rimanere incompiuto, come la maggior parte delle sue opere. Anche la scelta di non andare in esilio, ma di rimanere nella sua Russia, come anche il timore che tutta la sua opera potesse venir dimenticata e la serenità che nulla si perde ma tutto rimane nascosto da qualche parte sono il segno della sua conversione, vissuta fino all’ultimo, fin dentro le viscere della storia e dell’esistenza. Per far sorgere una luce nuova, che il buio non può spegnere: questo è il sentiero dell’esperienza religiosa.


  1. D. Burzo, La conversione di un uomo moderno. Pavel Florenskij e il sentiero dell’esperienza religiosa, Mimesis, Milano-Udine 2020, p. 33. ↩︎

  2. Ivi, pp. 57-58. ↩︎

  3. Ivi, p. 93. ↩︎

  4. Ivi, pp. 177-178. ↩︎

  5. Ivi, p. 302. ↩︎

  6. Ivi, p. 449. ↩︎

  7. Ivi, p. 587. ↩︎