Recensione a Natalino Valentini (curatore), Cristianesimo e bellezza. Tra Oriente e Occidente

Natalino Valentini (curatore), Cristianesimo e bellezza. Tra Oriente e Occidente, Paoline, Milano 2002.

La riflessione contemporanea, spesso in bilico tra la spiritualizzazione della natura e l’estetizzazione del sentire, ha finito per trascurare il valore conoscitivo del bello, il suo significato di verità, confinandolo in un’ambigua zona d’ombra o relegandolo nell’effimero. Ma perché continuare a negare alla bellezza il suo valore conoscitivo? Non è forse giunto il momento, anche in teologia, di ripensare integralmente la bellezza nell’incontro sostanziale con la vita e la cultura?» È questo interrogativo che percorre e sottende gli interventi che alcune tra le più autorevoli voci del dibattito filosofico e teologico odierno offrono nel volume collettaneo Cristianesimo e bellezza. Tra Oriente e Occidente, splendidamente curato da Natalino Valentini. Una diversità di prospettive che si appunta sull’avvento della bellezza come irraggiamento di verità e di bene concentrati sul volto sfigurato e trasfigurato del Cristo nella trasparenza di uno Spirito, «ipostasi della Bellezza» (P. Bulgakov) che abbraccia e raccoglie i frammenti dell’esistente ferito e infragilito ricomponendoli in armonia e comunione.

L’avvento della bellezza di Dio e di Dio come bellezza impedisce la deriva della sola verità in idolatria metafisica e del solo bene in imposizione morale liberandoli dalla giustapposizione e componendoli in sé ed oltre sé, in quella «via amoris dell’unica theologia della Chiesa indivisa» (p. 17). Estetica teologica e non teologia estetica o estetizzante, splendore di una comunione capace di attraversare la notte dell’assenza e del non senso, della lacerazione e dell’ostilità senza lasciarsene consumare ma consumandone ed esaurendone il dinamismo entropico in una testimonianza — martyria di donazione di sé e di trasparenza sino alla fine di un Amore più forte della morte. Se la scaturigine intima ed ultima della bellezza è da rinvenire in quella pericoresi, in quella danza intratrinitaria, nel movimento immobile d’amore e nell’atto di kenosis e reciproca glorificazione in cui ciascuna persona divina si svuota di sé per non riceversi glorificata se non nelle altre, per le altre e dalle altre, nell’attuazione della natura divina come Agape, è tuttavia solo nel volto del Crocifisso-Risorto e nell’effusione dello Spirito su ogni carne che tale atto sincronico si distende diacronicamente nel subabbraccio di ogni spazio e tempo.

Nel passaggio dalla simultaneità trinitaria dell’Atto triuno di relazione, «Atto-sostanza che è Amore» (pp. 138-139, su Pavel Florensky, la cui opera teologica sottende momenti altissimi del lavoro corale del testo) alla distensione creaturale lasciata essere nella libertà e come libertà di e da un amore non impositivo, che si fa spazio di abbandono e di accoglienza dell’alterità, si spalanca la tragica possibilità dello sfasamento delle coordinate trinitarie, dell’infragilimento del dono, dell’oscuramento della koinonìa e dell’ambiguità di una bellezza in cui il richiamo alla comunione si può offrire nella forma rovesciata di una seduzione vorace e fusionale, in un eros non illuminato che distrugge l’altro e non ne rispetta l’inoggettivabilità del volto e del destino. Ed è precisamente nell’attraversamento e nell’assunzione delle crepe del nulla che lacerano un’esistenza promessa alla pienezza, al centro degli inferi della dissomiglianza e della bruttezza che irradia graziosamente l’evento della Bellezza del Cristo, che è il Cristo e la sua presenza nella luce dello Spirito, in cui ogni bellezza è chiamata e richiamata (kalós-kállein), compiuta nel suo essere evocazione e riflesso di «una giustizia originaria della creazione che lascia balenare il sentimento di una felice corrispondenza della sua destinazione» (p. 99), destinazione che è il grembo del Dio trinitario verso cui l’umanità trasfigurata del Cristo, le sue ferite, segno del passaggio e dell’assunzione nell’amore di Dio di tutta la storia e degli affetti umani, è imprescindibile accesso. La riflessione sulle pagine della Bibbia come trama del realismo mistico dell’inscriversi nella storia della presenza di Dio, come «sermo humilis» che si annuncia sub contraria specie nella testimonianza della compassione infinita di Dio per la sua creazione in una configurazione di bellezza contemporaneamente dolente e gloriosa che assume e libera le intuizioni estetiche, artistiche e concettuali, da ogni cattura ideologica o rassegnazione nichilistica aprendole ad un eschaton di cui essa è trasparenza ed invocazione (Stefani e A. Giannatiempo Quinzio).

La contemplazione dell’Amore crocifisso come simbolica trinitaria, coniugazione dei volti divini della proportio, della sintesi e dell’ordine come rispecchiamento e testimonianza della bellezza sovrasensibile, e claritas, irraggiamento e donazione indeducibile di un offrirsi del Tutto nel frammento creato senza esaurirvisi ma chiamandolo ad un’uscita da sé nella comunione in Dio con la creazione intera ed all’assunzione del suo gemito verso la pienezza (B. Forte). L’umanità di Dio nel Figlio Gesù, nell’umanità pneumatizzata del Risorto come bellezza che risveglia i sensi spirituali, come luce per una sensibilità rinnovata che avverte nella dedizione incondizionata del Cristo, nell’offerta di sé senza ritorno, la fedeltà di un Dio non «faraonico» ma garante di quell’ordine degli affetti, di quella bontà originaria della creazione come donata e perdonata da Dio in Cristo nella luce escatologica dello Spirito che i nostri sensi anestetizzati, il nostro cuore sigillato dalla paura e dalla mancanza di fiducia non riescono più a percepire e che solo un’ascesi di liberazione del sensibile dal suo degrado — e non dal degrado nel sensibile — potrà ricondurre al suo pleroma divinoumano (Sequeri). Ascesi come abbandono attivo di tutto l’uomo e dell’uomo come un tutto alla dynamis trasfigurante, alle energie divinizzanti dello Spirito Santo, divino iconografo che riporta alla luce la deiformità, la cristiformità originaria dell’uomo attraverso un itinerario di kenosis, di svuotamento dell’«autoaffermazione inospitale dell’io» (Florenskji) per ritrovare sè e tutte le creature unificate in Dio, «Tertium» e condizione di possibilità e compimento della comunione tra Dio e l’uomo e tra i fratelli al di là di ogni separazione e confusione. Il cristianesimo d’Oriente con la sua forte sottolineatura pneumatologica ed escatologica come guida all’acquisizione di quello sguardo dioratico, trasparente alla sofianicità del creato come roveto ardente permeato dalle energie divine, che vede nella Bellezza la «contemplazione di sé attraverso l’altro nel terzo», la kenosis dei distinti nell’unità dello Spirito, la composizione delle differenze nell’unità diverificata della carità attinta al cuore «dell’evento perpetuo del consumarsi dei Tre, distinti nell’unità e del distinguersi dei Tre, uniti in unità indissolubile» (Michelina Tenace, L. Razzano e L. Zak).

È questo, in estrema sintesi, il percorso degli autori, compendiato in una magistrale rilettura di alcune grandi opere d’arte quali veri e propri luoghi teologici ed epifanie della salvifica bellezza offerta da Timothy Verdon, itinerario verso un eschaton che già si annuncia qui ed ora in ogni atto di creatività e libertà da sé verso l’A/altro, in ogni atto di carità che sottrae l’ac-cadere insensato del tempo donandogli contenuto eterno e radicandolo nell’Eterna Memoria della divinità triipostatica.