Silvio Spiri, Essere e sentimento. La persona nella filosofia di Antonio Rosmini, Città Nuova, Roma 2004.
«La persona umana costituisce il punto di partenza imprescindibile per ogni riflessione di carattere giuridico, etico, politico, economico, scientifico, filosofico. Contro la negazione e la dissoluzione del concetto di persona, la ricorrente tentazione di assuefazione nei confronti di un essere misterioso e sconosciuto, emerge la necessità di ricercare un fondamento stabile e sicuro per l’antropologia» (p. 7). Da questa consapevolezza di fondo, che è insieme dichiarazione programmatica, diagnosi impietosa e proposta di un’adeguata terapia, muove la ricerca di Silvio Spiri lungo i sentieri (non certo interrotti, ma neppure conosciuti dal più vasto pubblico) della filosofia rosminiana: una ricerca lucida e appassionata, tesa non solo a ricostruire l’itinerario teoretico di Rosmini nella sua complessa articolazione, ma anche a far cogliere diffusamente l’«attualità» di un pensatore che a pieno diritto può essere collocato tra gli interpreti più profondi e originali del «personalismo» di ispirazione cristiana. Operazione non semplice, ma di estremo interesse e in qualche modo necessaria; come infatti sottolinea Emilio Baccarini nella prefazione al volume, Rosmini è un filosofo radicalmente «inattuale» per diverse ragioni: perché storicamente è stato quasi sempre così avvertito; poi per la distanza temporale che ci separa da lui e rende ardua la penetrazione del suo linguaggio; infine, e forse soprattutto, per il suo stesso presentarsi come assertore di un pensiero «forte» , notevolmente strutturato, organicamente coeso nelle sue parti, percorso da una solida ossatura metafisica e da una continua tensione morale. Un pensiero dell’«unità» dell’essere in tutte le sue forme, la cui ricchezza rischia di andare perduta in un’epoca, qual è la nostra, profondamente segnata dalla cultura del frammento, dalla moltiplicazione dei paradigmi e dei linguaggi, dalla percezione netta dell’offuscarsi, del «tramonto» (più o meno definitivo) di quella luce ideale dell’essere che in passato era garanzia di intelligibilità del reale e di conoscenza condivisa, e che oggi sembrerebbe concedersi tutt’al più nella forma «debole» , storica, pragmatica e problematica dell’interpretazione infinita.
Ma se si considera che le post-moderne apologie dell’«incertezza» e della «problematicità» , pur essendo largamente accettate nel dibattito filosofico-scientifico, non sembrano aver realmente intaccato le strutture economiche, politiche e sociali, e all’ipertrofia della ragione strumentale e tecnica sempre più spesso si affiancano vecchi e nuovi fondamentalismi, non ci si può sottrarre ad una riflessione intensiva sul senso della «persona umana» , sui pericoli che continuamente minacciano la sua identità erodendone lo spazio di concretezza esistenziale. Allo smarrimento della «meraviglia» nei confronti dell’essere personale, all’esaurirsi del senso del mistero, del dono e della gratitudine, all’endemica incapacità delle scienze di restituirci un’immagine integrale dell’uomo, può porre costruttivamente rimedio un’antropologia filosofica, saldamente radicata nell’ontologia, nell’intuizione dell’«essere» , che costituisce la misura non solo della conoscenza, ma della stessa libertà, dignità e felicità della persona. È in questa ottica neo-classica, ma filtrata da un’autentica passione per il finito, che Spiri ravvisa l’eredità più preziosa del filosofo roveretano, la provocante (in)attualità del suo messaggio: «L’uomo è partecipe della verità in quanto intuisce l’essere ideale; diviene virtuoso quando riconosce l’ordine intrinseco dell’essere e vi aderisce con un atto della volontà; infine è beato nella misura in cui, condotto dalla norma dell’essere ideale e universale, giunge ad amare e a godere della pienezza dell’essere» (p. 12). Naturalmente, se la crisi contemporanea del concetto di persona sia da attribuire prevalentemente ad una perdita del riferimento onto-teo-logico, o non piuttosto alla sua persistenza residuale e nostalgica; se la «dignità» e il «mistero» dell’umano possano altresì fondarsi nella stessa assunzione radicale della finitezza come «senso» e «misura» — è una questione che rimane aperta, e su questo terreno si giocano probabilmente le autentiche possibilità (ed i limiti) dell’attualizzazione del personalismo ontologico rosminiano.
In ogni caso, questo libro è un eccellente strumento di esegesi, e lo è non tanto per il continuo riferimento ai testi e la vasta conoscenza della letteratura secondaria, bensì per la profonda «sintonia» con la prospettiva di Rosmini, un’Einfühlung nel senso migliore del termine: certo non fusione o assenza di distanza critica, ma quella «congenialità» tra l’interprete e il suo autore che Pareyson poneva in diretta proporzione alla riuscita e fecondità dell’operazione ermeneutica. L’attenzione riservata alle peculiarità del linguaggio filosofico di Rosmini, alle sue variazioni interne, all’intreccio costante tra scelte linguistiche e formulazioni speculative che rende la pagina rosminiana di non facile accesso per il lettore contemporaneo, consente a Spiri di sciogliere alcune apparenti contraddizioni e di rintracciare un percorso teoretico coerente. Il primo capitolo del volume individua i caratteri essenziali dell’idea rosminiana di «filosofia» , determinandone in qualche modo il disegno formale, le scansioni metodologiche, le polarità concettuali dominanti: ad esempio il rapporto tra «unità» e «totalità» , per cui — scrive Rosmini nella Introduzione alla filosofia — «la piena unità delle cose non si può vedere se non da chi risale al loro gran tutto; né si abbraccia giammai il tutto, se non si sono concepiti ancora i più intimi cioè gli spirituali legami delle cose, che dall’immenso loro numero ne fanno riuscire mirabilmente una sola» (cit. a p. 22). La questione del fondamento di questa strutturale unità del reale ci conduce però nel cuore del problema ontologico, a quelle «forme primitive dell’essere» che Rosmini viene delineando attraverso un recupero della tradizione metafisica classica, ma anche un confronto critico serrato con la modernità (Locke, Condillac, Kant, Hegel). Di fatto, all’impianto «soggettivistico» della gnoseologia moderna, sia nella versione empiristica che nella più matura formulazione kantiana, il Roveretano contrappone la sua celebre, discussa e spesso fraintesa dottrina dell’«essere ideale» , che Spiri riassume nel modo seguente: «Il costitutivo primo dell’atto dell’intelligenza è un a priori ontologico, l’essere come idea, non una funzione dell’intelletto valida solo per la conoscenza del reale, ma lume della mente, intuito primo originario e perciò innato dell’essere sotto la forma dell’idea» (p. 43). L’idea dell’essere è il fondamento originario di tutte le altre idee e di ogni possibile determinazione dell’esperienza, e Rosmini è assai esplicito nel sottolinearne il carattere «oggettivo» per cui la mente, cogliendola, non aggiunge o toglie ad essa nulla, ma ne riconosce immediatamente la «trascendenza» rispetto all’atto del conoscere. Nella sua purezza costitutiva, l’idea dell’essere risulta così non una vuota astrazione intellettualistica (si ricordi, in proposito, la tesi hegeliana della convertibilità del puro essere con il nulla, oppure la pungente definizione fornita da Nietzsche dell’essere come «ultimo fumo della realtà evaporata» ), ma quella inizialità del senso che offre lo sfondo luminoso ed ineliminabile di ogni comprensione dell’ente, di ogni determinatezza dei contenuti dell’esperienza: «Nella prima forma essenziale dell’essere, quella ideale, la verità oggettiva si presenta come l’orizzonte dell’intelligibilità e la virtualità iniziale di tutto ciò che è. Ma non tutto si esaurisce nell’idealità e nel pensiero» (p. 60).
Al termine del secondo capitolo, viene esaminata la teoria rosminiana del «sintesismo ontologico» come (auto)determinarsi del tessuto connettivo sostanziale tra le diverse forme dell’essere, nella fattispecie: tra l’«essere ideale» , l’«essere reale» e l’«essere morale» Ecco come Rosmini ce la presenta: «L’Essere [ha] tre forme, o modi primordiali, l’idealità, la realità e la moralità, nessun de’ quali sottostà all’altro, ma ciascuno è primo, ciascuno incomunicabile, sebbene si leghino tuttavia nell’essere sempre il medesimo e identico in tutti e tre que’ modi» (cit. a p. 69). Spiri individua in questa dialettica originaria non solo la chiave di volta della filosofia rosminiana, ma anche, come lo stesso Rosmini nitidamente avvertì, un’alternativa radicale al razionalismo assoluto, alla identificazione di logica e metafisica, di razionale e reale; in particolare, ogni forma dell’essere è quella che è nel suo perpetuo rimando alle altre, dalle quali risulta distinta in virtù dello stesso atto di determinazione semantica che colloca tutte le forme nell’unità dell’essere. Qualunque possibilità di «ridurre» una forma all’altra è pertanto da escludere, la differenza è originaria e intrinseca all’essere così come l’unità. «Tutte e tre le forme hanno dunque la qualità di essere contenenti massimi dell’essere stesso, senza che si verifichi confusione tra l’ideale, il reale e la moralità. Il conformarsi, l’intima unione o adesione della forma oggettiva e di quella reale o sussistente, apre la possibilità metafisica dell’essere morale, nel quale il sintesismo si attua compiutamente» (p. 70). Chiaramente il «circolo» , come si esprime Rosmini nella Teosofia, la «circuminsessione» delle forme dell’essere, che eternamente si saldano nella loro determinatezza inconfondibile, in un compatto sistema di rimandi, configura una trama dialettica dal profilo assai più platonico che hegeliano; mentre a Hegel può ricondursi la struttura ontologica uni-trinitaria e l’uso della metafora del «circolo» per designare l’interna compiutezza dell’essere nella necessità della distinzione e relazione delle sue forme, ciò che Rosmini rifiuta con decisione è l’idea di un perpetuo «rovesciamento» degli opposti e «trapasso» dell’uno nell’altro, cioè proprio l’elemento più specifico e caratterizzante della dialettica hegeliana nei confronti di Platone. In questa ottica, si potrebbe affermare che la figura speculativa della «differenza» risulti meglio tutelata e valorizzata nel quadro categoriale della filosofia rosminiana, dove tra l’altro il riconoscimento evidente di una «manifestatività ontologica» alla stessa esperienza morale rende la questione dell’essere meno pacificata, meno esposta alle tentazioni teoreticistiche e contemplative. Un discorso a parte, che riguarda la «dialettica» rosminiana al pari di quella hegeliana e platonica, meriterebbe l’intrinseca difficoltà di giustificare (attraverso una rigorosa «deduzione») sia le forme ontologiche (nel loro tipo e numero) sia le connessioni che tra loro dovrebbero instaurarsi, disegnando in tal modo l’articolazione categoriale della totalità. Ora, Rosmini asserisce che le «forme primitive dell’essere» sono tre e soltanto tre («ideale» , «reale» , «morale»), ma non è altrettanto chiaro se egli sia realmente riuscito a mostrare perché ciò accada e non possa accadere altrimenti; a mostrare, in maniera stringente, la necessità della «circuminsessione» , dell’organismo metafisico che connette le forme e le fa essere ciò che sono. Il vigoroso impegno speculativo della Teosofia è una testimonianza inequivocabile della radicalità dell’approccio rosminiano, che incessantemente ritorna sui propri passi, sulle conclusioni raggiunte, ingaggiando una battaglia con le aporie dell’essere degna dei più grandi metafisici occidentali. Tuttavia, proprio tenendo presenti le critiche cui sono state sottoposte le concezioni tradizionali dell’ontologia, della dialettica, dobbiamo seriamente chiederci: il «sintesismo ontologico» è davvero quella energia dinamica che articola l’intero nelle sue parti, e le parti nell’intero, in una circolarità di rimandi interni che esaurisce (almeno sul piano dei «contenenti massimi») l’organizzazione semantica dell’originario? Si potrebbe forse replicare che Rosmini non aveva l’intenzione di procedere ad una vera e propria deduzione, e che in ciò si distingue fondamentalmente da Hegel e da Platone, per la consapevolezza dei limiti della conoscenza umana dell’essere, che non è conoscenza divina. Ma allora fino a che punto è legittimo parlare di «sintesismo» , quando ciò che ci sfugge delle forme dell’essere è, propriamente, la sintesi?
I capitoli successivi vertono essenzialmente sull’altro polo della ricerca di Spiri, quello del «sentimento» , peraltro sempre colto in stretta connessione con il primo (l’«essere»). Se infatti la persona umana è il centro e il cuore dell’ontologia rosminiana, l’essenza dell’uomo consiste nel suo sentimento fondamentale, in tutta l’ampiezza dei significati che vi convergono; scrive Rosmini nella Psicologia: «Nel nostro fondamental sentimento esistono tutte queste potenze (sensitività esterna, sensitività interna, intelletto) avanti le loro operazioni, cioè il sentimento di me con il mio corpo (sensitività) e l’intelletto. Questo sentimento intimo e perfettamente uno, unisce la sensitività e l’intelletto. Egli ha altresì un’attività quasi direi, una vista spirituale (razionalità) colla quale ne vede il rapporto: questa funzione costituisce la sintesi primitiva» (cit. a p. 77). La fenomenologia del sentimento rende conto dell’unità concreta dell’uomo, nelle sue dimensioni strutturali: come essere corporeo, intelligente ed, infine, razionale. Ma rispetto alle tradizionali definizioni filosofiche dell’uomo, Rosmini non privilegia affatto la ragione come espressione di ciò che è specificamente umano: «Per il fatto che l’intelligenza è una potenza primitiva e invece la ragione una potenza risultante, Rosmini preferì questa definizione rispetto a quella di animale ragionevole. Questa definizione conferma la sua critica della ragione illuministica e idealistica, che tutto pensa di dominare, riducendo a sé la realtà» (pp. 93-94). La spiccata sensibilità di Rosmini per la concretezza della persona, fa sì che quest’ultima gli appaia non solo nella dimensione «verticale» dell’apertura al trascendente, ma anche sempre nella dimensione «orizzontale» della corporeità, della vitalità istintiva e naturale: in realtà, tutto lo sforzo della riflessione antropologica rosminiana è finalizzato ad evitare ogni riduzionismo, di qualunque segno, per cogliere la pienezza e complessità dell’essere personale, che è tale nella misura in cui le sue facoltà o «potenze» si integrano armonicamente. Spiri dedica alla tematica del sentimento fondamentale corporeo un intero capitolo, il più ampio del volume: si tratta di pagine finemente analitiche, ma sempre animate da un’estrema fedeltà allo «spirito» della dottrina, di cui si intendono restituire le molteplici risonanze e variazioni, superando le barriere del linguaggio rosminiano laddove queste rischiano di costituire un serio ostacolo alla comprensione. In particolare, se occorre tener presente che in Rosmini il significato complessivo del sentimento «è anzitutto ontologico-metafisico, giacché esso permea a costituisce il soggetto umano nella sua essenza» (p. 134), è altrettanto vero che molte annotazioni rosminiane sul corpo soggettivo hanno di per sé un forte sapore fenomenologico, una pregnanza descrittiva che le situa in un contesto di singolare affinità con le analisi novecentesche (e «propriamente» fenomenologiche) di Husserl e Merleau-Ponty. Di fatto, Rosmini ha compreso con grande lucidità che la questione del rapporto tra l’«anima» e il «corpo» , all’interno della soggettività, non può risolversi senza abbandonare lo schema dualistico cartesiano, pensando radicalmente l’unità del soggetto come spirito incarnato: «Nel Nuovo Saggio — rileva Spiri — il rapporto dell’anima con il corpo è un fatto che la nostra coscienza attesta: nel sentimento fondamentale che sente se stesso il corpo è nostro ed è unito con lo spirito. Questa realtà diventa incomprensibile solo se consideriamo il corpo nostro come una realtà qualsiasi» (Ibidem). Ma la stessa percezione dell’unità dell’io non sarebbe possibile se non vi fosse alla sua radice quell’intenzionalità ontologica, quell’apertura innata sull’essere che prende il nome di intelletto e che è configurabile sia in termini di «facoltà» che di «atto» Pertanto, «la caratteristica propria dell’intelletto umano è quella di intuire l’essere ideale senza alcuna determinazione e di possedere la percezione del proprio sentimento fondamentale corporeo» (p. 163). In questa luce, assai interessanti (e tutt’altro che «inattuali») appaiono le «sette prove» con cui Rosmini nella Psicologia argomenta il sussistere del sentimento fondamentale o sentimento di sé; più che di singole e compiute dimostrazioni, si tratta di un abile intreccio di differenti livelli analitici, entro i quali ci è dato effettivamente di cogliere l’unità essenziale del soggetto che si esprime con il «monosillabo Io»: analisi fenomenologica, analisi linguistica, analisi metafisica (cfr. pp. 174-175). Ci sembra che la scelta di Spiri di far ruotare l’interpretazione della prospettiva personalistica rosminiana attorno alla diade di essere e sentimento abbia prodotto risultati preziosi non solo in chiave puramente esegetica, ma su un piano filosofico più generale, che potremmo indicare come la strutturale «ontologicità» del sentimento: il sentimento, rivelando originariamente l’essere, si libera di qualsiasi riduttiva ipoteca psicologica, ma a sua volta l’essere dell’uomo, indagato come «sentimento fondamentale» (corporeo e intellettivo), si colora di una più ricca gamma di tonalità emotive, cognitive, pratiche — tutte filosoficamente rilevanti.
Il libro si conclude con una disamina della concezione rosminiana dell’uomo nella prospettiva morale, dalla quale soltanto si può apprezzare adeguatamente quella bellezza e dignità della persona da cui Spiri aveva preso le mosse. Innanzitutto si puntualizza come Rosmini non accetti la scissione tra facoltà teoretica e facoltà pratica che in Kant ne fa due domini nettamente distinti di validità della ragione umana: «L’essere, il vero, il bene sono la stessa realtà considerata da diversi punti di vista» (p. 188). Nel riproporre nel campo dell’etica un approccio di tipo tradizionale (sebbene non privo di originalità ed aperture problematiche), Rosmini esplicita il presupposto ontologico-metafisico di fondo, cioè l’unità dell’essere nelle sue diverse forme, cui immediatamente corrispondono modalità di riferimento oggettivo; «l’obbligazione di uniformare noi stessi all’onestà e alla giustizia è semplice, immediata, assoluta, non dipende in alcun modo dagli effetti che provoca, si presenta con tutta la cogenza del dovere e si radica nell’oggettività del bene che risplende nell’animo umano» (p. 187). D’altra parte, pur restando ben marcate le differenze di impostazione rispetto al pensiero morale kantiano, ci sembra che non si possa attribuire a Kant (come fa Spiri, seguendo l’interpretazione rosminiana) la ricaduta in un «soggettivismo individualistico»; come che sia della vexata quaestio dell’innatismo, anche per Kant la legge morale è «oggettiva» , è rivelativa del bene in quanto bene, e «risplende nell’animo umano»: la sua «formalità» non è sinonimo di vuotezza di contenuto, bensì di auto-referenzialità di campo semantico che vincola tutti gli esseri razionali. Ma mentre in Rosmini la fondazione dell’oggettività dell’etica riposa in ultima istanza sulle articolazioni di un progetto metafisico forte, Kant ritiene di poter (e dover) dissociare rigorosamente la dignità della persona e l’impegno morale dell’uomo dalla coerenza o incoerenza delle nostre assunzioni sull’«essere». E sulla questione della dignità umana, Rosmini critica vivacemente la definizione kantiana della persona come «fine in sé» , proprio perché in Kant il nesso tra la legge morale e la trascendenza divina risulta debole e indiretto; anche qui Spiri riscontra la forza unitiva del «sintesismo» , per cui ontologia, teleologia e teologia formano una sequenza compatta, nella prospettiva di una «filosofia dell’integralità» (M. F. Sciacca) che da un punto di vista antropologico appare l’unica in grado di giustificare il rispetto e l’amore per la persona: «L’uomo dunque riceve la propria dignità in forza della partecipazione all’essere essenziale che, in quanto manifestativo, si comunica al soggetto umano. Sembrerebbe più esatto dire che egli non è un fine in sé, ma tende ad un fine altissimo; e da un certo punto di vista così è veramente: ciò implica che è vano esaltare la persona prescindendo dalla trascendenza. Tuttavia, sotto un altro aspetto, la persona si può dire fine, poiché l’inoggettivazione crea un rapporto coessenziale tra essere e soggetto: l’oggetto partecipa la sua dignità di natura all’uomo, cosicché all’eccellenza dell’uno corrisponde quella dell’altro: offendere la persona, significa offendere l’ente infinito» (pp. 218-219). E da un profondo pathos personalistico sono pervase le più belle pagine di Rosmini sulla relazione intersoggettiva e interumana; se «la comunicazione tra le persone è il fine dell’universo» , la tensione tra «natura» e «sopranatura» nell’uomo non può mai esaurirsi in attività contemplativa, ma si incarna e si risolve perennemente in una logica della socialità, della donazione e dell’amore. «L’uomo nasce dall’amore, vive ed opera in esso, riscoprendo un mondo di persone simili a lui nella dignità ontologica, eppure irripetibili e mai riducibili ad un tutto universale e indifferenziato. Questo ente, animale e spirituale, è composto da più dimensioni: il sentimento fondamentale corporeo, il sentimento fondamentale intellettivo e morale. Il tutto confluisce nell’unità della persona […]. Il sistema della verità cui aspira la filosofia rosminiana non è dato nell’atto in cui l’intelletto delinea analiticamente i concetti, concatenandoli coerentemente tra di loro. Nell’intersezione tra la teoresi e la prassi si gioca la verità stessa dell’uomo, la sua condizione e il suo essere intimo e abissale» (pp. 217-218). Un uomo a più dimensioni, una verità che cerca il proprio compimento nell’etica, una passione per la finitezza creaturale come sorgente inesauribile di «meraviglia»: più che nelle linee limpidamente tracciate della dottrina metafisica, è in questo plesso problematico, in questo continuo rinnovarsi dell’amore per la sapienza in sapienza dell’amore, che il messaggio di Rosmini può essere fecondamente proseguito. Al di là delle possibili direzioni interpretative, il merito fondamentale di Spiri è di averci restituito la fisionomia complessa e concreta di un pensiero «radicale» (e come tale — per utilizzare la nota distinzione pareysoniana — non tanto «espressivo» del proprio tempo, ma «rivelativo» della verità), troppo spesso occultata da formule improprie o da insufficiente conoscenza dei testi.