Jan Patocka, Il mondo naturale e la fenomenologia, Mimesis, Milano 2003.
Singolare figura di «filosofo resistente», che ha coniugato passione teoretica ed impegno etico-politico in maniera così radicale da meritare l’appellativo di «Socrate di Praga», Jan Patocka (1907-1977) è oggi senza dubbio uno dei pensatori più emergenti nello scenario europeo. Nell’ultimo decennio, la sua opera è stata al centro di un vivo interesse e di una vera e propria (ri)scoperta, come testimoniano i dibattiti e convegni ad essa dedicati, e le traduzioni sempre più numerose. Anche in Italia Patocka sta entrando a pieno titolo, sia pure gradualmente e con qualche ritardo rispetto a paesi come Francia e Germania, nel novero dei «protagonisti» del pensiero del ’900. In questa ottica, il volume che qui presentiamo rappresenta uno strumento prezioso e permette di colmare una lacuna di fondo della recezione di Patocka nel nostro paese; se infatti gli scritti sulla filosofia antica e, soprattutto, sulla tematica dell’Europa sono abbastanza studiati e citati, molto meno si conosce il Patocka più propriamente fenomenologo, il suo contributo alla formazione e maturazione di quel «movimento fenomenologico» che ha influenzato gran parte della filosofia contemporanea. Il volume, curato e introdotto da Alessandra Pantano e con uno scritto di Guido Davide Neri, si compone di quattro saggi pubblicati da Patocka tra il 1965 e il 1972, tutti di argomento fenomenologico, che ruotano attorno al concetto del «mondo naturale», delineando la prospettiva originale dell’autore (in un confronto serrato con Husserl e Heidegger), e intrecciando continuamente ricostruzione storica e dimensione analitica dei problemi (com’è tipico dello stile argomentativo del filosofo ceco).
In ciò fedele all’impostazione husserliana, con il termine «mondo naturale» Patocka designa tutto quel complesso di esperienze che formano il tessuto stesso della vita umana e che precedono l’oggettivazione categoriale e scientifica: un contesto strutturato e ricco, articolato e mobile, in cui l’uomo è originariamente coinvolto; un orizzonte di senso, in cui le cose appaiono, si manifestano, innanzitutto nella percezione. Ma mentre Husserl, muovendo dal mondo naturale, approdava da ultimo ad una «soggettività trascendentale fenomenologica», ad una «coscienza pura» che è sì coscienza del mondo, ma non è più realmente nel mondo, per Patocka l’accesso ad una riflessione assoluta, non mondana, non è possibile all’uomo, la cui vita è, da parte a parte, vita-nel-mondo, movimento-nel-mondo. Scrive infatti Patocka: «Il mondo naturale, il mondo in cui l’uomo vive la sua episodica, inconclusa giornata di vita, è fin dall’inizio una totalità manifesta che però non ci è aperta davanti come una scena di teatro che possiamo abbracciare con lo sguardo e che il regista ci permette di dominare. Si tratta invece di una totalità nella quale noi siamo sempre come una componente che vi è immersa, a cui non è mai possibile né permesso elevarsi al di sopra della totalità. […] E si tratta parimenti di una totalità, all’interno della quale eseguiamo noi stessi il nostro movimento vitale, il quale, essendo un movimento all’interno della totalità, è sempre ad essa rapportato, e quindi non è mai un movimento assoluto, bensì soltanto uno spostamento del punto di vista. Un movimento che vede la totalità dal proprio punto di vista e vede se stesso sullo sfondo della totalità» (p. 120).
In Patocka, l’eredità della fenomenologia husserliana è filtrata da un’acuta consapevolezza della prospetticità, finitezza e storicità dell’essere-nel-mondo; i «fenomeni» o le «cose stesse» non sono guadagnati una volta per tutte nella visione intuitiva, ma si manifestano nello stesso movimento dell’esistenza umana, o meglio in questa esistenza pensata strutturalmente, ontologicamente come «movimento»; la relazione originaria del soggetto con le cose nel mondo non è di tipo teorico-contemplativo, ma è sempre in funzione di un interesse pratico-esistenziale, attraverso il quale l’uomo, rapportandosi alle cose e al mondo, si rapporta anche sempre al proprio essere. Il mondo naturale, che può essere pre-storico, non è per questo a-storico, nella misura in cui «l’uomo non si trova davanti al proprio essere già compiuto, come invece una pietra, un animale o un dio» (p. 89). In tal senso, l’«essenza» dell’uomo non è altro che la storicità, la libera assunzione delle possibilità che di volta in volta gli si dischiudono: «Anche l’uomo che non ha storia è tuttavia storico; […] Anche la “non-storicità”, intesa nel senso di una carenza di storia fattuale, è pur sempre nell’uomo qualcosa di scelto, è una possibilità contingente tra altre, giacché anche l’uomo non storico è fondamentalmente capace di avvertire la vertigine della libertà nell’angoscia che lo tiene davanti all’abisso al di sopra del quale si libra la sua vita fattuale» (Ibidem). Il mondo non è dunque il dominio dei fatti puri del positivismo, ma neppure si identifica con la Lebenswelt husserliana, in cui la totalità ontologica ingenuamente data nella vita preteoretica si riconfigura come correlato intuitivo di una soggettività (e intersoggettività) donatrice di senso; al «teoreticismo» cui sembra arrestarsi anche l’ultimo Husserl, occorre sostituire una nozione più ampia di mondo naturale, che restituisca alla vita umana la sua complessa e concreta fisionomia: «Il mondo naturale deve essere considerato, in ultima analisi, come mondo della storicità concreta, non solo in relazione alla sua tradizionalità essenziale, ma a causa del dramma, della “storia” che in essa si svolge, dove il nuovo si nasconde sotto vesti antiche» (p. 147).
Dalla fenomenologia trascendentale alla fenomenologia esistenziale; da una soggettività pura e disinteressata, quale Husserl credeva di trovare come «residuo» della riduzione fenomenologica, ad un io concreto, situato e impegnato nel proprio «aver da essere»: se del tutto evidente appare qui l’influsso dello Heidegger di Sein und Zeit, la concezione dell’essere-nel-mondo come movimento è ben più di una variazione sul tema dell’analitica esistenziale heideggeriana. Per Patocka, ciò che Heidegger lascia sullo sfondo è proprio il concetto, fenomenologicamente centrale, del «movimento»; di fatto, quest’ultimo non è soltanto definito da un contesto temporale, ma è strettamente connesso con la dimensione della corporeità. «Nelle sue componenti più evidenti il movimento della nostra vita è un movimento corporeo. Unicamente in base al movimento del nostro corpo e in connessione con esso noi siamo in grado di comprendere il nostro contatto percettivo con le cose, che non è mai un riflesso passivo degli oggetti, bensì la risposta a un “io” che si orienta attivamente, un io al quale una tale azione è resa possibile dal dominio sul suo corpo, di cui ogni soggetto è immediatamente cosciente» (p. 62). La valorizzazione del corpo soggettivo come «sostrato» del movimento dell’esistenza umana, come centro concreto e punto di riferimento attivo della vita dell’io, riconduce piuttosto Patocka a Husserl, alla differenza tra Körper e Leib, alla struttura cinestetica del campo percettivo, alla dottrina dell’Einfühlung come intersoggettività incarnata, e ci consente di ravvisare nella corporeità l’autentico «punto cieco» dell’analitica heideggeriana. Rispetto a Husserl, però, Patocka oltrepassa i limiti di una considerazione gnoseologica del corpo proprio, per sottolinearne decisamente il carattere ontologico e generativo: il movimento corporeo esprime la dinamica stessa dell’essere-nel-mondo, come risulta chiaro da quell’articolazione interna dell’esistenza in tre «movimenti fondamentali» che costituisce forse il contributo più originale del filosofo ceco al pensiero fenomenologico.
Se la totalità dell’essere-nel-mondo può essere fatta rientrare sotto il concetto del movimento, e se il movimento stesso è impensabile senza la corporeità, vi sono movimenti specifici, in cui si dispiega l’esistenza dell’uomo, da cui essa dipende intimamente e che, perciò, devono essere definiti «fondamentali». I movimenti in questione sono rispettivamente: 1) movimento di radicamento e accettazione, 2) di riproduzione e conservazione, 3) di apertura e verità. Ognuno di essi è, a sua volta, articolato internamente secondo forme peculiari, e il loro insieme disegna una ricca tessitura di rapporti temporali, corporei e intersoggettivi. Nel movimento di radicamento (o, come anche Patocka lo chiama, di «ancoraggio»), si tratta della condizione elementare e imprescindibile affinché si dia un’esistenza umana, cioè del fatto che qualcuno deve accogliere e proteggere il nuovo nato, colui che viene-al-mondo, dall’estraneità del mondo stesso, prendendosene cura, donandogli calore ed affetto; sotto questo aspetto la Geworfenheit heideggeriana è espressione di una fenomenologia parziale e unilaterale dell’essere-nel-mondo, in quanto il Dasein non è soltanto «gettato» nel mondo, ma è anche accettato. Per Patocka, proprio perché l’acquisizione di un mondo non è per l’uomo un processo di adattamento meccanico, «una combinazione bell’e pronta di reazioni istintivamente preparate» (p. 65), questa acquisizione è resa possibile dall’accoglienza da parte di altri, e fenomenologicamente ciò non solo rivela l’io come indigenza, come struttura di bisogno, ma manifesta anche l’originarietà del legame intersoggettivo, interumano. «È negli altri che la terra diventa calda, amabile, benigna. Gli altri sono pertanto la dimora originaria, e non una mera necessità esteriore; sono lo stesso nostro ancoraggio nell’esistenza, il rapporto con ciò che è già preparato per noi nel mondo, ciò che ci accoglie e che dobbiamo già preventivamente trovarvi per poter vivere e per poter compiere tutti gli altri movimenti della vita» (pp. 65-66). Sotto il profilo della temporalità, il movimento di radicamento è caratterizzato dall’«estasi» del passato, è riferito a «ciò che ci è già globalmente aperto in una passività preliminare, il “come ci troviamo, come stiamo”» (p. 66). «La vita è possibile unicamente in quanto sia già entrata in un calore predisposto, nella passività dell’essere compenetrati dall’accettazione, e quindi solo sul fondamento di un passato che ha reso possibile gettare l’ancora e mettere radici» (p. 113). Si potrebbe aggiungere che nel movimento di radicamento ed accettazione il passato è realmente ed essenzialmente passato, si «temporalizza» come tale, cioè non solo come un presente modificato, un puro ritrarsi del vissuto dalla dimensione di attualità cui il soggetto ha avuto una volta accesso, bensì, più profondamente, come una condizione preliminare della presenza: un «passato» che, per me, non è mai stato propriamente «presente» e che rivela in altri ciò che per la prima volta mi apre un tempo ed un mondo, un’esistenza. Patocka scrive pagine molto suggestive sulla tonalità emotiva dell’«essere-accettati», sul senso di appagamento che ne deriva, sul rapporto erotico come «ripresa attiva» in cui la vita accettata si dispone a sua volta all’accettazione dell’altro, nella reciprocità; infatti, pur mostrandosi in tutta la sua pregnanza ontologica nelle prime fasi della vita individuale, in cui la dipendenza dall’altro è totale, il movimento di radicamento è qualcosa che attraversa la totalità della vita e rimane sempre presente, nella misura in cui abbiamo sempre bisogno di essere accettati, di «mettere radici» nell’altro e con l’altro.
Nel secondo movimento fondamentale dell’esistenza umana, che presuppone il primo e ad esso rimane costantemente riferito, si attua per così dire il passaggio dalla «poesia» alla «prosa» della vita, da una situazione in cui l’individualità ha un valore irripetibile ed è fonte di accettazione incondizionata, ad un mondo in cui ciascuno riveste un ruolo e una funzione e ad essi è integralmente consegnato. È il movimento della riproduzione della vita, nella cooperazione e nel lavoro; della sua conservazione, che esige la soddisfazione dei bisogni e dunque la produzione di beni materiali; della sua difesa, tramite l’inserimento del singolo in un ordito funzionale, a fronte di un’«oggettività» che incalza e domina. Se nel primo movimento l’accento cadeva sul legame e sul passato, come condizioni di un’esistenza finita e «radicata», ora Patocka sottolinea invece la frammentazione ed il presente, come tratti essenziali di una vita che si conserva unicamente attraverso la divisione del lavoro e l’iterazione indefinita delle operazioni da cui trae la propria sussistenza. «Si tratta di un ambito in cui noi dobbiamo attenerci ai mezzi, in cui la vita inevitabilmente si frammenta, in cui diventa letteralmente una serie di istanti caratterizzati dal prendersi cura, diventa un mezzo finalizzato a se stesso; e pertanto può essere definito un movimento di autoprolungamento e autoripetizione che rappresenta una destituzione di sé» (p. 66). In questa sfera, se l’esistenza si «temporalizza» nella forma della ripetizione, del presente iterativo, della «cattiva infinità» per cui la vita stessa non può protrarsi e consolidarsi senza parimenti disperdersi, il rapporto con gli altri è anch’esso privo di autenticità, di riconoscimento reciproco, e l’altro uomo «può significare per noi soltanto un concorrente, un ostacolo, un incitamento a metterci in corsa, un segno esteriore di ciò che potrei ottenere e che mi manca, cosicché il nostro modo di essere-insieme è sostanzialmente il modo della contrapposizione» (p. 67). Ad un’analisi più attenta, però, la «caduta» del soggetto nelle maglie della ripetizione e della fungibilità risulta una conseguenza necessaria di quella stessa finitezza, di quella «esposizione» al mondo e alle cose che abbiamo visto nel primo movimento, e che non è altro che la nostra corporeità. La reificazione della soggettività non è dunque soltanto il prodotto di un’organizzazione sociale distorta, ma nel suo nucleo originario si fonda sulla struttura di bisogno dell’essere corporeo, che come ci fa mettere radici solo là dove l’altro ci accetta, così ci consente di fronteggiare la minaccia della morte solo incatenandoci al ritmo inflessibile delle necessità della vita. Scrive Patocka: «L’essere bisognoso che noi siamo, nel suo lavoro teso alla soddisfazione dei bisogni, vive permanentemente preso nelle catene della vita — cioè di una morte continuamente vinta e allontanata — ma distogliendo lo sguardo da quella fine sempre presente e possibile. Vive incatenato, da una parte, alla terra nutrice e, dall’altra, in balia dei potenti, di coloro che organizzano la vita e determinano la soddisfazione dei bisogni» (p. 110).
Il terzo movimento fondamentale, che riprende e completa gli altri due, chiudendo in un certo modo la dinamica dell’esistenza, ma solo per «aprirla» al suo senso più profondo e alla sua possibilità più propria, è il movimento della verità e apertura, definito anche da Patocka come «il movimento […] del ritrovamento di sé attraverso la rinuncia a sé» (p. 121). Per «verità» qui non si intende ovviamente un concetto logico o epistemologico, ma l’articolazione del senso della vita umana in rapporto alla totalità, la posizione dell’uomo nel mondo e le conseguenze che ne derivano per la sua condotta; in questa ottica, se la domanda veritativa raggiunge l’apice e la formulazione più rigorosa e radicale soltanto con la nascita della filosofia, l’esigenza di verità caratterizza per Patocka l’esistenza umana come tale, e ciò è bene attestato da tutte le forme del sacro e del mito, in cui il problema di fondo è sempre il rapporto dell’uomo con la totalità che lo sovrasta. La fenomenologia del terzo movimento è assai più complessa che non quella del radicamento e della riproduzione della vita, movimenti, questi ultimi, intessuti della «naturalità» dell’esistenza corporea. In ogni caso, Patocka connette strettamente il movimento della verità ad un’assunzione radicale della finitezza e, quindi, a ciò che Heidegger chiama l’essere-per-la-morte; quando la vita affronta risolutamente la propria finitezza e ne sopporta il «peso», il continuum dell’autoriprodursi della vita non viene certamente interrotto, tuttavia si affaccia la consapevolezza che il senso autentico dell’esistenza si trova altrove, in una dimensione diversa. In questo modo, per l’uomo «ha preso a tremare la terra stessa su cui la vita poggiava. […] Egli scopre questa sua esistenza non in quanto accettata e radicata, bensì come nuda, e nell’attimo stesso scopre che la terra e il cielo hanno un loro trans, cioè un loro “al di là”. Ciò al tempo stesso significa che in essi non c’è nulla che possa offrire all’esistenza un punto d’appoggio definitivo, un radicamento, uno scopo o un perché definitivi» (p. 67). Anche qui però il differente orientamento di fondo rispetto all’essere-per-la-morte di Heidegger emerge del tutto chiaramente, tenendo presente che in Patocka il superamento della dispersione esistenziale e l’apertura-nella-verità non ci manifesta un io isolato, una singolarità irrelata, bensì una vita che si «invera» donandosi ad altri, che nel movimento della rinuncia a sé acquista la sua vera «sostanza», come essere-per-altri: «La vita che si è conquistata come esistenza non può chiudersi, perché in tal modo ricadrebbe nuovamente nella mera autocontinuazione; la vita che ha aderito alla propria finitezza si è conquistata soltanto per dedicarsi. E questo vuol dire: per appellarsi, per consegnarsi agli altri, non in vista della semplice continuazione della loro perdita di sé, ma per ritrovare una pura, comune interiorità […]. Giacché quel terremoto, che ha scosso il solido terreno di appoggio, ha distrutto anche ciò che separa, ciò che ci rende reciprocamente estranei» (p. 68). Nel terzo movimento l’asse della temporalità è rivolto al futuro, a ciò che oltrepassa la mia vita individuale, vincolandola a qualcosa di più alto. «Ma un essere esistente non può dedicarsi che a un altro essere come lui. La forza di transustanziazione della vita è la forza di un nuovo amore, un amore che si consegna agli altri, incondizionatamente» (p. 119).
Per evitare possibili fraintendimenti, occorre tuttavia notare che la donazione di sé non ha nulla di mistico, né costituisce il pendant di una visione edulcorata o idealizzata dei rapporti umani; il centro di gravità del movimento di apertura non è l’amore come mera accettazione, né il lavoro (come nel secondo movimento), ma la lotta. «La lotta è radicata nell’essenza stessa dell’uomo; ma non quella lotta che è un aspetto dell’autoalienazione che si prolunga, bensì la lotta che equivale al suo contrario e che ne costituisce il superamento» (p. 70). Proprio perché la verità non è qualcosa che si conquista una volta per tutte sollevando un velo, ma è un movimento continuo di ridestamento dalla dispersione e frammentazione della vita, un’attiva «resistenza» dell’io contro le potenze dell’oggettivazione, della non-verità, essa è «lotta»: una lotta che si distingue radicalmente dalla pura contrapposizione egoistica delle volontà. L’uomo che lotta nella verità ha aderito realmente alla propria mortalità e in questo modo si è reso libero non tanto per la morte, quanto per un senso la cui attestazione e difesa rende disponibili a morire. La verità è dunque per Patocka la stessa libertà e dignità dell’esistenza finita; correlativamente, l’autentica nemica della verità, la non-verità, non è la morte, ma la «mortificazione», il tentativo di ridurre l’uomo a cosa, a oggettività manipolabile, l’incapacità di progettare un mondo ed un tempo che non si esauriscano nella ripetizione della vita e nella perpetuazione delle sue forme più alienanti. Se è possibile un riscatto almeno parziale dalla finitezza, un qualche superamento della soggettività finita nella vita universale e infinita, questo passa attraverso i momenti o le tappe di una dialettica ontologico-esistenziale di identità e alterità, nella quale «si ottiene finalmente la conquista dell’altro in sé e di sé nell’altro, a condizione che si realizzi l’estremo movimento di autotrascendimento nell’accettazione della finitezza» (p. 120). È un punto molto delicato, che sembrerebbe condurre la fenomenologia del mondo naturale in prossimità della fenomenologia hegeliana, di cui è ben nota la figura speculativa della «lotta» tra le autocoscienze per il riconoscimento e la conquista della vera libertà; ma, in Patocka, il rapporto con l’altro che mi permette di «superare e conservare» la vita finita, assume una valenza molto diversa: «Io induco tale essere a compiere lo stesso movimento e esso rimane libero e non-oggetto, grazie al fatto che lo compie sul suo altro, su di me. Io manifesto il mio non essere finito, dedicando l’intero mio essere finito all’altro, il quale, a sua volta, mi restituisce il suo, in cui il mio è contenuto» (p. 111). Allora, dedicarsi all’altro significa essenzialmente ridestarlo al movimento della verità ed, al tempo stesso, esserne ridestati, formare un fronte comune in quella lotta-per-la-verità che esprime il rifiuto dell’alienazione umana. La vita infinita è la ricerca incessante di un orizzonte spirituale in cui il finito si «risolve» senza dissolversi, acquista «continuità» e «sostanza» proprio rinunciando a far centro su di sé, sulla sua soggettività isolata.
Al termine della nostra presentazione, ci sembra opportuno sottolineare come il pensiero fenomenologico di Patocka, di cui i saggi pubblicati in questo volume costituiscono un’importante «sintesi» ed un invito all’approfondimento, apra realmente prospettive nuove alla fenomenologia e, forse, alla riflessione filosofica tout court. Si tratta di un pensiero estremamente ricco, ma ancora ben lontano dall’essere adeguatamente studiato, e ciò per diverse ragioni, non ultima la difficile accessibilità dei testi (in gran parte in lingua ceca). La dottrina dei tre movimenti, sulla quale abbiamo a lungo insistito in queste pagine introduttive, appare particolarmente originale non tanto come interpretazione complessiva della condizione umana, come «schematismo» dell’esistenza finita, quanto per la molteplicità di dimensioni e di rimandi interni che la caratterizzano, e per l’analisi dettagliata di componenti strutturali dell’essere-nel-mondo per lo più sottovalutate dai fenomenologi «classici» (Husserl, Heidegger, ma anche Merleau-Ponty). È il caso, ad esempio, del movimento di radicamento e accettazione, che rivela il fungere dell’alterità, dell’intersoggettività fin negli strati più profondi e originari dell’esperienza umana; è il caso del lavoro come fondamento della riproduzione della vita, che né Husserl né Heidegger sottopongono ad un’analisi fenomenologica specifica e che piuttosto avvicina Patocka alla riflessione di Hannah Arendt; è, ancora, il caso della relazione dialettica tra vita finita e vita infinita, che attraverso la lezione di Hegel, ma con esiti radicalmente differenti, articola una concezione della finitezza come senso, altrettanto distante da un relativismo scettico o nichilistico che da una metafisica speculativa e oggettiva. Un altro aspetto che non va trascurato, nella lettura dei saggi fenomenologici di Patocka, è il carattere organico-sistematico della riflessione sul mondo naturale, che è presente anche quando non viene esplicitamente tematizzato: alla triade di «movimenti fondamentali» (radicamento, riproduzione, apertura) corrisponde infatti una triade di quelle che potrebbero definirsi «categorie fenomenologiche fondamentali» (corporeità, temporalità, intersoggettività). Ora, come almeno in parte è stato possibile vedere qui, la «correlazione» tra le due strutture sembra avere una forma dialettica, ma di tipo peculiare: ad un singolo movimento non corrisponde una categoria fenomenologica, bensì tutte vi sono implicate e, per così dire, «rispecchiate» (sebbene in sensi diversi e non sempre con la stessa importanza), per cui non occorre seguire soltanto il livello «diacronico» del passaggio da un movimento all’altro, ma anche sempre il livello «sincronico» del configurarsi della categoria «sub specie movimenti». In parole più semplici, e al di là della formula schematica, ogni movimento articola corporeità, temporalità e intersoggettività in un determinato modo, ed ogni categoria fondamentale può essere concretamente esibita solo considerando l’«intero» dei movimenti in cui si manifesta. Di fatto, il tema del rapporto tra fenomenologia e dialettica è stato quasi totalmente messo da parte, dopo la crisi del marxismo, ma ha costituito un punto di notevole impegno teoretico in autori come Landgrebe, Paci, Merleau-Ponty, che Patocka ha conosciuto ed apprezzato. Che dal filosofare sul «mondo naturale» e sull’«esistenza come movimento» possa sorgere un rinnovato interesse in tal senso, al di fuori dei quadri ideologici abituali, è quanto siamo autorizzati a sperare.