1. Questioni preliminari
La pandemia da Coronavirus ha posto l’intera umanità di fronte a una situazione non solo drammatica, ma anche inedita. È inedita nel senso che le generazioni del presente, cioè tutti coloro che sono nati dal dopoguerra in poi, non sapevano cosa si provasse a considerare la morte come minaccia costante: secondo Umberto Galimberti questo virus ci sta costringendo a dover ritrovare quel senso della morte che la cultura occidentale ha rimosso.1 Ma è inedita anche in un altro senso: le misure messe in atto per arginare il contagio, seppur necessarie, rappresentano una enorme limitazione della libertà personale, cioè di quella dimensione della libertà considerata fondamentale dai moderni, come direbbe Benjamin Constant.2 L’imposizione del cosiddetto lockdown da parte di governi democratici era qualcosa di semplicemente impensabile fino a pochi mesi fa. Dal dopoguerra in poi, da quando l’Italia è diventata una Repubblica e, soprattutto, da quando nel 1948 è stata redatta la Carta Costituzionale che ha sancito il riconoscimento etico e giuridico e l’inviolabilità di certi diritti e libertà fondamentali, le forze politiche che si sono avvicendate alla guida del Paese avevano sempre agito, riguardo questi diritti e queste libertà, nel senso di un loro allargamento e mai del loro restringimento, e queste considerazioni possono essere estese anche agli altri Stati occidentali. Ma quando si vive in stato d’emergenza le consuetudini cambiano e le regole saltano, e la priorità diventa quella di agire per limitare i danni whatever it takes;3 di fronte a una causa di forza maggiore diventa possibile mettere in atto e giustificare quella che a tutti gli effetti si concretizza come una limitazione della democrazia. Presumibilmente, se Carl Schmitt avesse potuto assistere agli accadimenti attuali avrebbe detto che l’emergenza della pandemia, che ha messo i governi di fronte alla necessità di prendere decisioni eccezionali, ha dato modo all’essenza della sovranità di manifestarsi, perché «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione».4 Zygmunt Bauman invece, probabilmente, avrebbe considerato questo decisionismo come una reviviscenza di potere dell’agonizzante Stato-Nazione (che resterebbe comunque inevitabilmente destinato a soccombere, incapace com’è di dare quelle risposte di ampio respiro che un mondo sempre più globalizzato richiede).5 E forse avrebbe anche ritenuto questo stop forzato imposto dal lockdown un’occasione per riflettere su quelle grandi questioni che normalmente sono ignorate - o rimosse - dai più, perché vivendo in un mondo liquido si è totalmente assorbiti dalla contingenza.6
Fatte certe premesse, si cercherà di analizzare la situazione presente da un punto di vista filosofico. Quello che ci si vuol chiedere è se l’esperienza della pandemia abbia prodotto nell’essere umano un cambiamento e – se ciò è vero – di che tipo, se tale mutamento avrà effetti di lungo periodo oppure se, una volta finita l’emergenza e ripristinata la normalità, si tornerà rapidamente alla condizione precedente. L’unica cosa certa è che tutti gli esseri viventi sono inclini all’adattamento, il quale non è che l’altra faccia dell’istinto di sopravvivenza, come le teorie darwiniane insegnano.7 Dunque, partendo da questo dato indubitabile, è ragionevole pronosticare che ancora una volta l’uomo sarà capace di adattarsi ad una situazione nuova; ma la questione rilevante è, come si diceva, cercare di capire in che modo lo farà, quale sarà la natura del suddetto cambiamento e quali conseguenze questo produrrà da un punto di vista propriamente antropologico. I punti che verranno di seguito analizzati sono essenzialmente due: il primo concerne il cambiamento della percezione dell’altro e, di conseguenza, anche del modo di rapportarsi all’altro; e il secondo riguarda il senso, ammesso che si riesca ad individuarne uno, dell’esperienza drammatica che il mondo ha vissuto e sta ancora vivendo.
2. Il rapporto con l’altro
Andando in ordine, si partirà dalla prima questione, quella che riguarda il rapporto con l’altro. Si può affermare che, generalmente, la nostra sia una cultura caratterizzata dalla coscienza dell’alterità, e non solo in tempi recenti, nei quali filosofi e intellettuali vari hanno iniziato chiaramente a celebrare il valore dell’alterità e l’importanza dell’apertura. In realtà di questa coscienza troviamo traccia sin dalle origini, per esempio nella filosofia eraclitea dei contrari. È vero che contrario e altro non sono termini necessariamente sinonimi, ma è anche vero che dire che una cosa è ciò che è solo in relazione a ciò che essa non è, significa, in un certo senso, dire che è ciò che è in relazione a ciò che è altro da essa. Si vuol precisare che, in questo scritto, parlando di alterità si fa riferimento all’altro nel senso più generale del termine. Altro può significare anche diverso, e quando viene tirata in ballo la diversità, inevitabilmente si è portati a pensare a coloro che appartengono a una cultura differente o che abbracciano un’altra religione; ed è da sottolineare che queste, tra l’altro, sono tematiche all’ordine del giorno nei dibattiti tra intellettuali e anche nel mondo politico poiché viviamo in società sempre più complesse e in un mondo sempre più globalizzato. Diviene allora necessaria una puntualizzazione – per sgomberare il campo da possibili fraintendimenti – ovvero, che nel presente testo non si sta parlando di alterità in questo senso ma, come detto sopra, ci si riferisce al concetto di alterità nella concezione più ampia possibile del termine; l’altro dunque è da intendersi molto generalmente come l’altro uomo (senza nessun tipo di implicazione o riferimento etnici, culturali, religiosi e così via).
Riguardo la tematizzazione dell’alterità, si potrebbe sostenere che da un punto di vista filosofico, l’epoca moderna (nonostante non ne misconosca l’esistenza) sia tendenzialmente caratterizzata dal desiderio da parte del soggetto conoscente, se non di eliminare, quanto meno di neutralizzare ciò che si presenta come altro rispetto all’io, attraverso la sua riconduzione alle categorie conoscitive del soggetto stesso. L’idealismo tedesco può essere considerato in questo senso emblematico. Tutta la filosofia hegeliana, per esempio, è basata sull’idea di un movimento dialettico che supera la contraddizione generata da ciò che si oppone all’io (e che lo limita). Va detto, per precisione espositiva, che la sintesi hegeliana che supera la contraddizione non equivale alla sua totale cancellazione; però Hegel dice anche chiaramente che la negazione e l’assimilazione dell’alterità sono necessarie all’autocoscienza, alla certezza di sé.8 Tuttavia se si prova ad andare oltre rispetto a ciò che la filosofia idealista di primo acchito sembra affermare, prendendo da essa le distanze ma cercando allo stesso tempo di darne una lettura ulteriore e di coglierne le possibili implicazioni, si potrebbe dire che a partire da questo modo di considerare la realtà si evince, paradossalmente, che è proprio nell’opposizione a qualcosa che è altro da sé che l’io riesce a cogliersi come tale; se non ci fosse qualcosa d’altro l’io non potrebbe avere coscienza di sé. Al di là delle speculazioni sull’essenza delle cose, è chiaro che in queste riflessioni torni l’eco della filosofia eraclitea dei contrari per cui, se si vuol provare a dire cos’è una cosa in concreto, è possibile farlo sempre e solo in riferimento a ciò che non è, a ciò che è altro da essa: una cosa è ciò che è sempre e solo rispetto a qualcos’altro che da essa si distingue.
Ma mettendo da parte il discorso sulle cose in generale e passando a considerare ciò che in questo contesto interessa maggiormente, cioè analizzando nello specifico la questione dell’identità personale, si può capire cosa significhi in concreto quanto appena detto. La questione identitaria concerne la domanda «chi sono io?». Trovare una risposta non è semplice. Si potrebbe rispondere generalmente «io sono un essere umano», anche se, in questo caso, non si starebbe ancora dando un’indicazione relativa all’identità personale ma, al massimo, all’identità di specie, come direbbe Aristotele. Si potrebbe proporre un’altra risposta e tirare in ballo elementi identificativi come il nome e il cognome ma, nemmeno in questo caso, si direbbe qualcosa di decisivo. Sarebbe possibile allora fare riferimento alle relazioni interpersonali come quelle di genitorialità, di filiazione, di fratellanza, etc.; potrebbero essere considerati anche i ruoli sociali, come l’attività lavorativa e così via. Si può notare che procedendo in questo modo, l’identità personale pian piano inizia a prendere forma; in fondo tutti gli elementi menzionati concorrono a definirla. Ma allora ci si rende conto che per rispondere alla domanda identitaria non si può prescindere dal riferimento all’alterità, l’identità è sempre relazione ad altro da sé, è sempre, in qualche modo, oppositiva: l’io è io sempre e solo in relazione a un non-io (per seguire la terminologia fichtiana e utilizzare un linguaggio congeniale agli idealisti). Se non ci fosse un altro che mi si oppone e rispetto al quale mi colgo in una certa relazione, io non sarei un io, non avrei coscienza di ciò che sono e non avrei coscienza nemmeno del fatto stesso di essere un io, di avere un’identità.
Facendo un balzo in avanti e passando dall’età moderna a quella contemporanea, un riferimento imprescindibile quando si affronta questo discorso è quello al personalismo, perché si tratta della filosofia in cui troviamo formulata nel modo più inequivocabile l’affermazione della priorità dell’altro rispetto all’io e in cui l’altro viene indubitabilmente identificato col tu, quindi con l’altro uomo e non, in senso più ampio, col mondo – alla maniera degli idealisti.9 L’altro – il tu – quindi non è più, in questa prospettiva, identificato col non-io ma con un altro – o gli altri – io. Emmanuel Mounier, dichiara esplicitamente che «il tu viene prima dell’io»10 e aggiunge anche che «io esisto soltanto nella misura in cui esisto per gli altri»,11 dunque pone un elemento ulteriore segnalando anche la fondamentale importanza – si potrebbe quasi dire, la necessità – del riconoscimento (altrui) come elemento che concorre alla costituzione dell’io. Per inciso, se è valido quanto detto finora, diventa inevitabile prendere le distanze dal cogito cartesiano, perché forse non è così vero che la prima certezza, l’unica cosa di cui non posso dubitare, è la mia esistenza – «cogito ergo sum».12
Ad ogni modo, nella storia del pensiero contemporaneo, la filosofia che forse più di ogni altra ha messo al centro della sua speculazione la figura dell’altro, riconoscendole un valore letteralmente infinito e dandone inoltre una lettura assolutamente originale, è quella di Emmanuel Lévinas. È Lévinas a sottolineare che, per lo più, la filosofia occidentale è caratterizzata dalla volontà di potenza (prendendo in prestito un’espressione chiaramente nietzscheana) dell’io, il quale ha sin da sempre manifestato un desiderio di comprensione assoluta, anche di ciò che di per sé non può essere compreso, che si traduce in una storia di distruzione della trascendenza e si concretizza nello sforzo di ridurre l’Altro al Medesimo, in quanto ciò che è altro è vissuto come una limitazione alla volontà di potenza dell’io. La filosofia ha perseguito questo obiettivo rimanendo nel campo della speculazione e della teoresi, in accordo alla natura teorica della sua essenza. Sono state poi la scienza e la tecnica ad effettuare il salto dalla teoria alla pratica, nella volontà di riportare gli eventi ad aride leggi scientifiche e nel tentativo di piegare l’esistente agli scopi umani attraverso la riduzione di tutto ciò che è altro a mero strumento. Ma c’è un qualcosa, dice Lévinas, che è altro in senso assoluto, l’Autrui con la “a” maiuscola, che per sua natura resiste ad ogni tentativo di riduzione, perché l’Autrui non si manifesta come un altro tra gli altri, ma come volto.
L’io, attraverso il sapere, riconosce come il Medesimo, come riducibile al Medesimo, ciò che di primo acchito sembrava Altro. Sono responsabile d’altri, rispondo d’altri. Il tema principale, la mia definizione fondamentale, è che l’altro uomo, che di primo acchito fa parte di un insieme che tutto sommato mi è dato, come gli altri oggetti, come l’insieme del mondo, come lo spettacolo del mondo, l’altro uomo emerge in un certo modo da tale insieme precisamente con la sua apparizione come volto. Il volto non è semplicemente una forma plastica, ma è subito un impegno per me, un appello a me, un ordine per me di trovarmi al suo servizio. Non solamente di quel volto, ma dell’altra persona che in quel volto mi appare contemporaneamente in tutta la sua nudità, senza mezzi, senza nulla che la protegga, nella sua semplicità, e nello stesso tempo come il luogo dove mi si ordina.13
Il volto è il tratto distintivo di ogni uomo, non è possibile ricondurlo ad un medesimo, non esistono al mondo due volti uguali; il volto è ciò che permette di riconoscere l’altro come identità, come alterità. Ma, paradossalmente, è in rapporto a questo Altro che non si lascia ridurre al medesimo, è in rapporto al fallimento della volontà di potenza dell’io, che l’io si coglie come tale; nell’incontro col volto dell’altro l’io si costituisce a livello identitario come colui che è responsabile nei suoi confronti. Lévinas sottolinea a più riprese che questo rapporto di responsabilità è assolutamente asimmetrico in quanto si tratta di una relazione etica e nell’etica regna la gratuità e non si deve pretendere reciprocità, altrimenti non si parlerebbe più di etica ma di interesse o di rapporto di scambio.
Ma, se si è in questo incontro d’altri che provo a descrivere, non si è mai colui che comprende la sua relazione ad altri come reciproca. Se si dice: «Sono responsabile per lui, ma anche lui è responsabile nei miei riguardi», in tal caso, si trasforma la propria responsabilità iniziale in commercio, in scambio, in uguaglianza. […] L’asimmetria, è in primo luogo il fatto che la mia relazione nei confronti di me stesso e le mie obbligazioni come io stesso le intendo non sono immediatamente in un rapporto tra due pari, dove altri è sempre supposto essere io stesso. Io stesso, sono prima di tutto l’obbligato, e lui, è prima di tutto colui nei confronti del quale sono obbligato. Non è affatto uno smarrimento, è la modalità essenziale dell’incontro con altri.14
La filosofia di Lévinas è totalmente connotata da questo forte orientamento etico che ben si accorda con la spiritualità giudaica. Probabilmente anche il contesto storico ha avuto un peso decisivo perché il dramma della Shoah rendeva ancora più urgente il bisogno, soprattutto per un ebreo, di affermare il valore infinito di ogni essere umano e l’assurdità morale ma anche logica della pretesa di sottoporre l’Autrui a quello stesso processo di riduzione al Medesimo a cui sono soggette le cose. Ma, al di là di queste considerazioni addizionali, ciò che ci si potrebbe chiedere a questo punto è: che rapporto c’è tra una filosofia di questo tipo e la situazione del presente? Qual è il modo attuale di pensare all’altro, laddove l’altro è colui da cui stare a distanza, da cui proteggersi, un potenziale untore? Che ne è dell’apertura e del valore infinito del volto dell’altro, considerando inoltre – ironia della sorte – che questa esperienza originaria dell’incontro col volto altrui è negata da una mascherina che lo nasconde? Qual è l’effetto dell’azione dei mass media e dei cosiddetti spot sociali che ripetono incessantemente quale sia il comportamento da adottare per evitare il più possibile i contatti con gli altri considerati come un potenziale pericolo? È inevitabile chiedersi se tutto questo possa aver lasciato un segno indelebile, se darà vita a nuovi timori – magari solo inconsci – oppure se c’è motivo di pensare che quando questa emergenza sarà passata tornerà tutto esattamente come prima, come se nulla fosse accaduto. Non verranno qui effettuati tentativi di risposta, queste questioni vengono volutamente lasciate aperte. L’unica considerazione che si vuol fare è la seguente: di fronte a una crisi di grave portata e di grandi dimensioni, possono in un attimo essere messi da parte principi culturali e valori etici considerati certi, acquisiti, indubitabili, e può essere necessario adottare atteggiamenti che fino a poco tempo prima apparivano non solo impensabili ma anche irragionevoli, e la possibilità di interiorizzare certi comportamenti, se ripetuti nel tempo, non è affatto remota, perché «gli esseri umani sono creature abitudinarie».15 Questo significa che, in realtà, niente può essere dato per scontato: solo se ogni conquista culturale viene sempre riconosciuta come tale si può essere consapevoli dei rischi a cui perennemente si è esposti.
3. Il problema del senso
È allora tempo di passare alla seconda e ultima parte di questa analisi, e cioè quella che concerne il problema del senso. Quella del senso è una questione tipicamente filosofica. La filosofia è una disciplina antichissima la cui nascita risale a circa 2700 anni fa e coincide col momento in cui l’uomo storicamente ha raggiunto un livello di civiltà e di sviluppo materiale tali da permettergli di staccarsi dalla mera contingenza e di interrogarsi sul senso del mondo che lo circondava e sul senso della sua stessa esistenza. Se l’uomo sin da sempre ha avuto l’esigenza di porsi la questione del senso, si può dedurre che quello del senso sia un bisogno antropologico, e il fatto che ancora oggi, a distanza di molti secoli e nonostante l’enormità del progresso tecnico e scientifico e le profonde diversità culturali e sociali, gli uomini continuino ancora a farsi le stesse domande e abbiano ancora disperatamente bisogno di attribuire un senso agli eventi che vivono in prima persona o di cui sono semplicemente testimoni, non fa altro che confermare questo dato.
La capacità di domanda è tipicamente umana.16 Solo l’uomo è in grado di porsi delle domande perché, si potrebbe dire, solo l’uomo è in grado di ragionare: l’uomo è l’animale razionale, come dice Aristotele. Ma, si potrebbe anche dire che l’uomo è l’animale razionale perché è l’unico animale che è riuscito a sviluppare la capacità di parlare. È innegabile che razionalità e linguaggio siano due facoltà che quasi si sovrappongono perché il ragionamento non è possibile se non attraverso il linguaggio: se è vero che l’uomo è in grado di parlare perché possiede la facoltà raziocinante, è anche vero il contrario, e cioè che è in grado di ragionare solo perché conosce un linguaggio attraverso il quale formulare i suoi ragionamenti. Volendo effettuare un collegamento con la questione affrontata nel paragrafo precedente di questo scritto, cioè quella relativa al rapporto tra l’io e il tu, si potrebbe dire che anche il fatto che tutti gli uomini possiedano la facoltà di parlare è una conferma ulteriore della precedenza del tu sull’io. Nessuno di noi, anche se ha sempre necessariamente questa capacità in potenza – per usare una terminologia aristotelica – svilupperebbe l’abilità di parlare se non ci fosse l’altro da cui imparare un linguaggio. «Ci troviamo già situati nelle nostre forme di vita linguisticamente strutturate»,17 come dice Jürgen Habermas, nasciamo inevitabilmente in un contesto linguistico e inevitabilmente impariamo a parlare e, per inciso, imparando a parlare impariamo anche a ragionare. Acquisiamo le facoltà che ci caratterizzano essenzialmente e siamo quello che siamo grazie al rapporto con l’altro. Ecco in che senso si diceva poc’anzi che queste osservazioni vanno a suffragare la tesi della priorità del tu sull’io.
Ad ogni modo, chiudendo questa parentesi e riprendendo il discorso sulla domanda di senso, la questione che qui si vuole mettere in rilievo è che, se è vero che il bisogno di senso è un bisogno antropologico, è anche vero che questo bisogno si fa ancora più forte di fronte alle esperienze dolorose, di fronte alla sofferenza. Quello del dolore è un tema che si presta ad essere trattato da un punto di vista filosofico ma anche religioso, ed è proprio da un riferimento alle Sacre Scritture che si vuol partire (poco a poco risulterà chiaro il perché). A livello di senso comune il dolore viene visto come qualcosa su cui grava un’impronta morale; una logica molto diffusa, quando si parla di sofferenza, è quella della giustizia retributiva. Il dolore, il male, la sofferenza vengono spesso ritenuti ingiusti soprattutto se a nostro giudizio chi li patisce è una “brava” persona, insomma, qualcuno che non meritava ciò che gli è capitato. Questa concezione denuncia la convinzione sottintesa per cui la sofferenza è comunemente considerata una sorta di punizione. E l’origine di questa idea è rintracciabile nel libro della Genesi, nel passo in cui Adamo ed Eva, disobbedendo al comandamento divino, mangiano il frutto dell’albero della conoscenza. Quando Dio interviene per rimproverare e sanzionare il comportamento sbagliato dei nostri progenitori, lo fa dicendo all’uomo che da quel momento in poi per mangiare avrebbe dovuto versare il sudore della fronte e alla donna che avrebbe partorito con dolore.18 È evidente che il dolore è un concetto, o un’entità, che fa la sua comparsa nelle Sacre Scritture come sinonimo di punizione – come ciò che segue ad un comportamento sbagliato. Essendo immersi in un contesto culturale che ha radici profondamente cristiane, nonostante il processo di secolarizzazione e di laicizzazione della società, siamo fortemente influenzati da questa concezione biblica del dolore anche se, il più delle volte, in maniera inconsapevole.
Tuttavia nella Bibbia è presente anche un altro testo emblematico in tema di sofferenza a cui si può e si deve fare riferimento, e si tratta del Libro di Giobbe, un libro che proprio per la materia trattata è particolarmente amato dai filosofi, i quali non si sono risparmiati dedicandogli molteplici studi e commenti, e che offre una prospettiva per certi versi diversa rispetto a quella della Genesi. Giobbe è un uomo pio che vive felicemente e in prosperità ma improvvisamente una serie di sciagure si abbatte su di lui, prima cade in disgrazia e perde tutti i suoi averi, poi perde i suoi figli e infine si ammala. Giobbe inizialmente sopporta con pazienza ciò che gli capita ma poi, sfinito dalla sofferenza che la malattia gli provoca non ce la fa più, cede e si arrabbia con Dio. Nel libro appaiono a più riprese i suoi amici che non fanno altro che ammonirlo dicendogli che, se Dio aveva deciso di mandargli quelle disgrazie, probabilmente Giobbe aveva fatto qualcosa per meritarsele anche se non riusciva a rendersene conto, e questi commenti hanno l’effetto di farlo infuriare ulteriormente. Alla fine Dio interviene rimproverando aspramente gli amici di Giobbe perché anziché sostenerlo lo avevano biasimato; Dio prende le parti di Giobbe, del giusto sofferente, e lo ristabilisce restituendogli ciò che gli aveva tolto consentendogli, da quel momento in poi, di tornare a condurre una vita serena.19 Il significato di un simile epilogo può essere spiegato in questo modo: il dolore non è inutile e non è gratuito; tuttavia Dio non dà a Giobbe alcuna spiegazione circa la sua natura e il suo perché. Dunque, il messaggio sotteso nel libro di Giobbe è che nel dolore c’è sicuramente un senso, il quale però rimane incomprensibile per l’essere umano, che non può far altro che rimettersi a Dio. La motivazione della reazione rabbiosa di Giobbe è da ravvisarsi nel fatto che egli non sopporta le circostanze dolorose in cui si trova perché non riesce a darsi una spiegazione. Questo testo ci permette di cogliere un dato antropologico fondamentale: l’essere umano è in grado di farsi carico di un’esperienza dolorosa solo se riesce ad attribuirle un senso.
Non c’è un modo univoco di attribuire un senso a una vicenda dolorosa, le possibilità di senso sono molteplici e ogni individuo trova la sua in un modo assolutamente personale. In questo processo sicuramente giocano un ruolo importante le convinzioni etiche, filosofiche e/o religiose. La religione cristiana ad esempio ha da sempre considerato il dolore come una sorta di privilegio, come la via d’accesso per l’avvicinamento a Cristo. La vicenda della passione di Cristo rappresenta l’archetipo dell’esperienza dolorosa, la sofferenza per antonomasia, e il suo sacrificio è, nell’ottica di un credente, il mezzo attraverso il quale egli ha salvato l’umanità rimettendo agli uomini i loro peccati e permettendo loro di riconciliarsi col Padre; di conseguenza per il cristiano la sofferenza assume un valore decisivo.20 Nessun dolore potrà mai eguagliare quello di Cristo ma, in ogni caso, tale esperienza permette all’uomo di avvicinarsi, per quanto possibile, alla sua condizione. Si è voluto fare questo esempio per indicare una delle tante vie percorribili per attribuire un senso alla sofferenza – quella appena descritta, ovviamente, è sostenibile solo a partire da una salda fede cristiana.
Da un punto di vista più strettamente filosofico si possono fare considerazioni di ordine differente. La sofferenza non solo è individuale, ma anche individualizzante, fa emergere con evidenza la propria insostituibilità e quindi anche la propria individualità: non si può essere sostituiti nella sofferenza così come non si può essere sostituiti nella morte. Da questa osservazione ne segue quindi un’altra: tra dolore e morte esiste un legame molto stretto, non si è sostituibili nel dolore perché il dolore è un’anticipazione di morte, che è in questo modo preannunciata ogni giorno nel cuore della stessa vita come sottrazione di vita. Il dolore, restringendo le possibilità di vita, approssima alla fine dando sentore di essa. Il dolore è morire vivendo: nel dolore la morte e la vita, che sono entità dicotomiche, trovano una possibilità di coesistenza. Come la morte inoltre, il dolore non è scelto ma assegnato. Per tutti questi motivi, quella del dolore è un’esperienza unica nel suo genere, che non ha termini di paragone, condiziona in toto chi la vive, incide in modo determinante sulla valutazione della realtà, dà una diversa orientazione all’interno dell’esistenza.21
Anche se all’uomo il dolore pare un evento estraneo, in realtà esso è il marchio della sua stessa umanità; la possibilità del dolore trova fondamento nella natura sensibile dell’essere umano. La sofferenza coincide con l’esperienza del proprio limite e ci mantiene aperti sul limite. Essendo l’esperienza del dolore radicata nella nostra finitudine, ci tiene sospesi nel nulla: nel dolore si coglie l’eventualità dell’esistenza che noi stessi siamo e dunque la precarietà del nostro stare al mondo. Come Martin Heidegger insegna, è proprio in questo sentimento di angoscia che si fa esperienza dell’eventualità dell’essere e si considera tutto l’esistente nella luce dell’evento.22 In questa esperienza l’uomo è portato a considerare se stesso come nulla più che una porzione del divenire, come un segmento dell’universale e materiale vicenda di tutto ciò che è. Il dolore, comprimendoci sul limite, ci mette in rapporto con la totalità e ci consente di aprire un rapporto privilegiato col senso del tutto. In questa esperienza l’individuo si rende estraneo a ciò che è comune: l’interrogazione non è omologabile alla chiacchiera;23 il dolore separa dal mondo del per lo più. Il dolore, pur essendo nel suo profilo essenziale solo di chi soffre, pone un’interrogazione che pesa sul significato dell’esperienza di tutti; in questa meditazione l’essere umano è indotto a passare da una riflessione sulla sua particolare situazione dolorosa a una considerazione del dolore per sé, proiettandosi nella sofferenza totale. Il dolore è ciò che si prova e che mette alla prova, mette alla prova perché è una sfida alla vita: fino a che punto si può reggere tale prova? Da qui all’interrogazione sul senso del dolore in generale il passo è breve; la domanda si fa sempre più ontologica, nell’esperienza singolare del dolore matura la domanda più radicale sull’essere. È ancora Heidegger ad indicare che è proprio nei momenti di profonda disperazione, quando la consistenza delle cose sembra venir meno e ogni significato oscurarsi, che torna la domanda metafisica per eccellenza: perché l’essere piuttosto che il nulla?24
Alla luce di quanto detto in questo paragrafo, cosa si può dire relativamente alla pandemia da Coronavirus? È possibile individuare un senso in tutto questo? Indubbiamente la situazione drammatica che il mondo intero da qualche mese a questa parte sta vivendo costringe a pensare a cose su cui difficilmente si riflette in situazioni normali. La paura di ammalarsi, la paura di morire, il senso di insicurezza, di impotenza, di fragilità e la sofferenza psicologica che ne consegue ci schiacciano e, come si diceva poc’anzi, ci mettono di fronte all’eventualità del mondo e all’eventualità che noi stessi siamo. Quando la possibilità della morte si fa concreta l’interrogazione scatta. La filosofia non esisterebbe e l’uomo non avrebbe mai sentito il bisogno di farsi delle domande se la sua esistenza fosse stata eterna; è proprio la certezza di una fine che fa sentire la necessità di attribuire un senso alla propria vicenda, la nostra essenza è quella di essere-per-la-morte – heideggerianamente parlando.25 Ma questa verità è stata sapientemente rimossa26 dall’uomo moderno perché è troppo assorbito dalla contingenza – oppure semplicemente la maggior parte degli individui non si pone questo problema considerando la fine ancora lontana. La scienza e la tecnica contribuiscono molto a questo processo di occultamento;27 per esempio la medicina, attraverso la messa a punto di tecniche sempre più avanzate anche se eticamente discutibili, è sempre più in grado di manipolare la vita umana opponendosi al naturale corso delle cose. Uno dei temi caldi del dibattito bioetico corrente è, in questo senso, quello dell’accanimento terapeutico, che è una pratica medica che va ben oltre il concetto di cura: attraverso azioni di accanimento è possibile tenere in vita artificialmente organismi che non sono più in grado di espletare autonomamente alcuna funzione vitale.28 Tuttavia per quanto, grazie allo sforzo umano, i miglioramenti della tecnica possano essere grandi, il dato essenziale della caducità dell’esistente in generale e della finitudine umana in particolare non potrà mai essere cancellato; può forse essere dissimulato, ma eliminarlo non è possibile. E allora è proprio in un momento storico come questo che forse tale verità può riemergere ed imporsi in tutta la sua evidenza, perché è nell’esperienza del limite che si apre un rapporto privilegiato col senso del tutto e che l’uomo può cogliere la sua vera essenza. Per concludere questa disamina circa la possibilità di rintracciare un senso nella situazione del presente, si può dire che quella appena descritta vuole rappresentare una proposta.
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Cfr. Umberto Galimberti, «Avevamo rimosso il senso della morte, il virus ci costringe a doverlo ritrovare», Il corriere del Veneto, 5 aprile 2020, disponibile all’indirizzo https://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/cronaca/20_aprile_05/avevamo-rimossoil-senso-morteil-virus-ci-costringea-doverlo-ritrovare-5e6c48a2-7728-11ea-9f8b-2d610433a11a.shtml. ↩︎
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Cfr. Benjamin Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Einaudi, Torino 2005. ↩︎
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A qualunque costo. Ho ripreso questa espressione divenuta celebre perché usata da Mario Draghi il 26 luglio 2012, quando dichiarò che la BCE avrebbe fatto qualunque sforzo pur di difendere l’euro dalla crisi economica. Tra l’altro, dal 23 giugno del 2020, questa locuzione ha ottenuto il riconoscimento dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana diventando a tutti gli effetti un neologismo. Si veda https://www.treccani.it/vocabolario/whatever-it-takes_%28Neologismi%29/. ↩︎
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Carl Schmitt, Teologia Politica, in Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 2012, p. 33. ↩︎
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Cfr. Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, Roma-Bari, 2009, pp. 13-54. ↩︎
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In questa linea di pensiero possono essere ravvisate delle analogie con quella summenzionata di Galimberti. Per approfondimenti cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2011. ↩︎
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«Perciò sono incline a considerare l’adattamento […] come una qualità che si sposa facilmente a un’innata, ampia flessibilità di costituzione comune a molti animali». Charles Darwin, L’origine della specie, Rizzoli, Milano 2009, p. 195. ↩︎
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Viene ripresa qui l’interpretazione della filosofia hegeliana di Jacques Derrida. Per approfondimenti cfr. J. Derrida, Violenza e Metafisica, in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, pp. 138 e sgg. ↩︎
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È interessante notare, a tal proposito, che nella Fenomenologia dello spirito Hegel non usa la parola «uomo» nemmeno quando parla della dialettica Signore-Servo, privando in questo modo il suo discorso di qualsiasi riferimento antropologico. Per approfondimenti si rimanda a J. Derrida, Violenza e Metafisica, p. 164. ↩︎
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Emmanuel Mounier, Il personalismo, ed. A.V.E., Roma 1978, p. 49. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Cfr. Cartesio, Meditazioni metafisiche, Armando Editore, Roma 1996, p. 67. ↩︎
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Emmanuel Lévinas, «L’asimmetria del volto. Un’intervista», a cura di Joëlle Hansel, in Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia: ISSN 1128-5478, https://mondodomani.org/dialegesthai/articoli/emmanuel-levinas-01. ↩︎
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E. Lévinas, «L’asimmetria del volto. Un’intervista», cfr. nota precedente. Notiamo che Lévinas in questo modo prende chiaramente le distanze dalla concezione per cui tra l’io e il tu ci sarebbe un rapporto di reciprocità – «Sono responsabile per lui ma anche lui è responsabile nei miei riguardi» – quale quella di Martin Buber. Per un confronto tra Buber e Lévinas circa il concetto di responsabilità si rinvia a Francesco Miano, La responsabilità per l’altro. Martin Buber e Emmanuel Lévinas, Guida, Napoli 2009, pp. 87-109, consultabile a questo indirizzo: https://www.chiesadinapoli.it/laicato/wp-content/uploads/sites/4/2020/01/Responsabilit%C3%A0-5.pdf. ↩︎
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Alva Noë, Perché non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza, Cortina, Milano 2009, p. 101. ↩︎
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Paradossalmente anche la filosofia heideggeriana si basa su questo assunto. Nonostante Heidegger denunci la metafisica occidentale in quanto storia della riduzione dell’essere all’ente e affermi la necessità di rimettere al centro del pensiero filosofico l’essere in quanto tale, non può evitare di dire che la domanda sull’essere può essere posta solo perché c’è l’esser-ci, l’essere umano, che è capace di farsela. Cfr. Martin Heidegger, Essere e Tempo, Mondadori, Milano 2015, pp. 15-27. ↩︎
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Jürgen Habermas, ed. or. Faktizität und Geltung, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1992, p. 11. Per l’edizione italiana si rimanda a Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e Associati, Milano 1996, cfr. Prefazione. ↩︎
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Genesi, cap. 3, consultabile all’indirizzo http://www.vatican.va/archive/bible/genesis/documents/bible_genesis_it.html#Capitolo%203. ↩︎
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Per una lettura del Libro di Giobbe si rimanda a http://www.lachiesa.it/bibbia.php?ricerca=citazione&Citazione=gb&Versione_CEI2008=3&VersettoOn=1&Cerca=Cerca. ↩︎
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Basti pensare alla pratica molto diffusa, soprattutto tra i mistici del medioevo, della flagellazione. ↩︎
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Per un approfondimento di questi temi si rimanda all’eccellente trattazione di Salvatore Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 16-30. ↩︎
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Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2015, pp. 264 e sgg. ↩︎
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Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, Mondadori, Milano 2015, pp. 241-44. ↩︎
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Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1972, pp. 15 e sgg. Si veda anche S. Natoli, L’esperienza del dolore, pp. 30-33. ↩︎
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Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, Mondadori, Milano 2015, pp. 333 e sgg. ↩︎
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Per riprendere il termine adoperato da Galimberti, cfr. Supra. ↩︎
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Si veda, a tal proposito, ancora U. Galimberti, Psiche e Techne, Feltrinelli, Milano 2016. Per Galimberti la tecnica non solo non è mai neutra in quanto con la sua azione crea il mondo in cui ci troviamo ad abitare, ma ha anche la peculiarità di non tendere a uno scopo, di non promuovere un senso, di non svelare verità: la tecnica si limita a funzionare. Da ciò deriva il disorientamento in cui si trova inevitabilmente l’uomo pre-tecnologico. ↩︎
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Sull’accanimento terapeutico si veda Francesco d’Agostino, Bioetica. Nozioni fondamentali, La Scuola, Brescia 2013, pp. 191-96, e anche CNB, Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana, 14 luglio 1995, pp. 25-36, consultabile all’indirizzo http://bioetica.governo.it/media/1909/p18_1995_fine-vita_it.pdf. ↩︎