Recensione a Nicola Magliulo, Paradossi ed aporie del cristianesimo

Nicola Magliulo, Paradossi ed aporie del cristianesimo. Il dibattito intorno alla Re-velatio nella filosofia contemporanea italiana, Saletta dell’Uva, Caserta 2003.

«Il colloquio con il pensiero di Cacciari ha significato per me la condivisione della meraviglia per il mistero del singolo, della creatura che resiste ed eccede ogni hybris nichilistica, dell’inquietudine per quell’Amore impossibile che continua a turbare le nostre tane…». Nicola Magliulo, professore di filosofia e storia e dottore di ricerca in discipline filosofiche, evidenziava così in un suo recente lavoro le sintonie con il pensiero speculativo di Massimo Cacciari del cui «pensiero tragico» ripercorreva criticamente e con estrema lucidità le tappe principali. Nel suo ultimo libro la riflessione si dilata ulteriormente nel dialogo sul crinale tra filosofia e teologia contemporanee, entrambe infragilite nelle loro pretese totalizzanti da un ascolto al possibile avvento di un’Alterità che ne percorre, inquieta e stimola il pensare, pur sempre irriducibile ad ogni sistematizzazione oggettivante. Oltre la banale contrapposizione tra credenti e non credenti, oltre una lettura riduttiva e superficiale della fede (e della ragione) come consolatoria ed acritica adesione a contenuti concettuali astratti, il pensare affacciato sul proprio abisso, nell’indeducibilità della sua origine, e sull’apertura ad Altro, il cui avvento al fondo di sé ne costituisce al contempo scacco e dilatazione salvifica, è logos crocifisso al paradosso ed all’antinomia di una re-velatio divina sub contraria specie, della com-possibilità in Uno dell’estasi indiante e della cura compassionevole per ogni minimo frammento creaturale, carnale.

L’autore, in sintonia con alcune tra le voci più rappresentative del dibattito filosofico odierno intorno al tema della Re-velatio (oltre Cacciari si confronta con le intuizioni di Vincenzo Vitiello, Bruno Forte, Emanuele Severino) non teme di lasciarsi provocare dal mistero del Deus-Trinitas la cui gloria — ma sono i raggi di tenebra di cui parlava Gregorio di Nissa, le energie di una divinità tutta intera partecipata e tutta intera impartecipabile — è rivelata nell’icona del Crocifisso, in una proposta di senso appesa a quella «vera theologia crucis: non l’affermazione semplice e immediata dell’abisso tra finito e infinito (che nulla ha di paradossale appunto), né il loro intersecarsi (che è forma dialettica), ma come rivelazione del “Cum” al termine della lacerazione».

Uno sguardo, quello di Magliulo, mai declinato in accomodante ed ingenua conciliazione delle lacerazioni dell’esistente in Uno, né in affrettata resa al totalmente Altro dal logos di una domanda inquieta ed inquietante e neppure risoluzione nell’hybris idealistica in cui l’annullamento di ogni differenza divino-umana accade «nel Punto in cui fondo dell’anima e sovradivinità coincidono» (Cacciari) ma capace di contemplare l’unione dei distinti nella e della «impossibile» Agape che manifesta nell’abbandono della Croce l’abissale differenza del Dio Possibile (Vitiello), dell’Inizio puro (Cacciari), dell’Altro dall’altro e dall’identico, irriducibile alle prese e pretese di un pensare di cui pure costituisce l’orizzonte inarretrabile e problematizzante, lo spazio per un dispiegamento oltre se stesso ed entro se stesso, nello stupore e nell’attesa disarmata del balenare di un eschaton irrappresentabile.

Il paradosso e l’aporia, non imperfezioni della ragione od escamotages fideistici ed acritici, si mostrano grammatica della ri-velazione del divino nella finitezza delle parole umane, «finitezza della Parola stessa nel suo rapporto con la Verità» del Figlio con l’abisso s-fondante del silenzio di un Inizio non risolto in destinazione necessitante, ma esposto nell’amore e nella libertà ad una possibile revoca del Sì creatore nell’eremìa dell’In-differenza, della «divina ignorantia» — ma ciascuna Persona divina, che è la divinità, non sfiora già un abissale «non sapersi» una nullificazione di ogni «proprietà» sulla natura divina per non rivelarla e rivelarvisi come atto disappropriante e coincidenza paradossale tra reciproca kenosi e glorificazione?

Lo sguardo del filosofo e del teologo, la filosofica «conoscenza necessaria della necessità» (ma è sguardo che riconoscendo l’universale determinismo del tutto e misurando in tale atto l’infinita distanza che separa l’essere dal Bene si apre in questo riconoscimento stesso a ciò che può eccederne graziosamente il vincolo), e la teologica «libera credenza nella libertà» (ma è l’esigentissimo affidamento al legame dell’agape trinitaria vivente nell’oblazione di ciascuna persona nella pericoresi che richiama uno speculare distacco da ogni philopsychìa, da ogni pretesa veritativa oggettivata e svincolata dal suo apparire come evento di libertà e di reciproca destinazione nell’amore, in una visione del rapporto tra verità e libertà che lungi dall’essere conflittuale risulta essere piuttosto caratterizzato da una mutua implicazione) si incrociano e ri-definiscono reciprocamente oltre ogni separazione e confusione nelle pagine del saggio, nel comune impegno al rispetto del Presupposto intrascendibile che sfugge ad ogni tentativo di disciogliere le tensioni e le torsioni antinomiche traverso cui esso viene alla parola senza esaurirvisi. È la difesa dell’autonoma dignità del domandare che sfiora l’invocazione, l’inquietudine connaturata ad una fede che vive di antinomie a costituire il filo rosso che accomuna le riflessioni di Magliulo.

L’incatturabile gloria del Dio che «è» Relazione «non avventizia» compresenza di libertà e necessità, identità e differenza, dono e risposta e che irrompe tra le macerie delle nostre relazioni ferite come simultaneo, antinomico giudizio e liberazione della e dalla autoaffermazione inospitale dell’io (Florenskji) e delle sue proiezioni anche salvifiche e redentive.

Il grido dell’Abbandonato che si fa icona della tragedia della libertà di Dio da sé stesso, dell’auto-originazione di Dio dall’abisso di una libertà, di un nulla ed in-differenza iniziale che se nella simultaneità del Sì, della reciproca consegna triunitaria delle persone si rivela vita, spirito e amore, assume, nelle coordinate creaturali e finite il volto dell’inquietante possibilità del rifiuto, del fallimento della risposta all’offerta divinizzante di un’agape esigentissima che solo l’obbedienza di Cristo «eis telos» (belle le pagine dedicate all’amicizia stellare tra l’Oltreuomo nietzschiano e l’incolmabile misura dell’offerta e dell’amore di Gesù), nel nulla del rifiuto stesso, può nuovamente far scaturire dai nostri frammenti raccolti nella sua (nella nostra) agonia.

La luce dell’estasi indiante che si com-pone nella cura e nel dono di sé senza ritorno per ogni sofferente, inabissamento nella divinità attinta non oltre, ma nel pieno e totale abbraccio della carne ferita, «trascendenza della trascendenza» che nella kenosis dell’Incarnazione accompagna, serba, conserva, di fronte, in Dio stesso, l’irredimibilità dei corpi offesi, del dolore innocente nella paradossalità di una «vita spirituale» comunionale, non opposta alla carne, ai corpi ed alla infragilità promessa e premessa di relazione in essi in-scritta, ma alla volontà di potenza della psychè, alla voracità di un eros declinato tanto nella sfigurazione passionale quanto in quella di una certa mistica, entrambe negatrici dell’irriducibilità di ciascun volto umano ad ogni comprensione esaustiva, a cedere il suo segreto ad altra luce che l’impossibile irraggiare escatologico di un corpo risorto interamente pneumatizzato nell’amore.

Percorso teso ed esigente quello dell’autore, che non cede alla tentazione di un facile ricorso all’apologia di un «mistero» considerato come rifiuto della fatica del concetto, della passione di un pensiero che, nell’incontro con l’eccedenza del parteciparsi in Cristo del duplice abisso della divinità e della croce (è il senso originario del mysterion-sacramentum cristiano), è provocato oltre sé ed oltre ogni volontà appropriativa, al cuore di quell’antinomia, di quella «in-differenza dei distinti, cioè, appunto, loro superessenziale koinonìa» (Cacciari) che è spazio di kenosi e di libertà di questo Amore esigentissimo e terribile che avvolge di sé la vicenda umana costituendone insieme la condizione di possibilità e la tragica esposizione all’implosione nel non senso, nell’inferno dell’isolamento e del rifiuto di quel dono di sé al Padre ed ai fratelli che, inveratosi nell’evento pasquale del Cristo, attende e geme nello Spirito il suo dilatarsi in una paradossale, congiunta salvezza in eschaton teandrico.