Fenomenologia asoggettiva e corporeità in Jan Patočka

1. Introduzione

In quella ricca polifonia filosofica che, da Husserl in poi, va sotto il nome di «fenomenologia» o di «movimento fenomenologico», il filosofo ceco Jan Patočka può essere annoverato tra le voci più brillanti e originali.1 Se l’importanza della sua riflessione rimane complessivamente sottostimata, rispetto ad altri più noti pensatori di orientamento fenomenologico (Sartre, Merleau-Ponty, Lévinas, Henry, per citarne solo alcuni), è pur vero che Patočka gode ormai di una posizione di sicuro rilievo sulla scena filosofica internazionale (non solo europea); il pensiero patočkiano è infatti sempre più intensamente esplorato, le iniziative editoriali e i convegni a lui dedicati si moltiplicano, la letteratura critica che lo riguarda ha registrato un notevole incremento negli ultimi dieci anni. In Italia, dopo una lunga fase di sostanziale disinteresse e dopo che la traduzione di qualche importante testo aveva preparato il terreno, sembra ora delinearsi una vera e propria scoperta: sono sempre di più gli studiosi (spesso giovani) che si accostano a Patočka con passione e rigore, nella convinzione che dalle sue pagine possano provenire, se non «soluzioni», almeno sollecitazioni teoretiche radicali per la messa a punto delle questioni filosofiche più vive e urgenti del mondo contemporaneo.2

Sarebbe riduttivo, a mio parere, individuare in Patočka un esponente autorevole della tradizione fenomenologica europea, che ha saputo rinnovare e riformulare in una sintesi originale le fondamentali intuizioni di Husserl e Heidegger (la teoria dei «movimenti fondamentali dell’esistenza umana», sviluppata in una serie di saggi degli anni ’60 e ’70, è forse l’esempio più evidente in tal senso);3 occorre invece, senza esitazioni, considerare Patočka come uno degli autori di riferimento della filosofia del XX secolo, ciò che peraltro emerge con chiarezza man mano che il vasto continente dei suoi scritti viene alla luce, offrendo più ampie prospettive di analisi e di interpretazione.4 Il discorso filosofico di Patočka, pur sviluppandosi asistematicamente e presentando alcune linee di frattura al proprio interno, rivela a uno sguardo più approfondito una unità sorprendente, che può essere illuminata da punti di vista diversi: declinata in termini generali, essa esprime una connessione strettissima tra fenomenologia e filosofia della storia, tra analitica ontologico-esistenziale e ricostruzione continua del tessuto della tradizione, tra l’idea che fonda la speculazione e la forma di vita tipiche dell’Occidente (la «cura dell’anima») e l’apertura su un orizzonte cosmologico che manifesta la problematicità e i limiti della human condition. Ma ciò che, in ultima istanza, costituisce il fondo unitario della riflessione filosofica di Patočka è una tensione etica strutturale, una volontà di vita-nella-verità che trasborda ogni astratta costruzione normativa e incarna una passione socratica per il senso dell’uomo: una modalità di esperire e affermare il senso oltre la metafisica, oltre il nichilismo, oltre il dominio pervasivo della scienza-tecnica, in uno spirito di fedeltà rigorosa alla finitezza umana, alle dimensioni di «negatività» che la caratterizzano.5

Non è qui possibile fornire, nemmeno per semplici accenni, una presentazione globale del pensiero di Patočka.6 L’intento di questo saggio è di esaminare, nelle sue coordinate generali e come punto di partenza per un’indagine più approfondita, un nodo fenomenologico centrale che, direttamente o indirettamente, si intreccia con tutti i fili principali della filosofia patočkiana: quello della corporeità, del «corpo soggettivo» o «corpo proprio» (o, più radicalmente, del soggetto come corpo), afferrato e sviluppato non come semplice tema analitico, ma nella sua relazione imprescindibile con la curvatura a-soggettiva che Patočka imprime apertamente alla fenomenologia, nella fase più matura del suo percorso. Se il programma di una fenomenologia asoggettiva muove infatti da una critica dell’idealismo fenomenologico-trascendentale di Husserl e da una radicalizzazione della nozione di epochè, l’articolazione descrittiva della «sfera fenomenica» (l’orizzonte stesso della fenomenologia, nella sua autonoma struttura di senso, ovvero il mondo) esige un «sé» ontologicamente e dinamicamente corporeo: è dunque sul piano concreto dell’analisi del corpo e del movimento corporeo che si rivela, in maniera sempre più netta, un mondo non fondato su una «soggettività trascendentale», un apriori della manifestazione che precede e fonda la stessa relazione intenzionale tra un «soggetto» e un «oggetto», tra l’io e le cose. La de-soggettivazione della fenomenologia apre ad una sua declinazione esistenziale, come nello Heidegger di Sein und Zeit, ma è attraverso il filo conduttore del corpo-movimento che il sum della soggettività umana, l’«io sono», ottiene spessore e concretezza, «fenomenizzandosi» e configurandosi come esistenza rigorosamente intra-mondana, un essere-nel-mondo che è al tempo stesso un essere-del-mondo. Non solo il corpo proprio funge da elemento mediatore indispensabile nell’apparire del mondo e nella fondazione intersoggettiva della sua validità, come già Husserl aveva chiaramente rilevato; per Patočka, cogliere il mondo nella sua densità onto-fenomenologica irriducibile alla soggettività che lo esperisce e da essa «incostituibile» significa rimandare (come ad un compito filosofico di primo ordine) alla complessa trama in cui il movimento esistenziale di una soggettività finita diventa possibile e comprensibile.

Al di fuori dell’idealismo trascendentale e del primato della coscienza, la corporeità è una sorta di vettore che dis-loca l’io nel campo di forze dell’apparire, in una dinamica fenomenologica in cui non è l’unico attore né il polo centrale assoluto, ma soltanto un centro relativo e reversibile, posto continuamente in gioco nel suo essere e in tensione con l’altro (in tutte le accezioni e le risonanze che questo termine può assumere). Ma non si tratta soltanto di sostituire il trascendentale della coscienza con un più concreto «trascendentale del corpo» (esito in parte implicito nella fenomenologia husserliana ed esplicitato nella filosofia di Merleau-Ponty): il contributo fenomenologico di Patočka porta a vedere il corpo stesso in una prospettiva genetica e dinamica che implica strutture esistenziali asoggettive e conduce ad una nuova lettura di uno dei concetti più antichi del pensiero occidentale, quello di physis. «Destinatario del fenomeno», incalzato e appellato dalla manifestazione, dal problema del senso di ciò che appare, l’uomo è una soggettività che esiste nella chiarezza e nel mistero del mondo, nell’orizzonte della libertà finita come responsabilità. La rifondazione asoggettiva della fenomenologia cui ha condotto il lavoro filosofico di Patočka ci apparirà allora non tanto un’ennesima critica o decostruzione della «filosofia del soggetto» sic et simpliciter, quanto una premessa fondamentale per articolare una comprensione della soggettività autenticamente fenomenologica, in grado di restituire il senso più profondo dell’«essere-nel-mondo come movimento».

2. L’apparire del mondo: Epochè radicale e fenomenologia asoggettiva

Nel suo dialogo ininterrotto con il fondatore della fenomenologia, Patočka sottopone a una critica radicale l’«idealismo trascendentale» di Husserl, che a suo avviso costituisce una deviazione dall’intenzione originaria del pensiero fenomenologico. Se infatti quest’ultimo nasce come appello, per la filosofia, a rivolgersi «alle cose stesse» (zu den Sachen selbst), ai fenomeni originari della nostra esperienza, nel «soggettivismo» e nel «primato della coscienza» difesi dallo Husserl maturo (da Idee I alle Meditazioni cartesiane, e oltre) Patočka scorge un pregiudizio che occorre decostruire e abbandonare, proprio per rimanere fedeli al principio metodologico fondamentale della fenomenologia: quello della descrizione rigorosa di ciò che appare (il «fenomeno»), nel suo modo di apparire, senza sovrapporre ad esso alcunché di estraneo. Il «corpo a corpo» con Husserl, nel comune orizzonte fenomenologico, condurrà Patočka a una riformulazione globale del progetto filosofico della fenomenologia al di fuori di ogni riferimento fondante alla soggettività; in particolare, la fenomenologia non sarà più una «scienza della soggettività trascendentale», ma una dottrina dell’apparire come tale e un’indagine sulle strutture (fenomenicamente accessibili) che articolano, in concreto, questa dimensione o «sfera» dell’apparizione. Potrebbe sembrare una questione di semplice accento metodico, visto che in Husserl, com’è noto, la «soggettività trascendentale fenomenologica» non è posta a tema se non in correlazione costante e inscindibile con il mondo, nella sua ricca compagine di senso, e dunque la trascendentalizzazione della fenomenologia non implica alcuna svalutazione della «realtà oggettiva» di fronte alla coscienza pura.7 .

Tuttavia, per Patočka l’esigenza di de-soggettivare la fenomenologia, rompendo definitivamente lo schema coscienzialistico husserliano, diventa negli anni sempre più chiara e ineludibile, man mano che si approfondisce la portata ontologico-esistenziale e antropologica della fenomenologia stessa: dai due saggi «omologhi» del ’70 e ’71 (Il soggettivismo della fenomenologia husserliana e la possibilità di una fenomenologia «asoggettiva» e Il soggettivismo della fenomenologia husserliana e l’esigenza di una fenomenologia asoggettiva), a Epochè e riduzione (1975), alle numerose riflessioni e variazioni che sul tema dell’«asoggettività» offrono gli scritti inediti,8 il rifiuto della piega soggettivistica imposta da Husserl al piano della manifestazione e l’esplorazione di una via alternativa alla fenomenologia acquistano il valore di una posta in gioco decisiva. Ma declinare a-soggettivamente la fenomenologia significherebbe anche, secondo Patočka, compiere la «volontà» dello stesso Husserl, realizzando quello che, con ogni verosimiglianza, era il suo programma originale:

Husserl è […] penetrato fin nel cuore della situazione (critica) della fenomenologia soggettiva, per quanto evidentemente non ha avuto poi il coraggio di sacrificare la metafisica idealista della coscienza che fino all’epoca della Krisis continua a difendere e che proviene interamente da un’operazione artificiale di soggettivizzazione del fenomenico. In un certo senso, sarebbe quindi eseguire le ultime volontà del fondatore della fenomenologia operare effettivamente la catarsi del fenomenico in modo da restituire alla fenomenologia il senso di un’indagine sull’apparire come tale, che forse costitutiva l’intenzione originaria del suo primo sostenitore.

Come altri interpreti, Patočka vede all’opera in Husserl due tendenze ben diverse, il cui intreccio occorre districare per ricondurre la fenomenologia alla sua «intenzione originaria» e al suo senso più proprio: di fatto, all’esigenza genuinamente fenomenologica di un’indagine strutturale-sistematica sui modi di apparire delle cose stesse si affianca molto presto, fin dalle lezioni husserliane del 1907 (L’idea della fenomenologia),9 una tendenza filosofica di tipo cartesiano, come ricerca di una regione dell’essere assolutamente fondata e cognitivamente indubitabile. Il «cartesianismo» di Husserl si rivela, da un lato, nella tensione teoretica ed esistenziale (mai abbandonata) verso una conoscenza assoluta, dall’altro, nell’attribuire alla soggettività (purificata riflessivamente da ogni coordinata psicologico-empirica) e alla sfera dei vissuti (Erlebnisse) il carattere dell’evidenza apodittica. La «coscienza assoluta» o «soggettività trascendentale» diventa il terreno di fondazione e di manifestazione di ogni ente e di ogni oggetto: il mondo stesso, la struttura totale dell’esperienza, si configura così come una «trascendenza immanente», un orizzonte infinitamente aperto che appare nella coscienza (pura) e solo sul piano della coscienza (nei limiti delle sue operazioni costitutive) ottiene il suo senso e la sua validità.

Husserl denomina riduzione o epochè il procedimento riflessivo teso a produrre il passaggio dall’atteggiamento naturale, in cui l’«essere» del mondo viene ingenuamente presupposto, all’atteggiamento fenomenologico, in cui il mondo (ri) appare, in tutta la ricchezza e concretezza descrittiva dei suoi contenuti, come correlato della soggettività trascendentale (quest’ultima, nel suo pieno sviluppo, è una intersoggettività trascendentale ).10 La riduzione fenomenologico-trascendentale sospende («pone tra parentesi») la tesi naturale del mondo come «già dato», per ricostruirne filosoficamente il senso negli atti intenzionali della coscienza, nelle loro connessioni e stratificazioni (nient’altro significa, in Husserl, la costituzione di senso). Tuttavia, questa «immersione» del mondo, e di ciò che nel mondo appare, in un’atmosfera soggettiva (sia pure in un’ottica metodologica e senza alcuna concessione allo scetticismo) segna un fraintendimento e un tradimento essenziali di quella che è, per Patočka, la questione fondamentale della fenomenologia: il senso dell’apparire come tale, l’analisi dei fenomeni in quanto fenomeni.

In tale prospettiva, all’interno del dispositivo teorico husserliano Patočka recupera positivamente la nozione di epochè, da un lato svincolandola da quella di «riduzione» del mondo a una sfera immanente (i vissuti della coscienza), dall’altro radicalizzandone la portata sospensiva e critica in direzione della soggettività. Per Husserl, sarebbe un’esagerazione incomprensibile eseguire l’epochè in modo veramente universale, estendendola all’io trascendentale stesso e alle sue evidenze originariamente vissute: ciò renderebbe impossibile fin dall’inizio la costruzione di una scienza dei fenomeni (fenomeno-logia) e ci consegnerebbe immediatamente nelle braccia dello scetticismo.11 Ma questa sottrazione della dimensione stessa della soggettività (la «tesi dell’io») allo spirito critico dell’epochè testimonia che Husserl non è stato, qui, abbastanza radicale.12 Scrive infatti Patočka in epochè e riduzione: «Che cosa accadrebbe se la tesi dell’io proprio non fosse sottratta all’epochè, se quest’ultima fosse concepita in maniera del tutto universale? […] Non potrebbe darsi che l’immediatezza della datità dell’ego sia un ‘pregiudizio’, che l’esperienza di sé abbia, allo stesso modo dell’esperienza delle cose, un a priori specifico che rende possibile l’apparire dell’ego?».13

Occorre compiere (heideggerianamente) un «passo indietro» rispetto alla soggettività, per scoprire il contesto fenomenico originario (l’a priori) che le consente di apparire e dispiegarsi. Solo l’epochè «universalizzata» dischiude il campo dell’apparire nella sua purezza, senza confonderlo con un ente qualsiasi che appare (oggettivo o soggettivo):

Grazie all’universalizzazione dell’epochè, diventerà allora chiaro che, come il sé è la condizione di possibilità dell’apparire di ciò che è nel mondo, così il mondo come orizzonte originario (e non come l’insieme delle realtà) rappresenta la condizione di possibilità dell’apparire del sé. L’egoità, senza dubbio, non è mai percepita autonomamente in se stessa, esperita immediatamente, in un modo qualsiasi, ma unicamente come centro di organizzazione di una struttura universale dell’apparizione che non può essere ricondotta a ciò che appare come tale nella sua singolarità. Questa struttura, noi la chiamiamo il mondo.

La fenomenologia «asoggettiva», resa accessibile da un’epochè più radicale di quella husserliana, non è dunque una fenomenologia senza soggetto. Essa coglie, innanzitutto, questa doppia relazione condizionale tra l’io e il mondo, sul piano originario della manifestazione: se l’io (o, come talvolta preferisce dire Patočka, il «sé») è condizione di possibilità dell’apparire delle cose mondane (degli enti), ed è quindi una componente ineliminabile della struttura fenomenica, è anche vero che solo nel mondo è possibile l’apparizione di un ente che si rapporta a se stesso, e che nel rapportarsi-a-sé ha il proprio specifico modo di essere. L’uomo può essere rapporto-a-sé solo in quanto l’esistenza umana è un essere-nell’apparizione, un apparire-a-se-stesso che prende forma nell’orizzonte manifestativo universale:14 in altri termini, l’io nella sua struttura fenomenologica non è una «soggettività trascendentale» che semplicemente ha il mondo come polo intenzionale di riferimento, bensì un ente che «si trova» nel mondo (all’interno di quella struttura universale dell’apparizione che chiamiamo mondo), allo stesso titolo degli altri enti che appaiono (all’io) senza poter assumere la forma del rapporto a sé, che non sono, ontologicamente parlando, essere-nell’apparizione. In definitiva, a differenza di quanto pensasse Husserl (ma, prima di lui, Kant e l’idealismo tedesco) il «soggetto» non è la base o il fondamento dell’apparizione, l’unità che la sorregge e ne regola in qualche modo lo sviluppo, bensì solo un momento (sebbene necessario) della struttura dell’apparire, la quale, considerata in sé, non è «soggettiva», né «creata», «prodotta», «fondata» o «costituita» in alcun modo dalla soggettività.15 «La soggettività stessa [deve] mostrarsi come qualcosa che appare, che fa parte di una struttura più profonda, come una certa possibilità abbozzata e indicata in questa struttura, in quanto una delle sue parti costitutive».16

Se «apparire» significa certamente «apparire a qualcuno», a un io (e dunque vi è un referente o destinatario dell’apparizione), non bisogna dimenticare che quest’ultimo appare «soggetto» alle regole e alla dinamica interna dell’apparire, «preso» (per così dire) nel movimento della manifestazione, dal quale dipende strutturalmente il suo essere proprio (l’esistenza) e la totalità delle sue possibilità esistenziali. Paradossalmente, solo abbandonando il soggettivismo è possibile comprendere adeguatamente il senso fenomenologico della soggettività:

Nella fenomenologia asoggettiva, il soggetto nel suo apparire è un «risultato» nella stessa misura che tutto il resto. Devono esserci regole a priori sia per l’entrata nell’apparizione propria, come in quella impropria. E questa entrata nell’apparizione fa apparire qualcosa che è indipendente da questo apparire. Nel caso dell’io, ciò non significa indipendente da ogni apparire, perché può esserci un io solo nella misura in cui qualcosa gli appare, nella misura in cui si rapporta a se stesso attraverso l’apparizione di qualcos’altro; questo «rapportarsi a se stesso attraverso l’apparizione», cioè questo apparire a sé, è una struttura ontologica tanto indipendente dalla coscienza quanto lo è quella struttura che non appare a se stessa. Non è la coscienza a rendere possibile la struttura ontologica, ma la struttura ontologica a rendere possibile la coscienza.

La fenomenologia asoggettiva non ha il suo centro nell’intenzionalità della coscienza, nella struttura noetico-noematica dei vissuti, nell’«io puro» come soggetto non mondano. Le analisi husserliane della soggettività, anche in ciò che hanno di valido, vanno radicate su un terreno più profondo, che non è gnoseologico ma ontologico-esistenziale (è infatti la «struttura ontologica», l’essere-nell’apparizione, come si è letto, a rendere possibile la coscienza, e non viceversa). Ma, per questo scopo, è preliminarmente indispensabile l’articolazione della sfera dell’apparire nei suoi momenti formali: «Essendo il mondo stesso l’unica struttura che ingloba le cose e il soggetto, vorremmo concepire questa struttura come struttura del mondo. Il fenomeno, l’apparire, ha come momenti ciò che appare (il mondo), ciò a cui l’apparente appare (la soggettività) e il come, la maniera in cui l’apparente appare».17 La struttura formale dell’apparizione, autonomamente considerata, presenta quindi tre momenti: 1) il mondo (ciò che appare), 2) ciò a cui il mondo appare (ovvero il soggetto), 3) il modo o, più correttamente, i modi in cui il mondo appare (alla soggettività, in quanto è una esistenza-nell’apparizione). Nonostante le evidenti analogie di questa struttura con l’ego-cogito-cogitatum della «fenomenologia soggettiva» di Husserl, Patočka sottolinea sempre di nuovo come il soggetto dell’apparizione (ciò a cui appare il mondo) sia, essenzialmente, un soggetto nell’apparizione, cioè una parte o una «porzione» del mondo che gli appare (proprio ciò che Husserl negava risolutamente fosse l’ego fenomenologico-trascendentale): «Il mondo e le sue cose non possono apparire che a qualcuno, e questo qualcuno fa parte anche lui del mondo».18 Il soggetto della fenomenologia «asoggettiva» appartiene radicalmente al mondo, è un essere-del-mondo, pur non essendo una cosa, una res (su questo secondo punto Patočka è in linea con Husserl): l’io è, infatti, il referente dell’apparizione, quell’ente peculiare per il quale il mondo e le cose ci sono (in quanto si manifestano). Accanto alla differenza fenomenologica tra le cose e il soggetto occorre sempre tener ferma quella, altrettanto decisiva, tra il mondo, come orizzonte originario della manifestazione, e gli enti che appaiono nel mondo (le cose, da un lato, e la soggettività, dall’altro). «C’è un campo fenomenico, un essere del fenomeno come tale che non può essere ridotto a nessun ente che appare al suo interno e che perciò è impossibile spiegare a partire dall’ente, che quest’ultimo sia di una specie naturalmente oggettiva o egologicamente soggettiva».19

«Campo di apparizione», «sfera fenomenica», «piano della manifestazione»: con questi termini Patočka designa il nucleo tematico centrale della fenomenologia. Quest’ultima non è una «teoria della soggettività» (Husserl), né una «teoria dei fenomeni» (Heidegger), e neppure sarebbe, rigorosamente parlando, una «teoria del mondo», se, rispetto al mondo come «ente in totalità», non fosse posto in primo piano il problema della manifestazione: «[la fenomenologia] è una teoria dell’apparire dell’ente in totalità, del mondo. E il mondo e il campo di apparizione sono fenomeni nel senso formale. Il tema rigoroso della fenomenologia non è quindi il mondo, ma il campo di apparizione».20 Il mondo, i fenomeni, la soggettività vengono esplorati e delucidati, nelle loro relazioni e implicazioni, come componenti del campo di apparizione, come articolazioni di una struttura formale dell’apparire che globalmente le «precede», rendendole possibili; sotto questo aspetto, chiarisce Patočka, è ancora legittimo parlare della fenomenologia come filosofia trascendentale, come voleva Husserl. Se infatti, attraverso un’epochè radicalizzata, si «pone tra parentesi» la torsione soggettivistica, che distorce la pura struttura dell’apparire ancorandola ad un centro di gravità egologico, il movimento che dal mondo naturale già dato risale al campo di apparizione e, da qui, procede allo studio sistematico dei caratteri onto-fenomenologici del comprendere, appare come una «rifondazione» del trascendentalismo husserliano:

Crediamo che il problema dell’apparizione, in quanto primario, derivi del tutto naturalmente da una rifondazione della dottrina husserliana in un trascendentalismo formale dell’apparire come tale. Se l’epochè non significa altro che la risalita, a partire dal mondo presuntivamente pre-dato, a partire dalla costruzione del mondo e della conoscenza naturale, fino al piano dell’apparizione, cioè fino ai caratteri di apparizione che non sono altro che i caratteri di comprensione ontologica dell’essere mondano che [ci] viene incontro, caratteri che in se stessi non sono più dipendenti dall’ente esperito, che si mostra, il primato dell’apparire sull’essere è chiaro.

Il vero trascendentale fenomenologico non è la soggettività e/o l’intersoggettività, bensì l’apparire come tale; tuttavia, rileva Patočka, l’apparizione come struttura formale possiede una priorità e una preminenza, in fenomenologia e dunque in filosofia, anche rispetto all’essere: «Il problema della manifestazione è più profondo, più fondamentale, più originario del problema dell’essere. Semplicemente perché non posso arrivare al problema dell’essere se non attraverso il problema della manifestazione, a meno che, se parto dal problema dell’essere nel senso astratto del termine, il concetto dell’essere non diventi per me un concetto astratto, una sorta di segno puramente formale».21 Ma proprio questo primato dell’apparire, in luogo di un «primato della coscienza» o di un «primato dell’essere», costituisce secondo Patočka la risorsa metodologica e analitica più importante della fenomenologia asoggettiva, che le consente di raggiungere dimensioni ontologico-esistenziali rimaste precluse all’indagine fenomenologica tradizionale (anche nella sua variante heideggeriana).

3. Dal cogito al sum: Descartes, Husserl e Heidegger

Ma se, per Patočka, il soggetto è un momento fondamentale della struttura dell’apparire, è quel «qualcuno» a cui la manifestazione «è indirizzata», occorre esaminare più da vicino il modo di essere (nel campo di apparizione) di questo ego, che, come si è visto, non può essere una soggettività trascendentale nel senso husserliano. È su questo terreno che diventa evidente e centrale il ruolo della corporeità, come riflesso della «rifondazione asoggettiva» della fenomenologia. Il tema del corpo assume infatti in Patočka una rilevanza tale da costituire uno dei tratti più originali della sua prospettiva fenomenologico-esistenziale. Procediamo per gradi. Per comprendere come l’esistenza-nell’apparizione, ovvero il modo di essere dell’uomo come «soggetto», sia strutturalmente una esistenza corporea, ci sembra utile prendere le mosse dalla riflessione «triangolare» che Patočka conduce (in maniera esplicita o implicita) con Descartes, Husserl e Heidegger, intorno a ciò che significa, autenticamente, l’io. La fondazione cartesiana del cogito, nella sua ambigua connessione con il sum, con la concretezza esistenziale dell’io, e la metafisica sostanzialistica della res cogitans e della res extensa, si collocano all’origine del dualismo moderno tra «anima» e «corpo», dell’oscillazione tra spiritualismo e materialismo che così spesso ha contraddistinto il pensiero post-cartesiano.

Patočka riconosce a Descartes di aver realizzato una svolta essenziale rispetto al filosofare dell’antichità, anche nella prospettiva di ciò che sarà, molto più tardi, la fenomenologia; di fatto, con il cogito la filosofia acquista, per la prima volta in modo chiaro, la forma di un sapere «in prima persona»: «Il cogito ergo sum è una conoscenza che non può essere trasmessa in modo impersonale. […] il cogito come risultato è inseparabile dalla situazione personale e dal progetto del suo creatore; può essere ripetuto, ma non può essere convertito in un teorema oggettivo, a meno di perdere il suo senso proprio».22 «Scoprendo» l’io concreto e personale come centro del discorso filosofico, il Descartes delle Meditazioni metafisiche rappresenta un nuovo inizio della speculazione occidentale; tuttavia, «questo secondo inizio della riflessione, così straordinariamente nuovo, non porta immediatamente a una filosofia personale; al contrario, esso porta ad un’estesa cosificazione, all’oggettivazione del pensiero stesso e, nell’ambito di questa oggettivazione, a un salto radicale che scavalca l’esperienza del corpo proprio in quanto vivente, realmente fungente».23

Descartes appare a Patočka, in questa ottica, come un Giano bifronte, un genio che «scopre» e insieme «occulta» (com’era Galilei per Husserl)^[24] e nel quale, alla fine, l’occultamento prevale sulla scoperta, il pathos dell’oggettività metafisico-scientifica ricopre la dimensione della soggettività concreta e vivente. Ma risultano particolarmente interessanti alcune considerazioni che Patočka svolge sul contenuto fenomenologico del cogito cartesiano e sullo schema ontologico di fondo che ne orienta il percorso argomentativo. Com’è noto, al termine dell’esperimento del dubbio universale, con l’attestazione dell’ego come certezza esistenziale indubitabile, l’ipotesi scettica radicale viene scartata definitivamente, ma Descartes stesso si pone il problema di determinare che cosa sia questo «io» la cui «esistenza» è certa.24 «In un certo senso la conclusione indica la priorità dell’esistenza sull’essenza; ma l’esistenza, espressa nel sum, existo, va considerata subito come atto posizionale, atto di realizzazione dell’essenza. Così si perde il carattere personale del sum» .25 Se la distinzione tradizionale tra essentia ed existentia vale innanzitutto per gli enti nel mondo, per le cose, la determinazione esistenziale dell’ego viene fin dall’inizio situata da Descartes nell’orizzonte della res-substantia, come sostrato permanente di proprietà e attributi. A questo punto, dopo aver escluso dalla sfera fondante della soggettività le dimensioni concrete del corpo e della percezione sensibile, per la loro opacità e inaffidabilità cognitiva, Descartes coglie nel pensiero (cogitatio) l’unico attributo essenziale della sostanza-soggetto, di quella res del tutto peculiare che è l’«io» .26

Lo spessore ontologico della soggettività, che si era affacciato nella certezza del sum, si «spersonalizza» così in un polo sostanziale pensante, sebbene Descartes mostri un’autentica sensibilità fenomenologica (pre-husserliana) distinguendo le diverse forme e modalità che la res cogitans può assumere (affermazione, negazione, volontà, immaginazione, sensazione ecc.), rimanendo sempre lo stesso ego.27 Tra le pieghe del cogito e della sua grammatica concettuale, Patočka ravvisa un’anticipazione e un primo abbozzo del campo fenomenico, cioè del tema genuino della fenomenologia, ma anche l’articolazione preliminare (e storicamente efficace) di quella soggettivizzazione dell’apparire che Husserl avrebbe poi elaborato e sviluppato pienamente, proprio richiamandosi all’eredità cartesiana:

Il campo fenomenico in cui l’ente può apparire per quello che è diventa così una struttura del «soggetto», che si potrebbe fin d’ora descrivere con l’aiuto della formula moderna ego-cogito-cogitatum. Il cogitatum deve però presentarsi due volte — sia come idea che come cosa esterna alla sfera garantita nel cogito. […] La soggettività è caratterizzata da un’auto-appercezione riflessiva nella certezza di sé. — Anche questo è il senso della tesi per cui lo spirito è «più facile» da conoscere rispetto al corpo e alle sue determinazioni.

Sappiamo come, in Descartes, la certezza «puntuale» e disincarnata dell’ego emersa dal dubbio universale riconquisti la verità esistenziale di un rapporto con il corpo, il mondo e le cose tramite l’analisi dell’idea di Dio (nella struttura manifestativa del cogito) e il ricorso alla veracitas dei, come garanzia di corrispondenza oggettiva tra le idee (i cogitata) e la realtà extramentale. Husserl rifiuta la scissione introdotta da Descartes all’interno del «piano di apparizione», ristabilendo l’unità tra la coscienza (trascendentale) e il mondo, nel modo di una multiforme correlazione intenzionale; egli è però ancora visibilmente «cartesiano» nel conservare la convinzione che l’«io», il soggetto dell’apparizione, possa attingere la certezza di sé e dei suoi atti attraverso un’autoriflessione pura, una sorta di inspectio sui o di «percezione immanente» (innere Wahrnehmung) il cui «contenuto» (l’ego medesimo) è immediatamente evidente, è assolutamente in luce.28 Per Husserl, l’io puro come centro di un «flusso temporale di vissuti» (Erlebnisstrom) è in grado di cogliersi in una donazione originaria che ha un carattere del tutto diverso dalla «percezione esterna» (äussere Wahrnehmung), quella rivolta alle cose e al mondo stesso; quest’ultima, infatti, è sempre «presuntiva», bisognosa di ulteriore conferma, e dunque costitutivamente esposta alla possibilità del dubbio, della negazione, dell’essere-altrimenti.29

Per contro, l’evidenza dell’ego, della soggettività trascendentale come «residuo» della riduzione fenomenologica, è indipendente (almeno in linea di principio) dalla connessione fattuale-operativa che l’io esibisce con il corpo proprio e con le cose del suo mondo-ambiente: in Idee I, riproducendo lo stile «iperbolico» dell’argomentare di Descartes, Husserl afferma con molta chiarezza che il flusso di coscienza, con il suo ego trascendentale, è una «sfera di assoluto essere», che come tale non sarebbe toccata, nella sua struttura più profonda, da un eventuale «annientamento del mondo» (Weltvernichtung).30 Per usare il linguaggio di Patočka, in Husserl l’«esistenza nell’apparizione» si fonda sul primato dell’egologico (la «presenza a sé» dell’ego come certezza intuitiva) e dei suoi caratteri funzionali (le noesi o atti, in cui la vita dell’ego si dispiega). «La certezza di sé dell’esistenza dell’ego, del sum, è interpretata come presenza e questa presenza come originaria auto-donazione, la quale a sua volta richiede un oggetto corrispondente. E insieme a questo oggetto è supposto anche l’atto di coscienza, la noesi originariamente coglibile nella riflessione».31

Certo, l’intenzionalità della coscienza si rivela nel contesto delle analisi husserliane come un’apertura incessante dell’ego sull’altro da sé, e su se stesso come soggettività corporea, monade, persona, per cui il cogito, la vita del soggetto, acquisisce ben presto una tessitura concreta che ne marca inequivocabilmente il distacco tanto dall’io cartesiano, quanto dal «soggetto trascendentale» kantiano o neokantiano. In ogni caso, per Patočka lo slittamento dal piano dell’apparire a quello dell’egologia non solo priva il problema della manifestazione della sua universalità, ma ci fa perdere di vista l’autentica dimensione esistenziale del sum, il senso stesso dell’«essere» di quell’ente che esiste nell’apparizione. L’indagine egologica, anche quella husserliana, rimane dentro l’orizzonte gnoseologico, continuando a cercare l’essenza della soggettività (la «struttura intuitiva» dei suoi atti, delle sue funzioni, nel livello di evidenza che li caratterizza), come se l’io fosse una cosa o un oggetto, sia pure sui generis. Come se vi fosse, realmente, una intuizione dell’io così come c’è una percezione della cosa o una visione della sua struttura categoriale. Proprio questo presupposto di una «visibilità» dell’ego in una pura riflessione (pensiamo qui allo «spettatore disinteressato» di cui parla Husserl) viene messo radicalmente in discussione dalla fenomenologia asoggettiva e, in ultima istanza, rifiutato:

In un certo senso, la sfera fenomenica dev’essere effettivamente fondata sull’ego, o piuttosto sul sum nel quale l’ego è incluso. Ma questo compito non è realizzabile sprofondando semplicemente nella contemplazione dell’ego, perché «nell’ego» come tale non c’è niente da vedere. L’ego si vede, meglio: si può rendere visibile solo attraverso ciò di cui si occupa, ciò che progetta e fa nella sfera fenomenica. La sfera fenomenica progetta l’ente possibile non in un’astrazione che esiste separatamente, ma proprio in rapporto al sum. È un progetto dell’ente in totalità che quindi ingloba anche l’ego sum in quanto sum, in quanto centro che si rapporta a se stesso attraverso tutto il resto. La funzione originariamente pratica e vitale della sfera fenomenica consiste nel rendere possibile questo incontro con se stessi.

Uscire dall’egologia significa riconoscere che l’ego sfugge alla separazione di «essenza» ed «esistenza» e dunque non può essere oggetto di una conoscenza, di un «vedere», di un’intuizione: ciò lo farebbe infatti ricadere immediatamente sul piano delle res, dell’identità cosale, e verrebbe meno proprio il suo sum, l’apertura ontologica che rende possibile il rapporto-a-sé. Di questa paradossale «invisibilità» dell’io come fondamento intuitivo ultimo della «coscienza interna del tempo» (innere Zeitbewusstsein) e della vita soggettiva trascendentale aveva in qualche misura consapevolezza lo stesso Husserl, che si era a lungo confrontato con le aporie fenomenologiche della riflessione, intesa come «scissione egologica» (Ich-spaltung) tra un io-soggetto e un io-oggetto.32 Ma Patočka afferma che nell’ego, come tale, non c’è nulla da vedere, se si vuole coglierlo riflessivamente alla maniera di un oggetto o di un tema teorico; al contrario, l’ego si lascia vedere, si rende «visibile» come esistenza, attraverso ciò di cui si occupa e che progetta, ovvero in un contesto pratico-vitale. La luce del sum, la sua forma di rivelazione, è la prassi, intesa non solo come «azione» o «comportamento» rispetto alle cose, ma, più profondamente, come articolazione unitaria e globale di un interesse per il proprio essere: «La concezione dell’ego come indice personale nel sum permette di andare oltre [il soggettivismo husserliano], verso l’essere il cui aspetto ontologico interno è l’«ogni volta mio» (Jemeinigkeit). Ciò significa che l’ego non è niente di più del carattere ontologico dell’ente che è interessato al suo essere, che esiste temporalmente ed è in movimento».33

Il sum dell’ego è nient’altro che la struttura esistenziale di un ente che non semplicemente «è», come le cose, ma «ha da essere», in quanto è essenzialmente interessato al suo essere, non-indifferente ad esso, e dunque in movimento, verso ciò che costituisce il suo autentico «sé». Sotto questo aspetto, il contributo fondamentale e irrinunciabile di Heidegger alla fenomenologia è di aver dissociato rigorosamente il rapporto-a-sé dell’«io» dall’idea di datità in originale o di semplice presenza, de-teoricizzando il soggetto e, al tempo stesso, dischiudendo la sfera fenomenica (in cui l’ego stesso è compreso) come un orizzonte dinamico di possibilità esistenziali:

Se anche in Heidegger il contatto con sé è uno sguardo riflessivo, ciò che guida fin dall’inizio questo sguardo non è l’idea di una constatazione della presenza data, ma quella di un essere necessariamente rimandato a se stesso nella realizzazione del proprio essere, nell’assunzione delle possibilità comprese e colte, in un’auto-realizzazione che non è un [mero] fare, una manipolazione di sé, bensì la scoperta originaria della possibilità propria.

Secondo Patočka, la prospettiva fenomenologica di Heidegger resta nel campo della «riflessione», ma è «guidata dall’idea di un essere che è, interamente, la sua prassi»,34 che è «pratico» nella sua radice ontologica più profonda; per il «soggetto umano» (ma Heidegger utilizza il termine Dasein) il rapporto-a-sé si configura quindi, riflessivamente, come un’assunzione (un «farsi carico») del proprio essere, tramite la comprensione delle possibilità autentiche e in vista della loro realizzazione. D’altro canto, e qui si manifesta chiaramente la rottura heideggeriana con la tradizione metafisica, la «realizzazione» di una possibilità umana non è il riempimento di un’essenza già data e disponibile: se la dimensione della possibilità viene in luce attraverso un rapporto al mondo (come totalità) intessuto di rimandi pratici, l’esistenza come «progetto» si apre e si chiarisce soltanto nella prassi che, sempre di nuovo, pone in gioco l’essere del Dasein. Sotto questo aspetto l’«essenza» dell’ego è la sua esistenza stessa, la dinamica esistenziale che lo «mette in opera» come essere-nel-mondo.35

Patočka dunque accoglie, nelle sue linee di fondo, il carattere aperto e dinamico dell’essere-nel-mondo tratteggiato da Heidegger in Essere e tempo, come un passaggio decisivo per il superamento del soggettivismo e per la comprensione di quella «esistenza nell’apparizione» che costituisce il modo di essere dell’uomo. Di fatto, Heidegger ha per la prima volta configurato il movimento dell’esistenza sottraendolo a un sostrato e tematizzando l’integrale costituzione pratico-progettuale del sum: il «cartesianismo» di Husserl appare così alle spalle. Tuttavia, Patočka rimprovera a Heidegger un approccio troppo formale all’analisi del movimento esistenziale, che ha come esito più palese un’elaborazione insufficiente e difettiva delle strutture fenomenologiche che vi sono necessariamente implicate; in particolare, l’analitica esistenziale heideggeriana sembra muoversi in una singolare eclissi della corporeità, come dimensione ontologicamente originaria dell’essere-nel-mondo. Scrive infatti Patočka: «Sembrerebbe che l’analitica renda l’ontologia heideggeriana troppo formale. La prassi è effettivamente la forma originaria della chiarezza [della manifestazione], ma Heidegger non prende mai in considerazione che la prassi originaria dev’essere per principio l’attività di un soggetto corporeo, che la corporeità deve dunque avere uno statuto ontologico che non può identificarsi con la datità del corpo come presente qui e ora [il corpo considerato come oggetto o cosa]».36 Heidegger ha «scoperto» e declinato la vita dell’io come prassi originaria «in vista del proprio essere», oltrepassando decisamente il coscienzialismo della fenomenologia trascendentale, ma ha nello stesso tempo trascurato (e «oscurato») il carattere corporeo della soggettività. Il sum è infatti, nel suo senso ontologico fondamentale, l’esistenza di una soggettività corporea, «incarnata». E anche qui la riflessione del filosofo ceco ci permette di cogliere un gioco di luce e ombra, di manifestatività e occultamento, nel modo radicalmente diverso di affrontare il tema del corpo proprio (Leib), del soggetto come corpo, da parte dei due corifei della fenomenologia tedesca.

Se l’«idealista» Husserl ha dedicato un vasto impegno analitico alla delucidazione fenomenologica del corpo soggettivo, offrendo una serie di spunti e variazioni in grado di incidere notevolmente sulla «filosofia del corpo» del Novecento, l’«esistenzialista» Heidegger sembra ignorare o misconoscere l’ontologicità del corpo, ciò che Patočka definisce lo «statuto ontologico della corporeità», ovvero il fatto che è come corpo, nel corpo e attraverso il corpo che l’ego (o, se si preferisce, il Dasein) si realizza come essere-nel-mondo. Disincarnando il sum, Heidegger non solo si vieta la comprensione più concreta del movimento dell’esistenza, ma dimostra di essere, almeno su questo punto, più «formale» e «cartesiano» di Husserl. Per contro, quest’ultimo rivela da molteplici prospettive la corporeità dell’ego trascendentale in quanto soggetto che ha un mondo (o, nel linguaggio gnoseologico di Husserl, lo «costituisce»), ma, proprio per questa ragione, il modo di essere corporeo dell’io, in quanto è nel mondo, nel campo di apparizione, resta non tematizzato e non chiarito (nonostante Husserl abbia posto indubbiamente le basi descrittive per questa chiarificazione).37 In definitiva, la fenomenologia asoggettiva deve collocare le nozioni heideggeriane di «autenticità» e «verità» dell’esistenza sul terreno concreto della corporeità, in quel dramma costituito dal movimento esistenziale di una soggettività corporea: «se la corporeità ha uno statuto non soltanto ontico, ma ontologico, il dramma dell’autenticità, il dramma della verità dell’esistenza deve concretizzarsi in un rapporto con questa dimensione della vita».38

4. Essere-nel-mondo come movimento: dinamica dell’esistenza e dimensioni della corporeità

La nozione di movimento costituisce il nucleo centrale e l’elemento più caratterizzante e originale della prospettiva fenomenologico-esistenziale di Patočka. La definizione della sua fenomenologia come fenomenologia dinamica è certamente la più pregnante: se infatti «fenomenologia asoggettiva» è una formula tesa soprattutto a tracciare una linea di demarcazione rispetto alla fenomenologia tradizionale (husserliana) e a sostenere l’esigenza di un’indagine rivolta all’apparire come tale, «fenomenologia dinamica» vuole appunto evidenziare questa centralità del movimento per l’autocomprensione della fenomenologia e per la sua effettiva declinazione esistenziale. D’altra parte, come è stato giustamente rilevato, la «fenomenologia dinamica», se non vuole essere solo un titolo suggestivo ma una reale e feconda direzione di ricerca, deve fondarsi su una dinamica fenomenologica, cioè su quel «movimento» (o, più esattamente, «movimenti») che ha luogo nella sfera fenomenica o piano dell’apparizione e che, sviluppato nelle sue dimensioni fondamentali e strutture di senso, viene a coincidere con l’esistenza stessa (il movimento è, nella sua essenza, manifestazione).39 Qui ci interessa fermare alcuni aspetti della concezione patočkiana dell’«esistenza come movimento» che più direttamente si connettono al tema della corporeità, in modo che emerga con chiarezza da un lato l’ineludibilità ontologica del corpo (il movimento dell’esistenza è, innanzitutto, la dinamica di un io corporeo), dall’altro come proprio l’approccio fenomenologico «asoggettivo» (in cui l’ego non costituisce più il fondamento dell’apparizione, ma ne dipende in maniera essenziale per effettuare il movimento della sua esistenza) permetta di concretizzare radicalmente la vita del soggetto.

Abbiamo visto che, sulla scia di Heidegger, Patočka attribuisce alla vita dell’io, come «referente» dell’apparizione, un carattere eminentemente pratico. Interessato al proprio essere, non-indifferente alle modalità che esso può assumere, l’uomo è un ente essenzialmente capace di verità, la sua vita può essere una vita-nella-verità.40 La «verità» dell’esistenza umana non è dunque un rapporto teoretico, contemplativo con un contenuto dato, ma è la comprensione delle possibilità fondamentali dell’uomo e la decisione che, facendosene carico, le realizza, in una direzione o nell’altra. In Che cos’è l’esistenza? , la struttura esistenziale della soggettività si lascia afferrare nel suo carattere dinamico tramite il confronto con la nozione aristotelica di movimento, che presuppone un sostrato determinabile e una determinazione tramite un eidos, una «forma». Aristotelicamente, il «movimento» è un passaggio dalla potenza all’atto che si scandisce come determinazione della materia attraverso la forma. Per l’io come esistenza, il «movimento» avviene propriamente senza un sostrato e la realizzazione di una possibilità esistenziale non è semplicemente il tradursi in atto di una finalità naturale che già sempre era presente (l’eidos), ma l’aprirsi e il manifestarsi dell’essere stesso dell’«io»:

L’«io» non è un sostrato passivamente determinato dalla presenza o dall’assenza di un certo eidos, da una «forma» o una «privazione»; è qualcosa che si determina da sé e, in questo senso, sceglie liberamente le sue possibilità. «Liberamente», cioè in maniera tale che ciò che è — la possibilità realizzata — è in verità, l’«io» nel suo essere […] vive nella possibilità che ha aperto e che è effettivamente. «Essere» non significa dunque «essere dato», ma scegliersi, crearsi nella verità, divenire, rendersi ciò che si è.

Il sum dell’io è l’apertura di un campo di possibilità, e la «verità» dell’esistenza è il movimento della sua realizzazione («diventare ciò che si è»). Patočka coniuga strettamente libertà e verità nella sua visione dinamica dell’essere-nel-mondo; com’è noto, c’è un movimento specifico della vita umana (il cosiddetto «terzo movimento», esistenziale al massimo grado) che ha come centro focale la questione della verità come autocomprensione della finitezza^[42] ed è quello da cui nasce la filosofia, la domanda filosofica di senso. Intanto, va riscontrato come la de-sostanzializzazione del cogito come rapporto a sé e l’invisibilità dell’ego al di fuori del comportamento pratico che lo relaziona al mondo e alle cose rendano impossibile ancorare il movimento dell’esistenza, la «realizzazione» delle possibilità dell’uomo, ad una essenza pre-esistente che funga da modello o da riferimento normativo. «L’esistenza non progetta le sue possibilità in modo da averle oggettivamente davanti a sé in una rappresentazione, ma realizzandole, attualizzandole. Per questa ragione, l’esistenza può essere determinata come movimento».41 Il movimento come esistenza non è una dinamica di autorealizzazione generata e sostenuta da un telos o una forma oggettivamente dati, ma un libero processo di apertura e articolazione di possibilità nell’ambito di ciò che appare. Sotto questo aspetto, il movimento è disvelante, è la forma eminente del comprendere nel mondo, è quella «libertà» come prassi originaria che illumina il senso delle cose.

Ma la libertà dell’io, pur svincolata da un’essenza cui dovrebbe adeguarsi, non è una facoltà creatrice di senso e nemmeno, come talvolta sembra affermare Heidegger, una pura trascendenza, una «progettualità» che continuamente si proietta all’esterno, un incessante uscire da sé. Piuttosto, la libertà di un essere finito, le possibilità della sua esistenza, restano tributarie (per il loro senso e la loro estensione) alla sfera fenomenica e si delineano unicamente al suo interno, come lo stesso Heidegger aveva assicurato. Per usare il linguaggio heideggeriano, non è la libertà del Dasein ad aprire (sovranamente) le possibilità del nostro essere, ma è, al contrario, il mondo (la luce del mondo) a renderci comprensibile la libertà come libertà concreta e finita.

Il mondo, cioè le possibilità del nostro proprio essere come essere essenzialmente «estatico», non ci è aperto dalla nostra libertà propria; ma è la libertà ad essere aperta dalla comprensione dell’essere, insieme a tutto il resto del contenuto fenomenico del mondo. Non siamo noi, o il nostro esserci (Dasein), che in un progetto di mondo diamo senso a come ci rapportiamo agli enti e a quali enti ci rapportiamo; di questo noi siamo tributari alla comprensione dell’essere, al fenomeno come tale.

Quando si tratta della libertà bisogna certo rifiutare l’oggettivismo e la metafisica, ma anche, forse, eliminare i residui di «soggettivismo» che permangono nella fenomenologia di Essere e tempo e che lasciano cospicue zone d’ombra su come il «movimento dell’esistenza umana» (o, equivalentemente, l’essere-nel-mondo) abbia effettivamente luogo e senso. Rigorosamente parlando, l’io non è un «progetto di mondo», ma un progetto di esistenza nel mondo e sulla base del mondo (cioè un dispiegarsi e formarsi ontologicamente all’interno di vincoli, possibilità e rimandi pre-tracciati nella sfera dell’apparizione):

Non sono io a progettare il mondo di possibilità; ma siccome sono un essere di possibilità, ancorato nel mondo, la possibilità del mondo, il campo di possibilità del mondo mi interpella. Nessun essere finito è capace di creare delle possibilità […] il progetto delle possibilità proprie non è una creazione originaria di possibilità, non è un progetto di mondo, ma semplicemente un progetto della mia esistenza sulla base del mondo.

Emerge una struttura fondamentale dell’esistenza umana, nel suo legame originario e inscindibile con la sfera del fenomeno: l’io è «ancorato» nel mondo, in quanto il suo movimento si realizza in esso, ma il mondo non è uno sfondo neutro per l’esercizio della mia libertà, ma mi interpella, mi «chiama in causa», sollecitando (inizialmente in un senso non morale) la mia responsabilità. Il mondo come «campo di possibilità» si presenta come un orizzonte strutturato e ricco di senso, nel quale il mio corpo gioca un ruolo decisivo. Patočka coglie la «trascendenza» e differenza fenomenologica radicale dell’esistenza rispetto alle cose nell’impossibilità di manifestarsi come un contenuto autonomo: l’«io» è il movimento realizzante di una vita originariamente pratica. Ma, nel campo fenomenico, il sum si manifesta sempre come io corporeo, come corpo proprio:

Il sum non è una cosa nel senso che non può mai apparire in modo autonomo, ma solo in rapporto e in connessione con i comportamenti relativi alle cose. Così esso appare sempre come io corporeo, agli stimoli del quale il corpo che appare è capace di obbedire, nel senso che il corpo in quanto egologico risponde a un richiamo fenomenico, soddisfa o cerca di soddisfare [anche nel senso del riempimento] un’esigenza posta dalla cosa che appare, che si apre dinanzi a me (qui ciò che va realizzato si annuncia come carattere «oggettivo», come insoddisfazione, mancanza di riempimento). Le connessioni operative, le occasioni, il materiale che mi si offre mi attirano o mi respingono, e questa attrazione e repulsione che hanno luogo nel campo fenomenico sono «riempite», realizzate, e realizzate dal mio corpo.

La struttura elementare del sum è dunque l’identificazione pratico-esistenziale con il corpo, in quanto mio corpo: ma è interessante notare che la corporeità dell’io non è qui assunta muovendo da un «sentire», da un’auto-affezione della soggettività, da un analogon della percezione e della coscienza, che garantirebbe ancora una certa separazione o indipendenza dell’ego dalle cose e dal mondo. Più radicalmente, l’esistenza si rivela come corporea, come il movimento di una soggettività corporea, lungo le linee di forza del campo di apparizione, nel dinamismo globale di ciò che appare e «oggettivamente» attrae o respinge, nelle pieghe e nei rimandi che il materiale fenomenico predispone e che offrono direzioni e sviluppi possibili alla libertà dell’io. Naturalmente, questa curvatura oggettiva imposta dal campo di apparizione alla vita dell’ego non significa che esso sia in balia delle cose che appaiono o di forze estranee che lo sovrastano; tuttavia, l’io può scoprirsi libero solo come essere-nell’apparizione e come «soggetto» alle leggi dell’apparire, può compiere il suo movimento vitale solo «rispondendo» alla dinamica interna dei fenomeni, ritagliando per così dire la sua autonomia in uno spazio di significati e di forze che non crea né può alterare, ma al quale è assegnato. Essendo una semplice «porzione» del campo dell’apparire, un «momento» di una struttura dinamica molto più vasta, più profonda e oggettivamente preponderante, la soggettività umana si trova, fin dall’origine, in una situazione di minorità e di dipendenza rispetto all’«ente in totalità», al mondo.42 La fenomenologia asoggettiva è la rivelazione della finitezza dell’io come essere-nel-mondo. Ma, per Patočka, la manifestazione della finitezza esistenziale è, al tempo stesso, l’apparire-a-sé del soggetto come corpo. Se l’io è, come si è visto, il movimento della sua realizzazione («diventare ciò che si è»), il corpo proprio funge da motore del movimento e «realizzatore» delle possibilità che si aprono nel piano di apparizione.

È infatti la corporeità, l’esperienza originaria dell’essere-un-corpo, ad aprire il senso della possibilità finita, articolando la forma più elementare, e tuttavia decisiva, del movimento di una soggettività. L’auto-movimento dell’io, come movimento che si realizza nella luce del mondo, nella chiarezza delle cose che appaiono, è, innanzitutto, un potere di agire sul corpo e attraverso il corpo, muovendolo: il senso della «possibilità», per l’io, si manifesta nella mobilità del corpo proprio, nella «capacità di muoversi» di cui l’io originariamente dispone in quanto non semplicemente ha un corpo, ma è corporeo nella sua più intima costituzione ontologica. Solo tramite il corpo un essere-nel-mondo può avere delle possibilità, può rapportarsi a se stesso (rapportandosi al mondo) nella forma del poter-essere più proprio, dell’apertura esistenziale-dinamica che lo distingue essenzialmente dalle cose. Peraltro, le cose del mio ambiente vitale quotidiano (gli «oggetti» della percezione) sono sempre date «contestualmente» al corpo e al movimento corporeo, ed è grazie all’io posso sotteso all’esperienza del corpo proprio che il senso delle cose si rivela per me, come un «appello», un invito all’azione realizzante:

È chiaro che è solo perché io posso che le cose si scoprono a me nel contesto di questo «potere», come ciò che ne fa il gioco, la realizzazione, possibile o impossibile; ma comunque, se l’io che può si mostra nel suo «potere», è solo perché le cose implicano dei richiami alla realizzazione. La datità della cosa e i richiami alla realizzazione sono co-originari. Non avrei alcuna possibilità se non avessi dei mezzi in vista delle mie possibilità, in vista dei miei fini; vale a dire che senza la mia azione non potrei scoprirmi io stesso, «aprirmi», comprendermi, non più di quanto le cose potrebbero mostrarsi.

Se Heidegger ha dunque ragione di coniugare strettamente il darsi delle cose (i «fenomeni») all’orizzonte operativo del Dasein, al suo essere il «soggetto» di una praxis mondana, l’esautorazione della corporeità dal piano delle strutture ontologico-esistenziali rischia di rendere fenomenologicamente opaco (o addirittura incomprensibile) proprio il tema della possibilità come modo d’essere del Dasein. È infatti per un soggetto corporeo che le cose si fenomenizzano, «appaiono», in una trama complessa di rimandi in cui il Dasein stesso, nel suo fondo dinamico e progettuale, è coinvolto. È, ancora, per un io che si coglie come corpo che la libertà, nel senso dell’apertura pratica originaria, è possibile e operante: «Ogni attività umana è dunque «aperta» (all’ente e al suo essere). È aperta proprio in quanto attività, cioè movimento che risponde di se stesso, movimento che prendo su di me come azione. Il movimento è realizzazione di possibilità. La realizzazione delle possibilità proprie significa la realizzazione di ciò che, per natura, solo l’uomo può essere — non solamente per se stesso, ma anche per le cose. […] La concezione dell’esistenza in quanto movimento implica che l’esistenza è essenzialmente corporea».43 Il senso mondano e concreto della praxis umana, dalle sue figure più semplici alle più complesse, appare inseparabile da una fenomenologia dell’essere corporeo. Leggendo la finitezza dell’esistenza alla luce della temporalità e della morte, e non anche dello spazio e della corporeità, Heidegger rimane forse vittima, suo malgrado, della dicotomia cartesiana tra res cogitans e res extensa: ne deriva una lacuna fenomenologica profonda che Patočka cerca di colmare. Non è dunque sorprendente che una fenomenologia del corpo proprio debba ritornare a Husserl, il quale, a differenza di Heidegger, ha lungamente meditato sulla corporeità o «incarnazione» dell’ego, muovendo dalla «distinzione fenomenologica fondamentale» tra Körper e Leib incorporata nella lingua tedesca (corpo fisico-cosale, da un lato, corpo vivente-soggettivo, dall’altro). Si tratta infatti di de-formalizzare il movimento esistenziale del Dasein mostrandone la tessitura corporea: il suo essere, necessariamente, il movimento di un Leib-Dasein, di un «esserci incarnato». La libertà dell’io nel campo di apparizione è infatti possibile (e pensabile) solo come libertà di un soggetto corporeo: «In questo senso, l’essere libero, l’io libero è essenzialmente corporeo. La corporeità originaria che riguarda un essere libero capace di dire «io», di chiamarsi soggetto, è dunque la corporeità soggettiva».44

Patočka sottolinea ripetutamente, con accenti descrittivi sempre nuovi, questo carattere corporeo del movimento dell’esistenza, approfondendo e radicalizzando in senso fondamental-ontologico le minuziose (e spesso illuminanti) analisi husserliane della Leiblichkeit. Come in Husserl, nella fenomenologia patočkiana del corpo proprio agisce anche una volontà di recupero degli strati originari della vita soggettiva, nel suo «fungere» percettivo, precategoriale e prescientifico; tuttavia, fin dall’inizio l’ottica di fondo non è gnoseologica, ma esistenziale, e gli stessi «dati» fenomenologici acquistano perciò una diversa valenza. Nelle Lezioni sulla corporeità, dialogando con Husserl, Patočka inserisce immediatamente (senza isolare astrattivamente un io puro come «soggetto trascendentale» dei vissuti e porsi, poi, il problema di dotare questo ego di un corpo) la corporeità nel «sé», come una sua componente originaria, globale e irrinunciabile per esplicarne, fenomenologicamente, la «vita», la struttura concreta di esperienza:

L’ego nella struttura ego cogito cogitatum non è altro che un termine che esprime in maniera implicativa, globale, l’essere proprio [il sé] in funzione e corporeo. In questa coscienza di sé implicativa, pre-riflessiva, l’unità della visione e dell’azione compiuta è un nesso originario, che precede tutte le connessioni empiriche. Non si può sostenere che sia solo l’esperienza ad insegnarci che l’io che percepisce è lo stesso che si muove e agisce. Se fosse questo il caso, quale sarebbe l’unità alla base dell’esperienza che è pur sempre la mia esperienza? Ciò significa che l’io non è una rappresentazione puramente formale; non è semplicemente, esclusivamente la base di tutte le condizioni di possibilità dell’esperienza; esso è piuttosto un orizzonte suscettibile di esplicazione, potendo ricevere un’esplicazione di cui la corporeità fa parte in maniera inseparabile, fondamentale.

L’unità esistenziale dell’io, ciò che rende sempre possibile parlare della mia esperienza del mondo e delle cose (la «soggettività» del campo esperienziale in Husserl, l’«esser-sempre-mio» dell’orizzonte della possibilità in Heidegger), poggia su una sintesi originaria di visione e azione, su una «forza rivelativa» che precede la stessa connessione dei dati d’esperienza e che esprime, già a livello pre-riflessivo, la dinamica di un essere corporeo. Il movimento del corpo non è soltanto il fondamento dell’agire nel mondo, dell’attività dell’io, del «potere» che l’io esercita su se stesso e sulle cose; è anche, specularmente, la condizione della manifestazione delle cose come «unità sintetiche», come oggetti di percezione, nella loro autonoma configurazione fenomenica e indipendenza dalla soggettività che li esperisce. È stato Husserl a connettere il corpo proprio come «organo del movimento» (Bewegungsorgan) alla vita percettiva e alla costituzione di stabili unità di senso nel decorso fenomenico,45 per cui si danno oggetti (le cose della percezione) prima del pensiero e del giudizio. Sotto questo aspetto, il corpo-movimento ha una funzione «oggettivante» nella sfera dell’apparizione, mantiene l’io costantemente ancorato alla «realtà», all’effettività solida del mondo esterno: «Il movimento sembra quindi essere il punto necessario alla vita soggettiva finita per sviluppare, partendo da lì, tutte le sue operazioni più soggettive, per dispiegare la sua distanza rispetto al mondo, senza tuttavia perdersi in questo scarto. Con il movimento soggettivo, siamo saldamente ancorati nella realtà effettiva».46

Patočka riprende quindi senz’altro da Husserl questo primato fenomenologico dell’Ich kann (corporeo) sull’Ich denke (rappresentativo): la soggettività formale kantiana, che fa astrazione dal corpo, dalla «carne» dell’esistenza, non riesce a cogliere l’unità reale dell’esperienza dell’io (o dell’io come esperienza). Il nostro inserimento o radicamento nel mondo avviene originariamente in virtù del corpo proprio:

Il fondamento delle sintesi d’esperienza non è un io trascendentale, ma la soggettività incarnata. Noi non siamo originariamente inseriti nel mondo per le nostre operazioni di pensiero, ma per il corpo proprio, più precisamente in quanto corpo soggettivo che non si risolve mai nella riflessione. È il corpo che opera le sintesi d’esperienza, innanzitutto in virtù della sua facoltà di movimento proprio. Il potersi-muovere è inseparabile dalle sue operazioni oggettivanti, poiché è questa facoltà motoria che gli dà la libertà per le cose, la possibilità di vedere attraverso, al di là dei limiti della sua situazione e della sua posizione momentanee, di vivere nelle prospettive senza per questo dissolversi in esse — di procurarsi, con il suo movimento, una certa stabilità.

Ma se Husserl concretizza l’ego trascendentale, la sua de-formalizzazione dell’io non è ancora completa, nella misura in cui, secondo Patočka, occorre sostituire l’io trascendentale fenomenologico con un soggetto dinamico totalmente appartenente al mondo e, come tale, finito.47 Ciononostante, il contributo husserliano a una fenomenologia dell’esistenza corporea rimane prezioso sotto molti aspetti e permette di rettificare, almeno parzialmente, l’approccio «troppo formale» di Heidegger all’analisi ontologico-esistenziale.48

5. Soggettività corporea e finitezza esistenziale.

Vediamo più da vicino il modo in cui la corporeità articola la finitezza dell’io come esistenza. Innanzitutto, il corpo soggettivo non è soltanto il movimento della libertà dell’io nel campo fenomenico, ma è, nello stesso tempo, l’espressione della passività originaria che aderisce all’essere-nel-mondo. Se le possibilità esistenziali si aprono ad un essere corporeo (in quanto è movimento), la corporeità non è una dimensione che liberamente scegliamo, bensì il nostro modo di «appartenere» al mondo, l’essere che già sempre siamo, la possibilità che si è già sempre realizzata, ciò che dobbiamo essere per avere delle possibilità (libere). Trattandosi di una determinazione ontologica essenziale, la corporeità non può essere scelta o revocata, ma semplicemente assunta, «portata» o «sopportata» dall’io, che in essa e con essa compie il suo movimento nell’apparizione, cioè esiste. Scrive Patočka: «Il corpo è esistenzialmente l’insieme delle possibilità che non scegliamo, ma in cui siamo inseriti, possibilità rispetto alle quali non siamo liberi, ma che dobbiamo essere. Questo non significa che non abbiano il carattere dell’esistenza, cioè di ciò che mi è imposto nella sua unicità e che devo assumere e realizzare. Ma è soltanto sul loro fondamento che si aprono le possibilità «libere»».49

Heidegger aveva parlato di «essere gettato» (Geworfenheit) e di «situazione emotiva» (Befindlichkeit),50 per marcare questo carattere passivo e irreversibile dell’essere-nel-mondo, una fatticità che precede e rende possibile ogni libertà: l’io umano non inizia da sé, non è fondamento di se stesso («assoluto»), le sue possibilità si disegnano su uno sfondo di passività indisponibile. Patočka individua però il limite di queste nozioni heideggeriane proprio nella loro assenza di riferimento alla sfera corporea, che le rende fenomenologicamente indeterminate o, comunque, «formali». Ma il doppio profilo della possibilità nell’esistenza, che distingue le «possibilità» che posso solo assumere e le «possibilità» che posso invece scegliere, si salda attraverso lo schema ontologico della corporeità: «Questo legame è assicurato, ci sembra, dalla corporeità della vita — ciò che io posso fare è dato da ciò che mi rende possibile l’azione in generale, ed è la mia corporeità che qui devo assumere prima di tutte le possibilità libere. […] L’azione prende da qui le figure concrete della cura in un certo contesto storico fattuale all’interno del quale si scoprono in seguito le possibilità del compito proprio, liberamente ravvisato e scelto».51

Se, per Heidegger, la struttura esistenziale fondamentale del Dasein, come ente al quale importa del proprio essere, è la cura (Sorge), e ciò imprime all’esistenza umana una forma dinamica che rompe definitivamente con il principio dell’essenza-sostanza, il «prendersi cura di sé» (ovvero la libera assunzione di un compito per l’esistenza, in una determinata situazione storica) poggia e si chiarisce sulla base della corporeità della vita, della vita come corporeità. Da questo punto di vista la nozione di possibilità, che Heidegger giustamente pone al centro del lavoro analitico sull’essere-nel-mondo del Dasein («io sono le mie possibilità»), manifesta una fondamentale oscurità, un «principio di indeterminazione» che ne lascia sullo sfondo le figure effettive, soprattutto quando la «possibilità» (al singolare o al plurale) si stempera nell’orizzonte formale dell’«essere-in-vista-di». Ecco come Patočka prende chiaramente le distanze da Heidegger, nella messa a fuoco di questo nodo cruciale della fenomenologia esistenziale:

L’esposizione di Heidegger [nell’analisi della struttura ontologica della cura] porta a credere che le possibilità ancorate nel mio «in vista di che» (io esisto in vista del mio essere, cioè devo «condurre» la mia vita, realizzare il mio essere in possibilità con le quali m’identifico compiendole) mi sarebbero direttamente rivelate dal mio «essere in vista di». Ora ciò che voglio compiere «in vista del mio essere» è in realtà sempre codeterminato da ciò che devo compiere al fine di poter compiere qualsiasi cosa in generale. Le mie possibilità sono possibilità di esistere al mondo, possibilità di muovermi, di proteggermi, di abitare, di nutrirmi, di assicurarmi la mia sussistenza e quella dei miei [familiari], di riprodurmi, ecc. e queste possibilità hanno sempre una figura storicamente variabile ma data, attraverso la quale soltanto io cerco la mia via e mi metto alla ricerca della mia possibilità propria. La nozione oscura di «possibilità», cioè di un compito determinato che in quanto esistenza io posso e devo assumere, comprende al tempo stesso l’«in vista di sé» originario e il mondo. Io sono all’origine aperto a me stesso non solo come esistenza, ma già sempre come esistenza al mondo, esistenza corporea, non avendo qui la corporeità un significato ontico, ma ontologico.

In altri termini, per Patočka l’accento heideggeriano sulla «realizzazione di sé», un certo pathos dell’autenticità che percorre alcune sue pagine, la sottolineatura della libertà originaria dell’esserci di «dare senso» al mondo nella luce (finita) della praxis, pur cogliendo la dimensione essenziale dell’esistenza umana come movimento, compito, «ricerca», rischiano di sottacere (fenomenologicamente parlando) quegli strati di senso e di radicamento senza cui la stessa libertà dell’«in-vista-di-sé», la possibilità del Dasein di esistere autenticamente (ma anche l’esistenza inautentica, nelle sue strutture comprensive), non avrebbero una base ontologica. Questi «strati concreti» del campo di apparizione, segnalati da Patočka nel passo precedente e fondamentali per comprendere, nella variabilità delle figure storiche, la continuità della forma di vita umana, hanno a che fare, in modo originario, con la corporeità dell’essere-nel-mondo. L’intero campo delle mie possibilità si apre in quanto io non sono semplice e-sistenza (pura «trascendenza» nel senso dell’in-vista-di), ma esistenza corporea: il mondo non è un «progetto» della mia libertà, al contrario, è come essere corporeo che la sfera della possibilità si rivela immediatamente segnata dal limite (ogni mio poter-essere presuppone un dover-essere, un «non poter essere diversamente»). In definitiva, la finitezza esistenziale dell’io su cui Heidegger ha attirato (pre) potentemente lo sguardo della filosofia può essere compresa solo «riempiendo» la trascendenza dell’esserci di contenuti corporei, «incarnandola» in strutture e dinamiche della corporeità.52

Per Patočka, la critica heideggeriana del soggettivismo (evidente già nella scelta del termine Dasein in luogo dei tradizionali, e filosoficamente più «compromessi», soggetto o persona) non è stata sufficientemente radicale. Occorre dunque rifondare l’analitica esistenziale intorno a quel nucleo fenomenologico originario costituito dal corpo proprio e dal movimento corporeo: «La chiarificazione che caratterizza l’esistenza è chiarificazione di un ente corporeo. Certo, ciò non significa, non deve in nessun caso significare la reintroduzione di un sostrato sostanziale che comprometterebbe tutto lo statuto ontologico dell’esistenza. La corporeità sostanziale è, dal punto di vista della conoscenza, il risultato di una tematizzazione secondaria, ma la corporeità deve avere uno statuto esistenziale primario, che rende possibile la localizzazione tra le cose e l’azione esercitata su di esse, così come la ricezione dell’azione esercitata in modo simile da esse».53 La chiarezza della forma di vita dell’io come apertura e compito presuppone quindi l’esperienza dell’essere-un-corpo, l’appartenenza a un contesto ontologico-esistenziale in cui il corpo non è un ente «semplicemente presente», né uno «strumento», ma è la vita stessa della soggettività in quanto esiste nel mondo. Patočka mette tuttavia in guardia dal pericolo di risostanzializzare l’io, facendo del corpo l’ypokeimenon, il soggetto-sostrato del movimento. La struttura dell’esistenza corporea non è equivalente al rapporto dinamico tra una res e le sue proprietà, funzioni, operazioni. La stessa profonda, rigorosa concezione dinamica dell’essere di Aristotele, della quale Patočka non smette di evidenziare l’importanza storica e il valore teoretico,54 risulta inadeguata a comprendere il movimento esistenziale in quanto è un corporeo essere-nel-mondo; essa resta infatti legata all’idea che il movimento dell’ente, l’ente come movimento, sia possibile e comprensibile solo se, nel movimento, qualcosa persiste a mo’di base, sostrato, presupposto (l’ypokeimenon, appunto). Ma, puntualizza Patočka,

il movimento della nostra esistenza non può essere compreso in questo modo, esso non è come il cambiar colore di una foglia, la caduta di una pietra, lo spostamento di una cosa da un posto all’altro. In questi casi la cosa, la sua unità, è il fondamento e il presupposto del mutamento che ha luogo in essa, della transizione da uno stato all’altro. Per comprendere il movimento dell’esistenza umana, dobbiamo radicalizzare la concezione aristotelica del movimento. Le possibilità che fondano il movimento non hanno un portatore preesistente, un referente necessario che sta immobile alla base, ma piuttosto ogni sintesi, ogni interconnessione dinamica interna è compiuta dal movimento stesso, non da un portatore, da un sostrato, o dalla corporeità intesa oggettivamente. […] La nostra corporeità, in ogni caso, non funziona come un sostrato; il corpo, che è la base della vita vissuta, non ha il carattere di un’entità oggettiva. È corporeità vissuta, esistenziale.

Nella fenomenologia dinamica, non si tratta dunque di spiegare il divenire della vita umana individuando un polo stabile e permanente, che per così dire «sostiene» il movimento e il mutamento senza esserne toccato, poiché questo schema esplicativo non coglie il proprium dell’esistenza umana, la assimila (ontologicamente) alle cose. Poco importa che il cogito cartesiano e l’Ich denke kantiano cedano luogo ad un soggetto corporeo e mondano, se, in questo nuovo quadro, continuiamo a pensare il corpo proprio come il «sostrato» del movimento vitale (o, simmetricamente, il movimento come uno stato o un attributo del corpo): così ricadiamo nella prospettiva dualistica che separa l’io dalla sua praxis originaria, il senso della soggettività dal movimento della sua realizzazione, la verità dell’uomo dall’«essere in vista del proprio essere» e dunque dalla responsabilità. Ciò che si perde, in altri termini, è la dimensione radicale dell’esistenza, in cui l’«essere» non è un oggetto o un’idea afferrabile dall’esterno, ma è incessantemente e totalmente in gioco nel movimento. Rinunciare alla ricerca del sostrato, della sostanza che «sta al fondo» del movimento, significa prendere sul serio l’esigenza di non reificare l’esistenza, non trasformarla in una res. Non basta quindi «corporeizzare» l’ego, concretizzarlo, se esso viene ancora concepito come una sostanza o una sostanza-funzione, e non occorre enfatizzare il «movimento» dell’esistenza, se l’esigenza resta quella di renderla comprensibile rintracciando un sostrato; piuttosto, nella nuova «analitica esistenziale» auspicata da Patočka corpo, movimento e possibilità devono formare un plesso ontologico unitario e internamente articolato.

Se il corpo ha uno statuto esistenziale primario, l’esistenza è interamente corporea in quanto è interamente dinamica. Il corpo stesso è un processo, e non una semplice condizione del movimento. Si dovrebbe allora parlare di corpo-movimento, per sottolineare una identità sul piano strutturale: la corporeità è la dinamica dell’esistenza, considerata, per così dire, sub specie corporis, cioè nella prospettiva di una sua determinazione ontologica essenziale (certamente non l’unica). Il corpo-cosa (o corpo-sostanza) è invece il frutto di una tematizzazione secondaria, non originaria, che gode di una sua legittimità ma può fondarsi e aver senso soltanto nell’orizzonte dell’esistenza corporea. Ontologicamente il corpo proprio è l’ (auto) appropriazione dell’esistenza, è il movimento della soggettività. È realizzando le sue possibilità che l’io si realizza come corpo: quest’ultimo non è dunque un frammento di materia biologica, non è semplicemente un «corpo organico» in interazione funzionale con il suo mondo-ambiente, ma costituisce l’evento generativo dell’uomo come esistenza-nell’apparizione. Patočka evidenzia come l’«essere-in-vista-dell’essere», l’apertura veritativa dell’io in quanto esistenza, sia effettuale (reale, concreta) esclusivamente in virtù della corporeità: «La corporeità non è un momento empirico che si potrebbe aggiungere a questo «essere in vista dell’essere». Al contrario, l’effettuazione dell’essere che è in vista del suo essere, che effettua la sua vita e vive in anticipo rispetto a se stesso, è possibile unicamente grazie alla sua corporeità».55 La «trascendenza» come temporalità e in-futurazione, per cui il Dasein è «in anticipo rispetto a sé», pro-teso al senso del suo essere nella praxis originaria, non è un’evasione spirituale dal mondo: è lo spessore fenomenico ed esistenziale del movimento corporeo a illuminare il senso della temporalità, offrendo una base e un fondamento all’esistenza.

L’esistenza-nell’apparizione, si diceva, è strutturalmente finita. Un aspetto fondamentale di questa finitezza è da cogliere nella caratterizzazione ontologica della soggettività come bisogno, sulla quale Patočka attira spesso l’attenzione. Se Husserl aveva giustamente insistito sul Leib come «centro di orientamento» e punto di riferimento attivo nella mia relazione con le cose del mondo, va anche considerato che il corpo non è un autonomo potere trascendentale, bensì un sistema (dinamico) di bisogni:

Il corpo non solamente è un centro attivo, punto di partenza di un’azione, ma anche il fine di una dinamica: ha fame e sete, vuole aria, luce, movimento ecc. L’azione, che è una sorta di uscita dal corpo, vi fa ritorno sotto forma di soddisfazione, ed è nell’opposizione insoddisfazione-soddisfazione che sta la radice del bisogno. Il corpo si trova in uno stato di bisogno essenzialmente, non in modo contingente. Il corpo esige cure ad ogni istante. Nell’attività con cui persegue i suoi bisogni, esso è anche costantemente rinviato al suo campo.

Su questo punto, la fenomenologia asoggettiva spinge l’indagine della finitezza più in profondità rispetto al soggettivismo husserliano (dove peraltro il fondamento istintivo della vita egologica era già stato tematizzato), rivelando il legame radicale dell’io corporeo con il campo di apparizione, la sua dipendenza da ciò che appare, nella prospettiva del bisogno. L’io è, essenzialmente, un essere bisognoso: ma è nel corpo e attraverso il corpo che si stringe il nesso dinamico tra la tensione del bisogno e la sua (sempre provvisoria) risoluzione, tra la forza centrifuga dell’«insoddisfazione» che muove l’io fuori di sé, verso gli elementi e le cose del mondo, e il suo ritorno a sé, nella «soddisfazione» che la fonte dell’apparire gli offre e, sempre di nuovo, può offrirgli. Gli elementi o le forze del campo di apparizione sono ciò che consente all’io di vivere e mantenersi (esistenzialmente) nell’orizzonte fenomenico, e nella concreta dinamica del bisogno la «soggettività» si sa tagliata dalla stessa stoffa del mondo, da cui oggettivamente dipende per la sua esistenza. Il corpo emerge qui come nodo o evento di una trascendenza-immanenza che è tutta interna al piano (asoggettivo) dell’apparizione.

Con il linguaggio di Husserl, si potrebbe scorgere nella struttura di bisogno della soggettività una sorta di intenzionalità originaria dell’essere corporeo, che corrisponde a un vuoto e a un’esigenza molteplice di riempimento, anche nel senso più elementare, fisiologico del termine: la fame, la sete, il respiro, il bisogno di luce ecc. L’io è strutturato come sistema di bisogni differenziati e organicamente interconnessi, in una dialettica polare sempre aperta di soddisfazione-insoddisfazione che costituisce la sua peculiare unità di vivente. Questo dato fenomenologico elementare e quasi banale, si carica filosoficamente di una valenza più pregnante se letto come prima radice della finitezza dell’essere-nel-mondo. La «cura» dell’essere-in-vista-di-se-stesso che Heidegger ha posto al centro dell’analitica esistenziale, come modo di essere del Dasein, affonda nella costituzione bisognosa dell’essere corporeo: il corpo è ontologicamente «in stato di bisogno» ed esige in ogni istante quelle cure che, sole, lo mantengono in vita o, detto altrimenti, in movimento. La temporalità dell’io, oltre che «coscienza interna del tempo» (Husserl), è un’ex-stasis ontologica scandita da molteplici bisogni; ma l’articolazione temporale della vita soggettiva è un «prendersi cura» (e ancor prima, un «ricevere cura» dall’altro)56 che risponde, per così dire, alle «estasi» della corporeità. Quest’ultima è essenzialmente rinviata, tramite la base istintiva e i canali sensoriali, al campo di apparizione come orizzonte della sua soddisfazione sempre di nuovo da conquistare: placare la fame, estinguere la sete, ripararsi dal freddo, godere della luce e dell’aria ecc. L’«odissea» dell’io nella sfera fenomenica è caratterizzata, al livello più basso e quotidiano, dalla cura del corpo, intesa come quell’attività fondamentale e multiforme che ha di mira la soddisfazione dei bisogni corporei. Se, per mezzo del corpo, siamo in grado di modificare e trasformare la realtà, inserendoci attivamente nel flusso materiale delle cose, il movimento della vita sarebbe assolutamente cieco e votato al fallimento se il corpo non orientasse l’io «rivelandogli» i suoi bisogni primari, cosicché la vita assume immediatamente come scopo se stessa prima di qualsiasi sapere tematico e riflesso: «Unicamente per mezzo del corpo, di un corpo che siamo in grado di governare direttamente — possiamo essere attivi nel mondo e partecipare realmente ai processi di modificazione delle cose che vi si svolgono. Ma la corporeità è orientamento anche in un altro senso: con i suoi bisogni il corpo fa sì che la vita assuma per scopo se stessa e che le oggettività le servano come mezzi a questo scopo».57

Il movimento della vita umana, la sua autoconservazione e riproduzione nella sfera delle attività «finalizzate», del lavoro, della cooperazione, ha un senso solo dentro l’orizzonte della corporeità e risulta incomprensibile al di fuori di esso. Certo, non può ancora essere questa la «cura di sé» nel significato esistenziale profondo, che ha implicazioni notevolmente più complesse e ravvisa una «totalità di senso» rispetto alla quale l’identità bio-funzionale dell’essere corporeo è una semplice premessa e condizione. Ma, già esaminando la «nuda vitalità» del soggetto, il bisogno non è un dato che afferisce alla biologia o alla psicologia; dietro la pluralità dei bisogni si addensa il nucleo originario della finitezza umana, ed è ciò che l’analisi fenomenologica deve cogliere preliminarmente. Nel bisogno la libertà dell’uomo si scopre finita:

Nella sua forma quotidiana, la libertà è libertà nell’ambito del ritorno periodico e della soddisfazione dei bisogni. Ma al di là della soddisfazione che si riproduce a intervalli regolari, c’è un bisogno fondamentale di un essere corporeo. La dipendenza permanente, invincibile, dell’essere corporeo non è un sapere oggettivo, ma una pulsione primordiale, un «non poter essere senza…». Dietro il bisogno c’è la finitezza dell’esistenza corporea. La libertà è essenzialmente corporea; in quanto corporea è essenzialmente soggetta al bisogno; in quanto soggetta al bisogno è essenzialmente finita e mortale. La finitezza dell’essere corporeo è così implicata in ogni movimento, per quanto insignificante questo possa apparire.

La libertà si attua su uno sfondo di dipendenza radicale, dentro un vincolo permanente e insuperabile, che tuttavia non le è prescritto dall’esterno, ma che essa stessa è (nel suo «accadere»), e non è altro che la sua corporeità, in quanto bisognosa. Il «non poter essere senza…», questa pulsione primordiale che marca la condizione umana, è il contrassegno della finitezza corporea. Nel passo precedente Patočka racchiude in poche battute il complesso gioco di rimandi che lega tra loro alcune delle parole-chiave del lessico fenomenologico-esistenziale: libertà, corporeità, bisogno, finitezza, mortalità. Nel confronto con la costellazione heideggeriana della finitezza, questa radice corporea della cura non va mai dimenticata: la finitezza come mortalità o essere-per-la-morte non è forse la «destinazione» dell’essere-un-corpo, il senso inevitabile della sua dinamica esistenziale? Né occorre, almeno all’inizio, contrapporre astrattamente alla cura del corpo la cura dell’anima (il grande tema della filosofia europea),58 come se l’esistenza umana non fosse movimento corporeo anche quando si muove e si articola nella dimensione della verità del sé (come anima o spirito). Anche da questo lato la fenomenologia esistenziale di Patočka si rivela una fenomenologia von unten proprio perché l’«asoggettività» che ne costituisce il filo conduttore metodologico è essenzialmente la messa in scena, nella pluralità e ricchezza dei suoi aspetti, del movimento esistenziale corporeo.

6. L’esistenza e lo spazio: la proto-struttura personale e l’esperienza come interpellazione.

Ma per approfondire il modo in cui la prospettiva asoggettiva della fenomenologia patočkiana si salda strettamente ad una «riscoperta» dell’io come esistenza corporea, dobbiamo accostarci al tema della spazialità originaria. Alla problematica dello spazio Patočka ha dedicato una riflessione intensa e articolata, mirando innanzitutto a recuperarne pienamente il valore filosofico-esistenziale, contro la pretesa della scienza di ridurlo a formalità oggettivo-matematica, ma anche prendendo le distanze da talune «metafisiche dello spazio» (ad esempio quella bergsoniana). La lezione di Husserl sulla «percezione dello spazio» (Raumwahrnehmung), sull’esperienza percettiva concreta delle relazioni spaziali,59 che precede la loro categorizzazione scientifica, viene rimodulata tramite un’accentuazione della dimensione ontologica. Per Patočka la spazialità è, originariamente, un modo d’essere dell’io, una forma del dispiegarsi della vita soggettiva:

La coscienza che siamo nello spazio, nei contesti dell’estensione, assume una struttura specifica che non ha nulla in comune con l’estensione oggettiva nello spazio (partes extra partes). C’è una differenza fondamentale tra essere nello spazio come una parte di esso, accanto ad altre cose, e vivere spazialmente, nella consapevolezza di essere nello spazio, in relazione con lo spazio. […] la spazialità vissuta del nostro corpo non può consistere nelle sue relazioni oggettivamente geometriche in quanto cosa. Il nostro corpo è una vita che è spaziale in se stessa e da se stessa, producendo la sua localizzazione nello spazio e rendendosi spaziale [spazializzandosi].

La distinctio phaenomenologica tra «essere nello spazio» (come una sua parte) ed esistere spazialmente ci offre il punto di partenza per comprendere il ruolo chiave del corpo nella rivelazione del senso più profondo della spazialità. Mentre la cosa è semplicemente nello spazio, accanto ad altre cose nel dominio dell’estensione oggettiva, l’io «è spaziale» in quanto vive spazialmente; il movimento dell’esistenza ha una relazione intima e originaria con lo spazio, nel senso che è dalla sorgente ontologicamente spaziale del soggetto che scaturisce il suo rapporto concreto e quotidiano con le cose nello spazio (nell’«orizzonte aperto» del mondo). Le geometria oggettiva del mondo esterno è una costruzione formale che presuppone, come base di senso, lo spazio vissuto della soggettività incarnata, il contesto operativo del corpo proprio come «punto-zero dell’orientamento», come già Husserl aveva mostrato nella sue analisi genetiche. Ma ciò non significa «soggettivizzare» lo spazio, né trascendentalmente facendone una universale struttura ricettiva, né, tanto meno, empiricamente considerandolo un precipitato delle percezioni. Anche qui, occorre spezzare il cerchio della gnoseologia per afferrare il carattere onto-fenomenologico della spazialità. Il nostro corpo, scrive Patočka, è «vita spaziale in se stessa e da se stessa»: è in quanto corporei che siamo spaziali e in costante rapporto con lo spazio, compiendo il nostro movimento nella sfera fenomenica.

Corpo e spazio si intrecciano strutturalmente in ogni figura e modalità del movimento: le forme elementari della «prossimità» e della «distanza», le coordinate del mondo-ambiente (destra-sinistra, alto-basso ecc.), la grammatica originaria del nostro «orientarci nel mondo», trovano nella corporeità il loro campo di emergenza e di giustificazione. L’io come persona, ovvero quell’essere peculiare che è capace di riferirsi a sé, di auto-relazione, non è concepibile senza una relazione con altro, una localizzazione: «L’auto-relazione implica il corpo soggettivo in quanto una delle sue funzioni di base è determinare che noi siamo da qualche parte e dove siamo. Ciò non può essere compiuto da un io puramente mentale/spirituale — un tale io non può essere da qualche parte».60 Non solo, quindi, il soggetto dell’autoriferimento non può essere una mente disincarnata o uno spirito puro; ma il corpo vivente proprio, nella sua fenomenicità originaria, non può essere un «corpo oggettivo», una cosa tra le altre cose nello spazio, poiché il contatto esperienziale con le cose (spaziali) si fonda sulla spazializzazione corporea, sull’esistenza come spazialità.

Si tratta allora di riconoscere che l’alternativa tra «soggettività» e «oggettività» non appare in grado di chiarire il senso asoggettivo dell’esistenza corporea dell’io nel campo di apparizione. Ma è proprio l’analisi della spazialità che ci dà un contributo decisivo in questa direzione, mostrandoci al tempo stesso la connessione con la dimensione intersoggettiva del movimento esistenziale e svelando altre linee strutturali della finitezza del soggetto. Nell’importante scritto del 1960, Lo spazio e la sua problematica, Patočka, oltre a tracciare sinteticamente una «storia genetica» del concetto di spazio secondo uno spirito non difforme da quello che aveva animato Husserl nelle sue riflessioni su L’origine della geometria, individua le radici fenomenologiche di questo concetto nella struttura dell’essere-nel-mondo, nel suo modo di essere spaziale. La prima forma di spazialità dell’io è un esistenziale e pre-geometrico essere-in, un «dentro» originario che corrisponde a una sorta di principium individuationis: è quella relazione tramite la quale il soggetto, individuandosi, si «separa» dagli altri enti solo per (ri) entrare e integrarsi nella totalità dell’ente (mondo, universo). Il soggetto, considerato nella sua genesi, è questo movimento vitale del rapportarsi ad altro, dislocandosi nell’orizzonte dell’apparizione.

La dis-locazione è la proto-spazializzazione dell’essere-nel-mondo: è ciò che realizza l’«inscrizione» in una totalità, l’appartenenza a un contesto globale.61 Ma, così declinato, l’essere-in primordiale non può costituire una posizione spaziale oggettiva, un luogo univocamente determinato e inconfondibile (come il punto di un sistema geometrico): il «dentro» originario è anche, essenzialmente, un «fuori», «è tutto insieme e nella stessa misura dentro e fuori». Non si tratta dunque di una localizzazione esatta, di un tracciamento rigoroso di confini e distanze:

È il «dentro» di un universo che conosce differenze più intensive che estensive; un «dentro» commistione di sé nelle cose e delle cose in se stessi piuttosto che una delimitazione precisa dello spazio occupato da questo o quello. In breve, il «dentro» originario non è una relazione puramente e semplicemente esterna, geometrica. É ciò che dirige tutti i nostri rapporti con le realtà marcando ciò che sarà per noi vicino o lontano. Contiene già una comprensione preliminare degli enti che ci interpellano e con i quali ci comprendiamo. Se chiamiamo «mondo della nostra vita» lo schema generale di tutto ciò che, nel nostro ambiente, può interpellarci, di tutto ciò che compie una funzione nel progetto della nostra vita (in quanto mezzo, membro di una serie di mezzi, fine momentaneo o durevole) in virtù della quale lo comprendiamo, l’«in» o il «dentro» originario significa «nel mondo», «al mondo». È la disposizione originaria e la disponibilità per ciò con cui entriamo in contatto.

Questa disposizione originaria al contatto, in virtù della quale gli enti ci interpellano e ci riguardano, in una comprensione preliminare non tematica, secondo relazioni qualitative di prossimità e distanza, non è altro che la nostra apertura al mondo. Ogni successivo e più preciso ordinamento spaziale dell’esperienza prende le mosse da qui, dal terreno mobile della Lebenswelt, dalla spazialità del quotidiano commercium con gli enti nel mondo. Se dunque lo spazio della geometria o della fisica, qualunque fisionomia assuma, rappresenta il prodotto di una «idealizzazione», lo spazio del vissuto è, innanzitutto, quella trama relazionale che ci rivela le cose come «significative» (in diversi gradi e modalità) in relazione alle possibilità del movimento corporeo. È l’apertura ontologica al mondo come piano della manifestazione (o, nell’accezione forse più concreta, «mondo della vita») a costituire originariamente, per noi, il senso dello spazio.62

Ma vediamo meglio come si articola, al suo interno, la spazialità originaria del campo di apparizione e quali conseguenze rilevanti ne derivano per l’analisi fenomenologica della soggettività (e intersoggettività) corporea. Nei suoi testi Patočka menziona a più riprese una struttura personale primordiale (io-tu-esso) che plasma l’esperienza dell’io, una sorta di «trascendentale del riferimento». Questa struttura, che ha il suo luogo naturale di esercizio nella sfera linguistica e discorsiva (la funzione dei pronomi personali), risulta, a un’indagine più attenta, necessariamente implicata anche nella comprensione della nostra sensibilità e corporeità. Abbiamo incrociato, in queste pagine, il carattere «interpellante» dell’essere-nel-mondo, emerso in prima battuta come un essere appellati dai fenomeni del campo di apparizione, dai suoi «centri di significato» e dalle sue «linee di forza», il che conferisce al nostro movimento nell’apparizione una forma «responsiva»: il movimento dell’esistenza, come essere-nel-mondo, è un originario, costante e pluridimensionale rapporto con l’altro e con altri. Ciò apre del tutto chiaramente alla relazione intersoggettiva, cioè al contatto con altre persone, altre soggettività, al cui «prendersi cura» si deve, come vedremo, il «radicarsi» stesso dell’individuo nel mondo. Ma l’interpellazione è una struttura universale e non concerne soltanto la comunicazione (linguistica o pre-linguistica) con un altro ego, anche se quest’ultima ne rappresenta certamente lo strato fenomenologico più evidente e più ricco di senso. Patočka la coglie innanzitutto esplicitando il senso esistenziale di «dentro» che caratterizza il Dasein e identificandola addirittura con la legge fondamentale dell’esperienza:

La proto-struttura io-tu-esso è un carattere originario di ogni «dentro», ciò che ci è già sempre familiare nello svolgimento di ogni esperienza, quale che sia: la forma primordiale di ogni esperienza. Il pronome personale non è qualcosa di derivato, che sostituisce i nomi (e le cose). È, al contrario, più originario di tutti i nomi e di tutte le cose. La legge del pronome personale è la legge primordiale dell’esperienza che appare quindi come interpellazione; l’interpellazione non è una semplice metafora, ma l’essenza stessa dell’esperienza. L’io e il tu sono le forme originarie della prossimità; l’«esso» è la forma dell’allontanamento o della distanza.

Fenomenologicamente, Patočka pone l’accento sull’originarietà del pronome personale nella strutturazione del campo di apparizione: nella grammatica dell’esperienza, i pronomi (ossia le funzioni personali, i riferimenti alle «persone») non sono sostituti o surrogati dei nomi (e delle cose che i nomi rappresentano), ma vengono prima, hanno una priorità rivelativa, aprendo quello spazio relazionale e dinamico in cui soltanto le cose (e i nomi che linguisticamente le esprimono) possono costituirsi come unità di senso. Io, tu, esso sono le parole-matrici, le forme originarie in cui si articola il linguaggio dell’esperienza. Ma non si tratta solo di espressione linguistica: le cose dell’esperienza sono già sempre immerse in questa atmosfera inter-soggettiva e i modi stessi della loro manifestazione, del loro apparire, sono «personalizzati», contengono cioè un rimando strutturale (un «appello») ai soggetti come persone. L’interpellazione, al di là dell’ovvio senso di una relazione comunicativa tra due soggetti concreti che si rivolgono la parola («io» e «tu»), è qualcosa di assai più profondo di una metafora: il mondo è essenzialmente un campo pronominale e ogni esperienza (fenomenica) che ha luogo nel mondo possiede questo tratto costitutivo interpellante. L’esperienza umana è «interpellazione» in quanto la proto-struttura io-tu-esso risulta inseparabile dal senso ontologico dell’essere-nel-mondo.

Come abbiamo letto, Patočka distingue l’«io» e il «tu» come forme originarie della prossimità, l’«esso» come forma dell’allontanamento o della distanza. In tale ottica, lo spazio primordiale è l’articolarsi dell’esperienza in rapporti di prossimità e distanza, secondo varie sfumature semantiche e differenti gradi di intensità. I pronomi personali, compresi esistenzialmente, non sono enti già definiti che entrano in relazione tra loro, in un contesto neutro; al contrario, ogni «relazione» tra enti, ogni «posizione» di una cosa all’interno del piano di apparizione presuppone il gioco spaziale-dinamico dei pronomi. «Io», «tu», «esso» formano quindi dimensioni dell’apparire tra le quali si instaura una complessa dinamica di rapporti, rimandi, scambi, stratificazioni, secondo la ricchezza manifestativa del mondo della vita. Senza approfondire questo nucleo tematico, che meriterebbe un’indagine più puntuale, vediamo come esso contribuisca in modo decisivo a ridescrivere «asoggettivamente» l’essere-nel-mondo. Il «dentro», l’essere-situati, contrassegno della dipendenza e finitezza della condizione umana, appare innanzitutto caratterizzato dall’oscillazione dell’’«io» e del «tu»: nonostante la visione dell’idealismo e del soggettivismo moderni, sul piano della manifestazione il «tu» è più originario dell’«io» (che inizialmente resta nascosto e indeterminato) ed è il lato esperienziale che emerge per primo, offrendo un punto di riferimento relativamente stabile nell’orizzonte mobile e ancora indistinto dell’apparizione (possiamo pensare, a titolo di semplice esempio, alla familiarità della voce materna per il bambino). La finitezza esistenziale dell’io appare qui, molto chiaramente, come bisogno dell’altro, esigenza di «appoggio» e radicamento in un tu:

L’io è semplicemente co-dato, come ciò a cui il tu è dato. L’io è dunque, per essenza, indeterminato per sé stesso, mentre il tu gli appare nelle determinazioni, le proprietà, le relazioni e i momenti affatto chiari e oggettivi, perché esposte allo sguardo. Il soggetto attivo del vissuto è essenzialmente indefinito, nascosto ai propri occhi. Ciò che egli riceve in primo luogo dall’oggetto, dall’altro, è il minimo di determinatezza propria senza la quale non avrebbe il sentimento di essere integrato nel complesso omogeneo della realtà.

Il «tu» è quell’«altro» di cui abbiamo bisogno per orientarci nel mondo e mettervi radici, in tutte le sue figure possibili. Ma, più in generale, esso corrisponde a tutto ciò che sta di fronte e mi interpella, nella prospettiva del senso (non ancora dell’«oggetto» nell’accezione più rigorosa del termine), lungo il continuum di una gamma emotiva che muove dall’intimità e familiarità assolute fino all’estraneità e all’opposizione più estreme. Patočka infatti rileva come l’originaria relazione io-tu assuma la forma di una polarità attrattiva o repulsiva, di un movimento marcato affettivamente: «Il rapporto tra l’io e il tu è di attrazione e repulsione, in ogni caso di direzione — indice della possibilità che la prossimità ha di aumentare o diminuire. La prossimità aumenta fino al punto che il tu sia per me pienamente se stesso [ciò che è] — una rosa pienamente una rosa, e non un semplice fiore nel paesaggio-ambiente; un individuo qualunque una persona ben conosciuta, o anche un’apparizione sorprendente, nuova, che si impone, ecc. ».63 Il «tu», così inteso, non è l’alter ego, o il suo volto: è l’intero spettro fenomenologico della prossimità con cui gli enti emergono dal campo di apparizione, nella loro vivente forza semantica. Viceversa, un altro io, una persona in carne e ossa, può essere da me esperita nella forma dell’esso, della distanza, del lontano o indifferente, di ciò che sta sullo sfondo e non ha «rilievo» (anche questo secondo gradi diversi). L’«esso» è la terza persona originaria.

C’è, chiaramente, una transitività che permette, nell’esperienza delle cose, il passaggio dal «tu» all’«esso»: ad esempio, la rosa ricevuta dal proprio innamorato può (ri) diventare un fiore qualsiasi dell’ambiente esterno, una cosa tra le cose, un «esso» che lascia a distanza. Tra il «tu» e l’«esso» si dà dunque passaggio e scambio. Questa reversibilità sembrerebbe invece del tutto esclusa nel caso dell’«io» e del «tu»: come potrei traspormi nella forma del «tu», annullare d’un colpo la differenza che ogni prossimità, anche la più radicale, presuppone? Patočka individua in questa «disparità assoluta», apparentemente insormontabile, l’archetipo di ogni soggettivismo. Il primato dell’io (gnoseologico, fenomenologico o funzionalistico) che tanta parte ha avuto nella costruzione del «discorso filosofico della modernità» ricava una quota consistente della sua legittimità da questa asimmetria originaria dei pronomi personali che articolano il senso della prossimità (l’«io» e il «tu»). Nella sfera primordiale del vissuto, infatti, l’io non appare come un elemento del campo fenomenico: è presente ma per se stesso «invisibile», suscitato solo dalle linee di forza del campo, dalle figure molteplici del «tu». A questo livello, si nasconde nelle azioni, nei comportamenti pratici, al punto che la sua «estrazione» dal flusso d’esperienza richiede un movimento controcorrente (quella che lo stesso Husserl chiamava riflessione). L’io si configura qui come un vedere che non viene visto, uno sguardo puro sul mondo: è, come direbbe Husserl (ma vi si può ritrovare la traiettoria teoretica dell’idealismo moderno, nelle sue varianti), un soggetto-per-il-mondo che non è, al tempo stesso, un soggetto-nel-mondo.

L’io diventa così uno «spettatore» dello spettacolo del mondo (e di se stesso come «io empirico», parte rilevante dello spettacolo): la «soggettività trascendentale», il soggetto come (auto) fondamento, come gesto della separazione dal mondo in vista della sua vera fondazione (da Descartes a Husserl) prende origine da questo ritirarsi dello sguardo (originario) dall’apparizione, per lasciare apparire gli enti; la «riduzione fenomenologica» non significa altro che la (ri) conquista di uno sguardo puro, non mondano, sul mondo delle cose. Ora, nota Patočka, questa ottica così autorevole e feconda di sviluppi funziona solo al prezzo di cancellare, a favore dell’originarietà dell’«io», l’originarietà del «dentro», la spazialità entro la quale la stessa relazione dell’io con il tu (e con l’esso) ha luogo. Lo «sguardo puro» è uno sguardo senza spazio, da nessun luogo. Inaugura un soggetto di fronte al mondo che, tuttavia, non può rientrare nel mondo, farne parte, proprio perché le linee prospettiche del mondo, le sue dimensioni inclusive (spazializzanti), non lo toccano realmente:

Visto così, l’io non è nel mondo ma di fronte al mondo, davanti a una prospettiva e al di fuori di essa. Affinché il soggetto sia effettivamente nel mondo, e non soltanto di fronte al mondo, gli esseri devono essere realmente, essenzialmente, intercambiabili, anche se le loro funzioni non lo sono. Solo una tale intercambiabilità di principio, in virtù della quale l’io non è semplicemente il soggetto puro dell’appercezione, può far sì che l’io sia al tempo stesso cosa tra le cose, che sia «dentro» come tutto il resto.

Husserl, nella Krisis, parlava dell’«io assolutamente unico e fungente», dell’«io originario» (Ur-ich), ovvero lo strato più profondo della vita trascendental-soggettiva, come di una soggettività essenzialmente indeclinabile.64 L’Ur-ich è, in un certo senso, un io che opera esclusivamente al nominativo, una «prima persona assoluta», che non è dunque una persona-nel-mondo e per la quale quale non avrebbe senso ammettere una pluralità, se non per un mero fraintendimento. Certo, lo stesso Husserl è ben consapevole che questo io originario, che nella sua funzione ultima di centro di un flusso temporale di esperienza non può mai diventare un «tu», è anche, per ragioni di principio, strutturalmente identico all’io personale, che ha un corpo e un luogo nel mondo.65 Ed è ascrivibile a Husserl (allo Husserl della «fenomenologia soggettiva») la trasformazione concettuale e metodologica dell’«astratto» ego trascendentale della tradizione in una intersoggettività monadologica, per la prima volta resa accessibile analiticamente nelle sue dimensioni costitutive più concrete (dalla temporalità alla percezione, dalla corporeità alla generatività, ecc.).66 Ma resta il fatto che, fino all’ultimo, Husserl ha difeso con tenacia (programmaticamente se non negli esiti effettivi delle sue indagini, che portano spesso in altre direzioni) la prospettiva di un soggetto non mondano, che certo costituisce il mondo e vi si installa, ma, almeno a qualche livello, non gli appartiene: una soggettività che si coglie (e non può non cogliersi) anche come io dentro il mondo (in quanto corporeo-spaziale), ma che, almeno nella «finzione metodologica» dell’epochè trascendentale, dal mondo può considerarsi «assol (u) ta», svincolata. Così possiamo riannodare il filo della riflessione patočkiana sulla svolta asoggettiva della fenomenologia, cogliendone altri aspetti originali e, comunque, degni di discussione e di approfondimento.

Torniamo al testo precedente: ciò che immette il soggetto pienamente nel mondo, esonerandolo dal ruolo di «spettatore disinteressato», è la prospettiva dell’intercambiabilità degli enti. Essa affiora, in modo abbastanza naturale, elaborando ulteriormente la struttura dell’interpellazione e il dinamismo intrinseco dei pronomi. È evidente che non posso trasferirmi direttamente nel tu (in un «tu» qualsiasi) abbandonare la mia «singolarità» di persona unica e inconfondibile (un «io», appunto), né avrebbe senso. Ma, se il passaggio dall’io al tu, così concepito, è per me impossibile, non lo è quello inverso, che conduce dal tu all’io, nel senso che il mio io può essermi dato, in una peculiare tipologia di esperienza, nella forma del tu (e quindi anche nella forma dell’esso). Pur rimanendo sempre, in quanto «io», nella prospettiva della prima persona, dalla quale non posso realiter uscire, se non dissolvendo la struttura stessa della mia esperienza, esiste altrettanto incontestabilmente una datità del mio io alla seconda (e alla terza) persona. Questa dualità dell’io, che è ben diversa dalla classica differenza tra «io trascendentale» e «io empirico», si fonda e si rende comprensibile unicamente sul terreno della corporeità:

Questa dualità del nostro io, che è capace di assumere ugualmente le forme del tu e dell’esso, è fondata nella sua corporeità. L’io che è nel mondo è un io corporeo. Colto come io corporeo, è, fin dall’inizio, della stessa natura del tu e dell’esso, di tutte le altre cose. La forma dell’io è per lui una semplice prospettiva, una funzione che non contrasta con questo carattere fondamentale, né lo complica in nulla. Al contrario, è su questo fondamento che si dispiega del tutto naturalmente il rapporto dell’io con un certo numero di tu privilegiati, con le persone che ci interpellano ed esercitano su di noi un’influenza particolarmente profonda e intima. Il tu è qui compreso come un altro io di cui io sono il tu. La situazione, inizialmente unilaterale, diventa simmetrica — cesso di essere nel ruolo di colui che è semplicemente interpellato, divento io stesso, nello stesso tempo, colui che interpella. Questa reciprocità instaura allora, in tutte le relazioni tra le persone, l’equilibrio richiesto dalla relazione «dentro».

Ancora una volta l’essere-corporeo dell’io costituisce un’indispensabile chiave di lettura per comprenderne non solo le strutture esistenziali dinamiche, ma anche le più elementari distinzioni categoriali, già sempre innestate nel nostro linguaggio. La «reversibilità» delle forme pronominali, evidente in qualunque situazione intersoggettiva («io» sono il «tu» o l’«esso» di un altro io, che appunto mi coglie in prossimità o a distanza), è una diretta conseguenza della corporeità. L’interpellazione, come «legge fondamentale dell’esperienza», presuppone la spazialità, la co-esistenza dell’«io» e del «tu»;67 ma il modo originario di essere-spaziale dell’io non è altro che la sua vita corporea. È come corpo che l’io «vive» lo spazio e lo «abita». Ma è attraverso il prisma dell’intersoggettività che le molteplici rifrazioni della corporeità diventano visibili e aprono nuovi scenari analitici: di questa connessione originaria e multi-stratificata della corporeità con l’intersoggettività Husserl aveva dato un ampio saggio nei suoi scritti inediti, e la stessa fenomenologia della corporeità proposta da Patočka non sarebbe concepibile senza il «retroterra» delle analisi husserliane. Tuttavia, in Husserl la cornice della soggettività trascendentale (anche determinata concretamente come inter-soggettività trascendentale) impedisce di operare in modo completo e coerente quella simmetrizzazione dei pronomi personali che, secondo Patočka, deriva dalla struttura corporeo-spaziale dell’esistenza. In quanto corporeo, l’io possiede, fin dal principio, la medesima natura del tu e dell’esso; la forma dell’«io» è una semplice prospettiva, che originariamente co-esiste con altre, cosicché il campo di apparizione ha una curvatura intersoggettiva e interpersonale che rende il soggetto dell’apparire immediatamente declinabile e «declinato».

La corporeità è quella declinazione dell’io, che lo espone alla trama del mondo e lo offre allo sguardo dell’altro. Ma non bisogna pensare ad un «io» che sussista prima di questa spazializzazione, di questa «caduta» (sia pure metaforica) nell’apparizione e nella corporeità; dire «io» (esprimere o sentire la mia esistenza) significa articolare la proto-struttura «io-tu-esso» nel senso della prima persona, ma solo come una prospettiva «dentro» il campo fenomenico. Prospettiva inevitabile, ma sprovvista di qualunque «primato» o «antecedenza» rispetto alle altre due, sul piano logico, gnoseologico o ontologico. Certo, a seconda dell’angolazione descrittiva assunta, da cui tematizzare il gioco dinamico e «dialettico» tra i pronomi personali, possono crearsi gerarchie e priorità relative (ad esempio, abbiamo visto che geneticamente il «tu» emerge prima dell’io, per la sua essenziale «visibilità»); è però vero che, globalmente, la comprensione di sé come un «io», una soggettività, implica questo equilibrio simmetrico delle persone, nello spazio-mondo dell’apparire, in cui gli enti si danno come intercambiabili. Solo se l’io non fosse, ontologicamente, corporeo l’ipotesi di una soggettività trascendentale costituente che «si mondanizza» senza essere originariamente dentro il mondo (l’«io» come puro vedere) avrebbe una qualche legittimità.

Per il filosofo ceco, un pensiero fenomenologicamente conseguente della corporeità giunge, necessariamente, a infrangere le barriere del trascendentalismo soggettivo. Il campo di apparizione si rivela come asoggettivo, non-egologico, poiché il soggetto dell’apparizione è sottoposto alla «legge fondamentale dell’esperienza» come tutti gli altri enti: è «dentro», anche nella massima intensità del suo sforzo di auto-riflessione, anche nell’esperimento metodico radicale dell’epochè husserliana, la quale, correttamente riformulata, non fa altro che «illuminare», senza poterla minimamente alterare o sospendere, questa appartenenza radicale dell’io al mondo. Nonostante sia il referente dell’apparizione, l’essere cui gli enti appaiono nella dimensione della totalità, l’io è e rimane un essere del mondo. La postura soggettivistica dello sguardo puro, che considera il mondo come un di fronte (un «fuori» che la coscienza trascendentale dispiega nella sua intenzionalità) dimentica la struttura finita dell’esistenza-nell’apparizione e della «riflessione» come rapporto-a-sé. Per contro, la finitezza ontologica è la luce a-soggettiva in cui il soggetto appare, già sempre sotto lo sguardo dell’altro.68

7. Corpo-soggetto e corpo-oggetto: intersoggettività e critica dell’«immanenza pura».

Esplorato alla luce della proto-struttura, il corpo proprio (quello che Patočka, seguendo Husserl, chiama spesso «corpo soggettivo» o «corpo vivente») mette allo scoperto una «oggettività» dell’io che appare, che ovviamente non può essere quella della metafisica oggettivistica o della moderna scienza della natura. Una paradossale «oggettività soggettiva» che corrisponde alla finitezza dell’essere-nel-mondo e che rende possibile la comunicazione tra le persone e lo sviluppo di una comunità umana. Come lo stesso Patočka gli riconosce, Husserl aveva lucidamente afferrato la centralità del corpo per la questione dell’intersoggettività; nel suo programma filosofico-trascendentale, l’auto-esperienza di sé come un Leib (e non un semplice «corpo fisico», Körper) e l’esperienza percettivo-analogica del corpo dell’alter ego, di una soggettività «altra», formavano una sorta di plesso fenomenologico primario, a partire dal quale il grande compito della «costituzione del mondo oggettivo» (un mondo che, come dice Husserl nella V Meditazione cartesiana, «esiste per tutti e i cui oggetti sono accessibili a tutti»)69 avrebbe potuto essere assolto.

In proposito, sono note le analisi husserliane dell’«empatia» (Einfühlung) come «esperienza dell’estraneità», il cui nucleo fondante è costituito dall’«appaiamento» (Paarung) del mio corpo con un altro corpo vivente,70 in un campo di percezione che, con l’artificio metodologico della «riduzione alla sfera appartentiva», si presenta come un campo esperienziale esclusivamente mio, assolutamente «privato» (ovvero depurato da ogni riferimento intenzionale ad altri soggetti, diversi da me). Si tratta di un passaggio delicato e discusso, dai tratti fortemente aporetici, perché riguarda la possibilità e i limiti di una fondazione dell’«oggettività» (nelle varie accezioni che il termine comporta) nell’immanenza della vita del soggetto; anche se, va ricordato, la fondazione fenomenologica del mondo oggettivo che Husserl persegue ha ormai oltrepassato i presupposti «dualistici» e «deduttivi» che inficiavano, almeno in parte, l’analogo tentativo cartesiano delle Meditationes. Patočka si confronta frequentemente, nei suoi scritti, con la teoria husserliana dell’«intersoggettività trascendentale», evidenziandone, di volta in volta, risorse descrittive e difficoltà interne,71 com’è tipico del suo dialogo teoretico con le «due fenomenologie» che lo hanno preceduto. A noi interessa, presentemente, vedere il modo in cui Patočka interviene sulla distinzione tra «corpo-soggetto» e «corpo-oggetto», già delineata da Husserl, ma, a sua opinione, insufficientemente elaborata; di fatto, «l’esperienza del corpo-oggetto gioca un ruolo di primo piano nell’esperienza dell’altro. È proprio con l’esperienza del corpo-oggetto che io divengo cosa tra le cose, allo stesso livello degli oggetti che mi si presentano nelle mie prospettive».72

L’esperienza di sé alla terza persona, che si manifesta nel modo più profondo e compiuto nel contatto reale con un altro io (che mi «oggettiva» nella sua esperienza di soggetto), passa attraverso questa auto-assunzione del corpo proprio come corpo-oggetto. Il corpo è, in quanto mio, non solo «soggettivo», espressione della mia libertà incarnata e del movimento esistenziale che io sono, ma è anche, per ragioni di principio legate alla struttura situazionale dell’esperienza, un «oggetto», una cosa del campo di apparizione, sebbene sui generis. La dualità semantica del «corpo» non si risolve linearmente nella distinzione tra Körper e Leib, perché quest’ultimo è, in sé, attraversato da una doppia modalità di manifestazione, «soggettiva» e «oggettiva», che gli aderiscono intimamente, strettamente intrecciate. Husserl ha messo in luce sotto vari angoli prospettici come l’incontro dell’io con l’altro (inteso qui come un altro io) dipenda essenzialmente dalla dimensione oggettiva del mio corpo, dal fatto che esso sia anche un ente esteso e percepibile, spaziale. Altrimenti, come potrei cogliere nel corpo «là», che si manifesta nel mio campo di percezione, un analogon del mio corpo organico, e dunque un «portatore di soggettività», come me? Il corpo-oggetto è dunque l’autentico elemento di continuità che pone in contatto e in comunicazione due soggetti, due persone. La corporeità è un vettore che mi dis-loca (spazialmente) tra le cose, ma, proprio per questo, è anche il «veicolo della socialità», una struttura mediale o un ponte che mi collega alla soggettività dell’altro, rendendomela accessibile: «Di fatto, è certo che la comunicazione intersoggettiva si svolge esclusivamente per mezzo del corpo-oggetto. La funzione più essenziale della corporeità sta indubbiamente proprio in questa mediazione che la rende il veicolo della socialità la cui importanza cruciale è ovvia e possiamo evitare di discutere».73

Il nesso tra l’(auto) esperienza corporea (corpo-soggetto e corpo-oggetto) e la costruzione dell’orizzonte sociale-comunicativo tra i soggetti umani appare dunque imprescindibile. Anche in Husserl il corpo, nella sua concretezza esperienziale, è il mediatore universale della socialità: è esclusivamente in quanto corporei che possiamo «riferirci» gli uni agli altri, comunicare, articolare cioè un mondo comune. Non potendo infatti penetrare direttamente nella vita psichica dell’altro, nel suo flusso temporale di vissuti, non posso che leggere nel suo lato oggettivo e visibile (la corporeità, appunto) gli «indizi» di una soggettività diversa dalla mia: nelle posture, i movimenti, le espressioni, i gesti di quel corpo «là» scopro allora un altro centro di esperienza del mondo. Non un «secondo me», una mia duplicazione o proiezione, ma un altro io, un’autonoma e libera sorgente di vita personale. Senza questa oggettività originaria del corpo (un «esterno» che rimanda a un «interno») non sarebbe possibile alcuna comunicazione tra me e l’altro, e, se anche vi fosse realmente nel mondo una pluralità di soggetti (di «monadi», direbbe Husserl), nessuno saprebbe nulla degli altri. Nessuna «finestra cognitiva» si aprirebbe, per me, sulla soggettività altrui (né, per gli altri, sulla mia), se non disponessimo, come base, di questa forma di esteriorità che è il corpo-oggetto. E l’accento posto sulla spazialità essenziale del corpo consente a Patočka non solo di «correggere» un punto cruciale dell’analisi husserliana dell’intersoggettività, ma anche di «contestare» (o, almeno, ridimensionare notevolmente) quel nettissimo primato ontologico-esistenziale del tempo sullo spazio che sorregge tutta l’analitica del Dasein di Essere e tempo.74

L’esperienza del corpo-oggetto e la sua importanza per l’intersoggettività si rendono meglio comprensibili mirando alla singolare corrispondenza che sussiste tra le forme di localizzazione legati alla corporeità soggettiva e la proto-struttura dei pronomi personali. Questi ultimi sono infatti «traducibili» nel linguaggio della spazialità: «L’«io» è legato indissolubilmente al «qui», il «tu» al «là» come luogo dell’oggetto tematico, centrale. Il luogo del «tu» è, nel senso originario del termine, la prossimità oggettiva». Com’è chiaro, il corpo proprio consente la fissazione di un «qui» che non è altro che il luogo dell’io, la posizione che esso corporeamente occupa (possiamo ricordare, in Husserl, la definizione del «qui» segnato dal corpo soggettivo come un «qui assoluto», rispetto al quale, percettivamente, tutto il resto è un «là»). Il «tu» viene a indicare, spazialmente parlando, la prossimità dell’oggetto al mio corpo, secondo gradi diversi: il «là». Il terzo elemento della localizzazione, il «questo» (che corrisponde alla spazialità della terza persona, l’«esso», o «egli, ella»), sorge nel momento in cui il «tu» smette di occupare questo luogo di prossimità: ad esempio, l’oggetto si allontana da me o io me ne allontano, oppure ricade, in qualche maniera, nello sfondo indifferenziato dell’esperienza. Ma «l’opposizione prossimità-allontanamento è una struttura locale essenzialmente trasponibile: se mi metto al tuo posto, il mio «qui» attuale diventa per me un «là», e viceversa».75

Per esseri corporei che hanno facoltà di movimento, la polarità vicino-lontano presenta un carattere fluido e reversibile, all’interno della situazione intersoggettiva: il mio «qui» attuale è per l’altro un «là», come potrei verificare (indirettamente) assumendone la posizione. Ma, a quel punto, il mio nuovo «qui» (sempre marcato dal mio corpo) sarebbe necessariamente un «là» per l’altro. Insomma, in questo modo si forma e si consolida l’oggettività del luogo (non ancora geometrica o «esatta») come una spazialità comune, alla terza persona, che pur manifestandosi sempre nelle forme del «vicino» e del «lontano», risulta indipendente dal corpo soggettivo che vi «prende luogo». Soggettività, oggettività, intersoggettività, gli assi fondamentali intorno ai quali ruota il senso di ogni nostra esperienza, si delineano, in una dialettica via via più complessa di forme e relazioni, a partire dalla (doppia) proto-struttura personale-locale, dalla spazializzazione originaria del campo di apparizione. Scrive infatti Patočka:

Si può dire che la struttura locale definita dall’opposizione qui-là-questo, o parallelamente io-tu-egli (ella, esso) è non solo una condizione della comunicazione, ma una condizione dell’appercezione dell’altro come tale. […] Ogni oggettività con la quale possiamo entrare percettivamente in contatto deve rientrare in questa struttura locale. È una struttura d’oggetto, che però non è oggettiva. D’altronde, la struttura oggettiva dello spazio è anch’essa, in un altro modo, una condizione necessaria della comunicazione: essa è ciò che è comune nella reciprocità di due situazioni d’oggetto, ciò che viene compreso come il denominatore della loro simultaneità e della loro corrispondenza reciproca.

Una «struttura d’oggetto» che non è oggettiva, essendo (trascendentalmente) condizione preliminare di ogni oggettività. Ma, si potrebbe aggiungere, non è soggettiva, in quanto il soggetto (o, pluralisticamente, i soggetti) si conforma ineludibilmente alla sua legalità interna, certo con modalità proprie e specifiche, ma allo stesso titolo di tutti gli altri enti. La proto-struttura è dunque asoggettiva, e solo in questa accezione distintiva e critica rispetto alle strutture della «soggettività trascendentale» può essere definita, a buon diritto, come trascendentale. In tale ottica, è utile vedere come i «dati» fenomenologici qui raccolti possano essere fatti convergere, in modo critico, contro una delle principali linee programmatiche della filosofia di Husserl (in particolare della sua teoria dell’intersoggettività), che trova uno sviluppo esemplare nella V Meditazione cartesiana: l’idea secondo cui è possibile la rigorosa fondazione fenomenologica dell’oggettività, in tutti i suoi strati e gradi di significato, muovendo da una sfera puramente «soggettiva», immanente, ottenuta tramite una doppia riduzione fenomenologico-trascendentale (la cosiddetta «riduzione alla sfera appartentiva o primordiale», cui abbiamo già fatto cenno).

Per Husserl, occorre individuare uno strato ultra-ridotto dell’esperienza dell’io, già sottoposta a epochè universale, dal quale sia assente ogni elemento o implicazione «intersoggettivi», qualsiasi formazione di senso che rimandi a uno o più soggetti diversi da me.76 È chiaro il carattere «artificiale», astrattivo di questa operazione, se si tiene presente che il senso ontologico del mondo contiene già in sé la «validità per tutti»; d’altro canto, l’obiettivo gnoseologico di Husserl è mostrare come questo significato intersoggettivo si innesti sullo strato «appartentivo» del mondo nel momento in cui un alter ego, con il suo corpo, appare nel mio campo di percezione. In altri termini (al netto di oscillazioni, ambiguità e ripensamenti che si possono agevolmente rintracciare nei testi husserliani),77 è l’alter ego reale e corporeo, a «de-soggettivare» la mia esperienza del mondo, conferendole il carattere di esperienza comune (e, in questo senso, «oggettiva»). Se questa tesi fosse giustificata, il «soggettivo» (ovviamente non in senso psicologico ma trascendentale) godrebbe effettivamente di un primato nella fenomenologia: l’intersoggettività sarebbe una estensione, necessaria sì, della «soggettività trascendentale», e ne esprimerebbe la piena concretezza; tuttavia, essa presupporrebbe una soggettività pura, il cui senso può (e deve) essere recuperato tramite la riduzione radicalizzata di cui si è detto.

Patočka, come abbiamo in parte visto e come si potrebbe verificare in misura maggiore attraverso un confronto più ampio con i testi, riconosce certamente l’originalità e l’importanza delle analisi husserliane dell’esperienza dell’altro, riprendendone e sviluppandone alcuni risultati. Ma, a suo avviso, proprio la tematizzazione del ruolo del corpo-oggetto nella fenomenologia dell’intersoggettività esibisce un argomento forte contro il «soggettivismo» di Husserl e l’idea stessa di una «immanenza pura». È, per alcuni aspetti, lo stesso quadro analitico delineato da Husserl a esigerne la ri-descrizione in termini a-soggettivi. L’appresentazione, termine husserliano che indica l’«apprensione intuitiva» di un altro io (in virtù dell’associazione di somiglianza tra il suo corpo e il mio), non sarebbe possibile se il mio corpo non fosse già dato a me stesso come un corpo oggettivo:

L’appresentazione sarebbe impossibile se io non fossi già dato a me stesso come un corpo che è nell’oggettività, nell’alienazione. È qui che sta il significato più profondo, il significato «trascendentale» della corporeità oggettiva — questo è il solo luogo a partire dal quale la realizzazione del tu può prendere le mosse. La prima e la terza persona sono dei presupposti interni alla realizzazione della seconda.

Come essere corporeo, sono già sempre «nell’alienazione», fuori, nello spazio-mondo, preso nel gioco della prossimità e della distanza, inserito in un campo pluriprospettico il cui centro è (almeno potenzialmente) ovunque: vi è quindi una oggettività del mio corpo che deriva dalla mia appartenenza al mondo, e non dall’incontro con un altro essere personale, un «tu» concreto. Al contrario, rileva Patočka, questo «incontro» con l’alterità, l’esperienza di una soggettività diversa da me, così finemente analizzata da Husserl nelle sue componenti intenzionali, è possibile solo perché la struttura dell’esistenza corporea implica l’auto-estraneazione e l’auto-oggettivazione. Per usare un’immagine, l’«altro» è originariamente in me, nel cuore della mia situazione esistenziale, prima di essere fuori di me, nella figura determinata di un alter ego reale. Naturalmente, il «prima» qui non indica un rapporto di antecedenza temporale (come se vi fosse prima l’«idea» dell’altro e poi il contatto esperienziale con un altro «in carne e ossa»); designa, piuttosto, la priorità della struttura asoggettiva del campo di apparizione, che si manifesta in modo emblematico nella corporeità. Nonostante la giusta definizione fenomenologica del mio corpo come «soggettivo» e «vissuto», non bisogna dimenticare che questo corpo è anche, essenzialmente, «oggettivo», non nel senso della res extensa o della naturalità biologica, ma come spazializzazione dell’esistenza, movimento della «vita» e della «carne» nella dimensione dell’esteriorità.

Se così non fosse, se il mio corpo non fosse originariamente declinabile alla terza persona, afferrabile a distanza da sé, la realizzazione della seconda persona, l’esperienza dinanzi a un tu reale, che mi «oggettiva» in un senso più profondo del termine, non potrebbe prendere forma. Se dunque, per un verso, resta vero che «l’altro essere, gli altri esseri ci oggettivano insieme a tutte le altre cose» e «il mondo diventa in questo modo un mondo per tutti»,78 è altrettanto vero, in chiave di critica all’impostazione soggettivistica della teoria husserliana dell’intersogettività, che «questa osservazione sulla necessità del corpo oggettivo per l’esperienza dell’altro come tale mostra che non è affatto possibile presentare questa esperienza, nel suo insieme, sul piano dell’io ridotto alla sua immanenza soggettiva, perché l’io così ridotto è una soggettività pura che come tale non può avere un terreno comune con un’altra vita puramente soggettiva».79 In pratica, argomenta Patočka, affinché l’altro possa esser esperito da me, devo innanzitutto coglierlo nel suo carattere corporeo, percepirne il corpo, dal momento che nessun «passaggio» reale mi conduce all’interno del suo flusso temporale di coscienza (in tale circostanza, del tutto teorica, di una sovrapposizione dei rispettivi vissuti, io e l’altro verremmo in qualche modo a fonderci e identificarci). La corporeità è dunque quel terreno comune (o quel «ponte») che permette la comunicazione intersoggettiva tra i due flussi. Tuttavia, «questo elemento comune non può essere la semplice apparizione del mio corpo, che riguarda sempre la sfera soggettivamente privata, ma esclusivamente il corpo-oggetto».80 In altre parole, se il mio corpo fosse costituito in una sfera puramente immanente, non si capirebbe come la percezione del corpo «là» (che dovrebbe apparire come il corpo dell’altro) possa generare quell’associazione di somiglianza su cui si basa la husserliana «empatia» (Einfühlung). Al contrario, l’apparizione del tu nella forma dell’alter ego richiede una certa «omogeneità» o «continuità» con la struttura della mia manifestazione; ma essa può essere garantita solo dalla corporeità in quanto oggettiva.

Con una mossa che ricorda, per qualche aspetto, la confutazione kantiana dell’idealismo nella Critica della ragion pura,81 Patočka fa leva sulla necessità di un contesto non soggettivo (di principio irriducibile alla soggettività) «in cui» la soggettività dell’altro, a me inaccessibile in quanto «presenza vivente» e soltanto «presentificabile», sia data:

La «proiezione» della soggettività, o piuttosto la verifica dell’idea del tu nell’esperienza, presuppone la presenza di qualcosa in cui il tu — l’altra soggettività — mi è data. Ora, questo «in cui» non può essere come tale soggettivo, perché la soggettività data in quanto vivente è la mia e la soggettività presentificata è estranea. La presenza dell’altro come tale in me è dunque necessariamente non soggettiva. Se si produce in modo che la apprendo come mia propria manifestazione esterna, invertita come in uno specchio, questa manifestazione esterna deve anche essermi data come qualcosa di asoggettivo. Vale a dire che essa si realizza necessariamente nel fenomeno del mio corpo-oggetto.

Se l’apprensione del «tu» come un altro «io» avviene tramite una sorta di inversione speculare, di rovesciamento percettivo-spaziale della mia situazione corporea, quest’ultima non può essere pensata come qualcosa di solamente soggettivo. Il mio corpo «soggettivo» (il corpo che sono) deve dunque avere, fin dall’inizio, una oggettività spaziale e dinamica (una «struttura di mondo»), che ne rende fenomenologicamente inconfigurabile l’apparizione in una dimensione di pura immanenza. In breve, senza corpo-oggetto nessuna intersoggettività: la cosiddetta «riduzione alla sfera appartentiva», se intesa come scoperta di uno strato esperienziale non attraversato dall’alterità e dalla differenza (secondo la «legge fondamentale» della proto-struttura) e perseguita fino in fondo, non solo vanificherebbe lo stesso programma husserliano di una «costituzione dell’intersoggettività», ma mi chiuderebbe qualsiasi accesso alla comprensione della soggettività dell’altro in quanto altro. Patočka può allora concludere la sua «argomentazione trascendentale» nel modo seguente: «La struttura dell’intersoggettività è così un’ulteriore ragione per rifiutare la riduzione nel senso di ciò che conduce all’immanenza pura del soggetto».82

L’asoggettività del campo di apparizione e della «presenza dell’altro in me» ci rivela una fondamentale asoggettività del corpo proprio, con un movimento che, sulle prime, sembrerebbe presentare un carattere paradossale. Com’è possibile, infatti, che il corpo mio, con il quale ontologicamente mi identifico, per altri versi non lo sia, abbia un preciso tratto fenomenologico a-soggettivo, non mio, «irriducibile» al senso della mia soggettività? In altri termini, come può il mio corpo essere soggettivo e asoggettivo insieme? Come si intrecciano e si conciliano queste due dimensioni dell’esistenza corporea, entrambe irrinunciabili, senza che dal loro attrito sortisca un antagonismo palese o addirittura una contraddizione? Ma naturalmente non si tratta di «sconfessare» o ridimensionare le analisi precedenti sulla soggettività corporea. Semmai, pensare «asoggettivamente» la corporeità significa per Patočka, in questo debitore alla «filosofia del corpo» di Merleau-Ponty,83 riconoscere una certa duplicità e, forse, ambiguità del nostro essere-al-mondo o movimento finito nel mondo, cogliendone innanzitutto le potenzialità descrittive ed esplicative, senza pretendere di eliminarla o coerentizzarla ad ogni costo. L’ottica fenomenologica asoggettiva può rivelarsi molto utile nella revisione delle categorie filosofiche tradizionali (e imprescindibili) di «soggettività» e «oggettività», al di fuori di una sterile dicotomia o di una semantica a senso unico, delineando più nitidamente le loro significazioni, relazioni e intersezioni multiple. In primo luogo, a-soggettività non significa semplicemente «oggettività», ma quella dimensione originaria dell’apparire in cui il soggetto e l’oggetto, le persone e le cose, si dispongono e si muovono, dispiegando il loro senso. Lo statuto soggettivo-oggettivo del corpo va analizzato sul terreno dell’esistenza come apparizione e rapporto-a-sé, nella sua dinamica fondamentale. Ed è su questo terreno, quello del movimento esistenziale, che almeno alcuni dei fili principali che compongono la trama filosofica della corporeità possono essere rintracciati e districati.

Intanto, dal lavoro analitico di Patočka è emersa, nel confronto con Husserl, l’impossibilità di «soggettivizzare» fino in fondo il corpo proprio, anche a titolo di semplice esperimento metodologico: se non assumessi già sempre una qualche oggettività della manifestazione del mio corpo, sarei incapace di conseguire persino quell’elementare auto-riconoscimento necessario ad esperire il senso pieno dell’intersoggettività (quella che Patočka chiama la «realizzazione del tu»). Peraltro, molte delle analisi di Husserl sulla Leiblichkeit conservano un valore anche senza il riferimento alla «sfera dell’immanenza pura» e lo stesso filosofo ceco attribuisce al fondatore della fenomenologia il merito di aver per la prima volta esaminato la funzione del corpo per la formazione delle oggettività e delle conoscenze oggettive (dal mondo della vita fino all’universo categoriale delle scienze). Ma l’insistenza di Patočka sul corpo-oggetto, che abbiamo appena visto, può esercitare una funzione correttiva anche su un altro versante della fenomenologia contemporanea, quello della «fenomenologia della carne». Pur parlando sovente di «soggetto incarnato» e di «libertà incarnata» la prospettiva asoggettiva non declina il corpo della soggettività primariamente in termini di carne, almeno non nel senso che questo termine assume per esempio in Michel Henry: pura auto-affezione patica dell’io che «sente se stesso», provando la propria vita (épreuve de la vie),84 in se stessa «invisibile». Una vita, quella della carne, essenzialmente non spaziale, non mondana, non oggettiva e non oggettivabile.

Rispetto a questo esito e ad altri analoghi, Patočka sostiene una tesi più articolata ed equilibrata; il corpo non si risolve interamente nella soggettività, non è solo espressione e incarnazione dell’io, manifestazione della sua vita intima, ma è anche, ad un tempo, qualcosa di «estraneo» al soggetto, di non coincidente con lui, l’apparire di uno scarto o di una differenza all’interno della stessa soggettività: qualcosa in cui si manifesta, originariamente, la nostra libertà ma anche un fattore di opacità, passività e resistenza sul quale si misura immediatamente la finitezza. Siamo e non siamo il nostro corpo, c’è un fondo di alienazione nella struttura della nostra soggettività, come testimonia del resto l’ambiguità della parola soggetto (soggetto-di, soggetto-a) che tesse insieme la libertà e la dipendenza, come due piani saldamente interconnessi e inseparabili della condizione umana. In questa ottica, com’è facile convincersi tramite una lettura anche superficiale dei testi, Patočka è ben lontano dal fornire appigli a una concezione «oggettivistica» del corpo, soprattutto se con questo termine si fa riferimento al paradigma della razionalità tecnico-scientifica. Il corpo vivente è una sorgente esistenziale che non può essere indagata secondo la metodologia delle scienze o di una filosofia scientistica, senza smarrirne il senso: come dimensione fondamentale del movimento (ontologico e generativo) della soggettività, la corporeità può rivelarsi soltanto a una fenomenologia che si collochi sul piano, originario, del mondo naturale prescientifico (che per Patočka, occorre qui almeno segnalarlo, è non solo il mondo della percezione sensibile, ma anche l’universo denso e complesso del mito, il «mondo del bene e del male» nella concretezza storica).85

Ma l’«asoggettività», proprio perché non comporta una rinuncia al soggetto, bensì un’analisi non soggettivistica della soggettività, permette di formulare e sviluppare una nozione di oggettività più ampia, ricca e flessibile di quella concettualizzata dalla scienza-tecnica moderna (e, forse, di quella propria di molte forme di metafisica). Un’oggettività che, a livelli multipli, innerva la stessa dinamica vitale dell’io nella sfera dell’apparire, creando nodi e tensioni, scarti e superamenti, e che, come abbiamo visto, si radica nella corporeità: se la mia vita nel mondo è movimento corporeo, e se il corpo implica per il suo senso fenomenico le forme dell’oggettivazione, l’oggettività dovrà essere interpretata come inseparabile dal modo d’essere del soggetto (dei soggetti), senza tuttavia attribuirle, riduttivamente, un significato «materialistico». D’altra parte, l’appartenenza radicale del soggetto al mondo sottende una dialettica continua con l’«oggetto» e un legame costitutivo con la dimensione delle cose da cui l’io umano non può sottrarsi, perché il bisogno stesso di autenticità e di verità (la peculiare «trascendenza» della filosofia) strutturalmente lo presuppone. Uno degli aspetti più interessanti della filosofia fenomenologica di Patočka è da riscontrare in questo tentativo, per definizione non privo di difficoltà, di pensare oggettivamente la soggettività (il che vuol dire pensarla nella densità spazio-temporale del mondo) senza tuttavia farne un «oggetto» o una res alla maniera delle scienze o della metafisica tradizionale. La ricerca del filosofo ceco, muovendo da Husserl e Heidegger cioè dai pensatori che più acutamente hanno avvertito la «crisi» dell’oggettivismo moderno, non mira in fondo che a sviluppare, nella concretezza delle analisi fenomenologiche, un nuovo concetto di oggettività che ben corrisponda alla nostra apertura alla realtà del mondo: mondo che precede il soggetto e ne è indipendente, ma nel quale ha luogo il movimento finito dell’esistenza. Anche la prospettiva dell’infinità, che Patočka rende visibile nella vocazione etica dell’uomo-filosofo, si apre nel cuore di questo movimento e di questa «oggettività».86

8. Temporalità, spazialità e libertà nella fenomenologia asoggettiva: prospettive di ricerca.

Avviandoci alla conclusione, vogliamo rileggere il nodo del rapporto tra «fenomenologia asoggettiva» e corporeità evidenziando come esso presenti un tratto di forte discontinuità con l’analitica esistenziale di Sein und Zeit, con la grammatica ontologica heideggeriana dell’essere-nel-mondo tutta incentrata sulla «temporalità» (Zeitlichkeit) e «temporalizzazione» (Zeitigung). Come abbiamo già visto, Patočka condivide aspetti notevoli della cornice esistenziale in cui Heidegger riformula la questione dell’«io» sottolineandone vigorosamente la finitezza e prendendo congedo dalla linea della «riflessione assoluta» (Hegel, Husserl). Su questo piano, Patočka considera certamente l’approccio heideggeriano più profondo e radicale di quello husserliano,87 soprattutto per aver oltrepassato il cerchio gnoseologico in cui la fenomenologia soggettiva (con la correlazione funzionale di noesi e noema) continuava a muoversi, e aver affermato con rigore il carattere ontologico dell’esistenza come prassi e «movimento», nell’orizzonte sempre finito della possibilità. Ma la fenomenologia patočkiana, situando al centro del discorso ontologico-esistenziale la corporeità, non solo recupera di fatto strati preziosi dell’analitica husserliana del Leib, troppo frettolosamente accantonata da Heidegger, ma, con la sua riflessione sulla spazialità originaria dell’essere-nel-mondo, permette di integrare l’analisi dell’esistenza umana con una dimensione che Heidegger, pur avendo ben presente, marginalizza, proprio a causa del sostanziale «occultamento fenomenologico del corpo» in Essere e tempo.^[90]

A parte pochi, sparsi cenni che, nell’opera del ’27, possono essere agevolmente interpretati come frammenti fenomenologici sulla corporeità, il corpo non possiede nell’analitica esistenziale un autentico rilievo ontologico, come Patočka ripetutamente mette in luce in chiave critica. Questo silenzio fenomenologico che avvolge la struttura corporea del Dasein può essere spiegato, nella prospettiva di Heidegger, con la convinzione che il corpo «soggettivo» o «vissuto» rifletta una considerazione dell’esistenza umana troppo compromessa con la sfera psicologica o gnoseologica (sempre attraversata da problematiche linee di frattura tra «dentro» e «fuori», «soggetto» e «oggetto», «anima» e «corpo», «spirito» e «materia»); oppure, più probabilmente, con l’idea che la «spazializzazione dell’esserci nella sua «corporeità»»^[91] sia legata indissolubilmente agli aspetti più «deiettivi» del Dasein, come se il coinvolgimento pratico-esperienziale con lo spazio e le cose (spaziali), inevitabile per l’essere-nel-mondo, facesse sempre di nuovo deflettere la luce esistenziale del Da, dell’apertura ontologica, verso il livello esistentivo della «semplice presenza» (Vorhandenheit) e dell’«utilizzabilità» (Zuhandenheit).

Nonostante Heidegger dedichi tre brevi (e densi) paragrafi allo spazio e alla spazialità dell’esserci,88 è evidente che l’«esistenzialità» di quest’ultimo, la sua sorgente profonda e autentica, non è alcunché di spaziale, è la temporalità, come «senso ontologico della cura». Se il modo d’essere dell’esserci è la cura, e il senso autentico della cura consiste nella totalità del poter-essere più proprio, «l’unità originaria della struttura della cura è costituita dalla temporalità».89 In questa maniera, Heidegger riesce a cogliere la radice esistenziale del tempo al di fuori di ogni contaminazione con l’oggettività e lo spazio, ma senza annettergli quella «soggettività» che Husserl aveva conservato nell’analisi della «coscienza interna del tempo». Il tempo, così considerato, è l’«origine» dell’esserci, non nel significato ontico della causa o della sostanza, ma come temporalizzazione originaria, articolarsi e dispiegarsi del suo essere nelle tre «estasi» della temporalità: l’esser-stato del passato, il presentarsi del presente, l’ad-venire del futuro. Queste dimensioni del tempo originario, ciascuna connessa a una determinata struttura dell’essere-nel-mondo, aprono, per usare un termine di Patočka, il «movimento» dell’esistenza umana come trascendenza, un «trascendersi» del Dasein non in qualcosa di esterno, né di oltremondano, ma verso se stesso nella possibilità. Ed è noto come, in Heidegger, la tradizionale scansione del senso del tempo a partire dal presente (il passato come «non più presente», il futuro come «non ancora presente») venga negata e riformulata in un’ottica che scorge nell’ad-venire il più originario fenomeno della temporalità: esistendo come aver-da-essere, nel «progetto» del poter-essere più proprio, l’esserci «è» costitutivamente il suo futuro.90 Per contro, l’esser-stato e il presentarsi scaturiscono necessariamente dall’ad-venire, assumendo però una valenza esistenziale molto più debole rispetto alla potenza ontologicamente disvelante di esso; le estasi del «passato» e del «presente» corrispondono infatti, rispettivamente, all’essere-gettato del Dasein nel mondo e al suo esser-presso gli enti intramondani, e sembrano esprimere quella «gravità» che continuamente fa (ri) cadere l’esserci al livello delle cose, della fatticità. Con il primato ontologico del futuro, il senso della finitezza esistenziale dell’uomo ha la sua forma privilegiata di rivelazione nell’essere-per-la-morte e nella «decisione anticipatrice» che, alla luce della morte come possibilità dell’impossibilità dell’esistenza, vede per la prima volta le possibilità come possibilità, assumendole liberamente in una progettualità finita.91

Ora, non si può ravvisare, in questo deciso primato ontologico-esistenziale del tempo sullo spazio, e, per il tempo, del futuro sulle altre due «estasi», il rovescio della mancata tematizzazione, in Heidegger, della corporeità dell’esistenza? Le analisi di Patočka che abbiamo seguito fin qui (e altre che, nella stessa prospettiva, meriterebbero altrettanta attenzione) sembrano andare proprio in questa direzione: restituire all’essere-nel-mondo, come movimento, la densa e complessa fisionomia dell’esperienza spaziale-corporea, colmando quelle che gli appaiono palesi «lacune descrittive» della fenomenologia heideggeriana. Come è stato giustamente osservato, la descrizione del carattere «e-statico» (ek-statikon) del soggetto non corrisponde solo alla triplice estasi della temporalità (futuro, passato, presente), ma anche alla spazializzazione originaria in cui l’essere-nel-mondo si declina immediatamente secondo le tre persone (io, tu, esso).92 La proto-struttura dei pronomi personali, con il suo senso spaziale, non è una semplice articolazione dell’esperienza, ma è per Patočka, come sappiamo, la sua legalità fondamentale: come tale, è non meno originaria della (proto-) struttura della temporalizzazione, e altrettanto decisiva per comprendere il modo d’essere dell’esistenza. All’esistenzialità dell’io appartiene dunque l’«essere spaziale», in un senso più profondo e radicale di quello che Heidegger aveva concesso. La «riflessione» dell’esistenza finita si sviluppa non solo nell’orizzonte interno del tempo, ma anche nell’oggettività dello spazio, nel quale sono, originariamente, a distanza da me.

Naturalmente, in una prospettiva fenomenologico-esistenziale comune a Heidegger (almeno allo Heidegger di Essere e tempo) e a Patočka il problema non è sostituire il primato del tempo con quello dello spazio, e nemmeno «pareggiare», in astratto, la loro incidenza ontologica; semmai, un’indagine più approfondita dovrebbe stabilire come il ruolo oggettivamente centrale assegnato dal filosofo ceco alla corporeità e spazialità dell’esistenza umana abbia non solo aperto nuovi percorsi analitici, ma anche condotto a una filosofia fenomenologica della finitezza che globalmente presenta tratti piuttosto diversi da quella di Heidegger. Ci sono buoni motivi per ritenere che l’equazione tra il tempo e il senso dell’essere, resa celebre da Heidegger e volta a rintracciare una modalità «non (più) metafisica» di dire l’uomo e il suo essere-al-mondo, possa subire permutazioni e slittamenti assai significativi tra i termini che la compongono, sulla base di una fenomenologia della corporeità.93 Tutto il lavoro intensivo di Patočka (tanto stimolante quanto incompiuto) sui tre movimenti fondamentali dell’esistenza, e anche la tarda tematica del sacrificio come «donazione dell’essere»,94 ancora poco studiata nelle sue radici fenomenologiche e nel suo sbocco etico radicale, sembrano prendere le mosse da questa dynamis del soggetto come corpo.95

Concludiamo il nostro percorso con qualche altra considerazione, ancora nel segno del confronto con Heidegger e riferendoci ad alcuni importanti passaggi testuali di Patočka, sulla questione del «rapporto profondo tra la libertà e la corporeità».96 Abbiamo visto come la libertà del soggetto nel mondo sia essenzialmente finita e come, nell’analisi di questa finitezza, a Heidegger sia imputabile un residuo di «soggettivismo fenomenologico», proprio per non aver esplorato e concettualizzato il nesso originario della libertà con la corporeità, nell’esistenza. La più precisa definizione dell’approccio asoggettivo, con il ruolo che gioca la spazialità nell’essere-nel-mondo e nella determinazione del rapporto tra «soggettività» e «oggettività» dell’io corporeo, dovrebbe consentirci di mettere meglio a fuoco (almeno nel suo profilo più fondamentale) il senso della libertà umana come libertà incarnata. Nello stesso tempo in cui è «identità», libertà, attività, movimento, potere di intervento e di trasformazione nel mondo, la corporeità è anche apertura, esposizione, passività, oggettivazione, intervallo, «differenza da sé»: pensare il corpo proprio, il corpo della soggettività, significa cogliere contestualmente (attraverso un’inversione dello sguardo) il suo carattere oggettivo ed «ex-propriante», come è risultato evidente accostandoci al tema dell’intersoggettività. Nello spirito di Patočka, si tratta di assumere queste polarità o ambiguità del corpo in maniera il più possibile dialettica, non nel senso di produrne una conciliazione dall’alto, ma di svilupparne analiticamente il contenuto fenomenologico, anche là dove sembra assumere una piega paradossale.

Discutendo la celebre alternativa tracciata da Gabriel Marcel (nell’ambito di una «filosofia dell’incarnazione») tra essere un corpo e avere un corpo,97 Patočka offre altri spunti interessanti per comprendere lo statuto duale, soggettivo-oggettivo, della corporeità. Innanzitutto, alla domanda se l’io sia un corpo o abbia un corpo, non può essere data, sul piano fenomenologico, una risposta unica e univoca. Certamente, come si è appurato ampiamente in queste pagine, l’io è il suo corpo, nel senso rigoroso dell’identificazione ontologico-esistenziale, poiché il movimento dell’esistenza umana è essenzialmente corporeo. La libertà del soggetto nel campo di apparizione è una libertà incarnata. Ma, a uno sguardo più attento, tra l’io, la libertà e il corpo si disegna una relazione meno lineare e trasparente; mentre infatti la mia libertà è sempre qualcosa che sono e che mai ho, e dunque il nesso ontologico identitario tra l’io e la libertà appare «compatto» (io sono la mia libertà, la mia libertà sono io), trattandosi esistenzialmente della mia sorgente più profonda, rispetto alla quale non posso essere «a distanza», nel caso del corpo l’identità con il soggetto prende una forma diversa: «L’io originario, la libertà originaria è qualcosa che sono nel senso più puro del termine, ma che mai ho. Però l’essere libero non solo è il suo corpo, ma anche ne dispone, domina il suo corpo».98 È qui che l’esperienza di avere un corpo ha il suo fondamento legittimo, senza che, con ciò, lo si consideri un semplice oggetto «alla mano», o uno strumento operativo esterno. L’io dispone del suo corpo muovendolo e dispiegandolo nell’azione, rendendolo così un organo della sua volontà, una manifestazione visibile della libertà. È però facile comprendere che, per un io appartenente al mondo (e che ne costituisce solo una «parte» o un «nodo»), il rovescio immediato di questo «disporre» e «dominare» della soggettività è la soggezione a una vasta pluralità di fattori causali o istintivi, anche oscuri e inconsapevoli, che, tramite il corpo, operano (e possono sempre operare) come vincoli, resistenze, ostacoli, forze contrapposte al movimento della libertà. Se quindi l’affermazione «io sono il mio corpo» è vera, non è sempre vera l’inversa, nel senso che il mio corpo non è sempre il mio io. Nel corpo l’esistenza interseca il potere oggettivo e oggettivante delle cose, incontra e subisce le forze dell’apparizione anche nella forma dell’estraneità più radicale (basti pensare alle esperienze del dolore, della malattia, della violenza, ecc.).

Ma questo non significa che il corpo, influenzando e determinando variamente il mio «io», si imponga a me e mi domini, come una «libertà superiore» a cui sarei subordinato. Per Patočka, la libertà non è alienabile se non come auto-alienazione e la «superiorità» del corpo è possibile solo in quanto io gliela concedo. Tra la libertà, come essere, e la corporeità, come essere e avere, non c’è dunque coincidenza, si apre ontologicamente un intervallo, anche se questa distanza viene sempre di nuovo attraversata e scavalcata nella dinamica dell’esistenza. Forse, la corporeità non è altro che questo «attraversamento» soggettivo-oggettivo del campo di apparizione, del mondo, che rende possibile la vita dell’io come responsabilità: «l’io è possibile solo in quanto libero, in quanto capace di distanziarsi. Anche se l’io si lascia interamente incatenare, legare dai suoi istinti e dalle sue passioni, anche se non realizza nulla al di fuori di quanto gli istinti e le passioni gli prescrivono, comunque l’azione istintiva ha bisogno di passare attraverso l’io, di riferirsi al suo accordo, ed è questa la manifestazione della libertà. In effetti, l’io è possibile solo in quanto trascendenza, o piuttosto dominio nel tempo, qualcosa che non è né consegnato alla passività del flusso interno, né disperso negli istanti del tempo oggettivo. Ma da un altro lato […] l’io-libertà, l’io-dominio implic [a] continuamente un passaggio all’oggetto, […] si sottra [e] alla sua libertà, fugg [e] verso la riva oggettiva, senza per questo perdere la sua identità interna né perciò la responsabilità che gli incombe rispetto a ciò che realizza in quanto io fungente e creatore».99 La tesi di Marcel trova allora conferma «proprio nel rapporto tra l’io libero, il corpo-soggetto, e il corpo-oggetto. Io non sono il mio corpo nello stesso senso in cui sono un essere libero».100

Non possiamo trattenerci oltre su questa prospettiva, non priva di aspetti problematici e di aporie, che andrebbe illustrata più sistematicamente alla luce del fondamento etico della filosofia di Patočka. Ci interessava cogliere, almeno parzialmente, lo sforzo di descrivere la struttura di fondo della soggettività finita come una libertà insieme temporale e corporea^[105] (secondo quelli che erano, in fondo, l’intento e il risultato di Husserl, nonostante i riscontrati limiti dell’impianto soggettivo-trascendentale e la discutibile «neutralità esistenziale» dei suoi referti), in cui l’intervallo tra «oggettività» e «soggettività» si delinea e distribuisce a più livelli della vita dell’io, spesso secondo modalità incrociate. Ad esempio, in base alle ultime indicazioni, come il corpo-soggetto «integra» sempre di nuovo il corpo-oggetto, così la trascendenza dell’io può realizzarsi solo come «dominio del tempo», nel senso che l’io, in quanto temporalità originaria, si mantiene a distanza sia dall’interno fluire dei suoi vissuti che dalla frammentazione e dispersione di sé nel tempo oggettivo, e solo in questa modalità può scoprirsi «libero». Vi è dunque, come Heidegger aveva ben mostrato, una connessione molto stretta e pervasiva tra la libertà (ontologica) dell’io, la sua esistenza come possibilità, e la temporalità: l’io è libero, e capace di verità, in quanto è temporale, e la sua vita autentica si rivela nel continuo (e sempre di nuovo possibile) risalire da quella «riva oggettiva» verso cui siamo spinti incessantemente dalla forza di gravità del nostro essere-al-mondo. L’autenticità, e la filosofia che ne rappresenta la forma più pura e radicale, nascono da un movimento controcorrente. Ma quello che Patočka chiama «passaggio all’oggetto», oggettività e oggettivazione della vita, non è da intendere soltanto come una caduta e una reificazione, nel significato più negativo del termine; che noi, i soggetti del campo di apparizione, siamo «oggettivi», portiamo nel nostro essere l’oggettività, dipende dalla struttura a-soggettiva dell’apparire. Ma questa struttura, in cui l’esistenza umana ha luogo e senso, è essenzialmente spazio-temporale: il soggetto non è «se stesso» soltanto nell’ (auto) trascendenza del tempo, nella «temporalizzazione della temporalità»,101 nell’articolazione della progettualità esistenziale che gli dischiude (finitamente) la dimensione del futuro.

Il tempo, che anche per Patočka costituisce il senso profondo dell’esistenza come finitezza,102 si «temporalizza» sempre in rapporto allo spazio, alla spazialità dell’apparizione e dunque, in ultima analisi, alla corporeità dinamica del sé e alle forme peculiari che la caratterizzano. Da un lato, l’incarnazione (come spazializzazione) non è solo la base concreta e operativa dell’esistenza, ma anche il limite strutturale e invalicabile della libertà dell’uomo: l’individuazione della soggettività, da cui derivano finitezza e mortalità, non è pensabile senza la corporeità.103 Dall’altro, cogliere il piano della possibilità dell’io esclusivamente sul versante della temporalità dell’esserci, delle estasi del tempo originario, dell’essere-per-la-morte, come fa Heidegger in Essere e tempo, getta un velo di oscurità sulla generazione della soggettività, su quel «mettere radici nel mondo» che per l’io è possibile solo grazie alla cura dell’altro, al calore che originariamente ci viene dagli altri (come Patočka mostra nel «primo movimento dell’esistenza»).104 In questa chiave vanno interpretate le frequenti osservazioni di Patočka tendenti a riscontrare nella definizione del mondo come «progetto di possibilità» una sfumatura decisiva che, nonostante tutti gli sforzi compiuti da Heidegger in direzione contraria, sembra piegare l’indagine del Dasein in senso soggettivistico e pagare indirettamente un tributo alla tradizione moderna dell’io disincarnato e «creatore», del solus ipse trascendentale: «Non sono io a progettare il mondo di possibilità; ma siccome sono un essere di possibilità, ancorato nel mondo, la possibilità del mondo, il campo di possibilità del mondo mi interpella».105 L’impostazione rigorosamente asoggettiva e dinamico-corporea permette un’analisi della dimensione intersoggettiva dell’esistenza che raggiunge strati più profondi di quelli toccati dal Mitsein heideggeriano.

Sarebbe interessante esaminare in modo puntuale come le diverse figure e relazioni della corporeità siano implicate nella teoria dei tre movimenti dell’esistenza umana, che costituisce l’esecuzione più concreta della «fenomenologia dinamica» di Patočka e, probabilmente, il suo nucleo concettuale più noto: il movimento di radicamento nel mondo (grazie alla «base» che l’altro ci offre e alla fusione affettiva con lui), il movimento di autoconservazione e riproduzione della vita (nell’oggettivazione dei rapporti sociali e del lavoro),106 il movimento di apertura e verità (il movimento «esistenziale» in senso eminente, con la domanda circa il senso della totalità e la posizione dell’uomo al suo interno, dal mito alla filosofia). Ognuno di essi esprime un modo di «temporalizzazione del tempo», una configurazione essenziale della «cura», un accento peculiare assunto dal nostro essere-nel-mondo come movimento. Ma, soprattutto nei primi due movimenti, la corporeità emerge nei suoi tratti esistenzialmente più decisivi, anche quando Patočka sembrerebbe orientare altrove l’indagine fenomenologica. Se, in questo quadro, si può ancora affermare che il tempo è il senso fondamentale dell’esistenza come libertà (e, su un piano correlativo che qui non possiamo esaminare, dell’essere stesso ),107 i modi di temporalizzarsi del tempo come passato, presente, futuro si chiariscono e assumono effettivo spessore esistenziale solo per una soggettività corporea. Una «soggettività», quella ricercata e posta in opera dalla fenomenologia asoggettiva, che risulta capace di verità e trascendenza solo nella misura in cui si autocomprende, ontologicamente, come naturale e terrestre. È quasi superfluo aggiungere che queste dizioni, nel linguaggio filosofico di Patočka, non hanno una risonanza materialistica o fisicalistica, ma, semmai, fungono da ripresa e riformulazione di una intuizione «originaria» della filosofia occidentale: l’appartenenza del movimento della vita umana al tessuto dinamico universale dell’apparizione, allo spazio-tempo del mondo, al dramma cosmo-storico della physis.108 La domanda filosofica ed etica sul «senso della totalità» può porsi dalla prospettiva di un io che è solo una forza (minore) nel campo di forze dell’apparire e che, tuttavia, è il «destinatario» dell’apparizione, ciò a cui l’apparire appare, nella sua problematicità:109 l’uomo è fatto, per un verso, della stessa stoffa del mondo, «oggettivo» e «mondano» come tutti gli enti, ma, per l’altro, è in grado di cogliere la sua differenza dalle cose, l’intervallo che lo separa dall’essere «indifferente» di queste ultime, la sua libertà che, ontologicamente, è un essere-per-la-verità, una ricerca di senso nell’orizzonte della finitezza. Ma dopo il tramonto delle grandi metafisiche moderne (oggettive o soggettive) e la crisi del positivismo, nell’odierno dominio del pensiero tecnico-scientifico, ripartire dal corpo-movimento significa ripensare lo «spazio di gioco» della soggettività umana al di fuori del paradigma dell’oggettività naturalistica, ma anche abbandonando ogni ingenuità spiritualistica e idealistica. Uscendo quindi da quell’oscillazione fondamentale che caratterizza il cartesianismo della filosofia moderna, contro cui la fenomenologia fin dai suoi esordi ha combattuto, anche se non sempre in maniera chiara e convincente.110

Una filosofia fenomenologica asoggettiva prende sul serio la densità e, aggiungerei, il peso dell’esistenza nel mondo, nell’intreccio costitutivo tra corporeità, intersoggettività e temporalità: la «libertà responsabile», che per Patočka esprime sinteticamente il senso (asoggettivo e post-metafisico) della finitezza dell’uomo, si disegna in questo complesso orizzonte. Così l’ontologia dinamica di Patočka, in gran parte ancora da studiare e da valorizzare come proposta teoretica autonoma, in grado di dialogare fruttuosamente con le più importanti e autorevoli figure del pensiero contemporaneo, potrebbe sostenere un’etica della vigilanza e della responsabilità. Il «socratismo» patočkiano, tante volte messo in luce, si costituisce nella dimensione intermedia dell’apparizione che abitiamo come esseri corporei:111 «Solo un essere libero può alienarsi rispetto a se stesso, e ciò che costituisce sia il contesto che il mezzo di questa auto-alienazione è proprio quella dimensione intermedia tra la libertà pura e la pura oggettività, vale a dire la dimensione della vita nel nostro corpo, la dimensione del nostro soggetto corporeo» (CCF, p. 190-191).

Legenda

BCLW
Body, Community, Language, World (transl. by E. Kohák), Open Court, Chicago and La Salle (Illinois) 1998.
CCF
Che cos’è la fenomenologia? Movimento, mondo, corpo (trad. it. di G. Di Salvatore con la collab. di E. Novakova e M. Fuèikova), Campostrini, Verona 2009.
IPH
Introduction à la phénoménologie de Husserl (trad. par E. Abrams), Millon, Grenoble 1992.
LS
Liberté et sacrifice (trad. par E. Abrams), Millon, Grenoble,
MN
Le monde naturel comme problème philosophique (trad. par J. Danek et H. Declève), Nijhoff, La Haye 1976.
MNF
Il mondo naturale e la fenomenologia (trad. it. di A. Pantano e G. Pacini), Mimesis, Milano 2003.
MNMEH
Le monde naturel et le mouvement de l’existence humaine (trad. par E. Abrams), Kluwer, Dordrecht 1988.
PE
Platone e l’Europa (trad. it. di M. Cajthaml e G. Girgenti), Vita e Pensiero, Milano 1997.
PP
Papiers phénoménologiques (trad. par E. Abrams), Millon, Grenoble 1995.
QP
Que’est-ce que la phénoménologie? (trad. par E. Abrams), Millon, Grenoble 1988.
SEFS
Saggi eretici sulla filosofia della storia (trad. it. di D. Stimilli), Einaudi, Torino 2009.

  1. Ho citato le opere di Patočka secondo le sigle indicate nella Legenda, seguite dal numero di pagina. Ho utilizzato le traduzioni italiane e, in loro assenza, quelle francesi e tedesche dei testi patoèkiani. ↩︎

  2. In questa ottica vanno segnalati alcuni volumi di studiosi italiani: R. Terzi, Il tempo del mondo. Husserl, Heidegger, Patočka, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009. A. Pantano, Dislocazione. Introduzione alla fenomenologia asoggettiva di Jan Patočka, Mimesis, Milano 2011. F. Tava, Il rischio della libertà. Etica, filosofia e politica in Jan Patoèka, Mimesis, Milano 2014. ↩︎

  3. Cfr., per una visione sintetica di questa teoria, Per la preistoria della scienza del movimento: il mondo, la terra, il cielo e il movimento della vita umana e Il mondo naturale e la fenomenologia, in: MNF, pp. 57-71, pp. 73-126. ↩︎

  4. Introducendo la nuova traduzione italiana (dopo quella «pionieristica» del 1981) dei Saggi eretici sulla filosofia della storia, Mauro Carbone lo ha definito «l’ultimo grande libro di filosofia del XX secolo». Cfr. Jan Patočka: Eretizzare la tradizione, in: SEFS, pp. VII-XXIV, p. VIII. ↩︎

  5. Giunge molto opportuna, per comprendere la fondamentale torsione etica che assume in Patočka la riformulazione del «problema della metafisica», la recentissima traduzione italiana degli scritti che gravitano intorno alla questione del platonismo negativo. J. Patočka, Platonismo negativo e altri frammenti (trad. it. di F. Tava), Bompiani, Milano 2015. ↩︎

  6. Per un primo orientamento sulle diverse dimensioni della ricerca filosofica di Patočka, cfr.: Jan Patoèka. Philosophie, phénoménologie, politique (textes réunis par M. Richir et É. Tassin), Millon, Grenoble 1993. L’eredità filosofica di Jan Patoèka. A vent’anni dalla scomparsa (a cura di D. Jervolino), CUEN, Napoli 2000. R. Barbaras, Le mouvement de l’existence. Études sur la phénoménologie de Jan Patoèka, La Transparence, Chatou 2007. Pensare (con) Patoèka oggi. Filosofia fenomenologica e filosofia della storia (a cura di M. Carbone e C. Croce), Orthotes, Napoli 2012. ↩︎

  7. «Questa epochè fenomenologica, questa messa entro parentesi del mondo oggettivo, tutto ciò non ci pone di fronte a un mero nulla. Quello che piuttosto - e appunto per ciò - diviene proprio a me che medito, è il mio esperire puro con tutti i suoi momenti puri e tutto ciò che esso intenziona, l’universo dei fenomeni, nel senso della fenomenologia. L’epochè […] è il metodo radicale e universale con il quale colgo me stesso come io puro assieme alla mia propria vita di coscienza pura, nella quale e per la quale è per me l’intero mondo oggettivo, nel modo appunto in cui esso è per me» (E. Husserl, Meditazioni cartesiane e discorsi parigini, trad. it. di F. Costa, Bompiani, Milano, 1988, p. 54). ↩︎

  8. Cfr. Papiers phénoménologiques (PE); J. Patočka, Vom Escheinen als solchem, Texte aus dem Nachlass, hrsg. von Helga Blaschek-Hahn und K. Novotný, Alber, Freiburg 2000. ↩︎

  9. La possibilità di una fenomenologia asoggettiva, in: CCF, p. 279, modificata. ↩︎

  10. E. Husserl, L’idea della fenomenologia. Cinque lezioni (trad. it. di A. Vasa), Il Saggiatore, Milano 1988. Sulla genesi del metodo dell’epochè-riduzione nella fenomenologia husserliana, si possono vedere le considerazioni critiche che Patočka svolge nel saggio del ’76, Che cos’è la fenomenologia, dove tra l’altro si dice che, nelle Cinque lezioni, «invano […] si cercherebbe una netta distinzione tra l’epochè e lo scetticismo», come sarà codificata più tardi nelle Idee; per contro, «l’idea della costituzione dell’oggettualità nella pura immanenza è ormai già presente» (Che cos’è la fenomenologia, in: CCF, p. 323). ↩︎

  11. «L’essere in sé primo che precede ogni oggettività mondana e la comprende in sé, è l’intersoggettività trascendentale, la totalità delle monadi che si articola in diverse forme di comunità» (Meditazioni cartesiane, p. 171). Ma per valutare in modo adeguato l’entità dello sforzo husserliano di chiarire il senso intersoggettivo dell’esperienza fenomenologico-trascendentale, nei suoi piani costitutivi molteplici e interconnessi, occorre necessariamente esplorare la massa di manoscritti inediti raccolti in: E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität I, II, III (hrsg. von I. Kern), Nijhoff, Den Haag 1973. ↩︎

  12. Avendo di mira l’assoluta peculiarità evidenziale dell’io (trascendentale, puro) ancor prima di averlo fenomenologicamente articolato, Husserl introduce l’epochè imponendo subito una restrizione e una limitazione del suo spazio operativo. Cfr. Idee I, § 32: «L’epochè fenomenologica». ↩︎

  13. «Husserl ha limitato in termini espressi l’applicazione dell’epochè alla sola oggettività; ciò gli appariva indispensabile, da un lato per conservare alla fenomenologia un oggetto, ma anche perché, guidato dalla tradizione cartesiana, considerava il soggettivo preso nella sua purezza come un dato assoluto di un essere assoluto» (MN, Postface, p. 171). ↩︎

  14. Epochè et Réduction, in: QP, p. 257. ↩︎

  15. Ivi, p. 258. ↩︎

  16. Corpo, possibilità, mondo, campo di apparizione, in: CCF, p. 236. ↩︎

  17. Ivi, p. 233. ↩︎

  18. PE, p. 70. ↩︎

  19. Corpo, possibilità, mondo, campo di apparizione, in: CCF, p. 233, modificata. ↩︎

  20. Epochè et réduction, in: PP, pp. 171-172. ↩︎

  21. Ivi, p. 194. ↩︎

  22. L’esigenza di una fenomenologia asoggettiva, in: CCF, pp. 303-304, modificata. ↩︎

  23. Ivi, p. 207. ↩︎

  24. PE, p. 194. ↩︎

  25. Fenomenologia del corpo proprio, in: CCF, p. 159. ↩︎

  26. Ivi, pp. 159-160. ↩︎

  27. Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (trad. it. di E. Filippini), EST, Milano 1997, p. 81. ↩︎

  28. Cfr. R. Descartes, Meditazioni sulla filosofia prima (trad. it. di G. Brianese), Mursia, Milano 1994 (Seconda meditazione. Sulla natura dello spirito umano: esso è più noto del corpo). ↩︎

  29. La possibilità di una fenomenologia «asoggettiva», in: CCF, p. 265. ↩︎

  30. R. Descartes, Meditazioni sulla filosofia prima, cit., p. 61. ↩︎

  31. «Ma che cosa, dunque, io sono? Una cosa pensante. E cioè? Una cosa che dubita, che intende, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche e che sente» (ivi, p. 62). ↩︎

  32. La possibilità di una fenomenologia asoggettiva, in: CCF, p. 267. Analizzando i limiti della riflessione cartesiana sulla corporeità, Patočka rileva come Descartes, nel suo esperimento mentale della realtà trasformata in un «sogno coerente», non prenda in considerazione il fatto che anche la coscienza onirica è una coscienza corporea: «Può sembrare strano che Cartesio non si renda conto che anche colui che sogna ha un corpo. Si tratta evidentemente di un corpo di cui sogniamo, ma non per questo chi sogna è senza corpo - il corpo è indispensabile anche al mondo onirico. Per avere un’esperienza in generale - foss’anche solo una quasi-esperienza - devo essere da qualche parte, cosa che è impossibile senza corpo» (Fenomenologia del corpo proprio, in: CCF, p. 161). ↩︎

  33. Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, trad. it. di G. Alliney ed E. Filippini, Einaudi, Torino 1965, vol. II, p. 501. ↩︎

  34. Idee I: § 46. ↩︎

  35. Cfr. il famoso e controverso § 49 di Idee I: La coscienza assoluta come residuo dell’annientamento del mondo. Scrive Husserl: «[…] nessun essere reale, tale cioè che si rappresenti e si giustifichi coscienzialmente mediante apparizioni,è necessario all’essere della coscienza stessa (nel senso amplissimo di corrente di Erlebnisse). L’essere immanente è dunque indubitabilmente essere assoluto nel senso che per principio nulla «re» indiget ad existendum. D’altra parte, il mondo della res trascendente è assolutamente relativo [angewiesen] alla coscienza, non come logicamente immaginata, ma come attuale» (E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit., vol. I, p. 107). ↩︎

  36. L’esigenza di una fenomenologia asoggettiva, in: CCF, p. 307. ↩︎

  37. La possibilità di una fenomenologia «asoggettiva», in CCF, p. 281. ↩︎

  38. Cfr., tra i tanti luoghi in cui Husserl sviluppa la tematica della riflessione e affronta la questione dell’«identità» dell’io nel flusso di coscienza, la lezione XL sulla Filosofia prima (E. Husserl, Filosofia prima 1923-24. Seconda parte: teoria della riduzione fenomenologica, trad. it. di P. Bucci, ETS, Pisa, pp. 129-135). Sul rapporto (aporetico) tra riflessione, temporalità e auto-intuizione dell’io, cui abbiamo fatto cenno, si possono utilmente consultare alcuni scritti inediti degli anni ’30: E. Husserl, Späte Texte über Zeitkonstitution (1929-1934). Die C-Manuskripte (edited by D. Lohmar), Springer, New York 2006. ↩︎

  39. La possibilità di una fenomenologia «asoggettiva», in: CCF, p. 281. ↩︎

  40. Méditation sur «Le monde naturel comme problème philosophique», in: MNMEH, p. 92. ↩︎

  41. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo (trad. it. di P. Chiodi), Longanesi, Milano 1976, pp. 64-sgg. ↩︎

  42. Méditation sur «Le monde naturel comme problème philosophique», in: MNMEH, p. 93. ↩︎

  43. «Certamente, Husserl stesso ha enfatizzato e finemente analizzato il fenomeno del corpo soggettivo. Tuttavia nella sua opera il senso del soggetto corporeo non è mai chiaramente portato in continuità con la riflessione assoluta. Volenti o nolenti, dobbiamo chiederci perché, da ultimo, la soggettività è sempre una soggettività incarnata. In un certo senso, il modo in cui Husserl lo vede è che l’incarnazione della soggettività, la corporeità del soggetto, è una condizione necessaria del nostro vivere insieme, non in isolamento, ma come esseri in mutuo contatto. [tuttavia] Il fondamento ultimo non è personale, è soggettività: qualcosa che può costituire nei suoi atti sia le nostre persone che le altre cose nel mondo, ma che non è in se stesso una persona nel mondo in tutta la sua fondamentale natura» (BCLW p. 175). ↩︎

  44. Méditation sur «Le monde naturel comme problème philosophique», in: MNMEH, p. 94. ↩︎

  45. «La fenomenologia dinamica, che rapporta il senso d’essere del soggetto al movimento, ha senso solo se è fondata su una dinamica fenomenologica, che pensa ogni movimento fenomenologicamente, come movimento di manifestazione» (R. Barbaras, Le problème de l’apparaitre. Phénoménologie dynamique et dynamique phénoménologique, in: Id., Le mouvement de l’existence, cit., p. 72). ↩︎

  46. Qu’est-ce que l’existence?, in: MNMEH, p. 262. ↩︎

  47. Ivi, p. 263. ↩︎

  48. Cfr., per esempio, Il mondo naturale e la fenomenologia, MNF, pp. 67-sgg. ↩︎

  49. Qu’est-ce que l’existence? in : MNMEH, p. 263. ↩︎

  50. L’esigenza di una fenomenologia asoggettiva, in: CCF, p. 311. ↩︎

  51. Corpo, possibilità, mondo, campo di apparizione, in: CCF, p. 228. ↩︎

  52. L’esigenza di una fenomenologia asoggettiva, in: CCF, pp. 308-309. ↩︎

  53. «Mentre prende coscienza della totalità, mentre questa totalità si mostra a lui e diviene fenomeno, l’uomo vede la sua propria eccentricità, vede che è caduto fuori dal centro, che anche lui è un fenomeno, un fenomeno precario, dipendente dal resto del mondo, effimero. La riflessione esplicita si innesta in questa presa di coscienza della situazione dell’uomo, che, in quanto custode del fenomeno, è il solo essere che sa che il suo ambito fenomenico ha una fine. Questo sta al principio di tutta la riflessione» (PE, pp. 63-64). La consapevolezza della dimensione finita della vita umana, che costituisce un semplice fenomeno del campo di apparizione, un suo momento interno strutturalmente precario e dipendente, una «forza minore» nel grande gioco di forze dell’apparire (l’universo), è già presente nel pensiero mitico e raggiunge la massima trasparenza nella speculazione filosofica. ↩︎

  54. Corpo, possibilità, mondo, campo di apparizione, in: CCF, pp. 224-225. ↩︎

  55. Méditation sur «Le monde naturel comme problème philosophique», in: MNMEH, pp. 104-105. ↩︎

  56. [Corpo e mondo], in: CCF, pp. 188-189. ↩︎

  57. Leçons sur la corporeité, in: PP, p. 62. ↩︎

  58. Cfr., ad esempio, E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit., vol. II, pp. 453-sgg. ↩︎

  59. Phénomenologie et métaphysique du mouvement, in: PP, p. 19. ↩︎

  60. Ivi, p. 17. ↩︎

  61. In Husserl un soggetto non corporeo è apoditticamente concepibile e fenomenologicamente indispensabile, per marcare la differenza di principio tra il flusso di coscienza, in cui «essere» e «manifestazione» si fondono in maniera necessaria, e il mondo spazio-temporale, la cui strutturazione ordinata e coerente è invece contingente e sempre aperta alla possibilità del non essere. Se il mondo si rivelasse improvvisamente una «parvenza trascendentale», l’io puro rimarrebbe il soggetto di questa esperienza dell’annientamento del mondo e della sua trasformazione in un caos fenomenico, ma non possiederebbe più il suo corpo: «Se il mondo creato, il mondo oggettivo della mia esperienza è annientato, non per questo anch’io stesso sono annientato, l’io puro che compie questa esperienza, come non è annientata questa stessa esperienza. […] Io, questo uomo secondo la parvenza trascendentale, sarei però in verità senza corpo; e dovessi perdere questo stesso corpo trascendentale apparente, non cesserei tuttavia di essere soggetto in senso proprio - il soggetto di un’esperienza ormai trasformata in un caos assurdo» (E. Husserl, Filosofia prima, cit., p. 113). ↩︎

  62. Cfr. § 7. ↩︎

  63. Méditation sur «Le monde naturel comme problème philosophique», in: MNMEH, p. 94. ↩︎

  64. Com’è noto, paura e angoscia costituiscono le due modalità fondamentali della situazione emotiva dell’esserci (in quanto è un «progetto gettato»), corrispondenti rispettivamente all’inautenticità e all’autenticità della sua esistenza. Al di là delle ragioni della «selezione» heideggeriana, dall’ampio spettro della vita emotiva dell’uomo, di queste due dimensioni esistenziali, Patočka rimarca fenomenologicamente l’essenziale connessione dello stato d’animo, qualunque ne sia la «qualità», con la dinamica del corpo: «Lo stato d’animo [la «situazione emotiva»] è strettamente connesso con la corporeità, con l’essere-un-corpo. […] Anche il linguaggio lo testimonia: euforia, depressione, tutti questi termini catturano la continuità tra uno stato d’animo e il modo in cui stiamo operando. Lo stato d’animo ci reprime o ci incoraggia. Lo afferriamo corporeamente, lo sentiamo nel nostro dinamismo. In esso afferriamo certe possibilità: a volte viviamo in modo da sfidare tutto, altre volte fluttuiamo leggeri, come sulle ali. Il soggetto corporeo, dinamico, è radicato in tali posture. Ulteriori componenti del nostro modo di sentire - per esempio: piacere, pena - sono stati corporei nel contesto di un’esperienza vissuta che si auto-comprende» (BCLW, p. 79). ↩︎

  65. Méditation sur «Le monde naturel comme problème philosophique», in: MNMEH, p. 96. ↩︎

  66. Ibidem↩︎

  67. La corporeità dell’esistenza ci rivela immediatamente il senso più elementare e concreto della «trascendenza», ovvero il movimento come struttura «daverso…»: «Senza andare più lontano, la semplice metafora della «trascendenza» dell’uomo è l’indice di questa corporeità. […] Sul fondamento della corporeità, la nostra attività è sempre un movimento da… verso…, ha sempre un punto di partenza e una meta. Su questo fondamento, la nostra esistenza è sempre caricata, nella sua attività, del peso del bisogno, della ripetizione, della restituzione e del prolungamento della corporeità propria» (Méditation sur «Le monde naturel comme problème philosophique», in: MNMEH, pp. 104-105). ↩︎

  68. Méditation sur «Le monde naturel comme problème philosophique», in: MNMEH, pp. 93-94. ↩︎

  69. Cfr., per esempio, La conception aristotélicienne du mouvement: signification philosophique et recherches historiques, in: MNMEH, pp. 127-138. ↩︎

  70. BCLW, p. 147. ↩︎

  71. Leçons sur la corporeité, in: PP, p. 97. ↩︎

  72. [Corpo e mondo], in: CCF, p. 185. ↩︎

  73. Cfr. nota 136. ↩︎

  74. Il mondo naturale e la fenomenologia, in: MNF, p. 97. ↩︎

  75. [Corpo e mondo], in: CCF, pp. 185-186. ↩︎

  76. Cfr. PE. ↩︎

  77. Cfr. E. Husserl, La cosa e lo spazio. Lineamenti fondamentali di fenomenologia e teoria della ragione (trad. it. di A. Caputo), Rubbettino, Soveria Mannelli 2009. ↩︎

  78. BCLW, p. 31. ↩︎

  79. Ibidem↩︎

  80. Il concetto di «dislocazione», come chiave interpretativa della fenomenologia asoggettiva, è stato sviluppato e approfondito nel libro di A. Pantano che abbiamo già citato. ↩︎

  81. L’espace et sa problématique, in: QP, pp. 55-56. ↩︎

  82. Nonostante l’analisi dello spazio occupi, tutto sommato, una zona periferica dell’architettura fenomenologica di Essere e tempo, è innegabile che sia stato proprio Heidegger a preparare il terreno per la considerazione esistenziale della spazialità, saldandola strutturalmente all’essere-nel-mondo: «È solo la comprensione dell’essere-nel-mondo come struttura essenziale dell’esserci a render possibile la visione della spazialità esistenziale dell’esserci» (Essere e tempo, cit., p. 88). Evidente appare, anche terminologicamente, il debito di Patočka verso queste pagine heideggeriane sullo spazio. ↩︎

  83. L’espace et sa problématique, in: QP, p. 61. ↩︎

  84. Ivi, p. 59. ↩︎

  85. Ivi, p. 63. ↩︎

  86. Ivi, p. 62. ↩︎

  87. Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., pp. 210-211: «L’epochè crea una singolare solitudine filosofica, che è l’esigenza metodica fondamentale di una filosofia realmente radicale. […] L’io che attingo nell’epochè [ ] è denominato «io» soltanto per un equivoco, anche se si tratta di un equivoco essenziale, perché quando io cerco di definirlo riflessivamente non posso dire che: questo io sono io, io che attuo l’epochè, io che interrogo il mondo quale fenomeno, il mondo che vale ora per me nel suo essere e nel suo essere così-e-così, con tutti gli uomini in esso, gli uomini di cui io sono tanto sicuro; io che sto al di sopra di tutta l’esistenza naturale che ha senso per me, che sono il polo egologico della vita trascendentale entro cui il mondo ha senso per me puramente in quanto mondo; io che nella mia concrezione includo tutto ciò». ↩︎

  88. L’espace et sa problématique, in: QP, pp. 62-63. ↩︎

  89. «[I fenomeni dell’interpellazione] presuppongono la simultaneità del tu e dell’io, cioè lo spazio. Lo spazio è in questo senso ordo coexistentiae» (L’espace et sa problématique (Annexes), in QP, p. 310). ↩︎

  90. «L’orientamento globale del vissuto (senza eccettuare il vissuto corporeo che è l’esperienza sensibile) sull’oggetto è fondamentale per la comprensione del nostro rapporto originario con lo spazio che si approfondisce e si struttura perché esso è una presenza personale, un rapportarsi personale ad altri enti e, in ultima analisi, all’universo di tutti gli enti. Per questa ragione, il rapporto con lo spazio è indissolubilmente legato alla struttura del pronome personale» (L’espace et sa problématique (Annexes), in: QP, pp. 308-309). ↩︎

  91. E. Husserl, Meditazioni cartesiane e discorsi parigini, cit., p. 115. La questione dell’esperienza dell’altro, dell’empatia, non rappresenta per Husserl un problema specifico e settoriale della fenomenologia trascendentale, in quanto la sua chiarificazione teoretica consente di fondare una «teoria trascendentale del mondo oggettivo». Infatti, «al senso d’essere del mondo, specialmente della natura in quanto oggettiva, appartiene l’esserci-per-ognuno, come sempre da noi cointenzionato quando parliamo di realtà oggettiva. Inoltre, al mondo dell’esperienza appartengono oggetti con predicati spirituali, che per loro origine e senso rimandano a soggetti e in generale a soggetti estranei e alle loro intenzionalità attivamente costitutive» (ivi, pp. 115-116). ↩︎

  92. Cfr. V Meditazione cartesiana, §§ 50-55. ↩︎

  93. Cfr., in questa prospettiva, La phénoménologie, la philosophie phénoménologique, et les Meditations cartesiennes de Husserl, in: QP, pp. 149-188. ↩︎

  94. [Corpo e mondo], in: CCF, p. 193. ↩︎

  95. Ivi, p. 203. ↩︎

  96. «Il fondamento ontologico originario dell’esistenzialità dell’esserci è la temporalità. La totalità articolata delle strutture dell’essere dell’esserci in quanto cura è comprensibile esistenzialmente solo a partire da essa» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 287). ↩︎

  97. [Corpo e mondo], in: CCF, p. 204. ↩︎

  98. Ivi, pp. 204-205. ↩︎

  99. Cfr. V Meditazione cartesiana, § 44. ↩︎

  100. Il percorso sviluppato nella V Meditazione non è l’unico possibile nella tematizzazione husserliana del problema fenomenologico-trascendentale dell’intersoggettività. In alcuni inediti, Husserl sembra fornire gli elementi per una (auto)critica fenomenologica della «riduzione alla soggettività pura», nella stessa linea di Patočka. Cfr., su questo, M. Smargiassi, «Solipsismo e intersoggettività nella fenomenologia trascendentale di Edmund Husserl», in: Dialegesthai (2009). ↩︎

  101. Ibidem↩︎

  102. Ivi, p. 196, nota 7. ↩︎

  103. Ibidem↩︎

  104. Cfr. Critica della ragion pura, Analitica dei principi: «Confutazione dell’idealismo». ↩︎

  105. [Corpo e mondo], pp. 194-195. ↩︎

  106. Ivi, p. 196, nota 7. ↩︎

  107. «Merleau-Ponty, proseguendo le analisi husserliane del «potere sul corpo» e rinnovando la tradizione francese che ha la sua origine in Maine de Biran, mette in rilievo con particolare acutezza il carattere corporeo dell’esistenza, il corpo e il potere sul corpo come componente originaria, insostituibile e fonte autentica di tutte le possibilità dell’esistenza » (Meditation sur «Le monde naturel comme problème philosophique», in: MNMEH, p. 97). ↩︎

  108. Per quanto riguarda gli approdi della fenomenologia henryana come «rivelazione della vita invisibile», si vedano almeno: M. Henry, Incarnazione. Una filosofia della carne (trad. it. di G. Sansonetti), SEI, Torino 2001; Id., Io sono la verità. Per una filosofia del cristianesimo (trad. it. di G. Sansonetti), Queriniana, Brescia 1997. ↩︎

  109. «Il mondo della vita è il mondo del bene e del male e la soggettività è quella del dramma del bene e del male; bene e male di un essere essenzialmente finito che non saprebbe vivere senza un progetto non tematico di un bene, senza «sapere», sempre non tematicamente, che questo progetto è legato all’ombra della possibilità estrema di non progettare del tutto. […] La corporeità, la reciprocità, la spazialità concreta compresa di familiarità ed estraneità, sono tutte strutture costanti di questo mondo» (La filosofia della crisi delle scienze secondo Edmund Husserl e la sua concezione di una fenomenologia del «mondo della vita», in: MNF, p. 146). ↩︎

  110. Sulla tensione tra «finitezza» e «infinità» come orizzonte per comprendere il senso complessivo della filosofia patočkiana, è illuminante la ricerca di F. Karfik, Unendlichwerden durch die Endlichkeit. Eine Lektüre der Philosophie Jan Patoèkas, Königshausen und Neumann, Würzburg 2008. ↩︎

  111. Cfr. BCLW, p. 176. ↩︎