Dialettica della ragione. L’Anselmo di Karl Barth

Nel 1931 Karl Barth pubblica uno studio su Anselmo d’Aosta dal significativo titolo Fides quaerens intellectum, destinato a diventare uno dei più affascinanti e controversi contributi alla già lunga storia della ricezione anselmiana.1 Si trattava di un’interpretazione radicale del Proslogion volta a ricoprire un ruolo di primo piano sia nella formazione della teologia dogmatica barthiana sia nella disputa intorno alla validità della cosiddetta prova ontologica.

La lettura che Barth fa di Anselmo, radicata nella comunione spirituale della fede cristiana, è in grado di rivelare la profonda vitalità ermeneutica dell’argumentum. Tra autore e interprete, entrambi impegnati nel tentativo di ritrovare un fondamento certo per la conoscenza di Dio, si possono intravedere unità e continuità della chiesa, intesa come quell’istituzione spirituale che, nelle figure dialogiche di contesto — i monaci benedettini per Anselmo e i pastori e teologi riformati per Barth — , rappresenta l’appartenenza e la radice dei pensieri dell’uno e dell’altro. Non sarebbe sbagliato, infatti, dire che il Proslogion e il Fides quaerens intellectum nascono e rimangono all’interno della chiesa. Essi muovono, l’uno, a partire dalle richieste dei confratelli dell’abbazia del Bec spinti da una ricerca di chiarificazione razionale della fede, l’altro, come momento metodologico preparatorio alla scrittura della Kirchliche Dogmatik i cui presupposti teorici sono già stati dall’autore meditati, sia nel contesto universitario che in quello pastorale, nel corso degli anni 1925-1930. È però vero che queste stesse opere travalicano di principio i confini dell’alveo ecclesiale e costituiscono una sfida intellettuale per il sapere nel suo complesso. In particolare per la filosofia, che si è sentita chiamata in causa o addirittura provocata da asserzioni e propositi inerenti al suo stesso intento conoscitivo.

In questo senso il saggio di Barth, prendendo le mosse da un’esplicita e radicale opposizione alla filosofia moderna (Cartesio, Spinoza, Leibniz, Wolff, Kant), intende, da un lato, cogliere l’aspetto più problematico della ricezione di Anselmo, il fatto cioè che si sia potuto leggere l’argumentum esclusivamente come una prova logica, astraendolo dal suo contesto (il riferimento non è tanto al monachesimo dell’XI secolo, ma all’insieme delle opere anselmiane); dall’altro, individuare il criterio corretto per l’interpretazione del Proslogion, che consisterebbe nel riportarlo sul terreno della teologia, pensata come quella disciplina in base alla quale si può fare esperienza e conoscenza di Dio solo nel vincolo della fede e della chiesa a partire dalla rivelazione. Emerge quindi in Barth una strutturale duplicità: egli stimola a ripensare l’argumentum al di là degli schemi concettuali consolidati dalla filosofia moderna che producono una teologia razionale estranea al suo contesto, ma nasconde il pericolo di una radicalizzazione critica che può rischiare di fallire il prospettato disvelamento del “vero” Anselmo. Il metodo d’indagine storica, perfezionato proprio nel corso del XX secolo, ci riporta infatti un Anselmo molto più “razionalista” di quanto a tutta prima si sarebbe disposti a concedere. Affiorano nell’argumentum preoccupazioni apologetiche e influenze di correnti dialettiche presenti all’interno della stessa chiesa dell’XI secolo.2 Il lavoro di Barth, pur costituendo ancor oggi un punto di riferimento insostituibile per chiunque voglia accostarsi al problema, chiede un ripensamento dei suoi risultati, soprattutto alla luce di alcune considerazioni sulla forma della ratio anselmiana e sui concetti chiave di intelligere e probare.

È d’altronde un dato di fatto che il serrato commentario barthiano abbia aperto la via a numerose nuove interpretazioni specificamente filosofiche dell’argumentum, soprattutto in area anglofona, nel cui ambito la filosofia analitica ha riproposto uno stile di lettura basato sull’analisi logico-linguistica, sulla supposta ontologia soggiacente all’argomento e sulla metafisica che esso potrebbe di conseguenza aprire.3 Il tentativo barthiano di proteggere l’argomento di Anselmo da questa trattazione filosofica è forse fallito. Tuttavia proprio a partire dal gesto di Barth, quasi come se il suo lavoro avesse dato fuoco alle polveri depositate nei secoli, è stato possibile pensare diversamente il testo anselmiano. Frutto del suo impegno di restituire Anselmo ad Anselmo può essere in fondo considerata proprio la vasta fioritura di studi storici sul Proslogion e sulla sua genesi, i quali — mettendo da parte almeno provvisoriamente l’ormai abusata prassi di decidere se l’argomento funzioni o meno — forniscono irrinunciabili strumenti concettuali per entrare nel pensiero anselmiano. Quando questi studi, oltre a ricostruire fattualmente condizioni e relazioni del Proslogion, ambiscono a un’indicazione di senso per l’attività stessa del filosofare, rappresentano una chiave interpretativa privilegiata senza la quale una nuova immagine dell’argomento — qualora si aspiri a questo — non potrebbe essere data.4

Dopo Fides quaerens intellectum, dunque, rinascono con nuova linfa e più sottile consapevolezza i due versanti della cultura teologica contro cui Barth si era scagliato: la teologia liberale ovvero l’idea che ogni fenomeno religioso debba passare al vaglio della scienza storica e la teologia razionale ovvero la convinzione che i contenuti della religione possano essere conosciuti indipendentemente dall’atto di fede, cioè da un pensiero filosofico in senso lato. Barth ha dato avvio a questo duplice movimento d’indagine intorno al Proslogion e per questo va certamente riconosciuto come una pietra miliare della lunga storia dell’argumentum. C’è però in lui evidentemente una tensione che coinvolge non solo il suo rapporto con Anselmo, ma l’intero progetto teologico della Kirchliche Dogmatik. Dal nostro punto di vista, che non vuole limitarsi a cercare la fedeltà e l’infedeltà ad Anselmo, l’intreccio ora richiamato appare ancora oggi stimolante per la riflessione filosofica, perché sia l’atteggiamento storico sia quello quello razionalistico non dovrebbero in nessun caso escludere l’incontro con l’oggetto del proprio studio. In questo senso Fides quaerens intellectum è l’esempio di un lavoro perfettamente riuscito che, pur muovendo da una prospettiva radicalmente teologica, non cessa di istruire la filosofia.5

1. Anselmo e la teologia scientifica

«Lo scopo della teologia non può consistere nel portare gli uomini alla fede, e neppure nel confermarli in essa, anzi nemmeno nel liberare la loro fede dal dubbio» (FQI, 15; 61). Barth, fin dalle prime pagine di Fides quaerens intellectum, mostra con estrema chiarezza la strategia ermeneutica che presiede all’interpretazione del Proslogion anselmiano. In quanto teologo che muove dall’avvenuta rivelazione di Cristo, Barth sostiene che il compito dell’interprete non consiste nel mettere tra parentesi la fede con lo scopo di darne una dimostrazione o una fondazione, bensì di prenderne atto e di operare al suo interno. La teologia, cioè, nella fede non trova un inciampo, ma un punto archimedeico, sul quale fondare la propria pretesa di verità. Come motivo d’esordio, Barth intende richiamarsi qui alle ragioni che avevano animato la sua ricerca dopo l’iniziale spunto idealistico della Lettera ai Romani. Se in quell’opera, infatti, gli accenti dialettici avrebbero potuto metter capo a una prospettiva fortemente soggettivistica in cui Dio e la rivelazione stanno solo “nel rapporto” alla coscienza credente, negli anni successivi egli ha cercato a più riprese di porre l’attenzione sul tema dell’oggettività di Dio. Il totalmente altro del Römerbrief, in altre parole, non è puramente attingibile soltanto nell’atto di fede, ma anzitutto in se stesso, nel suo venire incontro, nel suo “essere” che si pone, con autentico realismo, di fronte a noi. Per questo motivo, come Barth ebbe spesso occasione di ricordare, la teologia è una «scienza della fede» (Glaubenswissenschaft) (FQI, 26; 73).

La teologia, pur dispiegandosi in un «cammino» (FQI, 40; 89) fatto di progressi e ritrattazioni, ha nella fede un fondamento scientifico, una ratio essendi. Solo la fede può, infatti, fornire quel datum — l’originario e inesauribile evento del Cristo-che-viene — capace di aprire alla ricerca teologica, intesa qui come una perenne tensione alla chiarificazione razionale della verità rivelata. In questo senso, dunque, la teologia non può condurre nessun uomo alla fede, ma al contrario la fede di un uomo può divenire il presupposto per una autentica conoscenza teologica. Così accade, ad esempio, per Anselmo. La fede, in lui, è dono che viene dall’alto e dall’altro, da quel Dio «ganz anderes» (FQI, 28; 75) che può illuminare con il lampo della grazia: egli vi si pone nell’atteggiamento di colui che vi «sta di fronte» (FQI, 39; 82) nell’umiltà di chi ha il capo chino6 sotto la volta della «lux inaccessibilis» (AO I, 98; 89). E se l’intellectus, che brama di sapere, resta in lui sempre almeno in parte oscurato dalla limitatezza dei propri strumenti e sopraffatto dall’immensità dell’oggetto (cfr. AO I, 112; 121), trova tuttavia nella fede un conforto e un riparo, che gli rendono sopportabile la resistenza dinanzi all’incomprensibile. Il mistero, oltretutto, vivifica e fortifica la fede, la conserva e la alimenta, perché Dio stesso ne è fonte. Il credente «è così sicuro della sua fede a motivo della grazia proveniente da Dio, che non conosce nulla che lo potrebbe scostare dal credervi fermamente (ab eius firmitate evellere valeat), anche se non potesse in nessuna maniera (nulla ratione) comprendere ciò che crede» (FQI, 16; 61). Proprio l’incomprensibilità di Dio è l’autentico motore dialettico della ricerca teologica: la fede che crede al mistero si sforza infatti ansiosamente7 di cogliere l’essenza divina, ma al tempo stesso, consapevole dell’impossibilità del compito, si raccoglie in un gesto di fiducia estrema che costituisce, al temine del movimento, l’antitesi logica dell’incomprensibilità da cui era avvolta. Nelle parole dello stesso Anselmo si ritrova lo spunto dialettico: «ad te videndum factus sum, et nondum feci propter quod factus sum» (AO I, 98; 91). Nella prospettiva di Barth la teologia trova dunque ragion d’essere in un’ontologia della sproporzione e nella conseguente dialettica della fede.8

Secondo l’immagine più volte ricorrente nel testo barthiano, fede e teologia stanno in un rapporto di sopravanzamento reciproco: la seconda sporge sulla prima, come un ampio terrazzo panoramico si appoggia al tetto di una reggia o una torre ardita si slancia a partire dalle solide mura del castello. Il compito della teologia è uno sforzo di elevazione a partire dalla roccia della fede. La metaforica di Barth, profondamente mutata rispetto al Römerbrief, si fa più docile: la sproporzione, se pur non colmabile, diventa in qualche modo percorribile, ed è sulla stessa linea di quella anselmiana nei termini di ascesa e contemplazione. La teologia è perciò un compito spirituale superiore che non può sottoporre a critica il fondamento da cui parte: «chi si pone la domanda teologica non intende mettere in discussione l’esistenza della sua fede» (FQI, 16; 61). E i risultati del quaerere teologico, siano essi miseri o imponenti, non revocano in dubbio la verità del credere, piuttosto «è presupposto (Voraussetzung) di ogni ricerca teologica che la fede in quanto tale rimanga indifferente (unberührt) alle peripezie del sì e del no teologici» (FQI, 16; 61).

Il monaco benedettino è per Barth un autentico teologo.9 Di conseguenza, nel commentario della famosa prova non compare quasi mai la parola filosofia o l’aggettivo filosofico,10 senz’altro perché egli intende purificare l’unum argumentum anche da un punto di vista strettamente lessicale. E le parole che egli usa per dare spessore al «programma teologico», di cui parla fin dal sottotitolo dell’opera, esprimono la volontà di superare le sedimentazioni filosofiche accumulate nei secoli dalla prova: Anselmo — egli sostiene — non sta cercando di costruire una «teologia naturale» (FQI, 58; 104) o «aprioristica» (FQI, 56; 102), che in qualche modo astragga dalla fede e si ponga «sul terreno di una ragione umana universale» (FQI, 66; 117); il suo «presunto “razionalismo”» (FQI, 54; 101) risiede piuttosto solo nel dispiegamento del dogma fondato nella fede. «O forse Anselmo dovrebbe aver pensato del tutto altrimenti» (FQI, 53; 100) nel cercare una “prova” dell’esistenza di Dio? Sarebbe possibile ammettere che egli abbia voluto invenire «la legge dell’essere e dell’essere-così dell’oggetto di fede anche nella facoltà umana di formare concetti e giudizi […], dunque avere ritenuto possibile e necessario un conoscere autonomo, che attinge a fonti sue proprie, accanto a quelle della fede» (FQI, 53; 100)?

Va riconosciuto che l’angolo d’entrata al pensiero anselmiano è già propriamente quello della dogmatica o meglio dei prolegomeni a essa.11 Barth non intende infatti giustificare la teologia, ma esporre il metodo che ad essa presiede e che egli trova esemplarmente raffigurato nel progetto anselmiano. Si comprende perciò come la teologia sia chiamata scienza e si configuri mediante l’esplicitazione di un rigoroso metodo d’indagine.12 È solo tenendo presente tale impostazione che si comprende l’invito barthiano a pensare il lavoro teologico come un’interrogazione sul come (inwiefern / quomodo) dell’Offenbaren / revelatum. Il teologo infatti non può dimostrare, bensì soltanto mostrare. Si interroga «in qual modo sia così come il cristiano crede che sia» (FQI, 26; 74) e non pretende certo di approdare a una fondazione del Credo, ma a una sua semplice chiarificazione, a un dispiegamento razionale della tessitura della fede che si presenta naturalmente in complesse annodature. Nel Credo sono infatti presenti «articoli» (FQI, 54ss.; 101ss.) le cui relazioni l’intelletto finito non riesce inizialmente a comprendere. La ricerca dell’intelligenza si muove perciò all’interno di uno spazio circoscritto, istituito e reso possibile solo dall’atto di fede. Per questo motivo «una scienza della fede che negasse o mettesse in dubbio la fede […] smetterebbe non soltanto ipso facto di essere credente, ma pure di essere scientifica» (FQI, 26; 73). E, sostiene Barth, si dà il caso che persino una ricerca fondata su un metodo rigoroso possa a un certo momento andare oltre le proprie premesse, varcare la soglia della scientificità e trovarsi in quella che egli chiama «ateologia» (FQI, 26; 74). Il compito del teologo è allora quello di rimanere ancorato al credo e di resistere alla tentazione del ritrovamento dell’ulteriore fondabilità del sistema. Il teologo è chiamato all’esercizio della humilitas che gli consente di non trasformare la propria anelante ricerca in una tecnica razionale che — in termini paradossali — darebbe al discorso su Dio un fondamento esterno alla parola di Dio.

«Non tento, domine, penetrare altitudinem tuam, quia nullatenus comparo illi intellectum meum; sed desidero aliquatenus intelligere veritatem tuam, quam credit et amat cor meum» (AO I, 100; 95). Uno dei punti di forza di Anselmo si mostra peculiarmente proprio nel principio dell’aliquatenus intelligere: comprendere almeno fino a un certo punto, dove ci sono insieme il desiderio insoffocabile di capire in profondità — almeno! — e la serena consapevolezza del distacco incolmabile da Dio — fino a un certo punto.13 Il compito della teologia, pervenuta a questo limite, sarà ormai quello di «rationabiliter comprehendere incomprehensibile esse, quomodo… ».14

Certamente l’atteggiamento barthiano nei confronti del Proslogion e del pensiero di Anselmo costituisce un momento di svolta nel vastissimo quadro delle interpretazioni dell’argumentum. «L’opera di Barth fu decisiva per mettere fine a [un] modo di vedere semplicistico e anacronistico»15: quello che — sotto l’influsso delle tendenze razionalistiche di matrice illuminista — voleva vedere in Anselmo l’autore di un pensiero puramente razionale o filosofico. In Barth è cioè custodito un nuovo modo d’intendere Anselmo e la sua famosa “prova”, fondato su un criterio ermeneutico che intende leggere il Proslogion (e in particolare i capitoli II-IV) alla luce del complesso delle opere anselmiane, rintracciando un vero e proprio «programma teologico» nel quale inscrivere i concetti di intelligere e probare. Va detto tuttavia che tale posizione critica non prende le mosse dal desiderio di una pura contestualizzazione storica, quanto piuttosto da un’aperta negazione delle esposizioni di spirito cartesiano e kantiano, che tendono ad astrarre la prova da ogni possibile riferimento interno, trattandola come un elemento del tutto indipendente che l’avvolge nelle pieghe dimostrative della metafisica moderna.16

È propriamente questa confusione concettuale che Barth intende combattere: non si tratta infatti di ricostruire storicamente la ratio anselmiana, ma di vederla all’opera nella comprensione della fede e, quindi, di smascherare un uso inadeguato di questa ratio, che invece è nata al solo scopo di rendere chiara la fede. In questo senso risulta inevitabile uno scontro diretto sia con la filosofia moderna sia con la teologia cattolica, per non parlare del protestantesimo liberale, tutti in fondo colpevoli agli occhi di Barth di aver elaborato una ratio separata dalla rivelazione che fosse comunque capace di mettere capo a un discorso autonomo su Dio: la filosofia, ritenendo possibile — almeno fino a Kant e alle sue riprese liberali — una teologia naturale; il cattolicesimo, consentendo alla ragione di delimitare quei preambula fidei a partire dai quali costruire il sapere teologico; il protestantesimo liberale per aver concesso al metodo storico il diritto di stabilire il criterio di verità della rivelazione. Il discorso sulla scientificità della teologia va dunque preso come chiave di lettura primaria del saggio barthiano, perché può mostrare al tempo stesso la specificità dell’epistemologia teologica di Anselmo e la sua rilevanza per la forma della teologia in generale. D’altronde è dato di ritrovare così in Anselmo non solo la causa remota delle dispute sulla validità dell’argomento, ma anche l’affiorare delle conseguenze epistemologiche che quella validità comporta tanto per la filosofia quanto per la teologia: sulla prova anselmiana si misura infatti la portata conoscitiva e l’impianto gnoseologico generale di entrambe le discipline. Barth, dunque, scegliendo Anselmo, sceglie una forma della teologia che inevitabilmente riguarda il filosofare nei suoi presupposti epistemici ed è consapevole di operare una fondazione del discorso teologico che esclude per principio il modello di ragione affermatosi nei sistemi moderni e ancora nelle filosofie posthegeliane.17

Mentre allora Barth si separa dalla filosofia, dimostra di prenderne sul serio la pretesa di verità. E rispetto all’argumentum ciò significa anzitutto riconoscerne il contesto razionale: per piegarlo certo all’esigenza del sapere teologico, ma anche per mostrarne a suo modo di vedere l’intima correlazione. Barth, cioè, non rivendica un’irrilevanza della filosofia nei confronti dell’argomento, ma al contrario una sua piena incidenza, che oppone e scolpisce la differenza. Nel far questo egli affronta la filosofia sul suo stesso terreno, provocandola sui temi fondamentali dell’intelligere e del probare.

2. L’intelligere e i suoi momenti

«Neque enim quaero intelligere ut credam, sed credo ut intelligam» (AO I, 100; 95). Una volta descritta la condizione travagliata dell’uomo che si trova costretto a soffrire per la mancanza di Dio che pure gli è intorno e lo permea della sua luce,18 Anselmo nutre il profondo desiderio di oltrepassare questa limitatezza e di «accedere» (AO I, 113; 123) a Dio mediante il suo stesso aiuto: «doce me quaerere te, et ostende te quaerenti; quia nec quaerere te possum nisi tu doceas, nec invenire nisi te ostendas» (AO I, 100; 93). In Anselmo v’è, dunque, un radicale abbandono alla fermezza del Dio che viene incontro all’uomo con una luce rischiaratrice: solo se Dio si mostra, possiamo sperare di vederlo, mentre da noi stessi, nella nostra angustia,19 non sappiamo uscire dalle tenebre.

Nell’interpretazione barthiana quest’iniziativa di Dio diviene un paradigma della comprensione teologica che produce una tripartizione della conoscenza: fides, intelligere, visio. «L’intelligere, come possibilità desiderabile e raggiungibile, si trova nella direzione della visione beatifica» (FQI, 19; 63). Il nucleo di ogni ricerca, ciò che dà possibilità di avanzamento, è certamente e soltanto la fides, senza la quale non si può pensare di salire al secondo grado. In essa Dio si autorivela, prende l’iniziativa, si mostra all’uomo e gli insegna a cercarlo. In prospettiva escatologica la fede non basta però a se stessa, poiché il vero fine dell’uomo è la beatitudine della contemplazione, che non è più, in certo senso, paragonabile al semplice vedere: è visione «pleno corde, plena mente, plena anima, pleno toto homine» (AO I, 121; 141). L’intelligere, allora, fa un passo oltre e insiste nella direzione della visio, proprio perché ha in comune con essa almeno il semplice vedere, e conduce l’uomo, per così dire, non al di là, ma «al limite della fede» (FQI, 19; 63) che, al tempo stesso, è «il limite inesorabile dell’umanità» (FQI, 19; 63). L’intelligere è, perciò, un medio tra fede e visione: Barth ne parla come del monte che si trova fra un osservatore situato nella valle e il sole. Dalla cima l’osservatore può raccogliere col proprio sguardo l’interezza del percorso dalla terra al cielo. E la similitudine può spingersi oltre, diventando intrinsecamente anselmiana, se si considera che, nello sforzo di accedere, si tratta di una vera e propria salita a incontrare Dio, in una trascolorazione di episodi biblici che in lui alimentano un’ascesa tutta interiore, sul modello agostiniano.20 L’intelligere come salita è un labor, un superamento di sé, una prova nel senso pieno, di resistenza di fronte alla disperazione, di coraggio nelle asperità, un vero e proprio calvario attraverso il quale si deve passare per poter giungere alla verità. L’intelligere non è dunque fine a se stesso, ma un passaggio inevitabile per raggiungere un — seppur ancora provvisorio — nuovo e più completo luogo divino.

Oltre a questa prospettiva escatologica la fides, chiamata a superare se stessa per incontrare Dio attraverso la similitudine della visione, si protende verso la conoscenza di Dio in quanto oggetto d’amore. Il tendere in Deum21 si concretizza in un’appassionata ricerca che trasforma il credere a in un credere in. Il maggior pericolo per la fede è infatti quello di essere «morta» (FQI, 33; 78).22 Il gesto essenziale di questa fides è allora il suo movimento verso l’intelligenza di Dio e non tanto verso l’intelligenza di sé, dato che essa ha già posto la sua ragion d’essere in Dio. Per questo motivo il cosiddetto intellectus fidei è un genitivo soggettivo, in cui la fede desidera e attua l’intelligenza mediante uno sbilanciamento verso l’esteriorità estrema — che pur le è intima — del Verbo. Capire Dio diventa un compito per il credente, un compito che egli non deve eludere per non peccare di negligenza e per non costruirsi nella fede una dimora senza preoccupazioni. La fede «esige (verlangt) » (FQI, 14; 60) la conoscenza. «Non è l’esistenza, ma […] l’essenza della fede a esigere la conoscenza» (FQI, 16; 61).23

Barth trova così una forza epistemologica nel credo ut intelligam e ne fa principio ermeneutico dell’intero Proslogion, con riguardo particolare ai capitoli della famosa prova dell’esistenza di Dio. Egli scorge nell’argumentum il limite della fede e del pensiero stesso: è il supremo «riconoscimento di ciò che è stato annunciato come verità» (FQI, 24; 69). L’intellectus, che la fede continuamente sollecita alla ricerca di Dio, giustifica la domanda e pretende la risposta che incrementi il sapere. È per questo che anche la questione dell’esistenza, che Barth riconosce essere centrale, è lecita e addirittura acquista una superiore rilevanza ai fini della fondazione del sistema teologico (cfr. FQI, 91-102; 147-156).

Ma come si giustifica questo supposto incremento del sapere, come funziona il lavoro di ricerca? Per Barth si deve partire dalla constatazione che ogni affermazione del teologo è in realtà inadeguata a comprendere Dio. Questo perché solo la Parola Sacra ha il diritto di supremazia, in quanto pronunciata da Dio stesso, seppure attraverso la mediazione di una «forma logico-grammaticale» (FQI, 23; 69). La teologia non può far altro che ripetere quella parola, prendendo coscienza del fatto che, anche nella più felice delle espressioni, si presenta con uno scarto di inadeguatezza. «Solo Dio stesso possiede, in senso stretto, un concetto di Dio» (FQI, 28; 75), mentre gli uomini a rigore possono avere concetti compiuti solo di enti finiti. Adempiere alla ricerca è, tuttavia, possibile in quanto le affermazioni teologiche sono vere affermazioni nella misura in cui partecipano della grazia divina e si riflettono nell’essenza di Dio proprio come le cose create si specchiano nel Creatore. Le parole teologiche sono, quindi, un’immagine indiretta di Dio: per questo ogni teologia «che dice la verità è “speculativa” (spekulativ). [Essa] non può sottrarsi a questa condizione, non le è consentito dimenticarla, oppure vergognarsene» (FQI, 29; 75).24

Fatta questa precisazione, il lavoro del teologo si apre finalmente al suo campo specifico con un sentimento di abbandono e di fiducia nei confronti dell’oggetto del proprio studio e del proprio amore. Anche l’esistenza di Dio allora, cercata con tanto ardore, sarà trovata pressoché immancabilmente, perché «se fides quaerit intellectum, può dunque trattarsi soltanto di percorrere il tratto intermedio fra l’avvenuta presa di conoscenza (stattgefundene Kenntnisnahme) e il riconoscimento (Bejahung) ugualmente già avvenuto» (FQI, 24; 69). Anselmo, secondo Barth, non si avventura ciecamente verso l’infinito senza punti d’ancoraggio, come si direbbe di chi, procedendo “per prove ed errori”, percorre tutte le strade che gli si presentano. Egli non cessa neppure per un istante di essere un teologo e un uomo di fede, e il suo «ricercato intelligere […] inizia proprio laddove termina la citazione biblica» (FQI, 30; 76).

Il teologo non potrà avvalersi della certezza delle proprie affermazioni, ma soltanto di una relativa ratio certitudinis, facendo eco dentro di sé del paradigmatico aliquatenus anselmiano. In virtù di questa situazione, ogni suo pronunciamento è provvisorio e penultimo e attende una conferma «da parte di Dio e degli uomini» (FQI, 30; 76). Esiste, pertanto, un progresso teologico. L’intelligenza finita, per quanto illuminata da Dio, non può certo esaurirne il mistero: una prosecuzione del lavoro di ricerca è sempre possibile. Ad esempio, gli imprescindibili scritti dei Padri — sotto la cui ala protettiva Anselmo stesso si pone — non hanno svelato l’interezza della natura divina. La ratio veritatis è troppo vasta perché la si possa estinguere; è sempre ulteriormente esplorabile — dice Barth. La teologia, perfettibile, distingue diversi gradi della ratio, regolati dalla sapienza di Dio che «sa bene che cosa conviene per noi di volta in volta conoscere» (FQI, 31; 77). Proprio per questo motivo il criterio che consente di stabilire la validità di un discorso teologico risiede in ultima istanza in Dio stesso; anzi questa validità è solennemente «nascosta» in Dio.25 E al teologo non resta che prendere la decisione per l’ammissibilità di un teologumeno a partire dalla propria coscienza e schiudendo le proprie parole al riscontro degli uditori, interlocutori e lettori. Questa contestabilità e revocabilità della teologia ne fa una scienza che nel migliore dei casi può «ricevere un’approvazione umana, senza che per tale approvazione si possa […] fare appello al criterio dell’istanza ultima (letztinstanzliches Kriterium) » (FQI, 32; 77). Si manifesta qui l’idea di un’interpretazione comunitaria del lavoro teologico: e sembra proprio essere Anselmo stesso a consegnarla a Barth, con il ricordo di quelle «pressanti preghiere» dei confratelli, con la gioia che lo porta a scrivere il suo opuscolo nell’umile convinzione che «sarebbe piaciuto a qualche lettore», senza tuttavia l’arroganza di credere di aver scoperto qualcosa di «troppo nuovo» e non ricusando di «rispondere alle obiezioni» contro di esso. Anselmo viene interpellato come maestro spirituale, come colui che può aggiungere ancora qualcosa agli Scritti dei Padri cattolici e «massimamente del beato Agostino».

La dimensione comunitaria si evidenzia anche nella struttura che soggiace alla nascita della fede. «La fede viene dall’ascolto e l’ascolto viene dalla predicazione» (FQI, 21; 67). L’accoglienza della parola di Dio passa dunque entro i vincoli della Sacra Scrittura e della chiesa. La Bibbia predicata è elemento imprescindibile: parola umana che legittimamente rappresenta la Parola di Dio. Insieme ad essa, gli scritti dei Padri e soprattutto di sant’Agostino. Ma più di tutto è l’adesione al Credo a fare di Anselmo un teologo e perciò uno che si muove all’interno della disciplina della chiesa. La fede non è mai pensata come un semplice atto spontaneo, ma al contrario come fenomeno ecclesiale. Il Credo rappresenta in certo senso l’abbecedario della fede, senza il quale nessun discorso sarebbe in realtà possibile e nessuna ricerca percorribile. Attraverso la chiesa, la Parola di Dio «è identica alla “parola di coloro che predicano”» Dio (FQI, 23; 68).

La fede, che «non ci può essere senza la nozione di ciò che si deve credere (fides esse nequit sine conceptione) » (FQI, 18; 62), costruita attraverso una meditazione degli insegnamenti ecclesiali e frutto di un percorso complesso fatto di esercizio, studio, applicazione alla Scrittura, dialogo, questa fede affonda le proprie radici nella comunità cristiana traendo da essa la propria linfa vitale. Si istituisce una relazione tra credo e Credo, in cui la fede come «credere del Credo è già in certo qual modo un intelligere, che differisce solo per grado e non per natura dall’intelligere cui essa “aspira” (verlangt) » (FQI, 23; 68). Ed è per ribadire l’importanza del come nel lavoro teologico che Barth afferma risolutamente: «la fede si riferisce al Credo della Chiesa, nella quale siamo stati battezzati. Dunque la conoscenza ricercata non può in ogni caso essere altro che una prosecuzione e un’esplicazione di quel riconoscimento (Bejahung) del Credo della Chiesa, che si compie già implicitamente nella fede stessa» (FQI, 25; 73).

L’intelligere è quindi un ri-pensare (nachdenken) il Credo precedentemente riconosciuto. L’anselmiano intelligere è intus-legere, leggere nel testo del Credo, ripensare la verità rivelata facendo proprio il tratto intermedio — fra presa di coscienza e riconoscimento — che a essa porta. Armonicamente l’intelligere «si incontra» con il credere, compiendo l’assimilazione del testo esteriore della rivelazione (Bibbia, Credo, chiesa) al testo tutto interiore, che dev’essere cercato e trovato, perché solo in esso la rivelazione stessa ottiene la propria casa.26 Se il testo esteriore non divenisse interiore, la fede sarebbe nuovamente vuota, morta. Invece, la testimonianza della fede passa attraverso l’appropriazione intima del messaggio cristiano e il lavoro del teologo è il compimento dell’opera di meditazione e interiorizzazione comunitaria.

«Intra in cubiculum mentis tuae, exclude omnia praeter Deum et quae te iuvent ad quaerendum eum» (AO I, 97; 89). La preparazione per l’ascesa interiore sta per essere ultimata, la scoperta di Dio è la scoperta di sé, ma come annullamento del sé in Dio. Sfiorando il misticismo, l’Anselmo di Barth deve rinunciare al proprio ego per riconoscere il suo fondamento assoluto: per conoscere Dio, altro non si può fare se non espropriarsi, come creature che rispettano il giusto ordine della creazione, riconoscendo di non poter elevare la propria mente al di sopra di quella ordinatrice, «quod valde est absurdum» (AO I, 103; 99).

In ultima analisi, l’intelligere che Barth trova in Anselmo — e che diventa lo stesso intelligere di Barth — si colora dell’interiorità agostiniana e monastica. L’intelligere cercato e trovato, cercato dove non si poteva non trovare, ma pur sempre certamente inatteso, questo intelligere viene alla luce dalle pagine barthiane: esso si articola in momenti e figure che hanno come denominatore comune la riflessione sulla fides. Questi momenti sono distinti soltanto dal punto di vista logico: appartengono cioè tutti insieme alla forma dell’intelligere, e così vanno compresi, nell’unità di una concatenazione logica, sebbene diacronicamente esposti quasi fossero fasi e periodi di un reale percorso teologico.

3. Provare è pregare

«A chi dubita o nega che vi sia una tale natura della quale non si possa pensare nulla di maggiore, si dice qui che la sua esistenza è provata… » (AO I, 125; 147). Così Gaunilone, nella sua Difesa dell’insipiente, descrive l’opuscolo di Anselmo, scegliendo una parola che avrà lunga storia: probari. Parola che Anselmo non ha usato nel suo scritto,27 ma che non esita ora ad accogliere nella Risposta a Gaunilone per parlare di ciò che in quello scritto è avvenuto: «Ritengo di aver mostrato che, nel precedente opuscolo, ho provato (probasse) con un’argomentazione non debole, ma sufficientemente necessaria, che ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste nella realtà stessa e che l’argomentazione non è indebolita da alcuna salda obiezione» (AO I, 138; 193).

Si parla del provare, di argomentazione (argumentatio) e di obiezioni (obiectiones). Ma Barth non si lascia influenzare dalla semantica superficiale di queste parole e tenta di scavare più in profondità, chiedendosi quale sia il vero senso della “prova” di Anselmo. E, alla luce di quanto ha rinvenuto nell’anselmiano intelligere, dichiara la sostanziale conformità e appartenenza di probare e intelligere, sapendo che, per comprendere «che cosa significhi qui “provare” (beweisen), occorre anzitutto tenere conto del fatto che la ratio veritatis, contenuta negli articoli del Credo cristiano, neppure per un istante viene come tale messa in discussione» (FQI, 60; 111). Anselmo ha presente le contestazioni e le dispute di coloro che non accettano unanimemente la dottrina cattolica, o sono addirittura non cristiani, ma il suo provare non vuole porsi come opinione ben argomentata tra le altre opinioni. Non fa appello all’argomentazione necessaria per convincere chicchessia, in modo puramente razionale, della verità delle proprie conclusioni. Il dialogo interiore e il dialogo esteriore o comunitario non escono dalla certezza della fede, ma vi si appoggiano. Si potrebbe dire che non c’è dialettica, ma semplice dinamica di approfondimento: è il dialogo della fede stessa che scava più a fondo, fino a capirne l’intima ragione. «Neppure per un momento viene abbandonato il terreno o il tetto della Chiesa» (FQI, 61; 112). Dietro questo provare, che è l’unico provare teologico — non ci può essere altro provare quando si parla dell’esistenza di Dio — non vi sono libere opinioni e voci con pari dignità.28 Né tantomeno si può ragionevolmente pensare che Anselmo si sia posto seriamente il problema di convertire il negatore di Dio, di cui Gaunilone veste i panni per esporre i suoi dubbi riguardo alla cogenza della prova. Tutto ciò è una «maschera» (FQI, 60; 112), è un sincero “fare finta di”, un farsi portavoce29 di coloro che non credono, ma sempre dal punto di vista del credente che si interroga, «non senza inquietudine» (FQI, 60; 111), sulla ratio della propria fede.

Ma allora cos’è questa «inquietudine» che scorre nelle vene del credente che cerca e del teologo che ricerca? Se la fede non può mettersi in dubbio nel confronto con altre opinioni, cosa provoca questa preoccupazione? Dice Barth che, posto come saldo il fatto che Dio esista, che sia l’essere supremo, in tre persone etc., Anselmo si preoccupa di chiarire come questo sia vero. Ma il come, più volte incontrato, può essere veramente la sola causa dell’inquietudine? Se la fiducia in Dio è piena, è possibile che soltanto la mancata comprensione di Dio in se stesso o della natura dei suoi comandamenti possa creare quest’agitazione interiore? L’ansia della cogitatio anselmiana, proprio perché continuamente posta di fronte alla salvezza che proviene dalla contemplazione, riproduce puntualmente il dramma emotivo su cui Barth fa leva: «si hic non es, ubi te quaerat absentem? », «quibus signis, qua facie te quaeram? ». E la declinazione degli opposti consegna l’immagine spezzata del peregrino lontano dalla patria celeste (accessibilis / inaccessibilis, impulsum / expulsum, spero / despero, deorsum / sursum) che anela alla dimora ultima del proprio cammino (aspiro / suspiro / respiro, desidero / quaero / invenio). Come Dio sia in tre persone, come egli sia tutto ciò che è «meglio essere che non essere»,30 come «giustamente punisca e giustamente perdoni»31: il come (il Wie e non il Was) degli articoli di fede muove l’indagine teologica. E in Anselmo la scoperta dell’unum argumentum in grado di scogliere l’enigma dell’esistenza illumina con la sua robustezza tutte le questioni che riguardano l’essenza. L’inquietudine è dunque figlia dell’incognita consegnata fin dall’inizio alla ricerca; e si deve davvero cercare di estinguerla con un’«indagine coscienziosa», che «nel suo progredire non lasci dietro a sé elementi non chiariti» (FQI, 62; 113).

Il lavoro del teologo all’interno del Credo sarà dunque quello di isolare quell’incognita x che sarà risolta «con l’ausilio degli articoli a, b, c, d… supposti come noti» (FQI, 54; 102). Egli è chiamato, da una parte, a fare una scelta dei punti già fermi, selezionando quelli che a lui servono; dall’altra, a «realizzare — secondo le regole della logica fondata sul principio di non contraddizione (nel quadro delle sue possibilità!) — il compito che a lui proprio compete di fornire definizioni, conclusioni, distinzioni e concatenazioni» (FQI, 55; 102) che alimentano la soluzione dell’incognita. Anche la prova dell’esistenza di Dio diventa, perciò, un’opera di chiarificazione del Credo, a partire dal Credo stesso, nel Credo stesso. Il metodo della sola ratio, che caratterizza l’indagine del Monologion, ma che permea di sé anche l’intero Proslogion, va pertanto spiegato come attitudine del teologo a rinunciare alla citazione della Scrittura per la propria argomentazione. Egli parte dalla Bibbia, da un versetto di essa, ma procede poi con i propri mezzi (fino a che gli è consentito!); cerca, collega, pronuncia conclusioni e mostra razionalmente come stanno le cose. Il provare deve in certo qual modo — per rendere interiore quel testo esteriore — oltrepassare la lettura e aprire un dibattito prescindendo e supponendo (FQI, 42; 91) che nulla si sappia della Scrittura. Sarebbe oltretutto sbagliato citare la Bibbia per risolvere i problemi che da essa sorgono, «il fatto di ricorrere a “prove scritturali” equivarrebbe a ribadire ancora una volta il problema, ma niente affatto a contribuire alla sua trattazione» (FQI, 42; 91). Prescindendo e supponendo: quando si tratta di intelligere e probare non si deve fare ricorso alla Parola Sacra.

È evidente a questo punto che il passo verso la ricomposizione dell’unità gnoseologica anselmiana è già compiuto: se intelligere e probare si situano sulla linea continua tracciata fra desiderio e ricerca, quaerere e invenire, è allora doveroso riconoscere l’oratio come orizzonte comune a essi. «Quaeram te desiderando, desiderem quaerendo. Inveniam amando, amem inveniendo» (AO I, 100; 95). La preghiera, che in Anselmo segna gli snodi concettuali della meditazione, diviene in Barth la condizione della pulchritudo che accompagna il conoscere teologico.32 Dato che l’intelligere incarna la tensione alla conoscenza propria di ogni credente e che quindi la ricerca della ratio fidei è il compimento richiesto dalla fede stessa, il provare diventa pregare: anzi provare è pregare, in quanto conoscere è entrare nella grazia, che dispensa l’intelligenza della fede come premio. È rifarsi direttamente all’amore di Dio, chiedere per ricevere e ricevere per amare. E allo stesso modo, pregare è provare: la preghiera migliore, quella più penetrante e retta,33 è la prova. Agostinianamente, cercare è trovare e trovare è amare.34

La teologia di Barth, attraverso Anselmo e la sua prova, conduce dunque al riconoscimento del Dio della fede e della chiesa, in una gerarchia di movimenti — orare, intelligere, probare, laetificare — che sporgono vicendevolmente uno sull’altro, annullandosi e inverandosi. Ognuno di essi è eminente a partire da quello che lo precede: la preghiera introduce al mistero di Dio dato che, se Dio non si mostrasse nella religiosità del credere, non ci potrebbe essere ricerca; ma l’intelligenza, pure invocata dalla preghiera stessa — e anzi, in questo contesto, autentico scopo della preghiera — sopravanza il gesto orante e diventa devozione di grado superiore; infine, quindi, è la gioia a manifestarsi con un’attestazione di riconoscimento e a coronare l’ascesa a Dio: «et hoc es tu, domine deus noster» (AO I, 103; 99).

Attraverso una ridefinizione dei concetti di intelligere, probare e orare, Barth compie il gesto straordinario di coniugare, almeno provvisoriamente, ratio e fides, restituendo in tal modo il più autentico procedimento anselmiano. La sua attitudine ermeneutica ci pone inoltre dinanzi a un’evidenza di notevole portata: nonostante l’abisso della distanza secolare e culturale, Barth diviene infatti un contemporaneo di Anselmo poiché, nella chiesa, può leggere il testo anselmiano come una fonte originaria sopra la quale non si deposita il peso del tempo, ma che al contrario trasforma il tempo nella sempre nuova possibilità di un incontro e di una condivisione. Si deve certo riconoscere che il Proslogion non è un testo appartenente alla Sacra Scrittura e perciò non direttamente depositario della rivelazione; ma proprio in quanto ne va dell’esistenza di Dio, fondamento di ogni possibile teologia, esso può e, in certo modo, deve essere interpretato nel coinvolgimento della verità, che implica senz’altro il rischio di un atto libero. Proprio per questo, nonostante Barth pervenga a una fondazione ultima e perciò non revocabile (e quindi anche certa e indubitabile) della teologia, si rende conto che questo passo può compiersi solo mediante l’assicurazione alla validità della prova anselmiana. Estremamente vicino alla posizione di Tommaso, su cui aveva a lungo meditato a partire dalla metà degli anni Venti, Barth fa dipendere la teologia da un gesto filosofico, che, pur muovendo da un’opposizione radicale al principio dell’analogia entis, dimostra di riprodurre motu contrario la drammatica necessità di un atto fondativo: che si configura senz’altro come un atto esclusivo, attraverso il quale la teologia si riconosce come posita e in certo modo capace di rendere ragione — specularmente — anche della filosofia.35

4. La ragione dialettica

Dall’analisi dei concetti di intelligere e probare emerge che la prova di Anselmo, spogliato della sua veste metafisica o puramente razionale, diviene fondamento di una teologia scientifica i cui limiti epistemologici sono fissati nei concetti di fede e chiesa correlati in modo sistematico. Ciò comporta una separazione tra l’intelligere della fides e l’intelligere della ratio: non è escluso che vicendevolmente l’uno compenetri l’altro, ma resta precluso al secondo un accesso autonomo alla verità. Il commentario di Barth si muove su questo fil di lama che conduce alla proclamazione di una teologia che, in conformità agli intenti anselmiani, nega la possibilità di un alternativo discorso di verità, sebbene riconosca la liceità del ricorso metodologico alla sola ratio. Come dice il teologo, però, la sola ratio non è una ratio solitaria. In gioco qui non è più, infatti, il puro e semplice invenire Deum, quanto piuttosto il conicere Deum, di cui solo la teologia — dice Barth — nella sua dimensione ecclesiale è capace. «Qui, nella chiesa ha luogo un conicere, una congettura relativa all’essenza di Dio sulla scorta dell’esperienza mondana dell’uomo, che come tale invece non può di fatto aver luogo fuori della chiesa» (FQI, 120; 175). Attraverso l’analisi dell’intelligere il discorso barthiano risale dall’invenire al conicere, togliendo alla filosofia, definita di riflesso quale autonoma capacità di cogliere l’essenza di Dio, una specifica via all’assoluto.36

Per questo motivo «aliquid quo nihil maius cogitari possit» viene letto come un nome rivelato di Dio e come risultato di un’esperienza d’illuminazione profetica.37 Questa restrizione produce un esclusivismo teologico che consente di affermare: «La chiesa realizza con la sua conoscenza di Dio una possibilità dell’umanità» (FQI, 120; 176), frase che così va dispiegata: nella chiesa — cioè nella comunità dei lettori e ascoltatori della Parola — che si rapporta al Dio rivelato mediante la fede, si realizza una possibile conoscenza (fino a un certo punto) di quel Dio, tale da aprire una possibilità di conoscenza per l’umanità intera. In questo modo Barth, dimostrando di aver preso massimamente sul serio la pretesa gnoseologica e veritativa del filosofare, vi si oppone e trova nell’aliquid — nome comune dell’essenza divina — lo schiudimento di una ratio veritatis che ha origine nel revelatum. Nel modello barthiano, dunque, è la filosofia a trovare fondamento nella teologia e non il contrario. È infatti il ganz Andere a introdurre e a fondare l’aliquid, oppure ancora il Dio maius quam cogitari possit (il cap. XV del Proslogion) ad aprire al Dio quo maius cogitari nequit (il cap. II).

Da un certo punto di vista il manifesto carattere ecclesiale della ricerca anselmiana rende ragione della lettura di Barth. Anselmo è infatti convinto di non essere un praesumptor novitatum (cfr. il Prologo del Monologion), bensì un discepolo fedele delle dottrine antiche, quelle dei Padri e di Agostino. La comunione ecclesiale tra Barth e Anselmo dà ragione dell’interpretazione teologica del probare, anche se si deve considerare che una separazione di principio tra teologia e filosofia come discipline scientifiche autonome non era pensabile nell’XI secolo.38 Ma proprio la comunione spirituale che unisce Barth ad Anselmo non deve far dimenticare quella che lega Anselmo ai Padri e ad Agostino: ed è in particolare da quest’ultimo che egli, per formazione e frequentazione di scuola, viene ispirato. L’influenza dei dialoghi agostiniani, intrisi di neoplatonismo e di terminologia filosofica, in particolare il De libero arbitrio e i Soliloquia, costituisce uno degli elementi chiave per comprendere Monologion e Proslogion più che non il riferimento alle opere anselmiane posteriori. La tradizione monastica agostiniana estende le sue propaggini fino ai giovanili lavori di Anselmo. È proprio in conformità al carattere dialettico di questa tradizione — e quindi proprio all’interno della stessa chiesa — che Anselmo può trovare quella razionalità che muove la ricerca. Mentre, infatti, in Barth il procedimento dialettico scaturisce da una relazione ontologica tra Dio e uomo che si conclude con una separazione epistemologica teologia / filosofia (in / aus-der-Kirche), in Anselmo la medesima relazione genera un’unità in cui fides e ratio si muovono all’interno di un comune orientamento scientifico. Si deve inoltre osservare che, secondo Barth, è concretamente possibile pervenire alla relazione solo passando attraverso la rigorosa differenza dei principi, considerati in quanto identità dialetticamente opposte; mentre, per Anselmo, è data fin dall’inizio un’identità intrinsecamente plurale che solo mediante una dialettica interna di fede e ragione — di ascendenza agostiniana — può restituire la relazione originaria, sempre mobile, tra uomo e Dio.

Va, poi, tenuto in considerazione il rapporto della ratio anselmiana con lo specifico contesto che fa da sfondo al Proslogion. La storia dei conflitti tra dialettici e antidialettici nell’XI secolo mostra non soltanto un qualche banale intento apologetico dell’opera di Anselmo, ma ben più radicalmente l’assunzione responsabile del problema dell’uso in teologia degli strumenti della logica razionale.39 Lanfranco, maestro e predecessore di Anselmo al Bec, aveva dimostrato di poter coniugare sul terreno della chiesa le posizioni contrapposte di chi riteneva indispensabile la dialettica nelle questioni teologiche e di chi invece la giudicava dannosa. La sua polemica con Berengario relativa al significato del dogma eucaristico si placò solo pochi anni prima della composizione di Monologion e Proslogion ed è impossibile non leggere le pressanti richieste dei monaci di Anselmo come tentativi di riflettere ancora una volta sulla controversia fondamentale che da quel conflitto emergeva: se la ratio potesse davvero essere il criterio ultimo per giudicare della verità rivelata. C’era infatti chi sosteneva che alla Scrittura fosse da preferire proprio la dialettica, in quanto unica via per giungere a un’evidenza in grado di dirimere le tesi contraddittorie. Berengario, con forza polemica inaudita e atteggiamento da filosofo moderno, sosteneva che «colui che non ricorre alla ragione, dato che è stato fatto a immagine di Dio proprio in quanto dotato di ragione (cum secundum rationem sit factus ad imaginem dei), smarrisce la sua dignità senza avere più la possibilità di essere rinnovato giorno per giorno a immagine di Dio».40

Il conflitto tra ragione e fede e l’anselmiano tentativo di conciliazione assumono una grande rilevanza se si pensa che la controversia eucaristica fu come la punta d’icebergdi un vasto movimento di rinascenza degli studi logici e del loro conseguente utilizzo nei problemi della sacra pagina. Anselmo stesso, formato alla scuola delle arti liberali e autore di un volume sull’analisi dei termini denominativi e sulla teoria della significazione, considerato dagli studiosi uno dei momenti più alti della tarda logica vetus,41 mostra che la preghiera del monaco non può essere separata dalla verifica del logico: per questo motivo proprio nella preghiera — ritenuta da Barth inappellabile sigillo della prova anselmiana — si manifesta quel «tecnicismo naturale della filosofia medievale»42 che rivela, nell’ardito percorso del Proslogion, un’incessante implicazione di ratio e fides mediante un esercizio di cogitatio orans. Di fatto, proprio sul terreno della chiesa, Anselmo scopre la necessità di unire due principi metodologici concorrenti, che rinviano peraltro a due diverse concezioni della natura dell’uomo e di Dio. I sostenitori della dialettica, infatti, protestando per un più ampio impiego della ratio, promuovono in primo luogo un’antropologia nuova, segnata dal riconoscimento di una bontà insita nelle capacità naturali della creatura, e poi anche una teologia più forte e — potremmo dire — più scientificamente strutturata, poiché in grado di accettare la sfida ineludibile che da quelle capacità proviene; gli antidialettici, invece, tra i quali va ricordato Pier Damiani, ricoprono un ruolo d’opposizione che, cedendo alle lusinghe di un’apologetica conservatrice, paralizza l’evoluzione scientifica. È dunque dall’interno della chiesa che Anselmo perviene alle rationes necessariae e alla veritatis claritas che il Monologion ha già conquistato.

La chiesa dell’XI secolo prende coscienza di essere chiamata a credere verità intrise della razionalità greca tramandata soprattutto attraverso Boezio e Agostino. Non fa dunque meraviglia che il corredo logico di Anselmo sia provvisto di termini quali substantia, essentia, subsistentia, qualitas, natura, proprietase che le articolazioni di queste vocessiano annodate alle locuzioni aliquid, quod, per se / per aliud, ex se / ex aliud, maius quam / minus quam. Inoltre Anselmo presenta sempre i propri pensieri come risultati di una serie di opposizioni consecutive, ciò che permette di annoverarlo tra i diretti precursori del metodo scolastico.43 Nel Monologion, ad esempio, l’ascesa dialettica verso la summa essentia procede attraverso una concatenazione di fasi contrattuali, conflittuali e consensuali. Dapprima, cioè, si pongono le basi per un discorso condiviso (puto sola ratione persuadere, certum sit, necesse est, non est dubium); poi si passa all’analisi delle posizioni avverse (quis dubitet? , quis putet absurdum? , quomodo intelligendum est? , nullam obiectionem disputanti volo praeterire); infine si perviene a un risultato autoevidente (igitur tam falsum est quam absurdum erit… , superfluum est exponere… , non opus est quaerere…). Nel Proslogion, se ci si spinge oltre la figura centrale dell’insipiens (un vero e proprio alter ego del discorso anselmiano), si osserva che il processo argomentativo fa leva sul continuo posizionamento di un contraddittorio in grado di superare il momento antitetico riducendolo all’assurdo (si ergo id est. . ., id ipsum esse non potest). E l’esplicitazione dell’essenza divina lungo i capitoli V-XIII è essa stessa una serie di quaestiones in cui proposte e obiezioni si avvicendano nel ritrovamento dell’unità finale, resa possibile solo da un’attenta purificazione dei concetti del linguaggio ordinario — l’usus loquendi — e comunque segnata da un’inevitabile introiezione dei contrari (possibilis / impossibilis, passibilis / impassibilis, circumscriptus / incircumscriptus, accessibilis / inaccessibilis).

Se si tiene fermo sia al radicamento agostiniano del pensiero di Anselmo sia al suo orientamento dialettico, la chiave ermeneutica con cui Barth legge il Proslogiondeve essere ridefinita. Ciò non significa però condannare il Fides quaerens intellectumall’insignificanza, né considerarlo una tappa ormai superata degli studi anselmiani. Questo sarebbe il più grave torto nei confronti del saggio di Barth. Al contrario, è necessario tenersi ancorati a esso e tornarvi sempre di nuovo, dato che là un incontro è effettivamente avvenuto, l’incontro col “vero” Anselmo. Si tratta di una verità totale e incondizionata, perché segnata dall’adesione personale ed ecclesiale che pretende di valere per l’intera umanità. Non ha perciò senso rifiutare la teologia barthiana in nome della filosofia di Anselmo, perché Barth in ogni caso ha colto e realizzato — portandolo a pienezza — un motivo presente nell’argumentum.

Ciò che, invece, si potrebbe tentare di chiarire è piuttosto il concetto di ratio. Barth, infatti, prende in esame solo uno dei significati della ratioanselmiana e lo amplifica: la ragione meditativa e responsiva che, sollecitata dalla già-sempre-avvenuta adesione spirituale all’oggetto, ne aumenta la perfezione. Si tratta — per dirla in termini riformati — di una ratiofiglia della sola fides (in altro modo, si potrebbe dire: una ratiosotto tutela). Ma in Anselmo si trova anche l’idea di una verifica autonoma compiuta dalla ragione a partire dalla fede. In linea di principio non può essere infatti escluso che la ragione possa ricevere un oggetto a essa esterno e poi trattarlo con il suo proprio procedimento, prescindendo da origine e contesto. In questo caso — ed è il caso di Anselmo — la fidesoffre il proprio oggetto primo, Dio, al vaglio della sola ratio. Che Anselmo, pur nel «conflitto dei pensieri»,44 fosse consapevole della riuscita della dimostrazione; che non avrebbe mai rinunciato alla credenza nell’esistenza del Dio biblico; che non avrebbe mai abbandonato il tetto della chiesa, in favore di un’appartenenza soltanto generica e qualunquista all’umanità com’è quella dell’insipiens, tutte queste cose non negano che l’oggetto Dio possa e in certo modo debba essere indagato e provato dalla ragione, proprio perché questa stessa ragione è illuminata da Dio. Nelle dispute dialettiche così come in Agostino si è infatti posti di fronte alla reale capacità della ragione di comprendere. Anche il permanere della riserva anselmiana aliquatenus non toglie il fatto che la ratio sia pensata come uno “strumento” di emancipazione e di innalzamento: e in tal senso, ben più di un mezzo appunto soltanto strumentale; piuttosto una via mediana, un passo medio termine, un posto a metà strada — come si è detto — tra fede e visione. La formula chiave del discorso, «fides quaerens intellectum», non va dunque letta con l’accento sui termini estremi (non è né «fides quaerens intellectum» al modo della filosofia moderna, né «fides quaerens intellectum» al modo di Barth): solo nel suo centro è dato ritrovare l’equilibrio che la contraddistingue, colto come condizione di possibilità di un discorso autentico su Dio («fides quaerens intellectum»).45

Nelle posizioni estreme, teologia e filosofia si toccano per escludersi. Ma in Anselmo sussiste invece una lotta volta alla sintesi, che fa di ratioe fides, prova e preghiera, uno spazio vicendevolmente estensibile, dove la parola di Dio e la facoltà umana di giudicare possono quantomeno fronteggiarsi.46 La ragione dialectica inventa una dialettica della ragione che non smorza il proprio attrito con la fede, ma lo accende. Se, dunque, Barth ha avuto il merito di fare chiarezza sul processo argomentativo del Proslogion, sottraendolo al preteso razionalismo in cui è incappato, ha poi tuttavia frainteso la ratio fidei anselmiana, fissando un concetto di ragione a essa estraneo: la ragione assoluta dell’uomo moderno «assolutistico» — come scrive nella Storia della teologia protestante.47 La ragione dialectica non è infatti una ratio dogmatica, né nel senso di Barth — secondo cui assumerebbe l’impossibile compito di un conicere Deum naturale — né nel senso della filosofia moderna — dove rappresenta l’unico e solitario tribunale capace di decidere del verum e del falsum. Si tratta di una ratio illuminata.48

5. Ratio e auctoritas

Quaerere inveniendum quia occultus est, invenire querendum quia immensus est

— Agostino

È necessario riconoscere che la cosiddetta prova ontologica dell’esistenza di Dio49 nasconde una serie di sovrastrutture e di contraddizioni. Barth ha aperto la strada al riconoscimento che non si tratta dell’ontologia nel senso moderno, affermatasi come disciplina scientifica soltanto nel XVI secolo. Nelle ultime pagine del suo studio ammonisce: «Che si sia potuto ripetutamente denominare la prova anselmiana dell’esistenza di Dio come prova “ontologica” dell’esistenza di Dio […] è una negligenza per la quale ora non si deve più sprecare alcuna parola» (FQI, 174; 236). Egli tuttavia riconosce che l’argumentum riguarda specificamente l’esistenza, anzi considera significativo il passo in avanti compiuto dal Proslogion nel porre separatamente la questione dell’esistenza e quella dell’essenza (cfr. FQI, 91; 147). Ma più di tutto, il libro di Barth si distingue per essere il rigoroso tentativo di sottrarre l’unum argumentum alla determinazione di «prova». Se, infatti, l’esistenza di Dio, ammesso che non abbia nulla che vedere con l’ontologia, è comunque conseguita mediante una procedura puramente razionale, la teologia come scientia fidei non ha ragion d’essere. Se per molti buoni motivi bisogna ravvisare che il lavoro barthiano coglie le distinzioni essenziali per una comprensione corretta della prova, allo stesso tempo è tuttavia necessario prendere le distanze dal modo di impostare il fondamentale rapporto tra ratio e fides che evidentemente appare diverso in Anselmo e in Barth.

In entrambi è riscontrabile un esempio di separazione concettuale tra due forme di sapere, quella che convenzionalmente si dice filosofia critica da una parte e quella che potremmo chiamare sapienza della fede o religiosa dall’altra. Il conflitto che storicamente si è prodotto tra queste forme, soprattutto dopo la critica illuminista, ha portato Barth a rivendicare la possibilità di una teologia pura, esclusivamente fondata sulla parola rivelata di Dio, ciò che ha come conseguenza inevitabile la rispettiva e speculare determinazione della filosofia come sapere senza presupposizioni. E in Anselmo, pur prescindendo dagli esiti moderni del rapporto tra fede e filosofia, è opportuno riconoscere l’inizio delle separazioni di cui la modernità si è nutrita: la pura fides da una parte, raffigurata non come semplice adesione spirituale o emotiva alla verità ma anche e forse soprattutto come autonoma capacità di conoscere il mistero di Dio, e la sola ratio dall’altra, manifestante le possibilità di un’ipotetica natura umana di rapportarsi alla verità nel modo mediato della critica di ogni sapere.50

Anselmo è per la nostra modernità un esempio di come sia possibile conciliare, pur senza negarne la tensione, ragione e fede. Egli sa che la ratio non trae da se stessa il proprio oggetto e che pertanto procede a partire da un presupposto — «neque quaero intelligere ut credam, sed credo ut intelligam» (AO I, 100; 95); ma anche che la fides non basta a se stessa e che, dalla pura presupposizione, è spinta a muoversi verso la ricerca dei motivi razionali che la rendono intelligibile — «quod prius credidi te donante, iam sic intelligo te illuminante, ut si te esse nolim credere, non possim non intelligere» (AO I, 104; 101).

Questa conciliazione va vista storicamente come un tentativo di trovare una mediazione tra l’uso spregiudicato della ratio dialectica e la fede dei Padri, e teoricamente come la viva testimonianza di un pensiero colto nella distretta dei propri principi costituenti. La ratio, infatti, si rende conto che, pur volendosi sola, non può non derivare da qualcosa che le è “altro” e “prossimo” al tempo stesso e la fides, pur credendosi pura, non può non procedere verso qualcosa che le è intimamente presente. Ragione e fede non si danno nella purezza e nella trasparenza delle proprie determinazioni concettuali, ma nell’intrico della realtà del pensiero, che appare mobile e diveniente, come una corrente di posizioni e questionamenti, una trasformazione continua di praesumptio in adsumptio. Il pensiero dialettico si riconosce così condizionato, posto, dipendente dal presupposto (Voraussetzung), ma anche produttore del nuovo.51 L’esempio anselmiano, pur nel riconoscimento dell’insuperabile frattura storica e metafisica tra modernità e medioevo, può esser fatto valere almeno come strumento di chiarificazione del pensiero e come presa di coscienza del filosofare. Tra ratio e auctoritas, infatti, il filosofare si muove alla ricerca di un equilibrio possibile oltre il quale gettare la falsa trasparenza dei suoi costituenti. Il conflitto ragione-autorità, che non appartiene solo al medioevo monastico di Anselmo, ma anche alla tradizione illuminista — ed è principalmente per questa via che Barth lo fa proprio — si ripercuote su ogni filosofia che voglia pensare il nesso fra credere e intelligere, ma racchiude in sé anche le linee generali del pensare filosofico. Il pensiero procede attraverso posizionamenti successivi di ratio e auctoritas ed è questa mobilità a caratterizzarlo indipendentemente dal rapporto con una fede religiosa. L’anselmiana ratio fidei rappresenta pertanto un esempio paradigmatico di questo processo speculativo e, se pur nutrita di un’incondizionata fiducia nella conciliazione dei termini tale da non trovare un’adeguata ripresa nel moderno, stimola ancora oggi la ragione critica a mettere in chiaro il rapporto che la lega all’autorità rivelata.

Il suddetto conflitto potrebbe anche risultare sfumato, e tuttavia non dissolto, qualora si rinunciasse all’immobilità dei principi e si facesse retrocedere il discorso — teologico e filosofico — alla realtà complessa e mobile di un pensare più umile in grado di rendere ragione della differenza che lo costituisce e che troppo spesso lo ha obbligato a evadere il confronto nell’arroccamento delle reciproche posizioni. Sfumare il conflitto senza dissolverlo significa accedere a una problematicità esplicita che non ci consegna — presuntuosamente saldo — un punto d’origine (Ausgangspunkt), ma l’incessante rinvio — inevitabilmente fragile — al limite del pensiero (Grenzpunkt).


  1. K. Barth, Fides quaerens intellectum. Anselms Beweis der Existenz Gottes in Zusammenhang seines theologischen Programms, a cura di E. Jüngel e I.U. Dalferth, Theologischer Verlag, Zürich 1981; trad. it. M. Vergottini, K. Barth, Anselmo d’Aosta. Fides quaerens intellectum, Morcelliana, Brescia 2001 (d’ora in poi indicato con la sigla FQI seguita dal numero di pagina del testo originale e poi da quello della trad. it). Fides quaerens intellectum è anche il primo titolo che Anselmo diede al proprio opuscolo, mutandolo solo in un secondo momento in Proslogion, che qui si cita in base all’edizione critica a cura di F.S. Schmitt, S. Anselmi Cantuariensis Archiepiscopi Opera Omnia, 6 voll., Th. Nelson, Roma / Edimburgh 1946-1961 (AO seguito dal numero del volume); viene usata la trad. it. di I. Sciuto, Anselmo, Proslogion, Rusconi, Milano 1996. ↩︎

  2. Si veda per un’esauriente contestualizzazione C.E. Viola, Anselmo d’Aosta. Fede e ricerca dell’intelligenza, Jaca Book, Milano 2000. ↩︎

  3. La filosofia analitica del XX secolo ha dimostrato di far ciò nella consapevolezza della critica barthiana. Partendo da un profondo interesse anche per l’aspetto teologico dell’opera di Anselmo, è stato proprio il saggio di Barth a divenire oggetto d’indagine, poiché ha richiamato l’attenzione su un aspetto del Proslogion che non può essere evitato e che va piuttosto affrontato da chiunque abbia la pretesa di una ricostruzione sistematica del fenomeno religioso. Il richiamo barthiano all’autonomia scientifica della teologia dà origine a un vero e proprio «problema etico e teologico» interno alla filosofia analitica, soprattutto a partire dalle opere di Wittgenstein che, con il concetto di grammatica, ha influenzato molti studiosi interessati a questo versante della ricerca. Per costoro infatti (ad esempio D.Z. Phillips e N. Malcolm) la teologia è la grammatica del discorso religioso e «non può essere compito della filosofia né della teologia la giustificazione della credenza religiosa» (cfr. M. Micheletti, Il problema teologico nella filosofia analitica, vol. II, La Garangola, Padova 1972, pp. 289-290 e Id., Filosofia analitica della religione. Un’introduzione storica, Morcelliana, Brescia 2002, cap. II). Dal punto di vista teorico il concetto di grammatica del discorso religioso risulta quindi molto vicino ai principi teologici — la fede e la chiesa — a cui Barth conferisce uno specifico valore metodologico in vista della costruzione di una dogmatica scientifica. ↩︎

  4. Mi limito a indicare due luoghi in cui reperire una vasta bibliografia degli studi storici su Anselmo: si tratta di S. Vanni Rovighi, Introduzione a Anselmo d’Aosta, Laterza, Bari 1987 e G. D’Onofrio, Storia della teologia nel Medioevo, Piemme, Casale Monferrato 1996, vol. I (su Anselmo le pp. 481-553). Si veda inoltre per un aggiornamento: C.E. Viola, Anselmo d’Aosta, in Aa.Vv., La fioritura della dialettica (X-XII secolo), dir. di I. Biffi e C. Marabelli, Città Nuova / Jaca Book, Milano 2009; la bibliografia anselmiana si trova alle pp. 543-553. ↩︎

  5. Si tengono qui presenti alcuni studi sul Fides quaerens intellectum: H. Bouillard, La preuve de Dieu dans le Proslogion et son interprétation par Karl Barth, in Spicilegium Beccense, I Congrès Internationale du IX centenaire de l’arrivée d’Anselme au Bec, Le Bec-Hellouin-Paris 1959, pp. 191-207; C.E. Viola, Dalle filosofie ad Anselmo di Canterbury. L’itinerario teologico di Karl Barth, in «Doctor Communis», 24 (1971), pp. 98-123; H.J. Oesterl, Karl Barths These über den Gottesbeweis des Anselm von Canterbury, in «Neues Zeitschrift für systematische Theologie und Religionsphilosophie», 23 (1981), pp. 129-139; M. Vergottini, Alla scuola di Anselmo. Il «Fides Quaerens Intellectum» di Karl Barth, in K. Barth, Anselmo d’Aosta. Fides quaerens intellectum, cit., pp. 7-42. Per una visione d’insieme sulle interpretazioni dell’eredità della teologia barthiana si veda il volume monografico Aa.Vv., Karl Barth in prospettiva ecumenica, «Hermeneutica», Morcelliana, Brescia 2009. Vanno, inoltre, segnalati due studi sul rapporto tra filosofia e teologia in Barth che costituiscono uno sfondo più prossimo alle ricerche di questo lavoro: il classico J.-L. Leuba, Karl Barth et la philosophie. Essai de clarification, in «Revue de théologie et de philosophie», 119 (1987), pp. 473-501 e il recente K. Diller, Karl Barth and the Relationship Between Philosophy and Theology, in «Heythrop Journal», 51 (2010), pp. 1035-1052. Pur muovendo da analisi parallele dei luoghi della teologia barthiana in cui è esplicitamente riscontrabile un discorso sul rapporto tra filosofia e teologia, questi studi pervengono a conclusioni non convergenti, il primo imputando a Barth un «teomonismo» radicalmente antifilosofico, il secondo ammettendo la legittimità epistemologica del principio barthiano della rivelazione «von oben nach unten» di Dio. Viene alla superficie qui un motivo profondo della teologia barthiana, non sempre padroneggiabile dagli interpreti: se tra filosofia e teologia ci sia solo una differenza metodologica o piuttosto anche ‘materiale’; se, cioè, filosofia e teologia siano due discipline aventi in fondo lo stesso oggetto a cui tenderebbero per vie diverse, o se invece abbiano oggetti diversi o addirittura opposti (e si tratterebbe, nel caso di Barth, di un’opposizione inconciliabile). Va rilevato che in entrambi gli studi menzionati non ci si occupa del FQI, mentre proprio quest’opera, situandosi al crocevia della Kirchliche Dogmatik quasi come — disse H. Bouillard — un «discorso del metodo», rappresenta uno dei punti chiave per comprendere il problema. ↩︎

  6. Cfr. AO I, 100; 93: «Incurvatus non possum nisi deorsum aspicere». ↩︎

  7. Cfr. AO I, 98; 89: «Quid faciet servus tuus anxius amore tui et longe proiectus facie tua?». ↩︎

  8. A. Aguti, La questione dell’ermeneutica in Karl Barth, Dehoniane, Bologna, 2001, p. 51, sottolinea il radicamento escatologico della fede pensata da Barth: «La possibilità della fede non può essere, dal punto di vista umano, che impossibile […]. Le paradossali designazioni barthiane della fede come “spazio vuoto” o “salto nell’incerto” indicano che la fede, dal punto di vista umano, non è una “posizione”, ma è sempre un “puro inizio”». In continuità con l’idea espressa nel Römerbrief, anche per il Barth di FQI la fede non può essere che per iniziativa divina: ma al tempo stesso viene pensata come una funzione della chiesa (con ogni probabilità ha però avuto ragione D. Bonhoeffer, all’epoca giovane allievo del teologo svizzero, nello specificare che, in relazione al progetto della dogmatica scientifica, in Barth non può che trattarsi di una funzione della chiesa “eterna” e non storica: cfr. il corso del 1932 sull’ecclesiologia in D. Bonhoeffer, Ökumene, Universität, Pfarramt (1931-1932), Kaiser / Gütersloher Verlaghaus, Gütersloh 1994, pp. 239-303, in particolare le pp. 251-260: Der Ort der Kirche in dogmatischen Theologie. Per Bonhoeffer si trattava di trovare una fondazione alternativa della dogmatica in grado di evitare sia la concezione sostanzialistica della chiesa, per come egli la vedeva all’opera nel cattolicesimo, sia quella attualistica barthiana. Il risultato fu una via intermedia che lo guidò nella stesura di Akt und Sein, animato proprio dal tentativo di evitare il problema fondamentale della dogmatica protestante per cui la chiesa veniva considerata al tempo stesso presupposto e oggetto della teologia: «Voraussetzung und Grenze der Theologie ist die empirische Kirche. Theologie ist Grenze des Wortes von Vergebung und Gnade. […] Theologie muss sich [ihren] Ort von der Kirche selbst anweisen lassen» (p. 257); e, più avanti, specificando il concetto di chiesa: «Ansatzpunkt bei Barth und Troeltsch ist noch der gleiche: Gotteserkenntnis des Einzelnen! Doch Gotteserkenntnis hat primär als Subjekt die Gemeinde (Luther)» (p. 259). ↩︎

  9. «Ho approfittato […] dell’opportunità di dare conto puntualmente a me stesso e agli altri di alcuni motivi per cui questo teologo, rispetto ad altri, assume per me particolare valore e significato» (FQI, Prefazione alla prima edizione, 2; 46). Anselmo è inoltre «un modello di buona, perspicace e accurata teologia, che mi ha istruito ed edificato passo passo» (FQI, 3; 47). ↩︎

  10. Le occorrenze di questo termine si possono contare sulle dita di una mano (cfr. FQI, 54, 108, 153, 157; 101, 167, 213, 216). ↩︎

  11. Si fa qui riferimento in particolare alla prima sezione della Kirchliche Dogmatik, intitolata appunto Prolegomeni alla dogmatica, in cui Barth delimita il campo d’applicazione della teologia scientifica: la fede della chiesa riguardo alla rivelazione scritturale di Dio: «La dogmatica è una disciplina teologica. Ma la teologia è una funzione della chiesa» (K. Barth, Kirchliche Dogmatik, Evangelischer Verlag, Zollikon 1945-1967, I/1, [1a ed. 1932], §1.1, Kirche, Theologie, Wissenschaft, p. 1). ↩︎

  12. A nostro avviso Barth compie un gesto che da un punto di vista teorico è simile a quello di Heidegger,. che nel 1927, nella conferenza Phänomenologie und Theologie, definisce la teologia come scienza positiva, basata cioè su quel particolare positum che si chiama «il rivelato» e che solo mediante la fede si apre alla comprensione. Anche Barth — possiamo dire — ha segnato gli argini che delimitano il terreno fecondo della teologia e scavato i solchi della ratio fidei: sono i confini della Sacra Scrittura, tracciati con l’aiuto del vincolo della chiesa e per mezzo del vomere della fede. Cfr. M. Heidegger, Phänomenologie und Theologie, in Gesamtausgabe, Bd 9, Klostermann, Frankfurt a.M. 1976, p. 54; trad. it. F. Volpi, Fenomenologia e teologia, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 11: «… se è valido il presupposto (Voraussetzung) che la teologia, che scaturisce dalla fede, è imposta alla fede e per la fede, mentre la scienza è un’oggettivazione, compiuta liberamente, in vista di uno svelamento concettuale, allora la teologia si costituisce nella tematizzazione della fede e di ciò che con essa è svelato (Enthüllten) e che, in questo caso, è il “rivelato” (Offenbaren). È bene notare che la fede non è solo il modo di proporre che svela il positum che la teologia poi oggettiva, ma rientra essa stessa nel tema». Si legga l’esplicito passo di FQI, 34; 79: «Per lui [Anselmo] è evidente che se la fede è vera fede, cioè obbedienza, la disputa di pipistrelli e civette sui raggi del sole non ha luogo, e che una teologia fondata sulla fede obbediente (gehorsam) sarà una teologia positiva. Egli sa sicuramente di sostenere una tesi ardita e per questo aggiunge che questo dato dev’essere creduto per essere compreso». ↩︎

  13. Barth insiste più volte sull’importanza di questo avverbio. Dapprima aliquatenus vuole significare il limite che Dio pone all’indagine, non potendo questa essere un’esplorazione che penetri la divina altitudo: in questo senso aliquatenus viene legato alla riserva «ut quantum scis expedire», per quanto sai che possa giovarmi, del capitolo II, nell’affermazione che andare oltre i limiti posti da Dio stesso equivale a cadere nell’errore (FQI, 104-105; 162-163). In altro momento aliquatenus vuole invece — ma in modo complementare — dire la positività del particolare tipo di conoscenza che solo la fede può aprire: «Esso può soltanto indicare una limitazione noetica» del nome di Dio; chi volesse ritenere questo aliquatenuscome un nullatenus, chi volesse per questo motivo negare a questo nome [di Dio] portata conoscitiva […], costui […] assomiglierebbe a uno che affermasse di non poter vedere la luce del giorno poiché il suo occhio in realtà non può vedere la luce del sole, da cui proviene la luce del giorno» (FQI, 85; 138). La riflessione di Barth, nei due aspetti, coglie un punto essenziale, tanto che recentemente I. Sciuto ha sottolineato il determinante valore metodologico dell’avverbio aliquatenus, che va legato a intelligeree «al significato platonico-neoplatonico, patristico e monastico del vero filosofare, che è l’assimilazione a Dio “per quanto è possibile”. Il limite cui allude, perciò, non va inteso come una provvisoria incapacità soggettiva, ma come una limitazione ontologica, e quindi costitutiva, dell’anima» (cfr. Anselmo, Prologion, cit.,p. 120, nota 101). ↩︎

  14. Anselmo, Monologion, cap. LXIV in AO I, 75; trad. it. I. Sciuto, Monologion, Rusconi, Milano 1995, p. 201. ↩︎

  15. C.E. Viola, Anselmo d’Aosta. Fede e ricerca dell’intelligenza, cit., p. 21. Anche E. Gilson, solo quattro anni dopo la pubblicazione del FQI di Barth, ne ha riconosciuto la grandezza parlandone così: «Karl Barth a soumis le texte de saint Anselme à une exégèse aussi scrupuleuse que s’il se fût agi d’un écrit inspiré; pour discuter son livre il faudrait en écrire un autre, deux fois plus long, qui tiendrai compte à la fois de la théologie de saint Anselme et de celle de Karl Barth» (E. Gilson, Sens et nature de l’argument de Saint Anselme, in«Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age», IX, 1934, p. 5). Gilson dissente, tuttavia, dall’interpretazione barthiana facendo leva soprattutto sulla determinazione del concetto di “prova”. L’opposizione è riconducibile alla determinazione del verbo programmatico astruere che compare nel Prooemium del Proslogion. Vi si legge che Anselmo intende trovare un argomento che «solus ad astruendum quia deus vere est […] sufficeret»: che sia cioè sufficiente a stabilire, ad assicurare che Dio esiste. L’astruere è, secondo Gilson, un verbo emblematico in grado di spiegare le autentiche intenzioni di Anselmo in relazione al concetto del probare (cfr. ivi, p. 25). ↩︎

  16. J.-L. Marion ha mostrato l’estraneità costitutiva — e addirittura l’intrinseca opposizione — dell’argomento anselmiano rispetto alla metafisica moderna, procedendo a una decostruzione dei presupposti a esso soggiacenti. Secondo tale prospettiva l’id quo maius non è una definizione concettuale di Dio, né è pensabile a partire dalla questione dell’essenza: Dio quindi trascende il concetto e oltrepassa l’essenza, rivelandosi totalmente estraneo ai due principali costituenti della metafisica moderna così come Marion ricorda essersi formata nella scuola tedesca del XVI secolo e in Cartesio (cfr. J.-L. Marion, L’argument relève-t-il de l’ontologie?, in Id., Questions cartésiennes. Méthode et métaphisique, Puf, Paris 1991, pp. 221-258 e anche in M.M. Olivetti (a cura di), L’argomento ontologico, Cedam, Padova 1990). Va detto che Barth, pur negando risolutamente l’avventura metafisica dell’argomento anselmiano (nega infatti la presenza di componenti concettuali nell’id quo maius, che per lui è addirittura un nome rivelato di Dio), tiene comunque aperta la questione ontologica (resta, cioè, per lui valida la specifica domanda sull’esistenza). ↩︎

  17. U. Perone, ricordando che «la cultura ottocentesca, sia filosofica che teologica, era stata, nella sua linea vincente, dominata da un’interpretazione del rapporto uomo-Dio secondo lo schema della continuità», sostiene che, oltre alla teologia liberale, anche l’ateismo di Feuerbach ha giocato un ruolo essenziale nella formazione della teologia barthiana. L’alternativa filosofica che Barth aveva di fronte poneva, infatti, come suo esito necessario una negazione di Dio conseguita «all’interno di uno schema che fin dall’inizio ha smarrito il salto, la differenza, lo scarto tra l’umano e il divino» (cfr. C. Ciancio, G. Ferretti, A.M. Pastore, U. Perone, In lotta con l’angelo. La filosofia degli ultimi due secoli di fronte al Cristianesimo, SEI, Torino 1989, p. 131). ↩︎

  18. AO I, 113; 123: «Intra me et circa me es, sed non te sentio». ↩︎

  19. AO I, 112; 121: «Vere contrahitur angustia sua». ↩︎

  20. Abramo e il monte Moria, Mosè sull’Oreb e sul Sinai, Cristo e il Calvario. B. Ward ravvisa una continuità del tema della montagna in Anselmo, a partire dal resoconto di un sogno dello stesso Anselmo contenuto nella Vita di Eadmero (in Patrologia Latina, ed. J.P. Migne, Garnier, Paris 1841-64, vol. CLVIII, pp. 50-51; trad. it. a cura di S. Gavinelli, Vita di S. Anselmo, Jaca Book, Milano 1987, pp. 36-37) e attraverso i suoi scritti, principalmente le Orazioni e Meditazioni. «L’immagine dell’ascesa, dello sforzo verso l’alto, del desiderio di un altro regno, non è semplicemente un’immagine naturale, ma un’immagine amplificata e dilatata dalla Bibbia e dai Padri della Chiesa. Essa rimase nella teologia di Anselmo e nella sua devozione, ma mutò col suo pensiero, le sue letture e la sua crescita» (B. Ward, Le «Orazioni e Meditazioni» di Sant’Anselmo, in Anselmo d’Aosta figura europea, Atti del Convegno di studi di Aosta 1988, Jaca Book, Milano 1989, p. 95). ↩︎

  21. Cfr. Monologion, cap. LXXVI in AO I, 83; trad. it. cit. p. 223. ↩︎

  22. Cfr. anche Monologion, cap. LXXVIII in AO I, 84; trad. it. cit. p. 225. ↩︎

  23. M. Vergottini, Alla scuola di Anselmo. Il «Fides Quaerens Intellectum» di Karl Barth, cit., p. 16, sottolinea che intellectus fidei deve essere letto come genitivo soggettivo. «Soggetto dell’intellectus fidei è la fede stessa», non solo in quanto «si autocomprende», ma anche in quanto essa in primo luogo comprende Dio. La fede, che è origine del movimento, si muove prima in direzione della visio e solo di riflesso, quindi, perviene all’autocomprensione, dato che solo pensando Dio può pensare anche se stessa. ↩︎

  24. In nota, Barth ricorda: « “Ciò che medito” (quod speculor) ha sempre detto Anselmo del suo lavoro» (FQI, 29; 85). ↩︎

  25. «Diese Entscheidung, die Entscheidung darüber, ob eine bestimmte wissenschaftliche Erwägung ein wirkliches intelligere bzw. einen Fortschritt im intelligere bedeutet, fällt in vorletzter Instanz je und je bei ihrem Urheber und bei seinen Hörern, Gesprächspartnern und Lesern, während sie letztinstanzlich natürlich in Gott, der die Wahrheit selber ist, verborgen ist und verborgen bleibt» (FQI, 32; 77). ↩︎

  26. Sulla dialettica di testo esteriore e testo interiore, cfr. in particolare FQI, 40-41; 90-91. ↩︎

  27. L’unica volta che Anselmo usa probare si riferisce non all’esistenza di Dio, ma esclusivamente all’unum argumentum: «nullo alio ad se probandum…» (AO I, 93; 85). ↩︎

  28. FQI, 60; 112: «La forma dialogata e la volontà di provare non significano in nessun caso che Anselmo si ponga su un piano in cui fede e incredulità, la voce della Chiesa e tutte le altre voci possibili abbiano uguale diritto». FQI, 67; 117: «Non si troverà alcun passo in Anselmo in cui il “provare”, dunque l’argomentazione per quelli di fuori (nach aussen), all’indirizzo dell’incredulo, sia realizzato come un’azione diversa dall’indagine che si deve perseguire a partire dalla fede stessa, in cui l’azione “dogmatica” sia seguita da una particolare azione “apologetica”, oppure questa preceda anagogicamente o apagogicamente l’azione dogmatica per fondarla o almeno farle posto. Ma quando si realizza l’intelligere del credente, la prova per quelli di dentro (nach innen) è anche la prova per quelli di fuori. La richiesta dell’“incredulo” non viene soltanto in qualche modo accolta e compresa nel compito teologico, ma in realtà viene interamente trattata come identica alla richiesta teologica del credente». ↩︎

  29. Cfr. Cur Deus homo, I, 10 in AO II, 64-67. ↩︎

  30. AO I, 104; 103: «melius est esse quam non esse». ↩︎

  31. AO I, 108; 113: «iuste puniat et iuste parcat». ↩︎

  32. Cfr. anche solo FQI, 13 e 59; 59 e 111. Sono significativi in tal senso anche i capp. XXIV-XXVI del Proslogion, su «iucunditas», «delectatio» e «gaudium» di chi è pervenuto alla contemplazione. ↩︎

  33. Secondo l’epistemologia del De Veritate, una cosa si dice «retta» quando è in conformità alla propria natura (cfr. De Veritate, cap. XI in AO I, 191). ↩︎

  34. «Quaerentes invenient eum et invenientes laudabunt eum» (Agostino, Confessiones, I.1,1 in Patr. Lat., cit. vol. XXXII, p. 661). Tutto questo primo paragrafo delle Confessioni è incentrato sui temi di cercare, trovare, conoscere, amare, e costituisce una sorta di manifesto programmatico dell’opera. M. Parodi scrive che in Agostino come in Anselmo si attua un progresso che si muove «dal possedere nella memoria […] al comprendere e al volere, all’amare che significa adesione piena all’oggetto della conoscenza» (M. Parodi, Il conflitto dei pensieri. Studio su Anselmo d’Aosta, Lubrina, Bergamo 1988, p. 34); ritrovare i contenuti dispersi nella memoria «nel modello culturale agostiniano e monastico significa ritrovare qualcosa esistente nell’anima, qualcosa da cui partire per, successivamente, comprendere e amare» (ivi, p. 35). Sul rectus ordo tra credere, cercare e trovare cfr. un altro passo di Agostino: «Ipse quoque Dominus noster et dictis et factis ad credendum primo hortatus est […] deinde iam credentibus dicit: Quaerite et invenietis. Nam neque inventum dici potest, quod incognitum creditur; neque quisquam inveniendo Deo fit idoneus, nisi antea crediderit quod est postea cogniturus» (De libero arbitrio, II.2,6 in Patr. Lat., cit., vol. XXXII, p. 1243). ↩︎

  35. Anche se Barth arriverà nei medesimi anni a una fortissima presa di distanza dal cattolicesimo basata proprio sul concetto di analogia entis (lo studio di riferimento su questo tema è J. Greisch, Analogia entis et Analogia fidei: une controverse théologique et ses enjeux philosophiques (K. Barth et E. Przywara), in «Les Etudes Philosophiques», LXIII 81989), pp. 475-496), è chiaro che l’attitudine universalistica della sua teologia non gli impedisce, mediante Anselmo, di percepire il proprio lavoro in continuità e fors’anche in comunione con Tommaso: se, infatti, nella Summa Theologiae le cinque vie costituiscono il fondamento razionale della fede e schiudono la possibilità della sacra doctrina intesa come scientia fidei, anche in Barth si avverte la necessità di una delimitazione fondativa preliminare al dispiegamento scientifico che per lui, qui certo a differenza di Tommaso, comporta una separazione e un’esclusione di principio tra ratio e fides. Si legga questo significativo passo: «… la teologia di fronte alla filosofia s’accontenti di trovare in sé il proprio punto di appoggio, di assumere il proprio punto di partenza metodico nella rivelazione con la stessa decisione con la quale la filosofia lo riconosce nella ragione, e dunque venga a un dialogo con la filosofia, e non sviluppi invece, rivestendosi del manto della filosofia, un monologo quasi filosofico» (in K. Barth, Die protestantische Theologie im XIX. Jahrhundert. Ihre Vorgeschichte und ihre Geschichte, Theologischer Verlag, Zürich 1947, p. 274; trad. it. a cura di I. Mancini, La teologia protestante nel XIX secolo, vol. I, Jaca Book, Milano 1979, p. 350). È importante, perciò, riconoscere che anche questo esclusivismo teologico si basa su una scelta di metodo che ha carattere filosofico. Su questo punto si veda: A. Staglianò, La mente umana alla prova di Dio. Filosofia e teologia nel dibattito contemporaneo sull’argomento di Anselmo d’Aosta, Dehoniane, Bologna 1996, p. 46: «Porre un rapporto così stretto tra le prove su Dio e la scientificità della teologia non deve sembrare esagerato. La domanda sul come la ragionevolezza […] della fede possa essere assicurata senza le dimostrazioni razionali dell’esistenza di Dio non è facilmente eludibile. […] Tommaso d’Aquino considerava tali prove il perno decisivo per impedire che fede e sapere fossero due orizzonti separati e senza relazione»; vedi inoltre le pp. 89-116. Inoltre H. Bouillard, Karl Barth, vol. I: Genèse et évolution de la théologie dialectique, Aubier, Paris 1957, p. 147: «Par le credo ut intelligam, Barth se rapproche notablement de la conception catholique. Il approuve expressément la définition du Concile du Vatican [I]:Credimus non propter intrinsecam rerum veritatem naturali rationis lumine perspectam, sed propter auctoritatem ipsius Dei revelantis, qui nec falli, nec fallere potest» (cfr. Conc. Vatic. I, Costituzione Dogmatica Dei Filius, cap. III). ↩︎

  36. Su questo punto sarebbe interessante riprendere la questione sollevata da M. Heidegger, Indentität und Differenz, in Gesamtausgabe, Bd 11, Klostermann, Frankfurt a.M. 2006, p. 64: «Wie kommt der Gott in die Philosophie, nicht nur in die neuzeitliche, sondern in die Philosophie als solche?». Già nella serie di conferenze intitolate Schicksal und Idee in der Theologie del 1929 (in K. Barth, Theologische Fragen und Antworten, Evangelischer Verlag, Zollikon ; trad. it. in S. Rostagno, Karl Barth, Morcelliana, Brescia 2003) Barth, dopo aver sostenuto l’opportunità di un certo realismo teologico — che permetterebbe di aprire un discorso a proposito dell’esseredi Dio — ricorda che una teologia naturale è sempre impossibile come scienza e che solo l’Offenbarenpuò costituire l’oggetto del pensare teologico autentico. Dio entra, quindi, nel pensiero come il rivelato; ammettendo che si possa parlarne in termini di essenza, va in ogni caso negato un accesso che dall’essenza voglia prendere le mosse. Si legge nei testi suindicati: «Non possiamo evitare di ascrivere a Dio perlomeno anche l’essere, essere entro condizioni ben determinate, ma sempre essere. La tesi “Dio è” è una tesi realista inevitabile, se il discorso teologico, fin dal primo momento del suo articolarsi, non vuole trasformarsi in silenzio mistico» (ivi, p. ; p. ). E ancora addirittura: «Dio è dunque la realtà, mediante la quale e nella quale la realtà nostra e del mondo è realtà; Dio è causa prima, ens realissimume actus purus, la realtà di ogni realtà» (ivi, p. ; p. ). Ma poi, riprendendo una declinazione del Römerbrief: «La possibilità dell’esperienza di Dio non dovrebbe proprio essere intesa in ogni caso come fatale. Dio si distingue dal destino proprio nel fatto che egli non è in ogni caso già lì, ma viene» (ivi, p. ; p. ); «Non esiste qui la minaccia che Dio appaia un Dio che c’è, invece che un Dio che viene?» (ivi, p. ; p. ). ↩︎

  37. Cfr. su questo l’intero capitolo Il nome di Dio in FQI, 75-91; 129-146. ↩︎

  38. «Sino al Duecento il termine theologia era solitamente utilizzato dagli scrittori cristiani in un’accezione differente da quella che noi oggi gli conferiamo. Prima del XII secolo era più abituale parlare di “studio della Sacra Scrittura”; ancora nella seconda metà del XIII secolo, nella Summa Theologiae Tommaso preferisce servirsi dell’espressione sacra doctrina. L’idea di una disciplina che si concretizzasse in uno studio sistematico dell’oggetto della fede cristiana fondato su un metodo razionale si sviluppò solo lentamente e in maniera incerta dallo studio della Bibbia e per analogia con altre scienze» (G.R. Evans, Philosophy and Theology in the Middle Ages, Routledge, London and New York 1993; trad. it. S. Simonetta, Tra fede e ragione: breve storia del pensiero medievale da Agostino a Cusano, Ecig, Genova 1996, p. 23). ↩︎

  39. È ovviamente da tenere presente la differenza tra l’uso di “dialettica” in Barth, che rimanda alla contrapposizione di matrice hegeliana degli opposti del pensiero, e il termine dialettica qui usato come sinonimo storicamente affermatosi di “logica”. Si veda su questi temi: A. Cantin, Fede e dialettica nell’XI secolo, Jaca Book, Milano 1996, che individua nel metodo anselmiano sola ratione quasi uno sbocco naturale delle dispute dialettiche del suo tempo; S. Vanni Rovighi, Sant’Anselmo e la filosofia dell’XI secolo, Bocca, Milano 1949, che propone di leggere la sistematica convergenza di Monologion e Proslogion proprio alla luce della ratio dialettica. Anche E. Gilson, La filosofia nel Medioevo, La Nuova Italia, Scandicci 1983, p. 291, afferma: «con Sant’Anselmo il pensiero dell’XI secolo deduce la conclusione più ovvia che la controversia tra dialettici e antidialettici doveva avere». ↩︎

  40. Beringerius Turonensis, Rescriptum contra Lanfrancum, in Corpus Christ. cont. Mediaev., Brepols, Turnhout 1988, vol. LXXXIV, p. 85. ↩︎

  41. Sull’importanza del dialogo anselmiano si veda D.P. Henry, The De Grammatico of St. Anselm, University of Notre Dame Press, Indiana 1964 e anche N. Kretzmann, A. Kenny, J. Pinborg (a cura di), La logica nel medioevo, Jaca Book, Milano 1999, il cap. II. Nel De grammatico Anselmo mostra di conoscere approfonditamente la struttura aristotelica delle categorie ed espone la differenza tra sostanza e accidente a proposito dei termini denominativi. ↩︎

  42. P. Vignaux, La filosofia nel medioevo, Laterza, Roma / Bari 1990, p. 24. ↩︎

  43. Cfr. M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1980, vol. I, pp. 311-404. ↩︎

  44. Il riferimento è allo studio di M. Parodi già citato alla nota 34. ↩︎

  45. In Barth l’accentuazione della fides potrebbe apparentemente essere spiegata con il ricorso alla teologia del periodo del Römerbrief, in cui grande importanza aveva assunto l’atto di fede con la sua connotazione soggettivo-esperienziale. Questa era un’immagine che continuava a gravare sulle spalle dell’autore, perché per esempio Bonhoeffer, costantemente impegnato in un corpo a corpo col pensiero barthiano, nel 1931 in Akt und Sein accusava ancora la teologia di Barth di un’eccessiva impostazione trascendentale: «la parola di Dio è solo nell’atto di fede (Glaubensakt), e non è mai “se si astrae dall’evento”» (D. Bonhoeffer, Akt und Sein. Transzendentalphilosophie und Ontologie in der systematischen Theologie, Kaiser, München 1988, p. 77; trad. it. A. Gallas e C. Danna, Atto ed essere. Filosofia trascendentale e ontologia nella teologia sistematica, Queriniana, Brescia 1993, p. 71). Bonhoeffer, in quel lavoro, dà molto peso al concreto atto di fede del soggetto (la decisione sempre rinnovata e soverchiante di fronte a Dio totalmente altro) che sta alla base del Römerbrief, mentre è opportuno sottolineare che con il Fides quaerens intellectum l’accento barthiano si sposta sul soggetto considerato come non più semplicemente credente, ma conoscente (sempre più, l’unico soggetto di cui il teologo può parlare è Dio-stesso-che-viene). In tal modo, allora, si capisce come il presunto trascendentalismo di Barth si capovolga alla fine in un ontologismo dialettico che comporta, a livello gnoseologico, una dissociazione tra ratio e fides, ognuna presa quale organo di due realtà poste in una relazione divergente. Akt und Sein, peraltro, pubblicato in concomitanza al libro di Barth, risente fortemente del nuovo clima teologico e si fa carico dei problemi derivanti proprio dal tentativo di fondazione di una teologia scientifica. È ragionevole quindi pensare che la più tarda denuncia di “positivismo della rivelazione” costituisca per Bonhoeffer una sorta di auto-accusa e uno smascheramento dei problemi insiti nel progetto barthiano di cui aveva condiviso la finalità. ↩︎

  46. Si tenga presente, a correzione di un’immagine troppo schematica del pensiero di Barth, quanto S. Rostagno dice sul concetto di «campo», citando un passo della Kirchliche Dogmatik in cui l’autore riconsidera la tesi della pura e puntuale tangenza di tempo ed eternità, una delle tesi centrali del Römerbrief: «La rivelazione non resta trascendente rispetto al tempo, non sta al tempo solo come la tangente al cerchio, ma entra nel tempo, anzi no: essa assume tempo; neppure: essa si crea tempo» (cfr. Kirchliche Dogmatik, cit., I/2, §14.1, Gottes Zeit und unsere Zeit, p. 55 e S. Rostagno, Karl Barth, cit., p. 29). ↩︎

  47. Scrive A. Aguti, in una recente presentazione dell’interpretazione barthiana della filosofia illuministica, che «se si inquadra il problema del rapporto tra razionalità e fede entro le coordinate storiche che Barth offre nella sua interpretazione dell’Illuminismo, si vede che il cosiddetto fideismo barthiano è da interpretare innanzitutto come come la riacquisizione del fondamento teologico della fede cristiana nell’epoca postmoderna» (A. Aguti, Karl Barth e l’Aufklärung, in Aa.Vv., Cos’è l’Illuminismo?, «Hermeneutica», Morcelliana, Brescia 2010, p. 202). ↩︎

  48. Scrive T.J. Holopainen, Augustine, Berengar and Anselm on the Role of Reason in Theology, in Aa.Vv.,Was ist Philosophie im Mittelalter, a cura di J.A. Aertsen e A. Speer, Walter de Gruyter, Berlin / New York 1998, p. 559: «In the theory of illumination […] the functioning of human reason is explained as depending on divine enlightning action. As the possibility of seeing the truth about concrete visible objects depends on the sun giving its light, so the possibility of seeing truths of reason depends on the light given by the Truth, i. e. Christ. Berengar and Anselm shared with Augustin the theological explanation of the functioning of reason, and this is what ultimately explains their strong reliance on reason as a theological instrument». Molto probabilmente affiora qui l’elemento decisivo di differenziazione della concezione barthiana della ratio rispetto a quella di Anselmo: la sua ragion d’essere va cercata in una visione antropologica alternativa pensata sulla scorta del cosiddetto extra-calvinisticum. Secondo tale principio, consolidatosi già nella trattatistica del XVI secolo, l’uomo non è capax infiniti: «Quod finitum est, infinitum comprehendere non potest». La ripresa barthiana di questo concetto puntualizza la questione in rapporto alla dogmatica e ne offre una vigorosa radicalizzazione teologica: «Der Satz finitum non capax infiniti etwa könnte hier wirklich nicht beweisen, was zu beweisen ist. Wenn die wirkliche Erfahrung des vom Worte Gottes angesprochenen Menschen gegen diesen Satz spräche, dann müsste dieser Satz fallen, wie in der Theologie jeder philosophische Satz fallen muss, der mit dieser Erfahrung in Widerspruch steht. Als philosophischer Satz interessiert er uns auch nicht im geringsten. Wir werden nicht sagen: finitum, sondern wir werden sagen: homo peccator non capax — und wir werden nicht fortfahren: infiniti, sondern: verbi Domini. Gerade diese wirkliche Erfahrung des vom Worte Gottes angesprochenen Menschen entscheidet und beweist, dass ihre Ermoglichung jenseits ihrer selbst stattfindet» (Kirchliche Dogmatik, cit., I/1, §6.3, Die Erkenntbarkeit des Wortes Gottes, p. 231; cfr. anche I/1, §11.1, Gott als Versöhner, pp. 427-429). L’antropologia anselmiano-agostiniana della ratio illuminata, che da un punto di vista genealogico è una delle radici del luteranesimo, risulta dunque diametralmente opposta alla visione calvinista. ↩︎

  49. La storia della prova ontologica in età moderna è stata esposta e analizzata da D. Henrich, La prova ontologica dell’esistenza di Dio, Prismi, Napoli 1983 e sottoposta a un riesame, fortemente orientato sul significato logico, da E. Scribano, L’esistenza di Dio. Storia della prova ontologica da Descartes a Kant, Laterza, Roma-Bari 1994. ↩︎

  50. Sulla distinzione / separazione di fede e ragione come saperi autoescludentisi e sul rapporto tra esperienza religiosa e metafisica si veda M. Ruggenini, Il Dio assente. La filosofia e l’esperienza del divino, Bruno Mondadori, Milano 1997, in cui l’autore, ravvisando una rottura epocale tra grecità antica e occidente cristiano dovuta all’inserimento del principio di creazione, mostra che la «concezione causativa dell’essere» ha prevalso nella filosofia già nel periodo scolastico. Tale concezione enfatizza la divisione del sapere e conduce, oltre che a una fede ir-razionale, a quella che Ruggenini — pensando esplicitamente ad Anselmo — chiama una «ragione de-solata» (p. 233). Il principio barthiano (ma già anselmiano) secondo cui la fede è organo di conoscenza autonomo è stato affermato risolutamente da San Tommaso che, in apertura della Summa Theologiae, discutendo se la teologia sia scienza, sostiene che si danno due tipi di sapere: l’uno che procede «ex principiis notis lumine naturali intellectus» e l’altro «ex principiis notis lumine superioris scientiae». Per la teologia si tratta del secondo sapere e i suoi principi derivano dalla «scientia dei et beatorum» (cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q.1, a.2, in Opera Omnia Sancti Thomae Aquinatis, in , sez. De Ecclesiae Patribus Doctoribusque, p. 2; trad. it. a cura dei Domenicani Italiani, La Somma Teologica, ESD, Bologna 1984, vol. I, p. 47). ↩︎

  51. Il richiamo è ancora a Bonhoeffer che, sempre in Akt und Sein, descrive limpidamente sulla scorta del pensiero barthiano le caratteristiche del sapere filosofico che si oppone al sapere della fede: Bonhoeffer stesso — lo ripetiamo — nel processo di maturazione del suo pensiero giungerà a sfumare quest’impostazione che è tuttavia qui espressa in tutta chiarezza: «[Ciò che] costituisce la grande tentazione di ogni autentico filosofare, è che il pensiero si elevi a signore del non-oggettivo, e inglobi se stesso, portando avanti il pensare […] in modo tale da fare senz’altro dell’Io che si pensa non il punto limite (Grenzpunkt), ma il punto d’origine (Ausgangspunkt) del filosofare. Non può però fare tutto questo senza una duplice perdita, quella della verità e quella della trascendenza, ovvero, quella dell’una attraverso quella dell’altra. La filosofia, il pensiero, l’Io non si consegnano più alla trascendenza, ma a se stessi. La pretesa smodata del pensiero si rovescia nel suo contrario. Il pensiero si tiene fermo a se stesso; dove c’è libertà dal trascendente, dalla realtà, lì precisamente si è prigionieri in se stessi» (Akt und Sein, cit., p. 32; p. 28). ↩︎