La ricerca del senso nell’homo patiens: l’approccio antropologico nella logoterapia di Viktor Frankl

1. Dire di «sì» alla vita nonostante tutto

L’obbiettivo principale della logoterapia frankliana, conosciuta come «Terza Scuola Viennese di Psicoterapia» (cronologicamente dopo la psicoanalisi di Freud e la psicologia individuale di Adler), e per il quale è possibile delinearla nei limiti di una filosofia dell’educazione, consiste nell’orientare l’agire umano in-vista-di un senso (logos). In altre parole, la missione della logoterapia consiste nel curare l’uomo da una sofferenza che non deriva più dalla frustrazione sessuale (Freud) o dal sentimento d’inferiorità (Adler), quanto piuttosto da un vuoto esistenziale causato dalla mancanza di significato nella vita. Viktor Frankl colse perspicacemente la gravità della nuova sfida dell’umanità del secondo dopoguerra, vittima di una mentalità deterministica e riduzionista: l’uomo non era più solo destituito di speranza ma anche di valori e tradizioni che lo potessero orientare. Frankl constatò come la società in cui egli viveva fosse soggetta ad una nuova nevrosi che definì «noogena», caratterizzata da conflitti morali, da problemi di coscienza, da collisioni di valori. Stando alla tesi frankliana, l’essere umano, non essendo equiparabile ad un animale con impulsi e istinti che gli indichino cosa fare, senza valori e tradizioni è in preda a tre pericoli principali: desiderare ciò che fanno gli altri (conformismo), fare ciò che gli altri desiderano o comandano (totalitarismo), oppure cadere vittima della nevrosi «noogena».1 A partire da questo scenario la logoterapia si presenta oltre che come aiuto all’umanità nei suoi momenti di difficoltà, anche come riserva valoriale da cui poter attingere. La ricerca delle modalità per poter dire il «senso» non potrebbe presentare un punto d’avvio se non a partire da una ben specifica nozione dell’Umano. Non a caso, Frankl rivendica più volte una dimensione noetica nell’uomo, ovvero spirituale, a partire dalla quale emergono i fenomeni specificamente umani, tra cui la capacità di ergersi al di sopra di un drammatico presente per mezzo del proprio atteggiamento e trasformare così una «mera condizione di vita in una conquista interiore».2 Non è un caso che la logoterapia prenda il suo nome da «logos» il quale, oltre a «significato», nel contesto frankliano vuole dire «spirito».3 A partire da questo presupposto si evince quanto la riflessione centrale del pensiero frankliano, ancora prima di essere quello della sua instancabile ricerca del senso della vita, sia piuttosto l’accurata analisi antropo-filosofica entro cui fa parte e ne consegue quella del senso come suo compimento. A partire da tale cognizione, e seguendo le fila del discorso ontologico e fenomenologico che sviluppa Frankl sull’uomo, è possibile sintetizzare quelle che possono essere definite «le quattro tesi della persona»: essere-spirituale, essere-libero-e-responsabile, essere-unico, essere-in-cerca-di-significato. La struttura filosofico-esistenzialista che intelaia l’intero pensiero frankliano dal principio fino alla fine di ogni suo testo, costituisce l’originalità della logoterapia rispetto alle tesi terapeutiche portate avanti dalla psicoanalisi classica, criticata dal logoterapeuta viennese di un dannoso meccanicismo. La tesi portata avanti da Viktor Frankl rivendica invece l’individualità e la libertà della persona. Si tratta di categorie filosofico-antropologiche che sono a fondamento dell’azione più specificamente terapeutica. Nonostante la celebrità come neurologo, psichiatra e filosofo, Viktor Frankl rimane un profilo poco noto al pubblico italiano, per cui non è inutile richiamare il complesso storico-sociale in cui egli visse, nonché delineare i fondamenti della sua scuola di analisi esistenziale. Ebreo di origine ha vissuto la sua giovinezza durante la seconda guerra mondiale, Frankl subì la deportazione in diversi campi di concentramento tra cui Auschwitz e Dachau. Da questa esperienza tragica nasce la sua più grande opera che detterà in soli sette giorni dal suo ritorno a Vienna. Si tratta di «Rotzdem Ja zum Leben sagen. Ein Psycholog erlebt das Konzentrationslager», letteralmente «Dire sì alla vita, nonostante tutto. Uno psicologo esperisce il campo di concentramento», in cui trapela in maniera commovente non un racconto pieno di crudeltà, bensì un messaggio positivo pur nella drammaticità degli eventi: vuole trasmettere al lettore che la vita trova un significato potenziale in tutte le circostanze, anche le più miserabili. Le teorie e le tecniche sviluppate da Frankl sono state applicate ed approfondite durante gli anni di deportazione, anni in cui l’uomo veniva destituito del significato, provato nella sua essenza. Durante la prigionia nei campi di concentramento si è tentato di annientare la spiritualità dell’essere umano, riducendolo a cosa e facendogli credere che a tanta assurdità non potesse esistere un significato e tantomeno Dio. La tragica esperienza del lager condusse lo psichiatra viennese a perfezionare quella disciplina terapeutica che diverrà celebre in tutto il mondo: la logoterapia.

Perspicace fu Albert Einstein nel ritenere che «colui che considera la propria vita come destituita di qualsiasi significato, non solo è infelice, ma anche incapace di vivere».4 Questa è la tesi che porta avanti la logoterapia ed è anche quella di Abraham Maslow, secondo il quale la volontà di significato è la primaria motivazione dell’uomo. Stando alle parole di Galimberti, non è più allora la terapia che salva, ma la verità, cioè non la terapia in se stessa, ma ciò che la terapia offre, il senso.5 Frankl riporta nei suoi testi, i risultati di una ricerca durata due anni, e pubblicata nella rivista psichiatrica «National Institute of Mental Health», dove vengono interrogati migliaia di studenti provenienti da quarantotto università diverse negli Stati Uniti. La statistica dimostrava che circa il 16% degli studenti vedeva come scopo da raggiungere «to make a lot of money» («fare molti soldi»), mentre un 78% mira «to find a meaning and purpose in my life»6 («trovare un significato e uno scopo nella mia vita»). Tuttavia è di fondamentale importanza non interpretare la domanda di senso come nevrosi «noogena» per non cadere in quello «psicologismo» che Frankl tanto criticherà. Una forma di psicologismo è infatti ritenere ogni malessere necessariamente una malattia da curare o, viceversa, vedere nel malato unicamente una nevrosi. Porsi la domanda sul senso della vita non è affatto una nevrosi, anzi, «preoccuparsi del significato della propria esistenza caratterizza l’uomo in quanto tale»7 per cui si vorranno avere delle risposte di fronte alla malattia o alla sofferenza fisica e morale. Il medico Richard Boudreau conferma questa tesi, ricordando che i significati sono al centro dell’esperienza umana e delle azioni quotidiane, e che sono i significati che danno un senso alla vita non rendendola inutile. Egli afferma che «gli esseri umani sono gli unici esseri che possono mettere in discussione la loro propria esistenza, la più grande ricerca nella vita dell’individuo è di trovare il significato e lo scopo alle domande riguardo il significato della vita umana».8 Come spiega giustamente Stephen Costello, filosofo e logoterapeuta, l’angoscia9 è qualcosa di ontologico. «Questo è un punto chiave» afferma, «Non è (solo) psicologico. O meglio, è più fondamentale della semplice psicologia. L’angoscia, come notano sia Kierkegaard che Heidegger, è sempre presente, anche se può essere latente (inconscio)».10 Il dramma nasce dall’incapacità di trovare un senso nella vita, e quindi, usando un’espressione kierkegaardiana, nel passare dall’angoscia alla disperazione. Lo aveva spiegato molto bene anche Paul Tillich. Egli aveva studiato il coraggio come capacità di autoaffermazione dell’essere di fronte alle varie forme che lo minacciano. L’angoscia esistenziale minaccia l’essere relativamente come «vuoto» ed universalmente come «mancanza di significato». Siccome l’angoscia è esistenziale non può essere eliminata, spiega Tillich, la si può solo prendere su di sé coraggiosamente. Chi non vi riesce, prosegue il filosofo e teologo luterano, può evitare la situazione estrema della disperazione rifugiandosi nella nevrosi.11 L’angoscia assume così un carattere bivalente: da una parte permette di aprire le porte al senso, di compiere quel salto kierkegaardiano; da un’altra parte, di fronte all’angoscia ci si può paralizzare e scegliere così il male. Traducendo in termini frankliani, dinnanzi ad un tragico presente, l’essere umano può decidere se soccombere ad esso oppure se assumere un atteggiamento capace di ergersi al di sopra di esso, decidersi per l’azione incondizionata, direbbe Jaspers. Si potrà allora essere d’accordo con Kierkegaard – il quale ha largamente affrontato il tema dell’angoscia e la cui filosofia è ben accostabile a quella frankliana – nell’affermare che l’angoscia diventa una grazia perché permette di decidersi per quel salto qualitativo verso il senso. È l’essere umano che, di fronte all’angoscia, deve farsi responsabile della decisione da prendere. Allora la sua unica preoccupazione dovrà essere quella di Dostoevskij: «spero solo di essere degno del mio dolore», e cioè di essere capace di risponderne adeguatamente. Si potrà essere d’accordo con le parole di Daniel Dei secondo il quale l’uomo rimane sempre libero, egli si può al massimo autodeterminare mediante la propria libertà.12

2. Il senso della situazione

La dottrina portante della logoterapia si radica nella convinzione dell’esistenza di un senso in qualsiasi situazione della vita. Viktor Frankl presenta tre categorie principali di valori che definisce «valori di creazione», «valori di esperienza» e «valori di atteggiamento», attraverso i quali l’uomo può trovare un significato nella vita. All’interno della prima classe di valori rientrano gli hobbies, le azioni compiute per gli altri, il lavoro. Come ricorda Joseph Fabry, scrittore austriaco-americano associato alla logoterapia e che ebbe occasione di stringere una forte amicizia con Viktor Frankl, «il lavoro amato non è mai puramente un mezzo per un fine» come guadagnare dei soldi, raggiungere un certo status o posizione. Ecco che anche il lavoro apparentemente più umile può colmarsi di significato se fatto con passione. Alcune professioni dovrebbero avere insite queste caratteristiche vocazionali più delle altre, come il lavoro del medico. Viktor Frankl trovò il senso della sua vita nell’aiutare gli altri a trovare un senso, lo trovò nella sua professione in qualità di logoterapeuta. Risulta essere assai dannoso per la società quando tali caratteristiche vocazionali vengono meno. Diversamente da quanto accade nei valori di creazione – in cui l’uomo offre qualcosa e quindi il cui senso si trova nella partecipazione attiva – le esperienze danno all’uomo un senso attraverso la ricezione. Si parla dunque di valori di esperienza. Frankl ricorda come la sua giornata fu riempita di significato nel vedere il tramonto al di là del filo spinato del lager.13 Si trattava di un’esperienza di bellezza. «Ecco che un istante» scrive Frankl, «può influire retroattivamente in una vita intera caricandola di senso». Questa esperienza la si può sperimentare nell’ascoltare un brano musicale che piace tanto14 e, in sommo grado, la si sperimenta nell’amore dove l’amato dice «tu e nessun altro».15 Si può dire che, mentre nei valori di creazione l’uomo dà al mondo qualcosa, nei valori di esperienza si riceve dal mondo qualche cosa. I valori di creazione e di esperienza non sono però sufficienti da soli a realizzare il significato dell’uomo in tutte le sfaccettature dell’esistenza. Nella vita infatti non sempre si è capaci di dare al mondo qualcosa in qualità di «capacità creative», e non sempre si è in condizione di prendere dal mondo per mezzo dei valori di esperienza. Basti pensare ai malati costretti a trascorrere le giornate su un letto ospedaliero o ai carcerati, ai quali è impedita ogni relazione col mondo esterno. È in tutte le situazioni tracciate dalla sofferenza, dalla colpa e dalla morte, che il senso può essere trovato in una terza dimensione, quella del comportamento umano. Come disse anche Nietzsche, «non era il dolore in sé il suo problema, ma la mancanza di risposta al grido: “perché soffrire?”».16 La persona può trovare un senso al fine di poter affrontare il suo dolore con coraggio e dignità ed essere così esempio per gli altri. L’episodio di san Massimiliano Kolbe, sacerdote internato nel lager e che offrì la sua vita in cambio di quella di un padre di famiglia, concretizza alla perfezione le parole di Fabry: l’uomo può diventare «un esempio per gli altri nella stessa pena, trasformando la sofferenza in una realizzazione suprema dello spirito umano, per amore di qualcuno o per una causa».17 Ciò non vuol dire nascondere la situazione di sofferenza, non dar spazio alla tristezza; anzi, così si espresse Frankl: «Non c’era da vergognarsi: le lacrime erano la garanzia di avere il coraggio più grande, il coraggio di soffrire!».18 È necessario però trasformare le lacrime di sconfitta in lacrime di vittoria e di coraggio, pur rimanendo lacrime di dolore. Per cui si potrà esortare: pati aude, abbi l’ardire di soffrire!.19

3. Il «noos» dell’essere umano

Al pari della fenomenologia ermeneutica di Heidegger, Frankl è consapevole del connaturato legame fra corpo e sintomo patologico: così come il sintomo è il linguaggio attraverso il quale il corpo si esprime, la salute rappresenta un’altra forma di linguaggio che deve essere interpretato al fine di comprenderne l’esperienza. Tuttavia Frankl è in guardia dal confondere il sintomo con il paziente, la malattia con il malato. Non si deve rischiare di cadere in quella forma di psicologismo per cui l’uomo viene visto come un mero insieme di ingranaggi psicologici, biologici o sociali. Ciò significherebbe adottare, così come veniva definita dallo psicoanalista Franz Alexander, una «mentalità da idraulico» che, cioè, «ripara» l’uomo come se si trattasse di un rubinetto guasto.20 A differenza da quanto sostenuto dalle psicologie classiche, la logoterapia, pur tenendo conto delle fragilità psico-fisiche, non si sofferma sulla parte malata della persona, piuttosto si concentra sulla parte sana del paziente, per cui si può affermare, citando Paolo Danza,21 che «la logoterapia è una visione positiva del mondo».22 Frankl attua una divisione fra psichico, fisico e noetico, ed è quest’ultima che rimane la parte sana del malato. Tale suddivisione è fondamentale sia per la pratica psicologica che per il counseling filosofico.23 La parte sana del malato consiste nella dimensione «noetica» o spirituale che solo gli esseri umani possiedono, per cui si rende possibile l’azione libera e responsabile, la decisionalità e l’esistenza come essere-in-cerca-di-senso. La ben definita concezione antropologica su qui si poggia la logoterapia, riconosce una tripartizione dimensionale della persona in cui fanno parte l’aspetto somatico, psichico e spirituale (o noetica), secondo l’insegnamento della fenomenologia di Husserl. Mentre la dimensione somatica fa riferimento alla realtà corporea dell’esistenza, e la dimensione psichica corrisponde all’intero apparato mentale e psicologico di un individuo, a quella noetica appartengono i fenomeni esclusivamente umani, come l’amore, la coscienza, la scoperta e il compimento di significazioni, così come li cita Fabry.24 Fa parte dell’esclusività umana, e quindi del noos umano, la libertà di atteggiamento di fronte ad una situazione, direbbe Frankl di «libertà di volontà»,25 ovvero la libertà della forza di volontà di porsi al di sopra di una situazione di sofferenza e di trascenderla. Solo l’uomo è capace di questo, perché possiede un noos, citando ancora una volta Faby, egli è noos, a differenza degli animali che hanno solo un corpo, impulsi e necessità ma sono privi di noos.26 La dimensione noetica non è determinata o condizionata da meccanismi fisici o psicologici, a differenza del corpo e della psiche che sono dipendenti da tali determinismi. La Brencio definisce tale dimensione una «zona meta-somatica e meta-psichica unicamente umana».27 Frankl usa il termine noos per evitare confusione con la connotazione religiosa che in tedesco prende il nome di Gesit (spirito o spirit in inglese). Si può dire, come sostiene Fabry, che «il noos di un individuo siano le sue impronte digitali spirituali».28 Corpo, mente e spirito non costituiscono per Frankl le parti che fanno dell’uomo un composto. L’essere umano è piuttosto un’unità di queste tre dimensioni, per cui Frankl parlerà di tridimensionalità umana a partire da quelle che lui ha sviluppato e definito come le due leggi dell’ontologia dimensionale. La prima dice:

Un solo ed identico fenomeno, proiettato al di fuori delle sue dimensioni in altre dimensioni inferiori alle sue, dà origine a figure diverse in netto contrasto tra loro.29

Se si fa l’esempio di un cilindro proiettato dal suo ambito tridimensionale sul piano laterale e in quello di base, si otterrà nel primo un rettangolo, nel secondo un cerchio. Applicando l’esempio all’uomo, si può notare come, privato della dimensione specificamente umana e proiettato sul piano della biologia e della psicologia, l’uomo lascia apparire due diverse e contrastanti immagini di sé. Sul piano biologico si avrà la proiezione dei fenomeni somatici, mentre la proiezione sul piano psicologico metterà in luce i fenomeni psichici. Questa opposizione però non nuoce all’unità dell’uomo, come il contrasto tra il rettangolo ed il cerchio non contraddice che siano proiezioni dello stesso oggetto, cioè del cilindro.

La seconda legge asserisce:

Differenti fenomeni, proiettati al di fuori della propria dimensione in una stessa dimensione inferiore alla propria, danno origine a figure che appaiono ambigue.30

È il caso di un cilindro, un cono ed una sfera le cui proiezioni nel piano di base risultano un cerchio per tutti e tre i casi. Presa la singola proiezione sarà impossibile affermare a quale immagine essa appartenga. Al fine di concretizzare il suo pensiero, alle immagine geometriche Frankl prende in considerazione i casi di Dostoevskij e di Bernadette Soubirous. Egli conclude: «Proiettandoli nel piano psicologico, lo psichiatra vedrà in Dostoevskij solo un epilettico qualsiasi ed in Bernadette una isterica con allucinazioni visionarie. Non c’è altro da vedere dal punto di vista psichiatrico. Un tale ambito non coglie la prestazione artistica dell’uno, e tanto meno la vicenda religiosa dell’altra. Nel piano psichiatrico ogni fenomeno resta ambiguo, a meno che esso lasci trasparire qualcosa che può stargli dietro o sopra, allo stesso modo come non è possibile riconoscere se sia stato il cono, il cilindro o la sfera a proiettare una determinata ombra circolare».31

L’essere umano, se proiettato in una dimensione inferiore, si configura come un sistema chiuso di soli riflessi fisiologici o psicologici, a seconda del piano su cui viene proiettato. Invece, perché si manifesti l’essere-uomo nella sua tridimensionalità occorre riconoscere l’autotrascendenza che egli possiede. Per poter trascendere un drammatico presente è necessario che l’uomo si spinga oltre se stesso: di fronte ad una forza sovrastante quale la sofferenza, l’essere umano necessita incondizionatamente di una forza altrettanto superiore (quindi trascendente) che la valichi. Essa può essere solo il senso. Come disse Giovanni Paolo II, «la sofferenza sembra appartenere alla trascendenza dell’uomo: essa è uno di qui punti nei quali l’uomo viene in un certo senso destinato a superare sé stesso, e vien a ciò chiamato in modo misterioso».32 Si deve riconoscere che l’uomo è un essere sempre rivolto verso qualcosa o qualcuno: egli è aperto al mondo, o come dirà Frankl più specificatamente, egli è sempre orientato verso un tu. La capacità che ha l’essere umano di distanziarsi da sé stessi e da una drammatica situazione, prende da Frankl il nome di «tecnica dereflessiva». Per questo motivo la temporalità sia nella forma di «essere-passato» quale forma sicura di essere, sia nella forma di «pro-getto» nei termini hedieggeriani per cui l’uomo è un essere sempre progettante verso un futuro, giocano un ruolo decisivo nella pratica logoterapeutica. In virtù della dimensione spirituale, l’essere umano non è solo capace di eroismo, per cui gli è possibile ergersi al di sopra di qualsiasi situazione per quanto condizionante possa essere, ma è anche capace di umorismo, come due facoltà di auto distanziamento da una situazione o da se stesso, diversamente da quanto possa accadere in un approccio «iper-riflessivo». «Anche l’umorismo è, infatti, una caratteristica esclusivamente umana» dirà Frankl, «E non è il caso di vergognarsene. L’umorismo è anche un attributo divino: in ben tre salmi Dio viene presentato come uno che ride»33 (Cf. Salmi 2,4; 37,13; 59,9). È proprio nell’aspetto spirituale e a partire dalla nozione antropologica che si sviluppano quelli che sono i tre pilastri della concezione logoterapeutica frankliana: la libertà della volontà, la volontà di significato e il significato della vita. Per questo motivo la logoterapia non si sofferma sulla parte malata della persona, bensì su quella sana, ovvero la dimensione spirituale (noos). Infatti, mentre la dimensione fisica e psichica si possono ammalare, non può quella spirituale che, al massimo, può solo offuscarsi.34 È solo attraverso la libertà di volontà insita nella dimensione spirituale che l’uomo può trovare un significato anche nei casi di malattie croniche o terminali. Non a caso Frankl dedica gran parte del suo lavoro alla logoterapia intesa come «cura medica dell’anima», laddove un trattamento causale è inaccessibile, e «l’unica cosa possibile e necessaria è l’atteggiamento del malato nei confronti della sua sofferenza»35fino a poter affermare insieme a Kierkegaard: «anche se la demenza mi colpisse totalmente, anche allora io potrei salvare la mia anima: basta che in me vinca l’amore di Dio».36

4. La direzionalità nel rapporto «io-Tu»

L’altruismo verso qualcuno o l’orientarsi verso qualcosa sono naturali tecniche «dereflessive» nell’essere umano ed efficaci pratiche terapeutiche. Facendo riferimento alla filosofia di Lévinas è possibile tradurre in termini frankliani ciò che il filosofo lituano afferma riguardo il volto «Altri» quale apertura al senso, in altri termini, il dirigersi verso l’Altro è intesa come una connaturata esigenza umana di autotrascendenza, di spingersi oltre se stessi e raggiungere il senso nella prospettiva di una trascendenza. È importante rivendicare perciò una «conversione ontologica» in cui si rende manifesta la necessità di una scissione fra l’«io-sono» e l’«io-ho», in altre parole, la necessità di riconoscere la superiorità dell’essere rispetto all’avere, così come già ne aveva parlato Gabriel Marcel. È comprensibile come nella riflessione frankliana sia fondamentale rivendicare un etica della responsabilità, fondata su una fenomenologia della cura che vede nell’amore l’espressione per eccellenza della libera decisionalità e di direzionalità verso un «Tu». Seguendo la riflessione di Frankl, la sofferenza può essere sopportata soltanto se è sofferenza per un significato, se è sofferenza «per amore di qualcosa o di qualcuno». Una sofferenza ha un senso quando è una «sofferenza per amore di…». Amare, spiega Frankl, indica sempre un amore verso un «tu». Anche laddove è possibile amare dei valori, degli ideali – il «per-amore-di-qualcosa» – sempre in «qualcuno», in una persona (o sovra-persona, come Dio).37 E si ama una persona solo quando la si concepisce unica e irripetibile. Quando Frankl spiega che una sofferenza può essere accettata solo se è una sofferenza-per-amore-di, significa che per motivo dell’amore l’essere umano è capace di trovare la forza di sopportare il peso della sofferenza. Il «per-amore» non è il significato, lo è invece la particella che gli segue, il -di. L’amore sorregge l’uomo nei momenti di sconforto, mantiene accesa la spinta verso il senso. Il senso è invece il fine per cui si sopporta la sofferenza, l’amore permette di sopportarla. Si potrebbe anche dire: soffire-per-amore-dell’-Amore. In questo contesto, il senso – come Amore – è un amore personificato, quindi sempre rivolto ad un «tu» spirituale. Così dicendo, è possibile unirsi alle parole di Frankl, il quale, marciando nel gelo del lager, trova consolazione e salvezza nell’immagine della persona spirituale amata, sua moglie: «Sperimento in me la verità che l’amore è, in un certo senso, il punto finale, il più alto, al quale l’essere umano possa innalzarsi».38 È opportuno accostare questa immagine con un episodio celebre nel quale Frankl si trovò a confortare un anziano signore depresso agli estremi poiché non riusciva ad accettare la perdita della moglie che amava sopra ogni cosa: Frankl gli fece notare che la sua sofferenza fu risparmiata alla moglie, la quale avrebbe sofferto la stessa situazione angosciosa se invece fosse stata lei il coniuge in vita. In quell’istante, riporta Frankl, la sua sofferenza assunse un significato. L’anziano signore aveva trasformato la sua sofferenza in sacrificio nei confronti della moglie amata.39 Si può allora rispondere affermativamente all’interrogativa speranza di Emily Dickinson «vorrei che uno potesse essere certo che la sofferenza abbia un lato amorevole».40 La dimensione dia-logica concretizza questa direzionalità «io-Tu», per cui si può asserire che la persona è in continuo dialogo con qualcuno. A partire da questa dimensione Frankl affronta il problema di Dio che nella logoterapia non può essere risolto tautologicamente, né teologicamente, bensì in termini dialogici. Siccome Dio è considerato da Frankl il «radicalmente altro»,41 Egli è il Tu per eccellenza al quale ogni dialogo è indirizzato, compiendosi quando affermato da Buber, e cioè che ogni singolo tu è in realtà «un canale di osservazione verso il Tu eterno. Attraverso ogni singolo tu, la parola-base, si indirizza all’eterno».42 Ogni dia-logos può essere tradotto letteralmente non soltanto come «attraverso» («dià») il «discorso» («logos») ma anche come «attraverso il senso». Ogni dialogo è bisogno di senso. E in ogni soliloquio si esprime un bisogno, sebbene a volte inconscio, di Dio.43 Il pensiero frankliano non potrebbe essere completo se non si parlasse di religione, quale mezzo al fine di re-ligāre44 le due dimensioni – spirituale e biologica – costituenti l’uomo; essa fa da ponte fra le due nature dell’essere umano. Per questo la religione è parte intrinseca dell’antropologia.

5. I pericoli dell’automazione

L’uomo moderno o l’uomo esistenzialmente frustrato ha perduto la corretta nozione di essere umano: egli è divenuto vittima del darwinismo (è stato ridotto al pari degli animali) e del riduzionismo psicologico (è considerato un mero meccanismo di stimolo-risposta). L’oggetto e l’animale infatti sono incapaci di realizzazione e d’intensione, incapaci di eroismo e umorismo. La storia ha insegnato all’umanità il pericolo a cui incorre se continua a considerare l’essere umano un «homunculus», citando un termine frankliano. I tre grandi tipi di homunculismo che ha evidenziato Frankl solo il biologismo, lo psicologismo, il sociologismo, «come uno specchio deformante, danno all’uomo un’immagine distorta di se stesso, lungi dall’immagine dell’uomo vero».45 Queste tre forme di homunculismo trovano il loro fondamento nel nichilismo che, stando alle parole di Frankl, non consiste meramente nella negazione dell’essere quanto piuttosto alla negazione del senso dell’essere. Il nichilismo infatti non dice che la realtà non esiste, ma evidenza che la realtà «non è altro che». Tutti gli -ismi presuppongono un processo di generalizzazione e di assolutizzazione per cui la psicologia, ad esempio, se assolutizzata o generalizzata si avvierà verso il torto dello psicologismo. Così come il fisiologismo vede l’uomo come una macchina dominata da riflessi al pari di un qualsiasi mammifero, lo psicologismo fa altrettanto mettendo in risalto unicamente i meccanismi psichici e dimenticando completamente l’esistenza spirituale; il sociologismo poi considera l’uomo determinato da forze sociali. Guardare solo agli effetti significa negare l’intensione e perciò qualsiasi senso, sottraendo l’essere del suo significato, tralasciando l’essere nella sua intenzionalità, cioè l’essere spirituale. Riportando ancora le parole di Frankl si può splendidamente concludere questo concetto: «Solo portando lo sguardo sull’essere spirituale, sulla sua fondamentale tensione ai valori ed al senso, potrà essere svelata la significatività del reale o potrà apparire, in tutta la sua pienezza, il senso dell’essere».46 Il pericolo che l’uomo fraintenda se stesso come «nient’altro che» un apparato tutto istintivo, un meccanismo psichico, conduce ad un nuovo homunculismo. Frankl teme che l’uomo possa essere tentato di disistimare sé stesso, paragonandosi alle calcolatrici ed ai computer. Egli ci spiega che se l’uomo era dapprima compreso come creatura, una creatura «ad immagine del suo Creatore», di Dio, con l’avvento dell’era delle macchine, si riconosce come «creatore», creatore ad immagine della sua creatura, della macchina. Questo tipo di homo è l’homme machine.47 Sono tanti i pericoli causati da una mentalità che riduce l’uomo ad una «cosa». In primo luogo, privandolo della sua dimensione spirituale, gli viene impedito l’accesso al significato, in quanto lo rende incapace di domandarsi sul senso dell’esistenza. In secondo luogo, ricordiamo che solo una mentalità «cosificatrice» dell’uomo può indurre a «disporre» dell’uomo arbitrariamente. Ed è questa mentalità che ha condotto gli uomini nelle camere a gas. È assai drammatica l’applicazione del concetto di homunculismo nel campo della medicina: il paziente viene disprezzato perché oggetto di studi, di manipolazioni o di comparazioni psicologiche, a tal punto che lo stesso medico non si fa più garante per la cura del suo paziente, piuttosto egli diventa giudice spietato nel valutare se la qualità di vita del malato valga la pena o meno di essere vissuta. Laddove la vita come compito non è più presa in considerazione dalla società perché ha eliminato ogni possibilità di valore, è conseguenza naturale che una vita priva di senso creazionale e relazionale sia considerata non meritevole di essere vissuta. Sempre più si è rimpiazzato il «diritto alla vita» con il «disporre della propria vita», così come ricorda Corrado Manni,48 aggiungendo inoltre che «non esistono vite che non sono degne di essere vissute: la sofferenza, la malattia, l’invalidità sono componenti naturali e inevitabili della corporeità dell’uomo».49 L’eutanasia è la resa di fronte a una esistenza che sembra non averci nulla da offrire, è la resa della vita stessa, oggi sempre più immersa in «una cultura della qualità della vita che, troppo spesso, nei fatti diviene cultura della morte».50

Così dice Corrado Manni: «Di fronte al numero crescente di ammalati e alle loro aumentate esigenze, la nostra civiltà si trova di fronte due strade opposte: o privilegiare i forti, assicurando loro i maggiori benefici, ed emarginare i deboli, riportando i termini dell’esistenza verso forme di maggiore degradazione, oppure accrescere gli sforzi per arrivare a una diversa soluzione degli attuali problemi della salute. L’eutanasia, il controllo forzato delle nascite […] dipendono dalla scelta di una di queste due strade».51 Nella cultura odierna, che possiamo definire cultura della prestazione – ma non solo – ci si rifiuta di ammettere che «la vita nasce e si sviluppa in mezzo a sofferenze e rinunce»,52 mentre «la bellezza e la buona sorte sono presentate come condizioni cui si ha diritto»53 e perciò vengono privilegiati i forti ed eliminati i deboli. Non potrebbe fare altrimenti: la malattia e la sofferenza, nonché la morte, ci riconducono inevitabilmente alle drammatiche questioni esistenziali. E laddove non troviamo risposte, come accade in questa nostra società, certamente sprofondiamo in una crisi esistenziale abissale, e l’unico sentimento che possiamo provare, citando un termine sartiano, è la «nausea». Pertanto il malato diventa d’intralcio, scomodo e perciò eliminato, perché ci porta a guardare più da vicino quell’abisso scuro che è l’esistenza e in cui non riusciamo a veder nulla. Ripetiamolo ancora una volta: l’eutanasia è una sconfitta. Si provi ad immaginare fino a che punto assurdo potrebbe estendersi la cultura della morte: un malato che soffre di depressione potrebbe benissimo credere che la sua qualità di vita non valga nulla e perciò ritenere legittimo di porre fine, attraverso la «dolce morte», questa sua sofferenza inguaribile e priva di senso. Non è troppo lontano e immaginario il passo in cui «dovrà» essere eliminato ogni malato fisico e psichico. È stata infatti proprio la mentalità che riduce l’uomo ad un homunculo, la conduttrice dei grandi drammi nei campi di sterminio.54 L’umanità non potrà mai sopravvivere se si continua a considerare l’uomo un homunculo. E così sarà finché ci sarà il nichilismo, perché come ha ricordato Frankl nessun nichilismo ha portato ad un umanesimo, ma solo ad un homunculismo.55 Possiamo solo unirci alla speranza di Frankl, ossia augurarsi che il medico non veda più nell’uomo una macchina, ma a scorgere, dietro la malattia, l’uomo. Come disse lo scrittore francese Georges Bernanos: «Chi cerca la verità dell’uomo deve farsi carico del suo dolore»56

6. L’homo patiens dinnanzi alla «tragica triade»

«Ciò che è decisivo non è la durata dell’esistenza, quanto la sua pienezza di senso».57 Queste le parole di Frankl, unendosi perfettamente a quelle di Salomone nel Libro della Sapienza: «Vecchiaia veneranda non è longevità […] vera longevità è una vita senza macchia».58 La sofferenza conduce l’essere umano ad un intro-spectus, a considerare la provvisorietà della vita, la fragilità dell’uomo incapace di poter dire di no al dolore.59 Osserva bene la Binetti quando scrive che «il dolore assomiglia alla paura, più esattamente all’attesa che succeda qualcosa: dà alla vita una sensazione di perenne provvisorietà».60 Proprio per questo senso di provvisorietà, è più conveniente utilizzare il termine «angoscia» più che «paura». Heidegger parla di angoscia come quella situazione emotiva fondamentale che ci pone di fronte al niente. L’angoscia – come situazione limite – che mette in questione la nostra esistenza, il nostro esser-ci nel mondo, indica che l’uomo si trova in uno stato in cui non dovrebbe essere secondo la sua natura,61 e quindi mette in luce le infinite possibilità che l’uomo può essere. Per questo Kierkegaard, nell’affermare che «l’angoscia è la vertigine della libertà», ovvero la possibilità della libertà, mette l’uomo in una posizione di riscatto proprio per mezzo dell’angoscia. Di fronte all’angoscia l’uomo è chiamato a compiere un «salto qualitativo», ad assumere un atteggiamento. L’angoscia è, secondo la posizione del teologo e filosofo danese, il risultato della libertà; è impossibile sperimentare l’angoscia senza essere liberi. E per questo che per Kierkegaard l’angoscia subentra col peccato originale, ovvero a cominciare dal momento in cui l’uomo è stato capace di discernere il bene dal male e dover perciò decidersi per uno di essi. Perciò potremmo riadattare le parole di Binetti ed affermare che il «dolore assomiglia all’angoscia». Il mondo ha messo dei paraocchi di fronte al dolore, scartandolo dalla vita umana, rifiutandosi di mettere in questione la propria esistenza, promovendo unicamente la figura dell’homo faber. L’homo faber è colui che crea, l’uomo attivo. Precedentemente sono state presentate le tre categorie principali di valori che Frankl definisce come valori di creazione, valori di esperienza e valori di atteggiamento, attraverso i quali l’uomo può trovare un significato nella vita. L’homo faber rientra nelle prime due categorie di valori in quanto attraverso le sue capacità creative offre al mondo qualcosa – sono i valori di creazione – e anche prende dal mondo, per mezzo degli incontri personali e varie esperienze – sono questi i valori di esperienza –.62 Quando si parla di homo faber si parla sempre in termini di uomo che e uomo che prende, in sintesi, di uomo attivo. Solo ad una pericolosa direzione si dirige una società che promuovere unicamente una cultura della prestazione – quella dell’homo faber – soprattutto nel campo medico. L’unico tipo di uomo considerato nella società odierna è quello di un «essere vivo», attivo cioè, e non un essere che soffre, passivo. «In tal modo viene falsificato il bilancio: scompare il passivo e resta solo l’attivo. Scompare la colpa, non c’è più alcuna sofferenza».63 Una società che favorisce l’homo faber non tiene più in considerazione la vita come compito perché ha eliminato ogni possibilità di valore. Nella prospettiva biologistica la ragione viene assolutizzata, tralasciando ogni immagine noetica dell’uomo.64 Non è inutile ripete come l’unico modo perché possa sopravvivere l’umanità consista nell’abbandonare l’idea di homo faber e rivalorizzare l’homo patiens, ovvero «l’uomo che soffre e che, in virtù della sua umanità, è capace di innalzarsi e assumere un adeguato atteggiamento nei confronti della sua sofferenza».65 All’interno dei valori di atteggiamento, Frankl individua tre categorie di situazioni, paragonabili alle situazioni-limite di Jaspers, che egli identifica sotto l’appellativo di «tragica triade». Ad essa appartengono la colpa, la pena e la morte (Jaspers vi aggiunge la lotta). Di fronte alla tragica triade l’essere umano può decidere (libertà di volontà) se soccombere ad essa o se, prendendo in prestito una terminologia jaspersiana, decidersi per l’azione incondizionata, in parole frankliane, assumere un atteggiamento capace di porsi al di sopra di essa e trascenderla. L’homo patiens è colui che si fa carico del proprio dolore con dignità e responsabilità. Solo questi è persona, colei che potrà assumere la vita come compito. Edith Stein parla di «Persona»66 nel riferirsi all’essere spirituale e libero che, in virtù della spiritualità, è consapevole che è vivo e che è; la Persona intesa dalla Stein è capace di dire «io posso» perché dotata di intenzionalità per mezzo della quale si erge come un «poter-essere liberamente attivo». si tratta di una libertà ben lungi dalla mera capacità liberativa di movimento che anche gli animali posseggono. Quella a cui la Stein fa riferimento è piuttosto è la «forza di volontà» che si deve distinguere sia dalla volontà razionale o spirituale sia da quella fisica. Riprendendo un esempio proposto dalla stessa filosofa tedesca si potrà dire: vista una meta decido di raggiungerla, e questa è la volontà razionale o spirituale; se uso il corpo per muovermi utilizzo la forza fisica; se ad un certo punto mi stanco durante il tragitto ma decido di sforzarmi e andare avanti verso la meta prefissata, allora entra in gioco la forza di volontà. Quest’ultima permette di adoperare le poche forze rimaste e permette a umani fisicamente deboli di avere un’esistenza spiritualmente intensa. Ecco che la «Persona» steiniana è quell’homo patiens capace di farsi carico del proprio dolore con dignità e responsabilità, cioè con forza di volontà. A questo tipo di uomo corrisponde la terza categoria di valori, ovvero quelli di atteggiamento, i più completi e i più difficili da realizzare. Attraverso questo tipo di valori la persona è capace di dare al mondo e prendere dal mondo laddove esso [il mondo] apparentemente non ha nulla da offrire e nulla da chiedere. Realizzando i valori di atteggiamento l’uomo è capace di innalzarsi al disopra della situazione in cui si trova, e nel mondo è capace di dare e prendere un significato che trascende il mondo, per cui si dirà che ogni persona è essere-nel-mondo ma non del mondo.67 Pur nell’apparente paradosso, l’homo patiens e passivo si scopre molto più attivo dell’homo faber. Quest’ultimo infatti si rapporta unicamente con gli elementi del mondo e di conseguenza è circoscritto nei limiti che un’esistenza può avere. Ci può essere un limite alla libertà dell’esistenza (biologica e psicologica) ma non un limite all’atteggiamento assunto nei confronti dell’esistenza. La sofferenza è sicuramente uno dei più grandi limiti alla libertà dell’esistenza umana; il dolore apre la comprensione al limite.68 L’homo patiens è «colui che si muove in una dimensione il cui polo positivo è costituito dall’appagamento e il polo negativo dalla disperazione».69 L’homo faber invece si muove in una dimensione che va dal fallimento al successo. L’uomo lotta per ottenere il successo, ma l’homo patiens non soccombe al destino che gli consente o meno tale successo. «Un essere umano» ricorda Frankl, «proprio dall’atteggiamento che sceglie, è capace di realizzare un significato anche in una situazione del tutto priva di speranza».70 Un paziente di Frankl che soffriva di paralisi celebrale infantile con athéthose double71 gli impediva di compiere qualsiasi lavoro, non gli permetteva nemmeno di frequentare la scuola sebbene studiava molto a letto. Della sua situazione si capisce che non aveva nessuna speranza di realizzare valori di creazione né di sperimentare l’amore (valori di esperienza). Egli però non disperò della sua situazione di esclusione forzata da ogni possibilità di autorealizzazione, non si limitò a «vegetare». L’invalidità, scrive Frankl, si convertì in stimolo. Quel paziente infatti divenne funzionario di un’organizzazione per handicappati.72 Aveva realizzato dei valori di atteggiamento. Se non fosse divenuto funzionario, Frankl direbbe che col suo atteggiamento sarebbe stato d’esempio per molto altri pazienti come lui. Riportare le parole di Frankl è opportuno al fine di poter chiarire definitivamente questo punto: «Quando si ha a che fare con una sofferenza inevitabile, “destinata”, che rappresenta il punto critico di passaggio della maturazione esistenziale, un trattamento che miri a nasconderla, rimuovendo ulteriormente l’esigenza metafisica, sarà meno doloroso, ma certo destituirà di ogni senso l’esistenza dell’individuo. […] In nessun caso il terapeuta dovrebbe cercare l’euforia, sinonimo di eutanasia parziale».73 E ancora: «Fu il poeta Rilke a ribadire con forza l’ansia tormentosa che l’uomo ha di “morire la sua propria morte”. L’uomo ha diritto a soffrire il suo proprio dolore. Il presupposto necessario è che tale dolore sia effettivamente “suo proprio” e quindi, vada sopportato esistenzialmente e con senso».74 Ovviamente nessuno ha in maniera innata la capacità di soffrire, nessuno nasce con tale capacità, bensì la deve forgiare.75 Per realizzare dei valori di creazione si deve essere dotati di talenti – una voce particolare nel canto, un’intuizione peculiare nel campo scientifico o una speciale dote per la pittura – e lo stesso vale per i valori di esperienza – bisogna essere dotati per forza di organi di senso che ci permettono di contemplare, di ascoltare, di gustare – . Questi sono valori che l’essere umano possiede in potenza sin dalla nascita e che la volontà, l’impegno e determinate circostanze esterne, hanno permesso che li mettesse in atto. Invece non si nasce con i valori di atteggiamento. Che ognuno nasce nella sofferenza è indiscusso. Essa entra nella nostra vita sin dal primo momento, ma non la capacità di soffrirla. Nessuno infatti si abituerà mai al dolore tanto da non esserne più provato. L’uomo si ribella sempre alla sofferenza e alla morte perché, sebbene essa lo abbia contaminato nel suo essere, non fa parte del suo essere, in quanto non ne faceva parte nel homo ab origine. All’uomo non resta che assecondare la volontà di significato che è già presente naturalmente in ogni uomo in quanto essere-in-cerca-di-significato dotato di una dimensione noetica e incline ad una spinta autotrascendente. Di fronte a tale volontà di significato si può però decidere se soffocarla o assecondarla. E assecondare la volontà di significato vuol dire lasciare che il significato risplenda da se stesso.76

7. Conclusioni

Attraverso un’introspezione antropologica svolta seguendo le fila del discorso frankliano, è stata rivendicata la dimensione noetica dell’essere umano, nonché la sua inscindibile unità corpo-spirito. Tale unità è stata messa in luce attraverso un’analisi sulla sofferenza umana: il dolore tocca l’uomo nella globalità della sua esistenza incidendo sui sensi e sulle potenze dell’anima. Non c’è infatti sofferenza dell’animo che non sia in grado di produrre effetti sensibili vistosi77 se non addirittura vere e proprie patologie, tanto è vero che una sofferenza dell’animo spesso è molto più dolorosa di una sofferenza fisica. Da qui è stata reclamata la figura dell’homo patiens proposta da Frankl, ovvero colui che è capace di una libertà di atteggiamento tale da consentirgli di trascendere la tragica triade ed orientarsi in-vista-di un senso. È l’uomo come essere-spirituale che è capace di amare, di soffrire «per amore di…». Constatava bene Platone nel ritenere il corpo una prigione dell’anima. Ma ricordiamo anche che è con il corpo che l’uomo può testimoniare la libertà di una dimensione noetica che, diversamente dal corpo e dalla psiche, non si ammala. La grandezza della persona la si vede dalla libertà di atteggiamento di ergersi al di sopra di un drammatico presente e di trascenderlo. Per questo non può esistere essere umano senza la sofferenza.


  1. V. Frankl, Alla ricerca di un significato della vita, trad. di Eugenio Fizzotti, Mursia, Milano 1972, p. 15. ↩︎

  2. V. Frankl, Homo Patiens. Soffrire con dignità, trad. di Eugenio Fizzotti, Queriniana, Brescia 1998, p. 117. ↩︎

  3. V. Frankl, Fondamenti e applicazioni della logoterapia, trad. di Vincenzo Chiaffitelli, SEI, Torino 1977, p. 29. ↩︎

  4. V. Frankl, Fondamenti e Applicazioni della Logoterapia, p. 59. ↩︎

  5. Antonina Illiano, Logoterapia e amore, Lettere Italiane Guida, Napoli 2003, p. 50. ↩︎

  6. V. Frankl, Alla ricerca di un significato della vita, trad. di Eugenio Fizzotti, Mursia, Milano 1972, p. 16. ↩︎

  7. Ivi, p. 67. ↩︎

  8. R. Boudreau, «Journal of Clinical Research & Bioethics» 9(2018)1. ↩︎

  9. Costello parla di «anxiety» ma si è preferito utilizzare la traduzione di «angoscia» piuttosto che la traduzione letterale di «ansia». ↩︎

  10. S. J. Costello, An Existential Analysis of Anxiety: Frankl, Kierkegaard, Voegelin <WordPress.com> (21/11/2020). ↩︎

  11. P. Tillich, Che cos’è il coraggio, trad. di Giuseppe Sardelli, Roma, Campo dei Fiori, 2015, p. 20. ↩︎

  12. H. D. Dei, Elementos de antropologia cristiana clásica, Buenos Aires 1980, p. 54. ↩︎

  13. Cfr. J. Fabry, Introduzione alla logoterapia, trad. di Liliana Menzio, Casa Editrice Astrolabio, Roma 1970, p. 47; V. Frankl, Uno Psicologo nei Lager, trad. di Nicoletta Schmitz Sipos, Edizioni Ares, Perugia 1994, p. 78-79. ↩︎

  14. Secondo quanto riportato da <J. Fabry in Introduzione alla logoterapia, p. 47>, trovare un senso nell’esperienza non abbisogna di accenti esaltanti come la scoperta della verità, della bellezza o dell’amore. Secondo Frankl un ragazzo può farne esperienza ascoltando i Beatles. «Perché no? Un ragazzo ci trova un senso perché gli piacciono i Beatles. Io trovo un senso quando ascolto una sinfonia di Mahler. A ognuno il suo». ↩︎

  15. J. Fabry, Op. cit., p. 47. ↩︎

  16. https://www.lauracardi.it/2016/03/10/problemi-psicologici-ed-esistenziali-nel-cancro-avanzato-le-ricerche/ (21/09/2020). ↩︎

  17. J. Fabry, Op. cit., p. 48. ↩︎

  18. V. Frankl, Uno psicologo nei lager, pp. 132-133. ↩︎

  19. V. Frankl, Homo Patiens, p. 85. ↩︎

  20. J. Fabry, Op. cit., p. 31. ↩︎

  21. P. Danza, logoterapeuta e counsellor, è iscritto a: Albo dei Counsellor Professionisti della (S.I.Co.) Società Italiana di Counseling in qualità di “Professional Counsellor” - (II livello EAC, European Association of Counselling), Albo del CNCP (Coordinamento Nazionale Counsellor Professionisti) al livello Formatore in Counselling, Albo dell’AICo (Associazione Italiana di Counselling) al livello socio ordinario professionista - (II livello EAC, European Association of Counselling), A.I.C.O. (Associazione Italiana Consulenti di Orientamento), Albo dell’ANPE (Ass.ne Nazionale Pedagogisti), Associazione di Logoterapia Italiana, Associazione italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia. ↩︎

  22. http://www.counsellor.it/counsellor_associazione/slide%20logoterapia.pdf (22/09/2020) ↩︎

  23. Orlov A.B., Shumsky V.B., «Noetic Dimension of Human Being: Viktor Frankl’s Contribution to Psychology and Psychotherapy», Psychology, 2(2005)2, pp. 65–80. ↩︎

  24. J. Fabry*, Op*. cit., p. 26-27. ↩︎

  25. I tre pilastri su cui si fonda la logoterapia è data dalla triade «libertà di volontà», «volontà di significato» e «significato della vita». ↩︎

  26. Ibidem.

    ↩︎

  27. F. Brencio, «Sufferance, Freedom and Meaning: Viktor Frankl and Martin Heidegger», Studia Pedagogica Ignatiana, 18(2015), p. 227. ↩︎

  28. J. Fabry, Op. cit., p. 27. ↩︎

  29. V. Frankl, Fondamenti e Applicazioni della Logoterapia, pp. 33-34. ↩︎

  30. *Ibidem. * ↩︎

  31. V. Frankl, Logoterapia e Analisi Esistenziale, Morcelliana, Brescia 1977, pp. 56-57. ↩︎

  32. G. Paolo II, Salvivici Doloris↩︎

  33. V. Frankl, Senso e valori per l’esistenza, Città Nuova, Roma 1994, pp. 32-33 <http://www.centrosynthesis.it/2013/11/liberta-della-volonta-viktor-frankl/ (22/09/2020)>. ↩︎

  34. http://www.counsellor.it/counsellor_associazione/slide%20logoterapia.pdf (22/09/2020).

    ↩︎

  35. V. Frankl, Fondamenti e Applicazioni della Logoterapia, p. 119. ↩︎

  36. Viktor Frankl, Alla ricerca di un significato nella vita, trad. di Eugenio Fizzotti, Mursia, Milano 1972, p. 103.

    ↩︎

  37. V. Frankl, Homo Patiens, p. 48. ↩︎

  38. V. Frankl, Uno psicologo nei lager, p. 74. ↩︎

  39. V. Frankl, Fondamenti e applicazioni della logoterapia, p. 120. ↩︎

  40. E. Dickinson, Le lettere, 263 (Maggio 1862) a Louise Norcross. La traduzione di Ierolli riporta: «Vorrei che si potesse essere certi che nella sofferenza c’è una parte d’amore». La traduzione alla lettera «vorrei che uno potesse essere certo che la sofferenza abbia un lato amorevole» («I wish one could be sure the suffering had a loving “side”») rispecchia meglio l’idea dell’amore come faccia di una stessa medaglia. ↩︎

  41. V. Frankl*, Homo patiens*, p. 121. ↩︎

  42. M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo Edizioni, 2004. ↩︎

  43. Tanto è vero che Frankl realizzerà una definizione operazionale di Dio: Egli è «l’interlocutore dei nostri più intimi soliloqui» in Dio nell’inconscio. Psicoterapia e religione, trad. di Eugenio Fizzotti, Morcelliana, Brescia 2014, p. 140. ↩︎

  44. Secondo la tesi lattanziana, il termine «religione» deriva dal latino «religāre», composto dal prefisso re-, intensivo, e ligāre (unire insieme, legare)*. * ↩︎

  45. V. Frankl, Fondamenti e Applicazioni della Logoterapia, p. 119*. * ↩︎

  46. V. Frankl, Homo Patiens, pp. 17-19. ↩︎

  47. Adottando l’espressione di Lamettrie sull’homme machine, Frankl esprime, riferendosi alla sua epoca ma anche profetizzando - forse inconsciamente - il futuro: «Eccoci, oggi, in pieno dell’età delle calcolatrici e dei computer» <V. Frankl, Alla ricerca di un significato della vita, p. 75>. ↩︎

  48. Corrado Manni è stato medico, fondatore nel 1964 e primo direttore dell’Istituto di anestesiologia e rianimazione del policlinico «Gemelli» di Roma, consultore del Pontificio Consiglio per la pastorale della salute, membro della Pontificia Accademia per la vita e del Comitato nazionale di bioetica, membro di numerose società scientifiche, tra cui l’American Society of Critical Care Medicine↩︎

  49. C. Manni, Una Vita per la Medicina, San Paolo, Milano 2003, p. 91. ↩︎

  50. Ivi, p. 94. ↩︎

  51. Ivi, p. 93. ↩︎

  52. *ibidem. * ↩︎

  53. Frederick W. Schmidt jr., Sofferenza. Alla ricerca di una risposta, trad. di Carla Malerba, Claudiana, Torino 2004, p. 27.> > Si potrebbe parlare di una «cultura del diritto» dove tutto è un diritto in funzione di un certo benessere che consiste, come scrive il vaticanista Aldo Maria Valli, «nel condurre una vita votata al maggior numero possibile di piaceri fisici e al minor numero possibile di dolori fisici», poiché «nei diritti positivi si cela una trappola quasi diabolica. Se io ho il diritto a godere di un certo benessere, lo Stato ha il dovere di garantirmi quel benessere. Ma per garantirmi un certo benessere, lo Stato deve definire: (a) in cosa consista più precisamente il mio benessere; (b) quali sono le situazioni che lo realizzano (che devono essere predisposte dallo Stato con le sue risorse); (c) quali sono le situazioni che lo impediscono (che devono essere eliminate dallo Stato, eventualmente anche tramite la coercizione)».<https://www.aldomariavalli.it/2018/04/20/quel-diritto-alla-felicita-che-sopprime-la-liberta/> (22/09/2020). ↩︎

  54. V. Frankl, Homo Patiens, p. 35. ↩︎

  55. Ivi, p. 19. ↩︎

  56. G. Bernanos, La Gioia, p. 39. ↩︎

  57. V. Frankl, Homo Patiens, p. 89. ↩︎

  58. Sap. 4, 8-9. ↩︎

  59. P. Binetti, Il dolore narrato: pagine di letteratura, Roma, Critical Medicine Publishing, 2005, p. 43. ↩︎

  60. Ibidem, ‹Binetti cita Lewis in Diario di un Dolore›. ↩︎

  61. F. Bollnow, Le Tonalità Emotive, trad. di Daniele Bruzzone, ed. di Daniele Bruzzone, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp. 59-68. ↩︎

  62. V. Frankl, Fondamenti e Applicazioni della Logoterapia, p. 77. ↩︎

  63. V. Frankl, Homo patiens, p. 85. ↩︎

  64. Ibidem. ↩︎

  65. V. Frankl, Fondamenti e Applicazioni della Logoterapia, p. 81. ↩︎

  66. Cfr. E. Stein, La struttura della persona umana, Città Nuova, Roma 2013, pp. 109, 114–126, 167–169. ↩︎

  67. Lo dice chiaramente Cristo (Gv. 17) : siamo nel mondo ma non del mondo. Gesù ci richiama al nostro vero essere che deve trascendere il mondo pur rimanendo nel mondo. ↩︎

  68. P. Binetti, Op. cit., p. 41. ↩︎

  69. V. Frankl, Fondamenti e Applicazioni della Logoterapia, p. 81. ↩︎

  70. Ibidem. ↩︎

  71. Si tratta di un movimento coatto accompagnato da gravi lussazioni delle membra ↩︎

  72. V. Frankl, Homo patiens, p. 80. ↩︎

  73. Ivi, p. 24-25. ↩︎

  74. Con questa affermazione l’intento di Frankl non è quello di voler eliminare il dolore laddove sia possibile farmacologicamente, bensì è riferita a quei casi di dolori e sofferenze – anche spirituali – in cui la medicina non può più essere d’aiuto o non è sufficiente. Quel che Frankl deplora è la liberazione ad ogni costo dalla sofferenza attraverso pratiche terapeutiche che approvano anche l’uso di droghe quali LSD. In questo modo l’uomo viene annientato; con l’euforia viene praticata una «eutanasia parziale» sul paziente. Ovviamente non si deve negare una sana terapia clinica al fine di diminuire le sofferenze, ma laddove è presente una sofferenza inevitabile – una malattia inguaribile, una separazione o un lutto - le medicine possono alleviare in parte il mio dolore ma non eliminare la situazione che purtroppo non potrà cambiare. E in queste situazione che, oltre alla cura medica, deve intervenire la libertà del mio atteggiamento. Privare l’uomo di questa libertà significa privare l’uomo di ciò che lo caratterizza, significa annientare la sua essenza di uomo. L’uomo ha diritto ad essere Uomo, e per questo ha diritto a soffrire il suo proprio dolore.

    ↩︎

  75. V. Frankl, Homo Patiens, p. 77. ↩︎

  76. Cfr. V. Frankl, Introduzione alla logoterapia, pp. 48-52. ↩︎

  77. P. Binetti, Op. cit., p. 45. ↩︎