Hannah Arendt interprete di Immanuel Kant

Hannah Arendt non ha mai scritto un testo su Immanuel Kant, ma il filosofo prussiano è stata una presenza costante in tutto il suo percorso riflessivo e filosofico, ed un rimando continuo, lucido e consapevole in più parti delle sue opere, come se Kant fosse stato sempre lì, all’orizzonte, ora una guida, ora uno stimolo per risolvere antiche aporìe del pensiero filosofico e introdurne di nuove. «E torniamo ancora una volta a Kant»:1 è la stessa Arendt a sottolineare il continuo dialogo ideale come un saldo punto di riferimento. In un’ipotesi quanto meno suggestiva, il fatto di essere vissuti nella stessa città, che a Königsberg abbiano messo le radici entrambi, che siano cresciuti respirando la stessa cultura, la stessa tradizione, tramandata negli anni, può essere ritenuto una sorta di segno del destino, come se ciò che Kant avesse seminato doveva essere in qualche modo raccolto e approfondito dalla stessa Arendt, una traccia, un solco lasciato nel terreno come un indizio da seguire.

Questa studiosa che non ha mai amato definirsi una filosofa: «non ho la pretesa né l’ambizione di essere un filosofo, di venir annoverata tra coloro che Kant, non senza ironia chiamava Denker von Gewerbe (i pensatori di professione)»,2 sentendosi estranea a qualunque scuola di pensiero e a qualunque movimento ideologico, pur essendosi formata a contatto con grandi del pensiero contemporaneo, quali Jaspers e Heidegger, dà un’interpretazione di Kant, originale, profonda, che scava a fondo, oltre quelle che sono state le stesse «scoperte» kantiane, comparandole su più fronti, ampliandole e facendo luce sulla portata tanto teoretica quanto etica di tali «scoperte». Lo scopo di questo saggio è ricostruire questo percorso d’interpretazione, di continuità, come se mettendo insieme tutti i tasselli di questo grande puzzle, cercando, comparando, riflettendo sugli incastri possibili, potesse venir fuori, man mano, quello straordinario libro che sarebbe potuto essere e che la Arendt inconsapevolmente ci ha lasciato.

Come si noterà, il mio sarà un percorso a ritroso, che prende il via dall’ultimo libro della Arendt, La vita della mente, rimasto incompiuto, che ugualmente, però, si erge ad una sorta di testamento, coronamento finale di una riflessione durata una vita, per passare attraverso la «Teoria del giudizio politico» che non è in realtà un testo vero e proprio, ma una raccolta di lezioni sulla filosofia politica di Kant,3 la parte dedicata al giudicare, per poi arrivare alla Banalità del male, Responsabilità e giudizio, in cui ci si pone domande che continuano ad assillare lo spirito, su questioni irrisolte quali volontà, azione, e libertà, fino a Vita activa, apparso negli Stati Uniti nel 1958 e tradotto in Italia nel 1964, e che è da molti considerato un testo fondamentale per la filosofia e il pensiero politico contemporaneo.

Questa precisa decisione di procedere al contrario è dovuta alla volontà di voler sottolineare come la presenza kantiana nelle opere della Arendt, che risulta più evidente nelle ultime, sia però profondamente connessa a tutte le sue opere, fin dal principio, e come gli stessi concetti mutuati da Kant siano stati metabolizzati e rielaborati dall’autrice attraverso un’interpretazione personalissima, ampliati e tenuti insieme da quell’interesse verso l’uomo e la condizione umana in generale, che è stato il filo conduttore delle speculazioni di tutta una vita. A ritroso l’interpretazione arendtiana procede a tutto campo, attraverso una complessa riflessione su libertà, morale, obbedienza, legge e autorità, che è riscontrabile sin dal discusso libro del 1951 Le origini del totalitarismo.

Vi è uno slittamento dalla Critica della ragion pratica alla Critica del giudizio, perché l’etica si fonda soprattutto sulla facoltà di giudizio dell’uomo, facoltà che esclude la cieca obbedienza, gli imperativi categorici, riscontrabili appunto nella seconda critica, che non fu mai un punto di riferimento per la Arendt, proprio perché viziata da quel formalismo e da quella pericolosa fiducia nell’obbedienza riscontrabile nella figura di Eichmann, il cui processo è stato seguito dalla Arendt a Gerusalemme come corrispondente del The New Yorker e il cui resoconto è nelle pagine di La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, pubblicato nel maggio del 1963, e il cui capitolo ottavo è ispirato appunto all’etica kantiana e alla pericolosa fiducia nei riguardi di questa, «dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principi dell’etica kantiana».4 La filosofia pratica kantiana con la sua struttura deontologica impedisce l’incontro fra l’universale e il particolare, le eccezioni non sono ammesse perché annientano l’universale.

È proprio il processo Eichmann a costituire lo stimolo immediato all’interesse per le attività spirituali, «colpita da un fatto che, volente o nolente, mi ha fatto entrare in possesso di un concetto (la banalità del male), non potevo fare a meno di domandarmi la quaestio iuris e domandarmi con che diritto lo possedessi e lo utilizzassi»,5 quell’assenza di pensiero rinvenuta nell’imputato, un uomo del tutto normale (banale) nella vita familiare, che, inserito in una macchina infernale, quale l’organizzazione nazista, può diventare capace delle più disumane atrocità. I problemi morali, scaturiti da un’esperienza concreta, risvegliano nella studiosa di Hannover dubbi sulla condizione umana già presenti in Vita activa, la preoccupazione di colmare quello scarto fra attività di pensiero e la vita ordinaria, l’essere nel mondo, che appare determini fin dal principio la filosofia.

La preoccupazione verso l’uomo che agisce e che si rende conto del suo essere un’agente responsabile, l’uomo nella singolarità della sua responsabilità di agire e giudicare, ma al contempo l’uomo nel suo apparire irriducibilmente in mezzo agli altri, fra gli altri, è il filo conduttore di tutte queste riflessioni. L’uomo nella sua soggettività, nella preoccupazione delle sue azioni, nel suo essere protagonista del mondo, a volte agente, a volte spettatore, ma sempre e comunque protagonista. E ancora una volta è chiaro il doppio filo che unisce la Arendt a Kant: dopotutto, in ciò che fu la «rivoluzione copernicana» di Kant, volle anch’egli sottolineare il primato del soggetto quale protagonista indiscusso della sua teoria gnoseologica, spiegando come doveva essere l’oggetto a conformarsi alla struttura mentale del soggetto per essere recepito, e non di certo il contrario.

La forte attualità di queste ricerche arendtiane è tutto insito nelle pagine dei suoi lavori, che non fanno delle sue riflessioni uno sterile esercizio intellettuale, ma una vivida testimonianza di esperienze vere, concrete, di un vivere responsabilmente riflessivo. Il paradosso sta nel fatto che proprio lei che non amava definirsi una filosofa, senza accorgersene lo è stato invece nel senso più radicale, nella forza del suo essere uno spirito inquieto, curioso nei confronti del mondo, e mai superficiale, e al contrario sempre disposta con la mente ad osservare il mondo dall’alto, dando un senso, un significato a tutto, e assumendo ciò come una sorta di missione a cui non venne mai meno. Hannah Arendt si accorse delle notevoli implicazioni teoretiche di alcuni fra i più importanti concetti della Critica della ragion pura kantiana, partendo dall’analisi di alcune pagine della Vita della mente che trattano tali temi per compararle con appunto la prima Critica di Kant.

Partendo da una riflessione sul male e sulla capacità di compierlo, che, come, ho già detto, scaturisce da esperienze concrete, la Arendt si domanda se l’attività del pensiero abbia in qualche modo a che fare con questo. Per intraprendere tale ricerca, Hannah Arendt ritiene cruciale discutere sulla distinzione kantiana di Vernunft e Verstand, ragione e intelletto: «Noi definimmo nella prima parte della nostra Logica trascendentale l’intelletto come la facoltà delle regole; qui da esso distinguiamo la ragione, dicendola la facoltà dei principi».6 Da qui il passaggio fondamentale da verità a significato, la ragione è volta a comprendere il significato di ciò che è conosciuto attraverso l’intelletto, staccandosi dal mondo sensibile, «il bisogno di ragione non è ispirato dalla ricerca di verità ma dalla ricerca di significato. E verità e significato non sono la stessa cosa».7

Per la Arendt, Kant non approfondì mai questa particolare implicazione del pensiero, che vuole liberare questa attività dalla necessità epistemologica della verità. L’uomo riflette non solo sulle questioni ultime quali libertà, anima e Dio, ma su tutto ciò che lo circonda, che gli succede. Nella tradizione l’attività di pensiero è stata sempre solo ed esclusivamente determinata come di competenza di un gruppo ristretto, dei filosofi, mentre la Arendt ne rivendica l’allargamento a tutti gli uomini in quanto esseri pensanti, perchè proprio nell’assenza di pensiero scorge la causa principale dell’azione di massa nell’epoca dei totalitarismi, la responsabilità di coloro i quali aderirono alle ideologie imperanti anche senza esserne pienamente convinti, di cui l’esempio più concreto è proprio quello di Eichmann.

Ciò che è anche molto importante per la Arendt è il concetto di apparenza, che ha un ruolo fondamentale nella filosofia kantiana, e attraverso il cui confronto la critica alla teoria metafisica dei due mondi assume una forma completa, definitiva, discutendo intorno alla nozione di cosa in sé e del concetto di noumeno.

La Arendt mira ad attraversare e superare la tradizione filosofica, che appare si caratterizzi sin da principio con il forte scarto fra la pura attività di pensiero e la vita ordinaria, come «un’eco di quel congedo dal mondo dei viventi»8 che attraversa tutta la storia della filosofia occidentale e che ha determinato la tragedia del pensiero, e un declino inesorabile di un pensiero dell’azione e di un’autentica teoria politica. La Arendt vuole al contrario conciliare il pensiero con l’essere nel mondo, per non restare nell’ambito del puro studio, puro pensiero, ma attivandosi nel campo dell’agire concreto, gravido di responsabilità verso tutti gli uomini, per un’agire politicamente e un pensare politicamente, per dirla con Laura Boella.9

La questione più specificatamente politica è condotta invece attraverso un’analisi della Critica del giudizio di Kant, fatta da Hannah Arendt nelle sue lezioni alla New school for Social Research, ma già accennata in altri suoi testi. Vi è una sorta di continuità, in quanto il giudizio è posto in un rapporto di diversità col pensiero, evidenziando il carattere solitario di tale facoltà, e il carattere politico della prima. Quando pensiamo ci poniamo in una sorta di situazione di solitudine, ci estraniamo dagli altri, dal mondo, per riflettere e dare significato a ciò che ci circonda, trascendiamo le apparenze e cessiamo di fare qualsiasi altra attività, al contrario, quando giudichiamo ci poniamo in mezzo agli altri e con gli altri, trattando del particolare e non di certo dell’universale, come nel caso, appunto, della facoltà di pensiero.

La questione politica è posta ad iniziare dal suo senso, esso è tutto riassunto nel concetto di libertà, che ci è stato tramandato dall’esperienza greca delle polis, dall’esempio di uno spazio pubblico, il solo dove era possibile un’azione plurale di uomini diversi fra loro, con un unico obiettivo, il fare politica fra e con altri uomini. La politica è innanzitutto un valore da coltivare attraverso una rivalutazione di un’agire comune a tutti, di quella capacità, oggi venuta meno, degli uomini di collaborare e agire insieme proprio a partire dalla propria irriducibile diversità, perché l’eguaglianza non corrisponde all’idea di giustizia, ma proprio a quella di libertà. Lo zoon politikon aristotelico è qui del tutto ribaltato, il senso politico non è insito nell’uomo, necessario, ma nasce dall’esperienza concreta di stare in mezzo agli altri.

L’uomo è posto in un contesto più propriamente politico, dove l’azione umana è irriducibilmente legata alla pluralità umana, perché non è possibile agire se non in mezzo agli altri. La libertà è qui la posta in gioco della politica, ed è proprio nella facoltà di giudizio che può esplicarsi e non certo nella ragion pratica e nella volontà. Hannah Arendt, compiendo il passaggio dalla Critica della ragion pratica, a quella del giudizio, mette in evidenza appunto come la stessa idea di libertà è propria del giudicare umano, e come, al contrario, venga meno nel sistema morale kantiano, e nel concetto di imperativo morale. «Ciò che chiamiamo giudizio è associato alla permanente novità della partecipazione […] porta il pensiero in quello spazio fra passato e futuro che abbiamo visto essere la sola dimensione dell’agire e del senso dell’identità».10

Ciò che ha un ruolo preminente nell’analisi del giudizio è il concetto di apertura mentale, modo di pensare ampio, collegato inevitabilmente al senso comune, e quindi alla capacità politica di immedesimarsi negli altri. Tale apertura mentale si concretizza quando paragoniamo il nostro giudizio a quello degli altri, in rapporto ai possibili giudizi altrui. La facoltà che rende possibile tutto ciò, è la facoltà di immaginazione, che attraverso l’estensione del nostro giudizio in rapporto a tutti i diversi punti di vista, è il cardine del pensiero critico. Attraverso l’immaginazione, il pensiero critico rende gli altri presenti, muovendosi così in uno spazio pubblico di condivisione, aperto a tutti i confronti, «… adotta la posizione kantiana di cittadino del mondo».11

Nella prima Critica, osserva la Arendt, l’immaginazione serve all’intelletto, mentre nella terza Critica l’intelletto è al servizio dell’immaginazione, e nel primo caso lo schema è prodotto attraverso l’immaginazione grazie all’incontro di sensibilità e intelletto. Nel giudizio, l’esempio è qualcosa di analogo allo schema, poiché Kant attribuisce agli stessi esempi, la medesima funzione che le intuizioni hanno per l’esperienza e la conoscenza. Ogni oggetto particolare possiede un concetto corrispondente, nel senso che la penna, come oggetto particolare, possiede un’idea di penna per la quale tale oggetto è riconosciuto come tale. Tale idea o concetto può essere concepito come l’idea platonica o lo schema kantiano, in cui la configurazione schematica o formale dell’oggetto è l’idea a cui deve conformarsi l’oggetto particolare, oppure come validità esemplare: possiamo avere esperienza di un oggetto che giudichiamo il migliore possibile della sua categoria, rivelando questo, nel suo essere particolare, una generalità che solo così può essere definita. Tale validità esemplare ha importanza per una successiva concezione di scienza politica basata sul particolare e non sull’universale.

Schemi ed esempi svolgono una funzione ogni volta che ci occupiamo di cose particolari, sia nei giudizi riflettenti, che in quelli determinanti. Gli esempi acquistano validità esemplare guidandoci nel giudizio sul particolare, dal quale il giudizio riflettente deriva la regola da utilizzare in più casi, «l’esempio è il particolare, che contiene in sé un concetto o una regola universale o di cui si assume che la contenga».12

I temi fondamentali fino a qui analizzati, si ricongiungono attraverso una rilettura attenta della sua seconda Critica, evidenziandone quelle che per Hannah Arendt sono le fallacie dell’impianto etico e del suo imperativo categorico, la struttura formale del sistema morale che cancella la libertà umana, e che può facilmente essere distorta, attraverso un’obbedienza cieca, Kadavergehorsam,13 agli ordini e ai precetti. Una grande riflessione morale, che vede protagonista indiscusso ancora una volta l’uomo che agisce, la cui azione fa la storia, determina gli avvenimenti che ne conseguono, senza in alcun modo poter contare su un destino predefinito, e che al contrario spazia liberamente e autonomamente, potendo sempre dare vita a nuove situazioni, nuove «nascite». Con la rivalutazione dell’agire, Hannah Arendt vuole cercare di ridefinire l’identità umana, svincolandola sia dal primato scientifico dell’antropologia che da quello del pensiero, collocandola nel campo della creatività costituente che è propria dell’uomo.

Il ruolo dell’azione nella condizione umana è evidente, a patto di premettere la pluralità della condizione umana e del mondo in cui viviamo, dato che non sarebbe possibile agire senza la presenza di altri uomini che partecipano, reagiscono, si oppongono. L’azione umana, che è capacità di introdurre l’inatteso, è ciò che insito alla storia stessa, intesa come storia di azioni, le cui conseguenze non sono né prevedibili, né predeterminabili. Agli antipodi di ogni filosofia della storia, di ogni teleologismo, e di ogni sistema chiuso e necessario, la Arendt sottolinea l’impossibilità di giudicare e confrontare gli eventi storici attraverso una riletture di eventi precedenti, perché nulla è già come lo predefiniamo.

Analogamente Sorel fece una critica al razionalismo deterministico, nella sue versioni hegeliane e positivistiche, in quanto riconobbe al processo storico il carattere di indeterminatezza e imprevedibilità, auspicando la decomposizione del marxismo, ovvero dell’interpretazione in chiave economicista deterministica delle teorie di Marx, che così blocca totalmente la creatività dell’azione umana e la sua forza innovatrice. Il ricordo di ciò che è stato, la memoria di eventi passati, ci aiutano a radicarci in questo mondo a noi inizialmente sconosciuto ed estraneo, ci permette di riflettere e significare il nostro vissuto, ma non certo di prefigurare cosa una nostra successiva azione possa introdurre. La motivazione ad agire non è direttamente proporzionale con ciò che conseguirà dal nostro agire, solo dopo aver agito, possiamo metterci a distanza e giudicare un’azione riuscendole a dargli un senso, solo raccontandone possiamo significarla, solo dopo e non certo a priori.

Lo stesso concetto di volizione è affrontato in rapporto all’uomo che compie azioni autonome e responsabili, all’uomo che nella propria dignità e consapevolezza di essere agente e pensante deve essere in grado di assumersi tutte le responsabilità che conseguono dalle sue stesse azioni. La volontà è posta come concetto corrispondente ad una volontà autonoma e responsabile, che sottolinea ancora una volta interamente la responsabilità dell’uomo ogni volta che agisce. Ogni qual volta che cediamo a desideri e tentazioni, lo facciamo perché lo vogliamo, e non di certo per debolezza.

Attraverso una critica della morale intesa come insieme di norme e regole assolute, con validità onnipresente e onnipotente, la Arendt mira a restituire alla morale stessa lo statuto originario, contenuto nel significato originario di usi e costumi, e quindi sempre soggetta a variazioni e cambiamenti. Ancora una volta si vuole restituire alle questioni umane tutto il loro valore contingente e finito, e per questo umano. L’imperativo categorico è così definito dallo stesso Eichmann, «Quando ho parlato di Kant, intendevo dire che il principio della mia volontà deve essere sempre tale da poter divenire il principio di leggi generali»,14 parafrasando alla perfezione il nucleo centrale del sistema morale, snaturandolo del tutto però in periodo in cui gli stessi crimini, che la ragion pratica kantiana voleva annullare, furono legalizzati dallo Stato.

In Eichmann, la formula kantiana dell’agisci come se il principio delle tue azioni fosse quello stesso del legislatore o della legge del tuo paese, divenne l’imperativo categorico del terzo Reich: «Agisci in una maniera che il Führer, se conoscesse le tue azioni, approverebbe».15 «Qualunque ruolo abbia avuto Kant nella formazione della mentalità dell’uomo qualunque in Germania, non c’è il minimo dubbio che in una cosa Eichmann seguì realmente i precetti kantiani: una legge è una legge e non ci possono essere eccezioni».16 Il sistema morale, le regole di condotta, sono affidate alla struttura razionale che è in ogni uomo, e a cui ogni uomo non può venir meno, se non a costo di cadere in quello che kantianamente è definito come absurdum morale. Le tentazioni per l’uomo provengono dall’esterno, e ci inducono ad allontanarci da noi stessi e dai nostri precetti morali, perché nessuno è cattivo per sua stessa volontà, ma entrando in contrasto con se stessi, e finendo col disprezzare se stessi: l’uomo che compie il male mente a se stesso e alla sua struttura razionale, sulla quale poggia appunto la sua ragion pratica.

È proprio in questi testi che maggiormente ne segnano il pensiero, le tre Critiche, che si compie il più importante incontro fra Kant stesso e chi decise di analizzare e scavare a fondo le sue teorie, comprendendone realmente le motivazioni eversive e indagatrici: Hannah Arendt, che non accontentandosi di fermarsi ad esse, ne svelò forse il carattere se non più autentico, sicuramente più originale.


  1. H. Arendt, Responsabilità e giudizio, a cura di J. Kohn, trad. it D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2003, p. 120. ↩︎

  2. H. Arendt, La vita della mente, a cura di A. Dal Lago, trad. it G. Zanetti, il Mulino, Bologna 1987, p.83. ↩︎

  3. Raccolta di lezioni sulla filosofia politica di Kant, tenute alla New school for Social Research, durante il semestre autunnale del 1970, e pubblicate in Teoria del giudizio politico. Lezioni di filosofia politica di Kant, trad. it P. P. Portinaro, Il melangolo, Genova 1990. ↩︎

  4. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it. P. Bernardini, Feltrinelli, Milano 2000, p.142. ↩︎

  5. H. Arendt, La vita della mente, cit., p.86. ↩︎

  6. I.Kant, Critica della ragion pura, trad. it. G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Laterza, Bari 2000, p. 239. ↩︎

  7. H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 99. ↩︎

  8. H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 13. ↩︎

  9. L.Boella, Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare politicamente, Feltrinelli, Milano 2005. ↩︎

  10. H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 58. ↩︎

  11. Ibidem, p. 551. ↩︎

  12. H. Arendt, Teoria del giudizio politico, cit., pp. 125-7. ↩︎

  13. H. Arendt, La banalità del male, cit., p. 142. («obbedienza cadaverica», riferito alla definizione kantiana di dovere). ↩︎

  14. Ibidem, p. 143. ↩︎

  15. Ivi. (Per Kant l’uomo deve andare al di là della semplice obbedienza, identificando la propria volontà col principio che sta alla base della legge, che si identifica con la fonte della stessa legge, e tale fonte era, per Kant, la ragion pratica, per Eichmann, la volontà del Führer). ↩︎

  16. Ibidem, p. 144. ↩︎