Il continuum come sottofondo del pensiero: la filosofia di Pavel Florenskij

1. Introduzione

Delineare il pensiero e la vita di Pavel Aleksandrovič Florenskij significa guardare a due fili che continuamente si intrecciano fra di loro. Vita e scritti di Florenskij, infatti, subiscono la stessa sorte, vivono della stessa mancanza. Pavel Florenskij nasce il 22 gennaio del 1882 ad Evlach in Azerbaijan, da un padre ingegnere presso le ferrovie e una madre di origini armene. Trascorre la sua infanzia a Tiblisi in Georgia dove vivrà con la sua famiglia fino a diciott’anni quando deciderà di iscriversi alla Facoltà di Matematica e Fisica di Mosca. Degli anni dell’infanzia, Florenskij ci ha lasciato le sue Memorie intitolate Ai miei figli. Memorie di giorni passati, in cui ripercorre la sua infanzia con uno sguardo critico, attento alle prime percezioni del mistero e della natura. Frequentando la Facoltà di Matematica di Mosca, Florenskij incontra Nikolaj Bugaev dal quale rimarrà affascinato, soprattutto per le sue idee matematiche sull’infinito.1 Sarà proprio Bugaev che farà conoscere a Florenskij le idee matematiche di Georg Cantor, le quali segneranno tutto il percorso biografico e filosofico del nostro autore. Infatti, dopo aver completato la laurea in Matematica, Florenskij rifiuta la cattedra universitaria per iscriversi all’Accademia Teologica di Mosca che ha sede presso il villaggio di Sergev Pošad. Dopo la laurea in Filosofia e Teologia viene ordinato presbitero ortodosso nel 1914. Nel 1917, tuttavia, esplode la Rivoluzione Russa e i bolscevichi prendono il potere. In questi anni, dopo l’insegnamento presso la Facoltà Teologica, Florenskij verrà chiamato ad insegnare presso il Poligrafico di Stato con sede a Mosca, il VChUTEMAS. Sono gli anni in cui Florenskij si occuperà di estetica, di semiologia, di etimologia e di filosofia del linguaggio lavorando per l’elettrificazione della Russia e per la Salvaguardia dei Monumenti del Monastero di Sergev Pošad. Tuttavia, il suo essere presbitero ortodosso in un clima di ateismo di Stato lo porterà ben presto ad essere rinchiuso nel Gulag di Skovorordino prima e delle Solovki poi. Verrà fucilato come nemico del popolo nel 1937 in un bosco vicino Leningrado. La sua vita e le sue opere saranno condannate all’oblio in Russia, fino al crollo dell’Unione Sovietica quando, nel 1991, sono stati riaperti gli archivi del KGB e si è venuti a conoscenza della sua tragica fine. Per questo motivo, se volessimo descrivere la figura di Florenskij non potremmo non utilizzare l’immagine dell’incompiutezza. La sua vita, come la sua opera, rimangono infatti incompiute ma, se guardiamo con più attenzione al suo stesso metodo filosofico e scientifico possiamo notare come esso stesso sia segnato dall’incompiutezza. Florenskij stesso, nella sua biografia scritta per l’Enciclopedia universale russa, si è definito come un ricercatore piuttosto che come un pensatore sistematico.

Florenskij assunse a scopo della propria vita l’apertura di nuove vie per una futura e globale visione del mondo. In questo senso può essere definito un filosofo. In netto contrasto con i procedimenti e i fini del pensiero filosofico coevo, però, egli prende le distanze delle costruzioni astratte e della trattazione esaustiva dei problemi secondo schemi precostituiti. In tal senso egli va considerato un ricercatore. Per cui le prospettive più ampie sono sempre collegate all’analisi concreta e coerentemente impostata di aspetti singoli, se non specialistici.2

Un pensiero incompiuto, come quello di Florenskij, dunque, è un pensiero mancante. Una mancanza che non toglie nulla alla ricchezza intellettuale e alle sue intuizioni filosofiche, ma pone il suo pensiero sullo spartiacque fra il visibile e l’invisibile, sulla cresta fra la mancanza e l’apertura, fra il segno e il simbolo. Ed é questa mancanza che non diviene limite nella vita e nel pensiero, ma nuova ermeneutica della vita e del pensiero stesso. Infatti, il cardine attorno a cui ruota il pensiero di Florenskij è il simbolo. Lo studio di campi del sapere specialistici è dato proprio da questo interesse che egli matura fin dagli anni della Facoltà di Matematica per il simbolo, dove l’idea che ha Florenskij della simbolica è quella di un segno visibile che rimanda ad un invisibile, di un segno che contiene in sé qualcosa d’altro e che, per sua natura, sarebbe incontenibile. Un simbolo, dunque, non può essere guardato semplicemente da una prospettiva, come non può rimanere chiuso entro un solo campo di significato, ma ha bisogno di essere continuamente studiato, continuamente reinterpretato, continuamente rimesso nel gioco della cultura affinché possa funzionare. E la struttura simbolica del pensiero di Florenskij ha come matrice proprio la riflessione matematica di Georg Cantor a cui il giovane studente di matematica dedica i suoi primi scritti.

2. La matematica e l’infinito: Florenskij incontra Bugaev

Parlare della matematica nel pensiero di Florenskij non significa solo riferirsi ai suoi primi studi o alla sua giovinezza. Significa rintracciare la molla che lo ha portato alla conversione religiosa, allo sviluppo delle sue teorie sul simbolo, alla sua testimonianza di vita dal momento che non abbandonerà mai la materia. Dopo gli studi classici, Florenskij si iscrive alla Facoltà di Matematica e Fisica di Mosca. É qui che conosce il grande matematico Nikolaj Bugaev, padre del poeta Andreij Belyj, con cui Florenskij intreccerà una profonda amicizia. Il pensiero di Nikolaj Bagaev è improntato verso una teoria simbolico-matematica che rintraccia nell’insiemistica la relazione che intercorre fra finito ed infinito. Sono anni in cui in Russia si sviluppa una forte attenzione alla spiritualità e alla ricerca filosofica iniziata da Vladimir Solov’ëv. Le idee di Bugaev appassioneranno il giovane Florenskij tanto da concentrare la sua attenzione verso il principio di discontinuità in matematica.

Secondo il principio di discontinuità, nella serie dei numeri reali (R) c’è un punto, detto punto di discontinuità, che non rispecchia propriamente l’insieme (f) in cui si trova. In altre parole, il principio di discontinuità afferma che nell’ordine dei numeri reali (R) c’è un elemento, un numero, un punto, che interrompe la serie continua e che, quindi, divide l’insieme. Il punto di discontinuità è l’eccezione, l’elemento discriminante, l’anomalia che permette alla serie regolare di aprirsi a nuove comprensioni e, nel caso della realtà, ad evolversi. Florenskij dedicherà la sua tesi di laurea in Matematica proprio a questo principio e la intitolerà L’idea di discontinuità come elemento della concezione del mondo da cui rielaborerà un saggio pubblicato sulla rivista Vesy (Bilancia) nel 1904 con il titolo Su un presupposto della concezione del mondo.

Nel suo saggio sulla discontinuità e nella sua tesi di laurea in Matematica Florenskij mette in campo non solo le teorie matematiche che esprimono l’idea del continuum, ma anche la stessa descrizione del mondo che si cela dietro la teoria matematica. Infatti, secondo il nostro autore, nella teoria del continuum matematico si cela una precisa concezione del mondo come continuità, come insieme omogeneo e sistematico. Dunque, se il mondo è un insieme sistematico di eventi che si ripetono con una certa frequenza e con un certo grado di positività, allora significa che gli eventi del mondo possono essere misurabili, descritti, sistematizzati. La domanda che pone Florenskij, dunque, è cosa ne facciamo di tutti quei fenomeni che, in realtà, non si ripetono con la stessa frequenza o, meglio, che si frappongono alla continuità matematica del mondo. Fenomeni che la matematica guarda come errori di calcolo, che la scienza positiva vede come eccezioni, che le scienze umane considerano come anomalie, insomma tutto ciò che è in contraddizione con i dati misurabili, con la frequenza standard. Nel suo saggio Su un presupposto della concezione del mondo, Florenskij scrive:

Di fatto tale critica non si fece attendere a lungo e venne sferrata negli anni ottanta del XIX secolo da Georg Cantor. Detto matematico e filosofo portò l’idea della continuità – o meglio una rappresentazione indefinita della continuità più simile a una certa qual “evidenza immediata” – al livello di concetto esatto. Egli diede una famosa, a suo tempo, definizione di continuità: “il continuum è un gruppo coerente e perfetto di punti”. A dire il vero in questa definizione ogni parola è un termine per la cui chiarificazione andrebbe speso non poco tempo. Non ci si poteva, tuttavia, aspettare nulla di più, poiché il concetto di continuo non è affatto semplice ed elementare; esso è anzi per sua natura complesso. A ogni buon conto, la definizione di Cantor diede la possibilità di rapportarsi criticamente alla concezione del mondo del XIX secolo e di non accoglierla o respingerla dogmaticamente, cosa che volenti o nolenti si era costretti a fare prima della comparsa del suo lavoro. Se il continuum, tanto misterioso e vago fino ad allora, viene riportato al concetto generico di gruppo (insieme unito) – che solo in determinate condizioni sarà continuo, ma che in generale, è privo di questa proprietà –, di conseguenza costruendo una più ampia concezione del mondo non abbiamo alcun fondamento per soffermarci sulla “continuità” come elemento fondamentale della realtà e da ciò evincere per partito preso la famosa lex continuitatis.3

Il primo elemento che riscontriamo nella trattazione di Florenskij, dunque, è l’utilizzo del principio di continuità nella definizione di Cantor. Infatti, aver dato una definizione matematica al continuum come insieme di punti, porta a pensarlo all’interno di un sistema finito. E pensare il continuum come un sistema finito significa poter guardare ciò che è ai bordi del sistema ovvero la sua discontinuità relazionale con altri insiemi coerenti, con altri sistemi. Guardare ai bordi del sistema, dunque, significa poter guardare ai punti di discontinuità, a ciò che, allo stesso tempo, definisce il sistema non facendo parte del sistema stesso. I punti di discontinuità, infatti, sono quei punti del sistema che permettono di chiudere il sistema in un insieme coerente ma che, al tempo stesso, spingono a guardare ciò che è oltre il sistema. E se esiste qualcosa oltre il sistema significa che esiste qualcosa oltre la continuità, oltre ciò che è coerente. Questo è il paradosso del continuum, il quale si definisce grazie alla discontinuità e apre il suo significato in relazione a ciò che è oltre se stesso. Se Cantor ha evidenziato questa scoperta dal punto di vista matematico, Florenskij cerca di trasporre questa idea cantoriana ben oltre, in una nuova visione del mondo che Florenskij stesso mutua, come abbiamo già visto, da Bugaev. Alla fine del suo articolo scrive:

Alle sue lezioni e nei suoi articoli il professor Bugaev ci indicava ostinatamente il ruolo della discontinuità come elemento della concezione del mondo. Solo di recente le sue idee hanno riscosso qualche attenzione, ma la morte ha troncato il suo lavoro proprio quando idee affini alle sue cominciavano a emergere da sotto le rovine in vari anfratti della vita. A tutt’oggi tali idee sono ancora scialbe ed esigue, così che – volendo – non è difficile ignorarle. Basti, però, ricordare la “teoria delle mutazioni” di de Vries, la “eterogenesi” di Koržinskij, i fatti che le confermano in biologia, le opere di Tammann sulla termodinamica e la fisica molecolare, i materiali di psicofisica in rapida accumulazione, lo studio della percezione e dell’arte subliminale da parte della psicologia (K. du Prel, Myers, de Rochas, Baraduc) ecc., per comprendere che nella scienza il nuovo esplode da ogni dove.4

Matematici, psicologi, fisici, biologi, secondo Florenskij dappertutto si iniziano a vedere i segni di una nuova concezione del mondo che ha nell’idea del continuum il proprio fondamento matematico o, meglio, che il linguaggio matematico ha chiarito ed esplicitato ancora meglio. Inoltre, leggendo fra le righe dell’articolo di Florenskij, non solo riusciamo a comprendere l’importanza e la complessità dell’idea di continuum ma anche il grande fermento culturale di un paese come la Russia del Novecento. Un paese rimasto per lungo tempo isolato, volutamente o meno, dalle grandi conquiste e rivoluzioni d’Europa, almeno fino all’epoca di Caterina la Grande e Pietro II. Un paese che, proprio nel corso del Novecento, si affaccia sulle conquiste culturali europee e le fa proprie. Non per tralasciare la propria cultura, cosa di cui il popolo russo non ha mai fatto a meno, ma per rileggere la propria cultura e le proprie tradizioni. La grande rivoluzione russa, infatti, più che quella bolscevica, riguarda tutto il Novecento, dove pensatori, filosofi, matematici, uomini di cultura, linguisti hanno ricominciato a leggere le proprie tradizioni e a ripensarle, creando un pensiero del tutto nuovo e particolare. E dimostrazione di tutto questo è l’ermeneutica che Florenskij mette in atto delle idee di Cantor, per una nuova comprensione dell’infinito.

3. L’incontro con Cantor: il finito e l’infinito

Conosciuto attraverso il pensiero di Bugaev, Cantor esercita un’attrazione e un influsso sul pensiero florenskijano di ineludibile valore. Anzi, potremmo affermare che il pensiero di Florenskij nasce e si sviluppa dalle idee di Cantor pur rimanendo nella sua audace originalità interdisciplinare. In particolar modo, Florenskij rimane impressionato dalle teorie sull’insiemistica del matematico ebreo, tanto da strutturare il suo stesso pensiero sulla soglia fra il finito e l’infinito. Infatti, il punto di partenza del giovane Florenskij è proprio la riflessione sull’infinito. Molte volte, in una discussione o in uno scritto, ritroviamo questa parola. Ma dietro questa parola, seppur dia un senso di assolutezza, si celano una miriade di significati. In altre parole, l’idea stessa di infinito che possediamo non è mai identica sia nell’utilizzo che ne fa un individuo del termine, sia nella comprensione che più individui hanno dell’idea di infinito. Secondo Florenskij, il problema del travisamento dell’idea di infinito è nella non chiara differenza fra infinito potenziale e infinito attuale. Florenskij esplica questa differenza in un suo saggio dal titolo I simboli dell’infinito (Saggio sulle idee di Cantor), uscito per la Rivista Novij Put, e primo saggio a trattare, in Russia, delle idee del matematico del continuum. Scrive Florenskij:

Per sua definizione, ogni quantum può essere duplice. Esso può essere dato e stabilito in modo fermo e immutabile e del tutto determinato, e allora rappresenta ciò che va sotto il nome di costante. Ma può anche non essere determinato, e può mutare divenendo maggiore o minore. In quest’ultimo caso, viene detto variabile. L’infinito attuale, dunque, è un caso particolare del quantum costante, mentre l’infinito potenziale lo è del quantum variabile, e in ciò risiede la loro profondissima distinzione essenziale o, se si vuole, la loro sostanziale contrapposizione. Ma vediamo di spiegarlo meglio. Si dia una variabile e che essa muti in modo non fortuito, ma determinato, di modo tale che diventi maggiore – o minore – di un qualunque quantum continuo (finito) dello stesso genere. Tale variabile è finita in ogni sua condizione; nella nostra comprensione, tuttavia, il totale di queste condizioni si distingue dal totale di altre condizioni scelte arbitrariamente. È in questo senso che diciamo che il nostro quantum è un infinito potenziale, potenziale in quanto può diventare maggiore o minore di qualsivoglia altro quantum. Così facendo l’infinito potenziale non determina un qualche quantum preso di per sé, ma solamente un particolare modo di guardare al quantum stesso in relazione al carattere del suo specifico mutamento. A detta di Cantor, l’infinito potenziale non è un’idea, ma solo un concetto ausiliario; esso è un ens rationis, per usare la felice definizione di Stöckl. In breve, l’infinito potenziale è quel che gli antichi definivano ἄπειρον, gli scolastici syncategorematice infinitum, i nuovi filosofi cattivo infinito.5

La distinzione fra infinito attuale e infinito potenziale, dunque, è in relazione all’ente preso nella sua particolarità. Il quantum di cui parla Florenskij è qualsiasi ente misurabile, qualsiasi quantità. Ora, se la realtà fosse solo una questione di quantità avremmo quantità maggiori e quantità minori che possiamo misurare sempre e comunque in riferimento al quantum preso in considerazione. A livello teorico, dunque, se fossero possibili tutte le quantità maggiori e le quantità minori rispetto a quella presa in considerazione avremmo un infinità di quantità maggiori e minori. In tal modo, l’infinito stesso disgregherebbe la realtà presentandocela come luogo di infinite proporzioni. Perché l’infinito sarebbe solo un modo di rapportare le diverse quantità, ma non di prendere il quantum per ciò che esso è davvero, nel suo lato ontologico. Se questo infinito esistesse, allora, la realtà si ridurrebbe ad una proporzionalità illimitata dove il tutto e il nulla coincidono. Per questo motivo, Florenskij chiama questo infinito potenziale, utilizzandolo solo come concetto ausiliario, come elemento che può servire per comprendere, in negativo, qualcosa sull’infinito stesso. Infatti, per addentrarsi meglio in questa idea di infinito, Florenskij stesso utilizza le immagini metaforiche del tempo che inghiotte se stesso nella propria ripetitività, oppure lo associa all’idea stessa di ἄπειρον ovvero di un infinito come ciò che non è limitato. E, non essendo limitato, inconoscibile e inesistente nella realtà. Invece, secondo Florenskij, se volessimo guardare all’infinito attuale avremmo bisogno di ritornare ad un quantum inserendone il concetto di costante. Leggiamo:

Analizziamo ora l’altro genere di infinito: l’infinito attuale. A questo scopo torniamo al nostro punto di partenza e al concetto di quantum, di quantum continuo, e arricchiamone il contenuto di costante con una nuova proprietà: una costante può essere tale da stare nella serie di altre costanti dello stesso genere, e cioè maggiore di alcune costanti finite e minore di altre. Allora sarà anch’essa finita. Ma può capitare che essa non stia nella serie di altre costanti in quanto maggiore, per quanto grande la si possa scegliere, di qualunque costante finita. Diremo allora che il nostro quantum è un infinito attuale, un infinito in actu, actualiter, e non solo in potentia. Nel dialogo Bruno, per esempio, Schelling scopre brillantemente che ogni concetto è un infinito in quanto unisce in sé una quantità di rappresentazioni senza con ciò essere finito; essendo, però, il volume del concetto – in realtà – assai determinato e dato, tale infinito altro non può essere che un infinito attuale. Ogni giudizio e ogni teorema recano in sé un infinito attuale e in questo sta la forza del pensiero logico, come già aveva indicato Socrate.6

L’infinito attuale, dunque, non è solo un ens rationis ma, potremmo dire è l’ens rationis, ovvero ciò che ci permette di guardare alla realtà non semplicemente suddividendola in una miriade di proporzioni e di rapporti ma raggruppandola secondo idee ben precise e, quindi, finite. Nel duplice linguaggio che utilizza Florenskij, matematico e filosofico, dunque, possiamo riconoscere come l’infinito attuale non sia semplicemente un prodotto della ragione ma lo stesso modo con cui noi ragioniamo, la stessa possibilità di tenere insieme la realtà, invece che di disperderla e disintegrarla. In questo senso, dunque, l’infinito è attuale, in quanto mette in atto la realtà stessa, in quanto è reale esso stesso. Ma non è solo reale in quanto positum della realtà, ma soprattutto in quanto ci permette di entrare nella realtà stessa, attraverso le idee, attraverso una possibilità che stupisce, per quanto possa essere banale. La possibilità di tenere insieme oggetti in modo chiaro e distinto, ponendo una differenza oggetti e oggetti, avendo la possibilità di descrivere un insieme infinito di enti secondo un’idea finita. Parole come cane, albero, stella, cavallo ecc. possono contenere dentro di sé un numero infinito di enti, sia come enti realmente positivi, sia come enti virtuali, sia come enti immaginari. In altre parole, l’infinito attuale è il modo stesso con cui stiamo al mondo, la nostra postura logica nei confronti della realtà. L’esempio di Socrate portato da Florenskij è calzante. Infatti, la continua domanda su un’idea finita come può essere quella del bene, della giustizia, dell’uguaglianza, del linguaggio porta a continue sfaccettature, a continue interpretazioni, ad una pluralità di risposte che continuamente vengono messe e rimesse in discussione. Per questo motivo, l’infinito attuale è il domandare sulla realtà che ci permette di guardare alla realtà stessa come una complessità viva.

Il merito di Georg Cantor è quello di aver ipotizzato che l’insieme dei numeri reali, dal momento che potessero essere suddivisi per insiemi, contribuissero ad esplicitare l’attualità dell’infinito stesso. Se prendiamo i numeri reali (R), notiamo come essi siano in progressione: 1-2-3-4 ecc. Tuttavia già parlare di insieme di numeri reali (R) significa prendere una parte, un insieme dei numeri naturali (N). Prenderne una parte, raggruppandola, non elimina il fatto che questo insieme sia infinito, paradossalmente, infinito. Un insieme, infatti, per sua definizione è una parte, ma l’insieme dei numeri, per quanto sia una parte, è sempre una parte infinita di una serie infinita. Inoltre, se nell’insieme dei numeri reali (R) decidessimo di prendere una parte e, quindi, di circoscrivere un ulteriore insieme, ad esempio dei numeri pari, noteremmo che questo insieme rimane sempre infinito. Ma così anche se scegliessimo di prendere un insieme arbitrario di numeri in serie, fra di essi ci sarebbero sempre e comunque una serie infinita di numeri. Insomma, l’insiemistica di Cantor tende a dimostrare che nella serie reale dei numeri c’è un infinito attuale che si differenzia da un infinito potenziale. Il quantum di cui parla Florenskij è una misura stabile, matematicamente data a priori. In altre parole, se prendiamo una particella minima quale può essere un numero, rimanendo costante nella sua forma finita, rivela in sé un infinito attuale, dal momento che non cambia con il mutare degli insiemi stessi. I numeri reali rimangono sempre e comunque nella loro unità seppur si decide di raggrupparli in un modo o in un altro. Eppure, nella loro costante finita, paradossalmente, appartengono all’infinito. Per questo, l’infinito e il finito non si contrappongono come due concetti separati, ma troviamo l’infinito nel finito stesso. Questo è l’infinito attuale, ciò che rivela la potenzialità di un simbolo stesso, dai numeri a tutti gli altri simboli che analizzerà Florenskij. All’infinito attuale, tuttavia, si contrappone l’infinito potenziale ovvero quell’infinito illimitato, che non parte e non porta da nessuna parte, che disgrega se stesso implodendo su di sé. Questo cattivo infinito è ciò a cui maggiormente ci riferiamo, più o meno consapevolmente, quando pensiamo l’infinito in sé. Invece, l’infinito attuale ci rivela qualcosa d’altro, ci rivela che l’infinito è reale. E, dinanzi a queste considerazioni, anche Cantor si ferma.

Riguardo ai gruppi finiti Cantor dimostra che in essi una parte del gruppo non è mai equivalente al gruppo intero; tuttavia, se non poniamo che il gruppo sia finito, “tale assunzione cessa di essere esatta, e qui – dice Cantor – risiede il fondamento profondissimo della differenza sostanziale tra i numeri e i gruppi finiti e attualmente infiniti, una differenza che è talmente grande da autorizzarci a definire i numeri infiniti come una serie di numeri del tutto nuova. Sin dall’antichità matematici e filosofi non sono riusciti a venire a capo di quest’inciampo, e la maggior parte di essi decise di ritenere ostinatamente e inflessibilmente che ciò andasse opposto a ogni tentativo di compiere ulteriori passi nella teoria degli infiniti; stupisce quanto ostinato sia tale principio – antico e radicato, nonostante la mendacità –, ossia che è una contraddizione se a un gruppo infinito M si attribuisce lo stesso numero che a una parte di M”.7

Il problema che emerge dinanzi agli occhi di Cantor, dunque, è quello di non poter dire di un insieme l’identica cosa che affermiamo di una parte dello stesso insieme. Infatti, se questo fosse possibile, allora, non ci sarebbe né un insieme né le sua parti, dal momento che l’insieme e le parti sarebbero la stessa identica cosa. Tuttavia, non possiamo non riconoscere che, dentro un insieme finito ci siano una infinità di insiemi finiti che, al loro interno, rimangono infiniti. Il problema di pensare l’infinito attuale, dunque, è nel superare la dicotomia fra finito e infinito, di superare una scissione che è nella nostra mente e che ci conduce ad una precisa visione del mondo, dove l’infinito viene, in un certo qual modo, tagliato fuori da tutto ciò che è finito. Per questo motivo, dunque, Cantor porta avanti la sua riflessione su un altro livello, su una serie di numeri-simbolo che non sono quantitativi ma, potremmo dire, relazionali: i numeri transfiniti.

I numeri transfiniti sono quei numeri che non servono ad indicare delle quantità ma delle relazioni fra i vari insiemi. Sono numeri che Cantor (e Florenskij) tratta come simboli, ovvero come segni che indicano una relazione fra due potenze più che una semplice quantità. Operando sui simboli, Florenskij fa notare come Cantor rifletta non sulle quantità infinite ma sulle relazioni di infinito che sono presenti nei diversi insiemi. È come se Cantor andasse alla ricerca di una struttura fondamentale in grado di poter descrivere la relazione che esiste fra gli insiemi infiniti, relazione che permette al tutto e alla parte di non soccombere l’una nell’altra. Ora, per salvaguardare il tutto e la parte occorre riconoscere come in ogni insieme infinito c’è sempre una potenza che ci permette di stabilire la grandezza di un insieme. Per questo, insiemi più grandi hanno una potenza maggiore delle loro parti, pur rimanendo infiniti entrambi. Il numero-simbolo transfinito che ci permette di considerare una potenza è א~0~ (aleph-zero), il quale indica la cardinalità del numerabile, ovvero ciò che mette in relazione due insiemi senza assorbire l’uno nell’altro. A tutto questo si aggiunge che א~0~ non può essere considerato un numero vero e proprio dal momento che la potenza di un numero è sempre e comunque א~1~, proprio in quanto potenza, mentre א~0~ rimane sempre e comunque l’idea dell’inizio di ogni potenza, quasi l’origine strutturale di ogni relazione fra insiemi infiniti, ciò che ci permette di guardare all’infinito attuale come realtà.

Se il racconto di Florenskij ci può sembrare solo una esposizione delle teorie di Cantor, in realtà il nostro autore ha presente qualcosa di più. Infatti, il suo intento non è semplicemente quello di presentare le teorie matematiche di Cantor ma di dichiarare una precisa e alternativa visione del mondo che ha nella matematica il suo linguaggio privilegiato. Secondo Florenskij, infatti, Cantor elabora una nuova visione del mondo che si contrappone al positivismo classico per cui ciò che esiste è solo ciò che è finitamente misurabile, per tornare ad una visione più dinamica e viva della realtà. In altre parole, ciò che definiamo come reale, secondo Cantor e Florenskij non è semplicemente ciò che vediamo ma è la relazione che esiste fra il finito e l’infinito, la presenza dell’infinito nella organizzazione stessa della vita finita. Infinito che diviene potenza del finito e che rientra, secondo Florenskij, in una visione ebraica del mondo. Scrive il nostro autore:

Se, come persona, Cantor appare quale modello vivissimo di ebreo, la sua visione del mondo ne è altrettanto – se non più – tipica. L’idea dell’infinità perfetta (infinito finito) della persona assoluta – Dio – così come della persona umana è prerogativa dell’ebraismo, e quest’idea pare essere il fondamento più sostanziale di Cantor. Mentre gli altri, gli ariani, ammettono solo l’infinito potenziale, l’infinito “cattivo”, l’indefinito e l’illimitato, alla sua anima l’idea dell’impossibilità dell’infinito attuale pare mostruosa. Egli non riesce a rassegnarsi e cerca i modi per giustificare ciò in cui crede. Persino l’infinito potenziale, per lui, è importante solo a condizione di una crescita non indefinita, non il-limitata nel senso primo del termine, ma a condizione di un tendere verso quello stesso confine, verso l’infinito attuale quale suo scopo ideale. Si è soliti guardare all’infinito potenziale, alla progressione sub specie finiti con gli occhi di questo mondo. Cantor, invece, vi guarda da un altro punto di vista, dal punto di vista dello scopo, lo vede sub specie infinitatis. Egli vede come “passa l’immagine di questo mondo”. E in questa contrapposizione di visioni si inseriscono ancora una volta le motivazioni basilari che stanno all’origine dell’idea della umano-divinità: da una parte l’idea dell’uomo finito che resta sempre finito e uguale a se stesso, ma che desidera salire sempre più in alto, e dall’altra l’idea della Divino-umanità, dell’“attuazione dell’Assoluto”. È la stessa contrapposizione che si coglie nelle parole del serpente tentatore: “sareste come dèi” e nelle parole della Scrittura: “Voi siete dèi, siete tutti figli dell’Altissimo”.8

Da queste considerazioni su Cantor e sulle teorie dell’insiemistica e del continuum, Florenskij tesserà il suo pensiero, attraversando vari campi: dalla filosofia all’arte, passando per la teologia. Campi in cui il nostro autore apre nuove prospettive di riflessione, soprattutto per quanto riguarda la questione del simbolo, elemento a cui Florenskij rimarrà per sempre legato. Ci prepariamo, ora, ad esaminare almeno tre campi di applicazione delle teorie cantoriane nella riflessione florenskijana: la filosofia, la teologia, l’arte.

4. Il continuum in filosofia: gli universalia

L’opera che maggiormente riflette lo spessore filosofico di Florenskij in relazione alle teorie del continuum è Il significato dell’idealismo. In queste pagine Florenskij esprime tutta la sua simpatia filosofica per il platonismo e, in particolare, sulla teoria degli universali come sorgente di tutta la storia della filosofia. Il centro de Il significato dell’idealismo, infatti, riecheggia le lezioni di Storia della Filosofia, che padre Florenskij teneva presso l’Accademia Teologica di Sergev Pošad. Anzi, il libro si presenta come una vera e propria parte propedeutica per gli studenti dell’Accademia, in vista di altre lezioni e conferenze che Florenskij avrebbe tenuto durante l’anno. Una sorta di introduzione alla Storia della Filosofia attraverso la particolare angolatura del platonismo. Angolatura che Florenskij sceglie in relazione ad una complessa e complessiva Weltanschaung. Una visione del mondo, dunque, in cui la complessità possa essere conosciuta attraverso l’uso dei simboli, i quali non rimandano soltanto a gruppi e schemi conoscitivi ma ad altri mondi, ad un riconoscimento dello stesso essere umano inserito fra il mondo visibile e il mondo invisibile. In altre parole, Florenskij esamina la filosofia di Platone perché vede in essa un atteggiamento spirituale, un certo modo di essere nel mondo, un certo sguardo sulla realtà che tiene insieme l’esperienza e la conoscenza, la realtà e la vita. Infatti, il primo passo che fa Florenskij è quello di capire come è possibile un atto di conoscenza. Come è possibile conoscere? Come conosciamo? Come poter affermare che ciò che conosciamo è davvero reale? Cosa possiamo dire della realtà? Cosa è la realtà? Tutte domande su cui Florenskij concentra la propria riflessione parlando degli universali.

Quando dico: “Il cavallo è un animale vertebrato”. Oppure: “In un triangolo rettangolo l’area del quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma delle aree costruite sui cateti di quello stesso triangolo rettangolo”, allora io, qui e ora, eseguo un atto di conoscenza che comunque, in tutte le sue relazioni, è isolato. Io eseguo questo atto di conoscenza adesso, qui. Ma proprio perché è questo, cioè limitato dal momento e dal luogo, è come se trasbordasse oltre i confini del suo isolamento e si estendesse nelle infinite lontananze del tempo e dello spazio. Essendo un atto isolato, esso, con il suo contenuto, in quanto atto di conoscenza, ha una sua infinità, un suo carattere infinito, poiché afferma che tutti i cavalli, a prescindere dal tempo e dal luogo della loro esistenza, sono così come esso li definisce e cioè sono degli animali vertebrati. Allo stesso modo, tutti i triangoli rettangoli, a prescindere dal tempo e dal luogo in cui sono pensati, sono sempre simili, tanto che a essi è legittimo applicare il teorema di Pitagora. L’atto di conoscenza, cioè il concetto e il giudizio, sebbene singolo, è infinito, ed è in questa unione del finito con l’infinito, in questa paradossale finitezza e infinità, in questa inscindibile, indivisibile opposizione dell’atto conoscitivo, in questa sua antinomia che consiste il grande enigma degli universalia.9

Il processo della conoscenza su cui si sofferma Florenskij, dunque, esprime chiaramente la questione dell’infinito e del finito. Infatti, un singolo atto di conoscenza è ciò che avviene qui ed ora, nel momento in cui stiamo conoscendo un oggetto concreto. Ma la conoscenza di un oggetto non presuppone la conoscenza di tutti gli oggetti simili ma di un universale che viene ri-conosciuto in quell’oggetto stesso. Non ci sarebbe nessuna conoscenza se questa fosse legata semplicemente ad una serie indeterminata di oggetti da conoscere e da catalogare. Invece, ciò che rende possibile una conoscenza certa dell’oggetto è ciò che, al tempo stesso, trascende l’oggettità. Un atto di conoscenza è un atto finito in quanto si esaurisce dinanzi all’oggetto conosciuto. Tuttavia, il processo per giungere alla conoscenza dell’oggetto va ben oltre l’oggetto stesso, tanto che conosciamo nell’oggetto qualcosa che ri-conosciamo in altri oggetti simili. Per questo ogni atto di conoscenza è, al tempo stesso, finito e infinito. Finito nella conoscenza dell’individualità del singolo oggetto conosciuto, infinito nel processo attraverso cui l’oggetto viene conosciuto.

Florenskij giunge a questo paradosso della conoscenza attraverso le teorie di Cantor, attraverso il paradosso matematico di un infinito che si trova all’interno di una finitezza, di ogni finitezza. Il problema, tuttavia, si sviluppa sulla sostanza degli universali, ovvero se essi siano o meno delle entità reali o semplicemente delle convenzioni che usano gli esseri umani o, ancora, dei processi mentali innati. Florenskij rintraccia due principali correnti per quanto riguardano gli universali che hanno dato vita a tutti gli sviluppi successivi: il realismo e il terminismo. Per quanto riguarda le correnti filosofiche che appartengono al realismo, esse ritengono, con una certa gradazione, che comunque gli universali siano delle sostanze reali. Per quanto riguarda il terminismo, invece, gli universali sono semplici convenzioni o denominazioni che l’essere umano ha creato e che si è dato nel corso della storia per identificare e catalogare la realtà. Se il realismo guarda agli universali da un punto di vista, utilizzando le parole di Florenskij, oggettivo, per il terminismo gli universali sono semplici entità soggettive. Lavorando sulla discrepanza fra realismo e terminismo, Florenskij giunge ad una comprensione nuova degli universali. Guardando alla matematica di Cantor, infatti, Florenskij non è né per un realismo esasperato che conduce alla distinzione di due piani fra quello del mondo visibile e quello del mondo invisibile, ad una scissione fra realtà e idee, né ad una terminismo che rende impossibile l’attaccamento della conoscenza alla realtà, ponendo una scissione kantiana fra fenomeno e noumeno. Secondo Florenskij, dunque, gli universali sono delle realtà che aprono la porta del finito sull’infinito. Ogni universale, dunque, è ciò che nelle teorie di Cantor, sono i numeri transfiniti, ovvero quei simboli che permettono di guardare alla realtà come un insieme finito e infinito al tempo stesso. Ma ciò che in matematica sono i numeri transfiniti, per la filosofia sono le idee. E qui c’è tutta la particolare interpretazione del platonismo che Florenskij chiama, appunto, idealismo.

I contorni dell’idealismo che abbiamo appena delineato sarebbero troppo poveri e aridi se noi non tentassimo di dare loro delle sfumature, rendendoli più vicini alla nostra esperienza di vita. e le idee platoniche resterebbero un’esigenza gnoseologica puramente formale, se non cercassimo di mostrare, non dico le idee stesse, ma magari qualcosa di simile ad esse. Una cosa è certa: qualsiasi atto della vita è sintetico, così come, in particolare, qualsiasi atto di conoscenza è sintetico, e pertanto è pervaso dal principio ideale. Ma per comprendere l’idealismo è necessario discernere quelle manifestazioni del principio unificante della vita nelle quali l’ideale si mostra con particolare luminosità. Con queste brevi conferenze, pur senza pretendere di risolvere la questione fondamentale, relativa al modo in cui siano possibili le idee da un punto di vista psicologico, metafisico e gnoseologico, potremo tuttavia chiarire, sulla base del vissuto concreto, come nell’esperienza di vita l’antinomia delle idee non si presenti affatto sotto forma di qualcosa di inatteso. Non ci siamo profusi in una astratta difesa dell’idealismo come dottrina, ma abbiamo cercato piuttosto di comprendere il suo significato per la visione del mondo e la percezione della vita.10

Il problema degli universali, dunque, non è solo un problema di pensiero, ma è un problema che riguarda la vita stessa, il nostro modo di essere nel mondo. Secondo Florenskij, infatti, la questione degli universali indica il nostro modo di percepire la vita stessa, di riflettere sulle nostre esperienze. Tanto che il problema non si risolve nella disputa fra realismo o terminismo, come se fosse essenziale schierarsi a favore dell’una o dell’altra teoria. Riflettere sul problema degli universali significa porsi la domanda se la nostra conoscenza abbia qualcosa di attinente alla realtà o se sia solo convenzionale. E se la nostra conoscenza ha qualcosa a che vedere con la realtà, se, in qualche maniera, si aggancia alla realtà, allora il come conosciamo diviene idealismo nella misura in cui viviamo l’antinomia stessa della realtà, fra finito e infinito. E vivere filosoficamente allo spartiacque fra il finito e l’infinito, significa essere consapevoli che in ogni segmento di finito si manifesta l’infinito che connette e rende viva tutta la realtà. In questo, secondo il nostro autore, è l’essenza dell’idealismo. Ora, se l’essenza dell’idealismo è nella connessione vivente di ogni ente della realtà, il fondamento dell’idealismo, secondo il nostro autore, è oltre il singolo essere umano come anche oltre tutta l’umanità presa nel suo insieme. Infatti, il fondamento dell’idealismo, per Florenskij, è nella Triunità divina. Scrive:

Gli universalia, staccandosi a vari livelli dall’empirismo ed entrando nell’empiria, acquisiscono man mano una certa concretezza, ma fanno sorgere anche nuove domande sulle idee delle idee, poiché anch’esse, le une in relazione alle altre, risultano unità che esigono un principio a esse superiore. Sorge la teoria delle gerarchie degli esseri celesti e l’intera piramide delle idee risale al suo apice, all’idea delle idee (ἰῶδέα τῶν ἰδεῶν), secondo l’espressione di Filone, a Dio che è l’essenza di tutte le essenze, poiché solo in lui esse ricevono la loro ragione e la loro realtà. Qui sorge la nostra questione sull’auto-fondamento di Dio e la concezione dell’idealismo si sposta inevitabilmente sul problema della teodicea. Dopo un accurato studio sulla teodicea, risulta che soltanto la Triunità è ἓν καἰ πολλά in senso proprio e definitivo, cioè in essa soltanto trova una risposta la questione fondamentale di tutta la filosofia. E inoltre, proprio nel dogma della Trinità i temi fondamentali dell’idealismo, che già vari pensatori avevano affrontato in modo diverso e con un certo anticipo, si intrecciano in un unicum e risuonano in tutta la loro estrema chiarezza. La nascita, la vita, la bellezza, la creazione, l’uno nel molteplice, l’amore che conosce, l’eternità ecc., questi momenti separati del dogma trinitario non sono forse oggetto di vivo interesse da parte di tutto l’idealismo, anche se in esso ancora debolmente riflessi?11

Secondo Florenskij, dunque, il fondamento di tutta la teoria degli universali trova il proprio punto di arrivo proprio nella Unità e Trinità del dogma cristiano su Dio. Tuttavia, per comprendere meglio questo punto di arrivo avremo bisogno di addentrarci nella dimensione della teodicea e della teologia florenskijana che affronteremo prossimamente. Ciò che ci preme sottolineare, giunti a questo punto, è che il Dio Uno e Trino non viene pensato da Florenskij come assioma per giustificare le sue teorie come non viene neanche preso in considerazione per una difesa del suo pensiero o per spiegare la realtà così come è. Il percorso di Florenskij verso il Dio Uno e Trino, come è affermato dal dogma cristiano, è un percorso logico ed esistenziale che il nostro autore affronta nel corso stesso della sua vita. Si tratta, in altre parole, di un approdo a cui giunge attraverso la teoria matematica di Cantor e la teoria delle idee di Platone. In entrambe Florenskij raggiunge questo grado di consapevolezza per cui il finito è colmo della misura dell’infinito e i simboli ci permettono di aprire, in ogni campo del sapere, la relazione esistente fra i due. Tuttavia, per guardare ai riflessi teologici delle teorie del continuum matematico ci occorre prendere in esame il capolavoro di Pavel Florenskij: La colonna e il fondamento della Verità.

5. Il continuum alla ricerca della Verità: colonna e fondamento

Molte delle opere di Florenskij sono rimaste incompiute, a causa della sua tragica fine. Tuttavia, questo non vale per La colonna e il fondamento della Verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere. Presentata per la prima volta come tesi di dottorato presso l’Accademia Teologica di Mosca, viene pubblicata da Florenskij solo nel 1914, a seguito di un imponente apparato critico, con rimandi e riferimenti a quasi tutti i campi del sapere. La colonna e il fondamento della Verità, infatti, non si mostra come una semplice tesi dottorale ma come un insieme di lettere che Florenskij scrive ad un suo amico (ancora discusso su chi sia), scomparso improvvisamente. La morte dell’amico permette a Florenskij di tracciare un percorso che ha un obiettivo chiaro fin dalle prime pagine delle lettere. Già nella prima lettera, intitolata I due mondi, Florenskij scrive:

Le foglie autunnali cadono disegnando cerchi sulla terra. Calda e placida arde la lampada perpetua, le persone amiche muoiono l’una dopo l’altra. “So che risorgeranno nella resurrezione nell’ultimo giorno”, e tuttavia, con sorta di pena pacata, davanti alla nostra croce che tu hai composta con semplici bastoni e che fu santificata dal nostro starec, gentile, ripeto: “Signore! Se Tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto”. Tutto volteggia, tutto scivola nell’abisso della morte. Solo Lui rimane, solo Lui è l’immutabilità, vita e riposo. “A Lui tende tutto il corso degli eventi; come la periferia verso il centro, in Lui convergono tutti i raggi del tempo”. Queste parole non le dico io, con la mia povera esperienza: le testimonia Teofane il Recluso, che si è sprofondato tutto nell’Unico Centro, l’En. Per contro, al di fuori di quest’Unico Centro, “l’unica certezza è che niente c’è di certo e che niente c’è di più miserabile e di più superbo dell’uomo: solum certum nihil esse certi et homine nihil miserius aut superbius”, come scrisse Plinio il Vecchio, uno dei pagani più nobili, consacrato tutto alla sua sete infinita di sapere. Sì, nella vita tutto si agita, tutto vacilla in immagini di miraggio, ma dal profondo dell’anima si innalza la necessità ineluttabile di appoggiarsi alla “Colonna e Fondamento della Verità” (στῦλος καὶ ἑδραίωμα τῆς ἀληθείας) (1Tim 3,15), della Verità, τῆς ἀληθείας, e non semplicemente ἀληθείας, di una delle verità, non di una verità particolare, bonaria, umana, che si contorce e vola lontano, come polvere spinta verso i monti dal soffio del vento; della Verità (Istina) integra ed eterna nei secoli, una e Divina, della Verità luminosa e sovra luminosa, di quella Verità-Giustizia (Pravda) che secondo un antico poeta “è il sole per il mondo”.12

La domanda che stringe Florenskij parte, anzitutto, da una perdita. La mancanza del suo amico, il trauma che segue, lo portano ad una riflessione profonda sul trascorrere del tempo, sulla caducità e sulla consunzione della realtà. Tuttavia, all’interno di un tempo che passa e che sembra divori tutto con sé, ecco che emerge un desiderio su cui la domanda inciampa. È il desiderio di eternità, di qualcosa che perduri nel tempo, di un quid che sia risposta al perché della realtà stessa. Una risposta che sia Verità, con la lettera maiuscola. E Florenskij è attento, proprio in questo duplice riferimento alla Verità. Da una parte, infatti, c’è la Verità (Истина, Istina) e dall’altra le verità (Правда, Pravda). A Florenskij, dunque, non interessa una verità che sappia accontentare la nostra presenza temporale in questo mondo, come se fosse una certezza o una nostra convinzione. La ricerca di Florenskij è verso una Verità metafisica nel senso etimologico della parola, ovvero che permane anche dopo di noi, che non viene scalfita dal tempo e che, contemporaneamente, dà senso al tempo stesso. La domanda di Florenskij è una domanda prettamente filosofica in quanto cerca di giungere ad una epistemologia metafisica, alla Verità infinita. Ma non per una mera curiosità intellettuale, ma perché questa ricerca si pone come inevitabile domanda esistenziale.

Dopo una prima ricognizione etimologica dei vari termini per dire Verità, Florenskij concentra la sua attenzione sul principio di identità, interpretato su un duplice livello. Il principio secondo cui A=A, ha permesso, da Aristotele in poi, di definire le basi della logica e, di conseguenza, dei ragionamenti per sillogismo. Tuttavia, Florenskij fa notare come il principio di identità (A=A) sia semplicemente un principio formale che non dice nulla della realtà, a parte ribadire ciò che già conosciamo. Infatti, conoscere A significa già dire che la realtà è A, senza mettere in discussione che la realtà stessa non possa essere A. Eppure, il principio di identità costituisce uno dei perni della logica ovvero di un retto uso della ragione. Inoltre, Florenskij sposta il principio di identità su un livello esistenziale, affermando così che se Io=Io abbiamo la morte dell’individuo stesso, il suo chiudersi all’interno di se stesso, senza contatti con l’esterno. Proseguendo con la sua riflessione, Florenskij pensa ad una fuoriuscita dal principio di identità logico-esistenziale attraverso una sospensione del giudizio (ἐποχή), per cui non possiamo dire nulla della realtà, al di fuori dei principi logici che utilizziamo. Ma non poter affermare nulla della realtà, ci fa notare Florenskij, non risolve la questione dal momento che la domanda su come raggiungere la Verità. Allora, la vera questione che si pone non è tanto su quale metodo utilizzare per giungere alla Verità, ma riflettere su come i vari metodi che utilizziamo risentono tutti di un regressus ad indefinitum che Florenskij stesso aveva già posto come sintomo di un cattivo infinito o infinito potenziale, studiando le idee di Cantor. Anzi, proprio rifacendosi alla matematica di Cantor, Florenskij inizia a pensare ad un nuovo metodo per giungere alla Verità.

Quindi tutta la nostra attenzione deve concentrarsi sulla tesi duplice nella forma, ma unica nell’idea: “La Verità è intuizione, la Verità è discorso”, o semplicemente: “La Verità è intuizione-discorso”. La Verità è un’intuizione dimostrabile, ovvero è discorsiva. Per essere dimostrabile (discorsiva), l’intuizione non deve essere cieca, ottusamente limitata, ma deve aprirsi sull’infinito, deve, per così dire, essere parlante, ragionevole. Dall’altra parte la discursio non deve andare nell’indefinito, deve essere non solo possibile ma anche reale, attuale. L’intuizione discorsiva deve racchiudere in sé la serie infinita e sintetica dei propri fondamenti. Il discorso intuitivo a sua volta deve sintetizzare tutta la propria serie indefinita di fondamenti nella finitezza, nell’unità, in un’unità. L’intuizione discorsiva è un’intuizione differenziata all’infinito; il discorso intuitivo è una discursio integrata fino all’unità. Quindi se la Verità esiste, allora, è una razionalità reale e una realtà razionale; un’infinita finitezza, ovvero, per esprimerci in termini matematici, un’infinità attuale, un Infinito pensabile come Unità complessiva, come Soggetto uno e in sé finito. Benché finita in sé, essa racchiude tutta la pienezza della serie infinita dei suoi fondamenti, la profondità della sua prospettiva; è il sole che con i suoi raggi illumina se stesso e tutto l’universo; è un abisso di potenza e non di nullità. La Verità è moto immobile e immobilità che si muove, unità degli opposti, è coincidentia oppositorum.13

Per riconoscere la Verità, dunque, bisogna entrare in un terreno nuovo. Innanzitutto, non bisogna distruggere il principio logico di identità ma riconoscerne la sua limitatezza come principio prettamente formale. Il passaggio che mette in campo Florenskij, infatti, sta nel coniugare nuovamente l’esperienza con la conoscenza, poter riallacciare i nodi della gnoseologia e dell’ontologia. In questo modo, dunque, la ricerca della Verità non poggia su elucubrazioni mentali ma parte dalla riflessione sull’esperienza stessa, una riflessione esistenziale. Infatti, poter parlare della Verità come intuizione-discorso significa poter affermare che facciamo esperienza della Verità (intuizione) e che possiamo raccontare questa esperienza, possiamo dimostrarla e comunicarla agli altri (discorso). Ma perché comunicare una esperienza agli altri, se non perché riteniamo che abbia un valore non solo particolare ma universale? Raccontare una esperienza significa affermare già nel racconto stesso che quel singolo episodio particolare della nostra vita ha un valore non solo per noi, nella singolarità del tempo che passa, ma anche per gli altri, donne e uomini. In questo si cela la coincidentia oppositorum della Verità stessa, nella sua intuizione discorsiva, in cui il particolare e l’universale vengono tenuti insieme.

In questa prospettiva, dunque, anche il principio d’identità assume un altro valore. Coniugando l’aspetto logico con quello esistenziale, Florenskij si pone una ulteriore domanda che non è semplicemente quella di attestazione del principio logico. Infatti, la domanda di Florenskij riguarda il fondamento logico di ogni A=A, ovvero: come è possibile che ogni A sia A? Passando dal livello formale a quello metafisico, ogni A è A, dal momento che A non è non-A. Anche se la variazione della definizione ci può sembrare solo un gioco di parole, ciò che intende dire il nostro autore, è che ogni A è tale perché viene messa in relazione a ciò che non è lei stessa, a ciò che è non-A. Ma se A non è non-A, allora A stesso prende la sua definizione da ciò che non è, ovvero da non-A. In altre parole, abbiamo una conoscenza che non rimane su un principio formale di identità ma scava più in profondità, in una dinamica relazionale fra A e non-A. Dove a non-A possiamo sostituire B, il che non sarebbe tale se non fosse anche definito in relazione ad un non-B. Dove non-B, non può essere nuovamente A, altrimenti avremmo identità fra A e B, il che sarebbe un errore, dal momento che A è diverso da B. Allora, se sostituiamo a non-B, la lettera C allora ci accorgeremmo che A ritrova se stesso in C, in quanto viene confermato nel suo essere A. E questo vale anche per B. Con questo procedimento, trasferendosi dal piano logico a quello esistenziale, Florenskij giunge a riconoscere la Verità come Triunità divina.

L’autodimostrazione e auto fondazione dell’Io Soggetto della Verità è una relazione con il Lui attraverso il Tu. Attraverso il Tu, l’Io si fa Lui oggettivo e in questo trova la propria affermazione e oggettivazione come Io. Il Lui è l’Io rivelato. La Verità contempla se stessa attraverso se stessa e in se stessa, e ogni momento di questo atto assoluto è assoluto, è la Verità. La Verità è la contemplazione di sé attraverso l’Altro nel Terzo: Padre, Figlio, Spirito. Ecco la definizione metafisica della “sostanza” (οὐσία), del Soggetto auto dimostrabile che, come si vede, è una relazione sostanziale. Il Soggetto della Verità è la Relazione di Tre. E siccome la relazione concreta è un sistema di atti di attività vitale, nel nostro caso un sistema infinito di atti sintetizzati in unità (oppure un atto unico infinito), possiamo affermare che la οὐσία della Verità è l’atto infinito di Tre nell’Unità.14

In queste pagine è preponderante l’utilizzo che Florenskij fa delle teorie matematiche di Cantor, sottolineando non solo un passaggio dalla matematica alla teologia ma da un modo di conoscere Dio a farne esperienza. Infatti, come una parabola che sale fino a raggiungere l’acme e poi riscende nella concretezza dell’esistenza, La colonna e il fondamento della Verità è un percorso di teodicea non come lo intende la filosofia occidentale di stampo leibniziano. A Florenskij, in altre parole, non interessa giustificare il male dinanzi a Dio e viceversa rispondendo alla domanda Si Deus, unde malum? Ciò che interessa al nostro autore è di mettersi in cammino per giungere a ciò che nel tempo non muta, quell’anelito di vita che eccede persino la morte. E Florenskij chiama questo percorso teodicea e non teologia proprio perché, nell’Oriente ortodosso, la teologia è già l’ultimo stadio della contemplazione divina, quando ogni uomo e ogni donna, attraverso un percorso di ascesi, giunge a trasfigurare se stesso nell’immagine della Trinità. Il percorso che traccia Florenskij è certamente più irto di ostacoli, in quanto affida alla ragione la possibilità di accedere alla Verità, senza com-prenderla, senza impadronirsene. E secondo Florenskij la Verità è la Triunità in quanto la Verità non è mai identica a se stessa, il che significherebbe una verità astratta e morta. Ma la Verità è necessariamente relazionale nella misura in cui è Vivente. E questa Verità Vivente è la comunione delle Tre Persone della Trinità della Tradizione cristiana, in quanto è una infinita comunione dove l’Uno è in relazione all’Altro continuamente e senza un regresso verso l’indefinitezza. È curioso, dunque, notare come per Florenskij la teodicea non sia la giustificazione del dogma della Trinità, ma il dogma della Trinità costituisca il punto di approdo di tutta la sua riflessione filosofica, ma anche esistenziale. Non si tratta, dunque, di giustificare il perché Dio sia Uno e Trino ma affermare, paradossalmente, che Dio non può non essere che Uno e Trino. E questa dinamica relazionale della Verità che basta a se stessa e che non si disintegra in un infinito potenziale, è ciò che ritroviamo in ogni comunione finita, in ogni esperienza che desideriamo comunicare agli altri. Anzi, per Florenskij, la Triunità stessa diviene il punto di vista di ogni esperienza che tiene insieme l’umano e il divino, come quella dell’amicizia a cui è dedicata la penultima Lettera de La colonna e il fondamento della Verità. Per motivi di tempo e di spazio non ci addentriamo ulteriormente nell’analisi della teodicea florenskijana, anche perché ci porterebbe fuori argomento. Passiamo, invece, alle interessanti implicazioni che la teoria cantoriana del continuum ha avuto nell’estetica florenskijana.

6. L’estetica florenskijana: il continuum e le icone

Data la vastità del tema del continuum nel pensiero florenskijano e la scarsa quantità di tempo a disposizione, vogliamo concentrare le nostre ultime riflessioni sulla dimensione estetica di Florenskij. Le ricerche estetiche di Florenskij si svolgono, prevalentemente, dopo la Rivoluzione del 1917. Con la salita al potere dei Bolscevichi viene chiusa la Facoltà Teologica di Mosca e Florenskij viene chiamato ad insegnare presso il Poligrafico di Stato, il VChUTEMAS. Non sono solo anni di intensi capovolgimenti politici, ma anche di un grande fervore letterario e artistico, con l’avvento delle avanguardie che segneranno l’arte russa per tutto il Novecento. Florenskij partecipa ai grandi movimenti artistici sia come insegnante, ma anche attraverso la breve esperienza della rivista Makovec e la Salvaguardia dei Monumenti della Lavra della Trinità e di San Sergio di Sergev Pošad. Il principale focus di Florenskij, per quanto riguarda l’arte, è stato, senza dubbio, il mondo delle icone. Tipiche opere d’arte presenti nel mondo ortodosso, esse vengono riscoperte per il loro valore storico e artistico, in un dialogo paradossale con il mondo contemporaneo. Basti pensare, infatti, che artisti come Malevič e Chagall hanno sviluppato le loro riflessioni artistiche proprio in riferimento alle icone ortodosse perché le icone, come fa ben notare Florenskij, contengono una precisa concezione spazio-temporale. Infatti, per poter parlare del mondo delle icone ci occorre, prima di tutto, riconoscere la profonda concezione spazio-temporale che esse celano. Nel suo corso presso il VChUTEMAS, Florenskij analizza la concezione spazio-temporale delle opere d’arte.

L’organizzazione del tempo si ottiene sempre e inevitabilmente con una scomposizione, cioè con la discontinuità. Nell’attività di un intelletto sintetico, tale discontinuità si dà in modo evidente e definitivo e, in questo caso, la stessa sintesi, se solo le forze dello spettatore sono all’altezza, sarà straordinariamente piena ed elevata, potrà abbracciare un tempo più ampio ed essere ricca di movimento. Ma se si è incapace di afferrare questi gruppi come un’unità integrale, non si ottiene alcun ritmo di immagini nella coscienza e una musica straordinaria si sbriciola in singoli suoni. Perciò un intelletto tendente all’analisi e alla passività ha paura della discontinuità evidente e si sforza di nasconderla spezzettando gruppi affini e facilitando il passaggio tra loro. Un’opera di questo tipo resta sostanzialmente discontinua, ma da una percezione fiacca viene presa come qualcosa di continuo che non ha bisogno di una forma spirituale sopra il dato sensoriale. Quando si scoprono le deviazioni di questa falsa continuità da una vera continuità sensoriale, il fruitore irriflessivo considera tali deviazioni errori casuali dell’artista, ma non afferra che proprio tramite esse si realizza nell’opera la vita dell’artista.15

In qualsiasi opera d’arte, sia figurativa o meno, abbiamo non solo tre dimensioni (larghezza, altezza, profondità), ma anche una quarta dimensione che è quella del tempo. Il concetto stesso di temporalità, tuttavia, nelle opere d’arte non è mai lineare od omogeneo, ma ritmico. Il tempo, dunque, non è mai identico a se stesso, non è mai un continuo indefinito e illimitato di punti, ma una ritmica dove momenti e punti sono più o meno importanti di altri. Insomma, il tempo ritmico dell’opera d’arte rivela la vera natura del tempo, il quale non è mai continuo ma discontinuo, in cui ogni punto può curvare la linea temporale verso altre percezioni del reale. Il tempo, dunque, nella visione estetica acquista un valore che è differente da quello teorico e astratto di una linea che va da un punto all’altro senza subire variazioni. Il tempo, nell’arte, è un ritmo dove si avanza, si torna indietro, con momenti più importanti e momenti che non vengono presi per nulla in considerazione. Anzi, potremmo affermare che proprio la discontinuità temporale rivela l’opera d’arte, poiché l’opera d’arte si pone nella frattura della continuità del tempo stesso. Tuttavia, la rottura della continuità temporale non implica la frammentazione del tempo, ma una nuova sintesi in cui un punto del tempo riflette tutto il processo del reale. L’esempio che utilizza Florenskij è quello dell’acme. In ogni cosa che esiste, c’è un momento di massima espansione, di fioritura, di condensazione di vita che non risulta semplicemente dal processo evolutivo che ha vissuto, ma che racchiude tutto il processo, tutta la sua vita. Nella realtà, gli enti non vivono un processo temporale lineare ma una curva che raggiunge il massimo, per poi discendere. Il tempo, dunque, pone un attimo in cui l’ente si rivela come sintesi di tutto ciò che è, nel suo acme. Ebbene, l’opera d’arte rivela questo attimo temporale, questo istante in cui l’oggetto si rivela nella sua sintesi temporale, per cui quell’istante lo riporta ad una dimensione non più lineare ma, addirittura, extra-temporale. Il momento in cui l’artista ritrae o compone un’opera d’arte, ritrae o compone un ritmo temporale che eccede il tempo stesso.

Per quanto riguarda la pittura d’icone, di cui risente gran parte della riflessione florenskijana, la concezione spazio-temporale risente della percezione della discontinuità. L’icona, infatti, impossibile da leggere e da comprendere al di fuori della liturgia e della religiosità Ortodossa, è il punto di discontinuità in cui possiamo guardare il mondo infinito partendo dal mondo finito. Nella sua opera più importante riguardo le icone dal titolo, Le porte regali, Florenskij scrive:

L’icona è identica alla visione celeste e non lo è, è la linea che contorna la visione. La visione non è l’icona: essa è reale in se stessa; l’icona, che coincide nel contorno con l’immagine spirituale, è per la nostra coscienza questa immagine, e fuori dell’immagine, senza di essa, a parte essa, in se stessa, astratta da essa non è né immagine, né icona, bensì una tavola. Così una finestra è una finestra in quanto attraverso ad essa si diffonde il dominio della luce, e allora la stessa finestra che ci dà luce è luce, non è “somigliante” alla luce, non è collegata per un’associazione soggettiva a una nozione di luce soggettivamente escogitata, ma è la luce stessa nella sua identità ontologica, quella stessa luce indivisibile in sé e non divisibile dal sole che splende nel nostro spazio. Ma in se stessa, fuori dalla sua funzione, la finestra è come non esistente, morta, e non è una finestra: astratta dalla luce non è che legno e vetro.16

Il paragone utilizzato da Florenskij è quello della finestra. L’icona è come una finestra fra il mondo visibile e finito e quello invisibile e infinito, fra il mondo umano e il mondo divino. Per questo motivo, l’icona non è semplicemente un’opera d’arte riconosciuta per la maestria con cui è fatta ma per il suo carattere simbolico, per la comprensione che porta con sé. Infatti, la particolarità dell’icona è quella di mettere in relazione due mondi che, in teoria, non potrebbero avere nulla a che fare fra di loro. Il mondo finito e il mondo infinito, il mondo umano e il mondo divino, il mondo dentro il tempo e il mondo fuori dal tempo, entrano ontologicamente in relazione per il semplice fatto che l’opera d’arte dell’icona contiene in sé, senza limitarlo con la sua finitezza, il mondo infinito. E questo è possibile grazie ai simboli, in quanto essi non sono solo segni convenzionali ma nodi visibili del legame dell’infinito nel finito. E tutta questa riflessione non sarebbe possibile senza la comprensione cantoriana della teoria del continuum in quanto l’icona è il punto finito da cui guardare l’infinito, il punto di sintesi che ci permette di sporgerci sull’infinito. Per questo motivo, Florenskij stesso parla di una prospettiva rovesciata per quanto riguarda l’arte iconica. Infatti, a livello estetico, le icone non hanno una prospettiva concentrata su un unico punto di fuga da cui lo spettatore guarda l’opera d’arte. Al contrario, le icone hanno una visione policentrica in cui il cono prospettico non è focalizzato su un singolo punto di fuga, ma al contrario focalizzato su chi guarda. In un suo articolo, intitolato appunto La prospettiva rovesciata, Florenski scrive:

I metodi suddetti ci portano ad una definizione generale di prospettiva rovesciata o inversa, e talvolta anche di prospettiva deformata o falsa. Ma la prospettiva rovesciata non esaurisce le varie particolarità del disegno, e altrettanto dicasi per i chiaroscuri delle icone. Come immediata estensione dei procedimenti della prospettiva rovesciata bisogna notare la policentricità della rappresentazione: il disegno è costruito come se l’occhio guardasse le varie parti di questo cambiando posto. Le stesse parti dei palazzi, per esempio, sono dipinte più o meno in rapporto alle esigenze della normale prospettiva lineare, ma ciascuna con un suo particolare punto di vista, cioè con un suo particolare centro prospettico, talvolta con un suo particolare orizzonte. Inoltre, altre parti sono rappresentate applicando la prospettiva inversa.17

L’icona, dunque, è un’opera d’arte complessa. Dove la complessità non è data dall’argutezza tecnica della sua produzione e riproduzione, ma dal mondo spazio-temporale, concettuale, culturale e spirituale che ha dato forma all’arte iconica. Dinanzi a queste considerazioni estetiche ci risulta facile comprendere come Florenskij cerchi di spiegare e riflettere sull’icona proprio utilizzando la sua visione del mondo che poggia anche sulle idee del continuum di Georg Cantor. Da queste piccole riflessioni, dunque, possiamo riconoscere la grandezza filosofica di Florenskij, ma soprattutto rintracciare un pensiero sempre e comunque inquieto, cercatore di una polifonia della realtà che la faccia vivere e che riveli la bellezza della Verità Vivente. Un pensiero incompleto, antisistematico, antilineare, come la vita.


  1. Per approfondire l’atmosfera in cui Florenskij studia a Mosca, Betti scrive: «Durante gli studi, Florenskij lavora soprattutto nell’atmosfera delle idee relative alle funzioni di variabile reale che erano state introdotte da Nikolaj Vasil’evič Bugaev (1837-1903), che risulterà essere il suo principale ispiratore. Contemporaneamente, si impegna nello studio della Filosofia presso la Facoltà di Storia della filosofia, con i fratelli principi Trubeckoj, Sergej (1862-1945) e Evgenij Nikolaevič (1863-1920), seguaci del noto filosofo e teologo Vladimir Solov’ëv, oltre che con Lev Michajlovič Lopatin (1855-1920), presidente della Società psicologica moscovita e docente all’Università di Mosca» (R. Betti, La matematica come abitudine del pensiero. Le idee scientifiche di Pavel Florenskij, Università Commerciale Luigi Bocconi, Milano 2009, p. 16). ↩︎

  2. P. A. Florenskij, Avtoreferat, in Id., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 5. ↩︎

  3. P. A. Florenskij, Su un presupposto della concezione del mondo, in Id., Il simbolo e la forma, op. cit., pp. 19-20. ↩︎

  4. Ivi, p. 24. ↩︎

  5. P. A. Florenskij, I simboli dell’infinito (Saggio sulle idee di Cantor), in Id., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 26-27. ↩︎

  6. Ivi, pp. 29-30. ↩︎

  7. Ivi, p. 61. ↩︎

  8. Ivi, pp. 78-79. ↩︎

  9. P. A. Florenskij, Il significato dell’idealismo, SE, Milano 2012, pp. 18-19. ↩︎

  10. Ivi, pp. 40-41. ↩︎

  11. Ivi, p. 107. ↩︎

  12. P. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della Verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, p. 19. ↩︎

  13. Ivi, pp. 51-52. ↩︎

  14. Ivi, pp. 56-57. ↩︎

  15. P. A. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, Adelphi, Milano 2012, p. 164. ↩︎

  16. P. A. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano 2010, pp. 59-60. ↩︎

  17. P. A. Florenskij, La prospettiva rovesciata e altri scritti, Gangemi, Roma 2003, p. 76. ↩︎