Patografia ed esistenza: linguaggio poetico e incomprensibile
Il passaggio jaspersiano dalla psichiatria alla filosofia è solo apparentemente una deviazione di percorso. Fin dalla prima monumentale opera del 1913, Allgemeine Psychopatologie, 1 il pensatore tedesco ha inteso la pratica del pensare come lo strumento più potente di riappropriazione dell’umano, della sua inossidabile irriducibilità a qualsiasi processo di reificazione. La psichiatria, sorretta dall’impianto fenomenologico, occupandosi dell’esistenza segnata drammaticamente dalla malattia psicotica, si occupa della totalità inoggettivabile dell’umano adoperando gli strumenti del sapere scientifico e quelli del sapere filosofico. Gli scritti sulle patografie si inseriscono all’interno di questo orizzonte concettuale, proponendosi come l’esemplificazione teoretico-pratica della differenza e al tempo stesso dell’indissolubile compenetrazione tra Erklären e Verstehen.2 Differenza e compenetrazione che Jaspers tematizza già nello scritto sul cosiddetto delirio di gelosia. Appare chiaro al pensatore che siffatto delirio, e con esso ogni altra forma di vissuto psicopatologico, non possa essere considerato come l’emergenza di un processo psicologico e fisiologico oggettivabile, riconducibile a nessi e cause, ma in ultimo non comprensibile. Anche il vissuto psicopatologico, che rappresenta chiaramente un significativa lacerazione del mondo personale del soggetto, va non solo spiegato con gli strumenti di cui l’indagine oggettiva, in terza persona, si avvale, ma con quelli di un’investigazione in prima persona: un tipo di indagine, questa, che considera la malattia psichica come strettamente intrecciata alla singolarità del paziente. Sulla scorta della lezione jaspersiana si può dire che non esiste il vissuto psicotico in astratto, ma solo il vissuto psicotico incarnato in una situazione esistenziale concreta. Le patografie, in particolare, ci dicono che non esiste vissuto psicotico senza un’ermeneutica, una fenomenologia esistenziale capace di calarlo nei drammi e negli aneliti di una vita che si declina sempre al singolare. In questo mutamento di prospettiva Jaspers ha certamente in vista Husserl e Dilthey, ma anche Kant, Kierkegaard e Spinoza,3 il primo grande autore che il filosofo lesse all’età di diciassette anni e che non ha mai realmente abbandonato. È il filosofo olandese a distinguere sottilmente fra tre generi di conoscenza: la conoscenza fondata sull’immaginazione; la conoscenza razionale che invece riguarda le nozioni comuni, le qualità primarie concernenti tutti gli enti, e che procede dunque per sillogismi e dimostrazioni; e, infine, la conoscenza intuitiva che coglie immediatamente, partecipando attivamente all’essenza della cosa conosciuta. Nel terzo genere di conoscenza spinoziano è in qualche modo prefigurato il comprendere jaspersiano: quel comprendere che è sintesi mirabile di ragione (Vernunft) ed esistenza (Existenz). Di fronte al dramma di una vita spezzata dall’insorgere virulento della malattia non si tratta, parafrasando Spinoza, né di ridere né di piangere, ma di capire, ossia di partecipare esistenzialmente alle cause che hanno aperto la ferita, l’abisso che inghiotte la soggettività del malato, minacciando di trasformare la sua libertà in uno spettro di esistenza.
Anche le patografie assurgono a prova inconfutabile del tentativo jaspersiano di ripensare, attraverso il confronto serrato con la tradizione filosofica, l’idea stessa di ragione. Quello che preme a uno dei pochi intellettuali europei capaci di incarnare l’ideale ippocratico del medico-filosofo, è di modellare una psichiatria all’altezza dell’uomo; una psichiatria in grado di ricomporre la frattura tra scienza e filosofia, tra pensiero logico-discorsivo e pensiero esistentivo. La posta in gioco è sempre la comprensione, per dirla con Scheler, della posizione dell’uomo nel cosmo.4
La patografia corrisponde dunque non solo all’esigenza terapeutica di oltrepassare i limiti della spiegazione causale per accedere al dominio della comprensione empatica, ma all’esigenza gnoseologica e metafisica di riproporre una visione della coscienza, e dunque dell’umano, capace di sfuggire al riduzionismo di matrice positivista, per il quale il vissuto psicotico è riconducibile a una mera lesione cerebrale, dal momento che la coscienza stessa è concepita alla stregua di un’illusione,5 un gioco che emergerebbe dai complessi intrecci neurali. In questa visione puramente deterministica dell’uomo non c’è spazio per una patografia, ossia per il racconto di un’esistenza che perde il senso del suo stare al mondo, poiché quel deragliamento esistenziale è, in realtà, un deragliamento puramente bio-chimico. È possibile scrivere una patografia se si crede con Ricœur, discepolo di Jaspers, che «una vita puramente biologica non esiste»,6 dal momento che ogni esistenza è tempo e racconto, perpetua risignificazione del proprio esistere che genera la biforcazione, in senso alla nostra soggettività, tra identità e medesimezza, tra adesione coatta di sé a sé ed estaticità esistenziale. Se l’esistenza, compresa l’esistenza afflitta dalla psicopatia, è indisgiungibile dall’atto di interpretazione e chiarificazione della propria insondabilità, si può dire che non solo la Trascendenza abbisogni di incarnarsi, seppur fugacemente, nell’immanenza della cifra, ma anche quella trascendenza immanente costituita dalla singolarità dell’esistente. A darci prova di ciò sono in particolar modo le patografie di Hölderlin e Nietzsche. Potremmo azzardarci a definirle patografie di patografie, dal momento che l’atto poetico per Hölderlin e l’atto filosofico-poetico per Nietzsche sono tentativi di tradurre in grafia, in scrittura, il pathos irriducibile di ogni esistenza. Ancor prima di intrecciarsi al vissuto della malattia, la scrittura filosofica e poetica si propone di ritagliare nel flusso caotico dell’umano esistere un frammento di eternità capace di cristallizzarsi nella finitezza di un verso, nella folgorazione di un aforisma che rivela e nasconde tutto al contempo. Le patografie non solo de-costruiscono l’immagine abituale della malattia psichica, mostrando come essa possa talvolta diventare il serbatoio della genesi creativa – l’immagine della perla che nasce dalla malattia della conchiglia, cui Jaspers allude proprio nelle pagine dedicate a Hölderlin, è poeticamente eloquente, in questo senso –,7 ma sembrano individuare quanto l’Einfühlung8 rappresenti l’asse portante della pratica terapeutica e dell’ermeneutica filosofica, marcando, così, la continuità tra la psicologia comprensiva e la chiarificazione dell’esistenza, e approfondendo il legame indissolubile tra il linguaggio, concettuale e simbolico, e l’inoggettivabilità del fondo di sé. Da un punto di vista metodologico il concetto stesso di patografia apre il campo a quegli interrogativi che campeggiano nelle prime pagine del secondo volume di Philosophie:9 è possibile, dal momento che l’esistenza sfugge a qualsivoglia tassonomia concettuale, a qualsiasi oggettivazione categoriale, parlarne senza trascinare la sua assoluta singolarità nell’angustia impersonale dell’universalità? Se è vero che l’esistenza, sopratutto quando si trova in balia della situazione-limite della malattia, deborda da ogni parola che pretenda di svelarne il mistero, è possibile una patografia, una scrittura capace di tradurre nel medio della coscienza in generale, del linguaggio scientifico e filosofico, l’abissalità di un dolore che desta tanto sgomento? È possibile solo se si coglie la patografia come una chiarificazione dell’esistenza trafitta dalla notte oscura della follia. Essa non si aggrappa a concetti definitivi: la sua ricostruzione minuziosa della biografia e degli eventi interiori del malato non s’impone come una spiegazione esaustiva. Le sue conclusioni sono, al contrario, dei segni sempre passibili di rettificazione, indici tremanti sprovvisti della pretesa di circoscrivere l’oggetto verso cui tendono.
Di fronte alla malattia che erode a poco a poco il significato dell’esistenza si aprono due vie, quella della spiegazione causale che, mediante la sperimentazione e la raccolta dei dati, cerca di rinvenire nell’oggettivazione dei sintomi una legge che possa sussumere sotto di essa ogni caso particolare, guardando così al fenomeno psichico dal di fuori, quantificandone i processi al fine di pervenire al controllo, alla predizione della regolarità del loro verificarsi; oppure si può integrare questa prima via con quella del comprendere, della visione intuitiva, dal di dentro, dei fenomeni psichici. Tale visione richiede una trasposizione interiore, una forma particolare di immedesimazione in grado di consentire al terapeuta di scorgere dietro il dato empirico la sua risonanza emotiva ed esistenziale. Laddove il filosofo riduzionista scorge solo eventi neurobiologici, il fenomenologo carpisce, in prima persona, significati e motivazioni. Ciò che lo psichiatra deve tentare di presentificare è la singolarità indeducibile del vissuto. Il vissuto del paziente, la sua strutturale eccedenza, pone in evidenza i limiti dell’assolutizzazione dell’oggettivazione. Le patografie pongono in luce questa eccedenza ineludibile del vissuto e, soprattutto, invitano il lettore ad acuminare lo sguardo per meglio penetrare il significato precipuo di Einfülhung. L’Einfülhung, anche per Jaspers, è un atto intimamente stratificato, che si articola in quello che egli chiama comprendere statico e comprendere genetico. Lo psicopatologo deve imparare a immergersi nel vissuto del paziente, cercando di penetrare il modo singolare del suo sentire. La comprensione che coglie l’alterità del vissuto, senza afferrare i significati e i motivi che sottendono il vissuto e lo rendono singolare, è statica. Il comprendere genetico,10 invece, disvela il rapporto di senso che lega fra loro i fenomeni coscienziali, mostrando come lo psichico, il vissuto, non possa essere considerato un mero epifenomeno del fisico, ma soltanto come un affioramento dello psichico stesso. Come un attore che deve calarsi nei panni del personaggio, preservando, al contempo la distanza dal ruolo, il terapeuta deve esercitarsi al doppio movimento dell’immedesimazione e della disidentificazione. La relazione terapeutica s’impernia sulla dialettica tra intimità ed estraneità: si tratta di preservare - nel senso della partecipazione esistenziale alla singolarità del vissuto dell’altro - un punto di trascendenza, affinché l’intimità non diventi fusione, ma resti relazione dialettica tra prossimità e distanza. Al fondo di ogni malattia v’è un grumo ineliminabile di incomprensibilità. Questa alterità immanente al vissuto psicotico, lungi dall’invalidare il moto stesso della comprensione, come qualche critico ha lasciato supporre, lo preserva dal rischio dell’oggettivazione. L’autentico comprendere perviene alla comprensione dell’asimmetria strutturale alla relazione medico-paziente: nel riconoscimento di questa distanza incolmabile,nel rispetto della differenza irriducibile del vissuto, l’asimmetria si approssima alla simmetria, rimanendo, per così dire, sulla sua soglia. L’incomprensibile,11 dunque, che sembrerebbe costituire un muro invalicabile per la partecipazione empatica, rappresenta, invece, la sua sorgente etica. Da categoria eminentemente psicopatologica si trasforma in categoria etico-filosofica. Infatti, ad ammantarsi di incomprensibilità, e dunque di inafferrabilità, non è solo la malattia mentale, ma il mondo personale di ogni alterità. E, in particolare, il mondo simbolico e concettuale che edifica le fondamenta del pensiero di un filosofo. Nella ricostruzione della vicenda esistenziale e intellettuale di Nietzsche, dove la patografia si trasfonde in fenomenologia di un pensiero nomade, che sembra riluttante a qualsiasi dimora filosofica corrente, Jaspers si avvale dello strumento dell’Einfühlung. Dinanzi all’eccezione,12 al filosofo che fu capace di rivelare, aderendo fino in fondo al suo compito, il destino di un’intera civiltà che volgeva e volge al tramonto, qualsiasi tentativo di assimilazione è costretto allo scacco. Eppure, al cospetto di quella vita che si è data anima e corpo all’esperimento della conoscenza, arsa dal bisogno di veridicità, il medico e il filosofo abbisogna di armarsi di un’esegesi capace di diventare appropriazione interiore. Di fronte a un grande filosofo che ridesta la nostra coscienza della verità, si tratta di bagnarsi nel fuoco vivo della sua parola senza lasciarsene consumare, per diventare, alla fine, se-stessi. L’eccezione che prorompe dagli abissi della malattia, e di un pensiero che sprona al trascendimento di ogni limite, non invita alla sequela. L’interiorizzazione di un vissuto e di un pensiero implica sicuramente il decentramento della soggettività, affinché la voce dell’altro parli limpidamente, ma tale smarcamento non può mirare all’identificazione. La vita e il pensiero del filosofo conducono l’attività ermeneutica sulla soglia di un limite invalicabile: su quella soglia, in cui balugina l’incomprensibilità dell’alterità, il filosofo è chiamato a guardarsi dentro, a preservare, dinanzi alla differenza, la propria identità; a comprendere l’impossibilità di fuoriuscire interamente dalla situatività della propria prospettiva esistenziale per cogliere l’intima verità di una vita consacrata al pensiero. La verità che si consegna alla trasparenza del concetto non esaurisce la profondità inesauribile della verità di una filosofia. E, tuttavia, la prospettiva personale sulla verità dell’altro è costitutiva della sua progressiva rivelazione. Rimproverare dunque Jaspers di vedere Nietzsche attraverso il filtro della propria filosofia, dei problemi che la sostanziano, è superficiale. L’alterità filosofica e culturale è sempre uno specchio che riflette noi stessi e che ci invita, interrogandoci e scuotendoci, a trasformarci.13
La lettura jaspersiana di Nietzsche non ha solo il merito di chiarificare i concetti fondamentali che costellano il Denkweg del filosofo, ma il pregio di gettare una luce sul mistero della sua malattia. L’analisi psicologica e filosofica dei momenti decisivi della sua parabola intellettuale si inserisce all’interno del progetto jaspersiano, purtroppo incompiuto, di scrivere una storia mondiale della filosofia facente perno sulla struttura metafisica dell’esistenza, sulla sua intrinseca apertura alla Trascendenza. Non è la malattia a rivelare il carattere intimamente religioso dell’esistenza, ma è vero che nella malattia lo slancio del finito verso l’Assoluto può accentuarsi assumendo tratti violenti. La psicosi può volgere lo stupore metafisico, che avvince l’esistenza di fronte all’abisso dell’essere che la cinge da ogni parte, in estremo orrore. Come nota Jaspers, il demoniaco, questo sentirsi continuamente oltre se stessi, nel grembo dell’assoluto, sfugge all’opposizione sano-malato.14 In ogni uomo esso opera come sorgente segreta della trasfigurazione artistica, ma nel soggetto psicotico accade che questa forza primigenia irrompa disintegrando il controllo razionale dell’io. Prendendo in esame la vita e l’opera di Hölderlin, si comprende bene come non sia la malattia la fonte diretta del contatto di estrema prossimità fra l’umano e il divino, ma sia questo originario contatto, seppur latente e vissuto in maniera inconsapevole, a fungere da polo d’attrazione del demoniaco. La malattia, insomma, porta alla luce, evidenzia, ma non genera quei tratti della personalità che costituiscono il terreno sul quale attecchisce il seme della ricerca appassionata dell’Assoluto.
Nella poesia, in particolare nella poesia di Hölderlin, ciò diventa estremamente chiaro. La voce del poeta è l’incarnazione transeunte di quella Voce al fondo di tutte le altre voci che nel linguaggio teologico possiamo chiamare Dio e che nel linguaggio filosofico, invece, chiamiamo Trascendenza. L’uomo, lo insegna Jaspers, abbisogna di tradurre la sua intima relazione con il mistero dell’Essere nella forma mediatrice delle cifre. Il poeta, in questo senso, è colui che rivela nel suo dire il linguaggio cifrato che tesse la trama del mondo. Il poeta, Hölderlin ne rende viva testimonianza, è colui che trova dimora soltanto presso le cifre che egli stesso trova. La cifra non è tanto un prodotto dell’intelligenza poetica, ma il modo finito attraverso il quale l’infinità della Trascendenza si fisicizza. Il poeta è colui che sa individuare la risonanza esistenziale di una cifra,15 soggiornando nella chiara consapevolezza dell’inesauribile dicibilità dell’Essere. La Trascendenza non solo è mistero, dunque, ma è un mistero sapiente, che parla e dà notizia di sé anche attraverso il silenzio. Il verso, quale incarnazione della cifra, è il frutto di un progressivo trascendere l’immediatezza del proprio sentire: è un sentire alla seconda potenza. Hölderlin mostra come il sentire poetico, questo avvertire il divino nella cifra, sia solo astrattamente un sentire. Esso è una forma di conoscenza, un contemplare che, al contempo, oblia e tradisce l’attaccamento intrecciato ad ogni sentire. Dire la vita, consacrare la propria esistenza alla parola decisiva, significa mancarla. Ma questo peccare, questo mancare il bersaglio in cui in ultimo consiste il poetare, soprattutto il poetare così come inteso dal poeta tedesco, è, segretamente, aderire pervicacemente alla profondità dell’esistenza, onorandola. Mancare la vita, tentare di distillarne l’essenza nei versi, non è un incidente della vita intellettuale, di quella che i detrattori dell’esercizio poetico additano come vita puramente contemplativa – ignorando che la contemplazione poetica è sempre azione, trasformazione di ciò che si vede e della cornice del mondo in cui la cosa vista s’inscrive –, ma è il mistero sapiente dell’Umgreifende ad essere, nel suo mostrarsi originario, un mancare, un sottrarsi allo sguardo conoscitivo nell’istante in cui, donandosi, infrange il suo riserbo. La parola poetica, quando la malattia sembra spazzare via gli ultimi residui del legame col mondo, lungi dal disarticolarsi, dal seguitare la destrutturazione metrica cui è sottoposta, diventa, in Hölderlin, come in Nietzsche, acuta corrispondenza a quel mancare immanente al darsi stesso dell’Essere. Il dire filosofico-poetico, negli spiriti più elevati, ammantandosi di umiltà ontologica, si costituisce come un atto kenotico, uno svuotamento della pretesa originaria del linguaggio di oggettivare l’Essere.16 Il dire poetico, che tenta di lambire l’indicibile, riesce a dirlo soltanto nell’impotenza, nel naufragio del tentativo di afferrarlo. A rivelare la Kenosis che unisce la parola poetica e la trascendenza immanente dell’Essere sono i versi che Hölderlin, nel 1803, mentre la malattia infuria, innalza a Patmos: «Prossimo / è il Dio e difficile è afferrarlo. / Dove però è il rischio / anche ciò che salva cresce».17
La prossimità del divino, l’irruzione della sua potenza nell’anima del poeta,18 è, al contempo, la sua infinita distanza. Alla Kenosis della parola, che per accogliere la voce della Trascendenza deve fare il vuoto di sé, corrisponde la Kenosis della Trascendenza, la quale s’incarna nella parola soltanto nell’istante dell’eternità: «rapido passa / quanto è eterno sulla terra; ma non invano».19 Il poeta, anche nella malattia, rivela il significato religioso20 del poetare. La poesia non solo mostra che il suo tempo è intriso di eternità, ma che l’Essere non è né l’immediatezza della sua rivelazione né la mediazione del puro concetto. La parola poetica non è altra dall’Essere, ma è l’Essere che diviene trasparente a se stesso nel medio della cifra poetica.
Chi si pone in ascolto, come ha fatto Hölderlin, di quella parola che la Trascendenza pronuncia, si accorge di essere un segno che ha smesso di essere indice, perché ciò di cui è traccia è mistero a se stesso. Il poetare, allora, si configura come un perpetuo congedarsi21 da tutti i segni e da tutti i simboli. In questo senso si può dire che la malattia, che ha influito sull’evoluzione poetica di Hölderlin, è lo specchio dell’essenza della poesia e non il contrario, assurgendo a cifra di quel sacrificio dell’io, di quel naufragio di sé, che è la condizione di possibilità di ogni autentico poetare.
Nel canto di Hölderlin, quel canto che ha tentato di ricucire il cielo alla terra,22 la malattia, l’incomprensibile, si assolve dalla sua incomprensibilità, facendosi segno di quell’Incomprensibile, l’Umgreifende, che straripa da ogni concetto e da ogni cifra.
Psicopatologia e relazione: Jaspers e Kimura
Per comprendere il significato esistenziale che si cela nelle patologie della mente, occorre dapprima chiarire la struttura fondamentale dell’esistenza umana. Questo assunto jaspersiano è stato accolto e sviluppato dalla riflessione psichiatrica del Novecento, la quale, anche quando non si riferisce esplicitamente al filosofo di Oldenburg, si muovono nel solco concettuale che egli ha tracciato. È il caso, ad esempio, di Kimura Bin, psicopatologo giapponese che si è formato nell’ambito della fenomenologia e i cui riferimenti filosofici vanno da Aristotele ad Heidegger, passando per l’imprescindibile apporto che la filosofia di Nishida Kitarō occupa nella strutturazione del suo pensiero.
Il dato fondamentale da cui parte Kimura, nell’articolare la sua fenomenologia della schizofrenia, presenta significativi punti di contatto con il mutamento di paradigma della relazione medico-paziente introdotto da Jaspers. Nel rapporto col paziente ciò che è in gioco è il superamento della propria individualità. La comprensione della malattia psichica dipende dalla realizzazione della propria natura relazionale, dall’acquisizione del terreno inter-soggettivo dell’incontro. Solo tramite l’acquisizione dello spazio della relazione è possibile incontrare lo schizofrenico «nel proprio jikaku».23
Ma che cos’è per Kimura il soggetto? Richiamandosi a Kierkegaard, come Jaspers, egli contesta, corroborato dall’assidua frequentazione del buddhismo zen, la sostanzialità dell’esistenza. L’io non è una sostanza fissa, autonoma, che si costituisce separatamente, indipendentemente dalla sua relazione con il mondo e con l’altro. L’esistenza è, strutturalmente, un moto estatico, la perpetua rottura di ogni monadica clausura soggettivistica. L’io non perviene alla relazione, bensì è relazione: una sintesi vivente tra la singolarità del proprio io e la trascendenza immanente dell’alterità. L’inter-soggettività è una struttura dell’esistenza. La singolarità dell’io, la sua storicità, si costituisce soltanto nella e per la comunicazione esistenziale. Solo nella parola che unisce l’esistenza all’altra esistenza è possibile pervenire alla realizzazione dell’autentica libertà. Kimura, come Jaspers, pensa che l’io solipsistico sia un'astrazione. L’originarietà non spetta all’io atomizzato, ma al Mitsein, a ciò che il giapponese, desumendo il termine da Watsuji Tetsurō,24 chiama aida 間. L’ideogramma giapponese è la composizione grafica di due ideogrammi: quello di kado 門, porta, e di hi 日, sole. Visivamente, dunque, esso indica la luce che transita attraverso la fessura di una porta. Questa fessura indica concettualmente lo spazio della relazione, il tra – Zwischen –, l’intima distanza che unisce e altresì separa le esistenze. Rifacendosi a Martin Buber,25ma più in generale al buddhismo, Kimura sostiene che non esiste un io separato da un tu. La consistenza ontologica spetta all’originaria relazione io-tu: relazione nella quale l’identità, grazie all’inserzione di quel vuoto attivo, intimo, che stringe a sé e proietta fuori di sé, convive con la differenza. L’io autentico, l’esistenza che ha realizzato la sua intima vocazione alla relazionalità, è l’io capace di aver cura di quella fessura che si produce in seno all’esistenza e alla co-esistenza. V’è infatti un aida 間 interiore e un aida 間 interpersonale. Il rapportarsi a sé dell’esistenza non consiste in un’adesione completa di sé a sé: il movimento centripeto dell’esistenza, la relazione con sé, è già movimento centripeto, relazione all’altro. Per Kimura il sé è attraversato da parte a parte dalla differenza. L’identità, infatti, è l’intreccio dialettico tra mizukara 自ら – «ciò che si origina dal proprio corpo»26 – e onozukara 自ずと – «ciò che è così per se stesso».27 Questa biforcazione interna al soggetto designa la diversa declinazione di quella spontaneità originaria che il pensiero classico giapponese definisce ji 時 . Siffatta spontaneità originaria, quando si incarna nell’attività concreta della carne, nell’esistenza situata nell’istante, è mizukara 自ら; quando, invece, questo movimento originario appartiene al mondo esterno della natura è detto onozukara 自ずと. Ciò vuol dire, per Kimura, che non solo non è possibile concepire un soggetto isolato, ma che esso è partecipe del movimento spontaneo della natura shizen 自然.
Il sé è natura interiorizzata e la natura è un sé esteriorizzato. Questa formula, dal sapore schellinghiano, marca la continuità radicale tra l’esistenza e l’Essere, fra il soggetto e il mondo. La duplice relazione dell’esistenza, alla propria differenza interna – aida 間 interiore – e alla differenza esterna dell’altro – aida 間 interpersonale –, accade nello spazio originario dell’archè-aida, di quello che altrove, sulla scorta della lezione di Weizsäcker, Kimura chiama «fondo della vita». Tale fondo inoggettivabile costituisce lo sfondo trascendentale che accoglie la relazione del sé con sé e la relazione del sé con l’altro. Non è difficile scorgere nell’auto-determinazione del pre-aida, nel suo strutturarsi in relazione intra-soggettiva e inter-soggettiva, quella stessa auto-determinazione dell’Umgreifende di cui parla Jaspers. L’Umgreifende indica la relazione intra-soggettiva – il soggetto colto nella molteplicità delle sue dimensioni costitutive – e la relazione meta-soggettiva – il rapporto tra l’immanenza del mondo e la Trascendenza. La schizofrenia, per Kimura, è la destrutturazione radicale della relazionalità dell’Essere.
Il soggetto schizofrenico è incapace di individuarsi perché non riconosce il proprio aida 間 interiore, il rapporto dialettico fra mizukara 自ら e onozukara 自ずと. Non riuscendo a rapportarsi adeguatamente alla propria differenza intrasoggettiva, è incapace di rapportarsi alla differenza dell’altro. Lo schizofrenico abita un mondo in cui l’identità personale non è più il luogo dell’incontro fra intimità ed estraneità, fra ipseità e alterità, ma l’immagine esangue di un alterità assoluta che ha totalmente perso i tratti della familiarità. Parallelamente, il volto dell’altro non assume più la fisionomia del Tu che emerge dall’anonimia impersonale della folla, ma si costituisce come la fonte della minaccia all’integrità della propria individualità psichica. L’altro è il terribile che invade lo spazio dell’aida 間 interiore. Lo schizofrenico, però, non solo è incapace prendersi cura dello spazio della relazione intra-soggettiva e inter-soggettiva, ma anche del tempo che intride i suoi vissuti soggettivi. Se il melanconico vive quella che Kimura chiama temporalità post festum, il tempo del ripiegamento riflessivo sul passato che erode ogni presente e restringe ogni orizzonte futuro, lo schizofrenico, al contrario, vive la temporalità ante festum,28 l’attesa ansiosa di un avvenire che, in ultimo, risulta vuoto.
Accanto a queste due modalità di vivere il tempo, Kimura, nell’ambito della sua fenomenologia della depressioni stato-limite, introduce una terza modalità, quella dell’intrafestum. Attraverso le patografie di Akiko e Masuko, due pazienti che egli stesso ha avuto in cura, egli si accorge che il soggetto borderline vive una patologia dell’immediatezza. Egli è incapace di trascendere il momento presente nella direzione a ritroso del passato o nella direzione in avanti del futuro. Masuko, che vorrebbe liberarsi della sua persona levando la mano su di sé, teme che, anche da defunta, egli continuerà ad essere una persona. Pur aspirando a un aldilà, vive nella convinzione dell’immutabilità del presente, un presente puntiforme che blocca ogni tentativo di auto-trascendenza. Ella è così incatenata alla sua vergogna di esistere, di essere se stessa, che vive ogni contatto con la bellezza con violenta angoscia. La bellezza, per lei, lettrice di Rilke, è l’altra faccia del terribile, perché le ricorda l’abisso che ogni istante scava tra lei e il mondo; le rammenta l’impossibilità di trascendere l’immanenza radicale della propria disperazione, la colpa di essere quel singolo lì. La malattia, dunque, è una patologia della relazione che rende indistinguibili i contorni della differenza ontologica interiore e di quella differenza ontologica radicale tra l’aida 間 intrasoggettivo e l’aida 間 originario della Vita; tra l’Umgreifende dalla parte del soggetto e l’Umgreifende in sé, l’abbracciante di tutti gli abbraccianti. Nel caso della patografia di Masuko, si nota come ella non solo non riuscisse ad aderire pienamente al mistero della sua esistenza singolare, a discernere in sé l’io empirico e l’io autentico, il Dasein dall’Existenz, ma quel mistero del fondo della Vita, pur venendole incontro, le appariva come una terribile bellezza, una bellezza capace di annientarla.
Nelle patografie di Hölderlin e Nitezsche la malattia, oltre ad apparire come una patologia della relazione, assurge a cifra di un trascendimento che brucia risolutamente ogni differenza. Hölderlin è divorato dalla presenza del divino che agogna di diventare parola; Nietzsche, invece, è sopraffatto da Zarathustra,29 dall’archetipo simbolico del trascendimento dell’umano troppo umano. I casi di Hölderlin e Nietzsche sono emblematici perché oltre a presentare la patologia come una destrutturazione della relazionalità intra-soggettiva e inter-soggettiva dell’esistenza, ci indicano chiaramente come la patologia possa simbolizzarsi, diventando la cifra di un trascendere radicale dell’io, di un'ascesi del pensare che mira a subordinare la soggettività del pensatore e del poeta all’altezza vertiginosa di un pensiero che li trascende, che si serve di loro come strumenti della verità. Jaspers, giustamente, evidenzia la centralità di quelle esperienze mistiche che, nel caso di Nietzsche, fungono da preludio alla notte della malattia e che, bene intese, rappresentano la testimonianza di uno sfondamento della concezione metafisica dell’Essere. Il periodo compreso tra il 1881 e il 1884 è, per il filosofo tedesco, un arco esistenziale in cui egli sperimenta una fecondità creativa senza precedenti che si intreccia mirabilmente alla percezione dell’abissalità inattingibile dell’Essere.30 In questa congiuntura esistenziale, si forma l’ateismo mistico di Nietzsche.31 Una mistica che fa perno su un trascendimento radicale della sostanzialità del soggetto e della sostanzialità del divino. La morte di Dio32 e la morte dell’uomo che annunciano l’avvento di Zarathustra, dell’umanità liberata dal fardello della menzogna millenaria, rappresentano il rovesciamento di quella malattia dello spirito che induce il soggetto ad esaltare i valori venerati e ipostatizzati dalla nostra civiltà, che mortificano la libertà dello spirito, l’intima creatività della volontà di potenza che, lungi dal rappresentare la più volgare auto-affermazione della propria egoità, si qualifica, invece, come infinita volontà di creatività e dunque di trasfigurazione e trascendimento dello spirito. Il filosofo, per Nietzsche, è colui che utilizza la malattia, la propria situazione-limite, come strumento di elevazione dello spirito.33 Il dolore, se padroneggiato, consente di purificarsi e di liberarsi dai falsi idoli della coscienza, permettendo all’esistenza di esperire la fecondità del nulla. Il nulla, infatti, è l’anima stessa di ogni autentico trascendimento. Il nichilismo passivo, di cui è permeata la cultura occidentale, secondo Nietzsche, non ha saputo cogliere il valore positivo e generativo del niente. Il filosofare autentico può fare a meno di Dio,34 ma non può fare a meno di quel nulla che permette di relativizzare e di trascendere tutti gli idoli della conoscenza – Dio, la morale, l’assolutizzazione della scienza e della storia –, approdando, così, alla visione dell’infondatezza radicale della Vita. La distruzione della morale, l’acquisita relativizzazione dei concetti di buono e cattivo – i quali non rappresentano l’essenza dei fenomeni, ma solo l’interpretazione morale di essi –,35 si muove nell’orizzonte mistico della liberazione da tutti i legami. Il vangelo rovesciato di Nietzsche, infatti, è l’espressione di un «grande anelito»36 che mira alla trasvalutazione di tutti i valori per fare emergere quel valore originario, che funge da misura di tutti gli altri valori: il fondo inesauribile della Vita. Ogni giudizio, ogni pretesa di valore, separano l’esistenza dal suo fondo, introducendo un velo di mestizia, di divisione, nell’unità profonda di uno spirito che sente in modo cosmico.37 Il duplice trascendimento della sostanzialità del soggetto e di ogni fondamento trascendente dell’esistenza non perviene a «un nulla definitivo».38 Esso, invece, ricalca quella duplice morte, dell’anima e di Dio, che costituisce il cuore della mistica occidentale. A inverare questa tesi è l’aforisma 292 della Gaia Scienza. L’oltre-uomo, in questa pagina folgorante che rimanda ad Eckhart, assume i lineamenti dell’uomo che ha deposto il suo volere soggettivo, trascendendo ogni larvata forma di auto-affermazione egoica. Solo allora, la volontà originaria della Vita, il suo perpetuo zampillare contro ogni argine che ne delimita il flusso, appare come una «rete diluce»39 che fascia di grazia lo sguardo.
Eppure, questo processo di nientificazione del soggetto e del Dio della metafisica occidentale, questo nichilismo attivo marchiato di laica religiosità, risulta, in ultimo, un processo di «auto-combustione»,40 un sacrificio che sembra esemplificare quella disintegrazione radicale della relazionalità dell’esistenza che divamperà in tutta la sua tragicità durante la notte oscura della follia. Le patografie di Nietzsche e di Hölderlin, così come quella di Masuko, ci permettono di intravedere il significato esistenziale della malattia. In Nietzsche, come in Hölderlin, essa diventa lo specchio di un trascendimento senza Trascendenza, di un naufragio definitivo in cui l’io è trasceso dall’identità assoluta della Vita, dall’impersonalità del divino. Quello che Kimura definisce «fondo della vita», pre-aida, invade completamente lo spazio della soggettività, inghiottendo ogni differenza. In Masuko, invece, il fondo della Vita non usurpa il terreno della soggettività. Essa si manifesta come una metafisica lontananza che accresce, a causa del suo tremendo bagliore, il sentimento della totale inadeguatezza ed estraneità dell’io. Le patografie testè esaminate consentono non solo di addentrarsi negli abissi insondabili della malattia, ma anche di capire che quello che la malattia infrange è il nucleo intra-soggettivo e inter-soggettivo dell’io. La malattia, per Jaspers, e per Kimura che ne eredita la lezione, rimanda dialetticamente al concetto di salute. La salute, sempre intrecciata alla possibilità o alla realtà della malattia, è la capacità di preservare l’identità e la differenza che costituiscono la relazione che noi stessi siamo. La psichiatria fenomenologica riguarda, dunque, la realizzazione del sé autentico. Kimura, seguendo la tradizione che Jaspers con i suoi studi ha inaugurato, sa che il compito della psicopatologia fenomenolgica è quello di aiutare a ricostruire, in prima persona, i fili che tessono la relazione dell’esistenza finita con sé, col mondo e con gli altri, perché la verità affiora sempre nella realtà irripetibile dell’incontro, dell’aida 間.
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K. Jaspers, Allgemeine Psychopathologie. Ein Leitfaden für Studierende Ärtze und Psychologe, Springer, Berlin 1946; tr. it. Psicopatologia generale [d’ora in poi PG], a cura di R. Priori, Il pensiero scientifico Editore, Roma 1964, pp. 818-828. ↩︎
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Ivi, pp. 327; 338. ↩︎
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Si può ben dire che la filosofia di Spinoza non resterà soltanto una folgorazione giovanile. Il filosofo olandese continuerà ad esercitare il suo influsso anche sullo Jaspers maturo. Infatti, non c’è niente di più spinoziano di concepire la coscienza come modo dell’Umgreifende dalla parte del soggetto. La sistematica dei modi attraverso i queli l’Umgreifende si manifesta, come il sistema di Spinoza, si muove nella direzione del superamento del dualismo metafisico tra mente e corpo, fra trascendenza e immanenza. K. Jaspers, Schicksal und Wille. Autobiographische Schriften, Piper, München 1967; trad. it., Volontà e destino. Scritti autobiografici, Il melangolo, Genova 1993, p. 113. K. Jaspers, Die großen Philosophen, vol. 1, Piper, München 1957; tr. it. I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, pp. 1073-1181. ↩︎
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M. Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos, Reichl, Darmstadt 1928; tr. it. La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di Guido Cusinato, FrancoAngeli, Milano 2009. ↩︎
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Nell’ambito della filosofia della mente, diffusasi soprattutto nell’area filosofica anglo-sassone, è Daniel Dennett a sostenere la tesi del carattere illusorio della coscienza, rappresentando al meglio il monismo riduzionista. Accanto al fisicalismo più intransigente sorgono altri orientamenti, quali il funzionalismo, il connessionismo, l’approccio fenomenologico, il dualismo, come quello sostenuto, ad esempio, da David Chalmers. L’impostazione jaspersiana, unendo fenomenologia ed esistenzialismo, oppone al riduzionismo una critica serrata svolta da varie angolazioni teoretiche. Per Jaspers l’argomento fisicalista è, anzitutto, logicamente insostenibile. Sostenere infatti che l’esperienza cosciente del mondo esterno non è altro che una creazione, un’emergenza del cervello, significa incorrere in una palese circolo logico: se il cervello creasse la rappresentazione del mondo esterno, allora, essendo anch’esso parte del mondo esterno, creerebbe se stesso, riproponendo lo stesso circolo logico che si afferma nell’idea di Dio inteso come causa sui. Il filosofo riconosce da psichiatra l’importanza fondamentale delle descrizioni in terza persona del nostro funzionamento cerebrale, ma ritiene, supportato dalla fenomenologia, che la coscienza – pur dipendendo inevitabilmente dal suo supporto fisico – non possa ridursi a un agglomerato di funzioni meccaniche. Le neuroscienze, infatti, ricavano dall’osservazione degli eventi cerebrali diverse funzioni: percepire, ricordare, ragionare, computare, emozionarsi. Grazie allo sviluppo della tecnologia FMR è possibile associare ad ognuno di questi atti mentali un correlato neurale, ma quest’operazione, nell’ottica jaspersiana, per quanto necessaria, resta confinata nell’ambito dell’Erklären, della descrizione impersonale di dati oggettivi. Questi dati diventano significativi solo alla luce del Verstehen, il quale accede al mondo della coscienza in prima persona. Gli atti cognitivi non sono mere funzioni, ma portatori di significato. Il ricordare, il dubitare, non sono operazioni meccaniche, ma vissuti intrisi del sapore della singolarità. Cfr. K. Jaspers, Vernunft und Existenz [1935], Piper, München 1973; tr. it. Ragione ed esistenza, a cura di A. Lamacchia, Marietti, Torino 1971. Cfr. D. Chalmers, The Conscious Mind: In Search of a Fundamental Theory, Oxford University Press, Oxford 1996; tr. it. Che cos’è la coscienza?, a cura di Nicola Zippel, Castelvecchi, Roma 2014. ↩︎
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P. Ricœur, Soi-même comme un autre, Édition du Seuil, Paris 1990; tr. it. Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993, p. 231. ↩︎
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K. Jaspers, Strindberg und van Gogh. Versuch einer pathographischen Analyse unter vergleichender Heranziehung von Swedenborg und Hölderlin, Bircher, Bern 1922; tr. it. Genio e follia. Strindberg e Van Gogh [d’ora in poi GeF], a cura di B. Baumbusch e M. Gandolfi, Raffaello Cortina, Milano 2001, p. 120. ↩︎
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PG, pp. 327-364. ↩︎
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K. Jaspers, Philosophie, 3 Bde., Springer, Berlin 1932, 1956; tr. it. Filosofia [d’ora in poi F], a cura di U. Galimberti, UTET, Torino 1978, pp. 483-487. Sull’intimo rapporto tra la riflessione psicopatologica e quella filosofica rimandiamo il lettore ai testi di Paola Ricci Sindoni e Giovanna Borrello. Cfr. P. Ricci Sindoni, I confini del conoscere. Jaspers dalla psichiatria alla filosofia, Giannini, Napoli 1980. Cfr. G. Borello, La filosofia come cura. Karl Jaspers filosofo e medico. Dall’antipsichiatria alla filosofia, Liguori, Napoli 2009. ↩︎
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PG, p. 29. ↩︎
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Ivi, 336-338 ↩︎
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Nella sua ultima grande opera squisitamente teoretica, Von der Wahreit, Jaspers approfondisce il significato filosofico-esistenziale dell’eccezione, non solo in riferimento a Nietzsche e a Kierkegaard. Cfr. K. Jaspers, Von der Wahreit, Piper, München-Zürich 1947; tr. it, Della Verità. Logica filosofica [d’ora in poi DV], a cura di D. D’Angelo, Bompiani, Milano 2015, pp. 1493-1527. ↩︎
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K. Jaspers, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens, Walter de Gruyter, Berlin 1936; tr. it. Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare [d’ora in poi NI], a cura di Luigi Rustichelli, Mursia, Milano 1996, p. 404. ↩︎
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GeF, p. 117. ↩︎
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Sul rapporto tra segno, cifra e simbolo cfr. F, pp. 1069-1144. ↩︎
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Sulla relazione tra linguaggio e metafisica dell’Umgreifende cfr. DV, pp. 791-897. ↩︎
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F. Hölderlin, Hymnen, V. Klosterman, Frankfurt am Main 1947, Le liriche, Adelphi, Milano 1977, p. 666. 18. GeF, p. 132. ↩︎
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F. Hölderlin, Gedichte. Eine Auswahl, Reclam Verlag, Ditzingen 2015. ↩︎
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Sul significato metafisico-religioso della poesia di Hölderlin non si può che rinviare il lettore agli studi fondamentali di Heidegger. Cfr. M. Heidegger, Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung, V. Klostermann, Frankfurt am Main 1981, tr. it. La poesia di Hölderlin, a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988. Sull’intima relazione tra poesia e religione, si veda A. Caracciolo, Nulla religioso e imperativo dell’eterno. Studi di etica e poetica, Il nuovo melangolo, Genova 2010, p. 21. ↩︎
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GeF, p. 128. ↩︎
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Sul poetare come perpetuo congedo da sé cfr. R.M. Rilke, Duineser Elegien, Insel Verlag, Berlin 1923; tr. it. Elegie duinesi, a cura di Franco Rella, BUR, Roma 1994, p. 89. ↩︎
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GeF, p. 128. ↩︎
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B. Kimura, Écrits de Psychopathologie phénoménologique, Presses Universitaires de France, Paris 1992, tr. it. Scritti di psicopatologia fenomenologica, a cura di Arnaldo Ballerini, Giovanni Fioriti Editore, Roma 2005, p. 141. Per una ricognizione degli autori in ambito psichiatrico e filosofico che hanno forgiato Kimura, rimandiamo alla prefazione di Arnaldo Ballerini. ↩︎
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. T. Watsuji, Vento e terra, tr. it. a cura di Lorenzo Marinucci, Mimesis, Milano-Udine 2014. ↩︎
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B. Kimura, L’Entre. Un approche phénoménologique de la schizophrénie, Éditions Jérôme Millon, Grenoble 2000, tr. it. Tra. Per una fenomenologia dell’incontro, a cura di Sergio Russo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2013, p. 83. Cfr. M. Buber, Ich und Du, Insel-Verlag, Leipzig-Berlin 1923, tr. it. L’io e il tu, a cura di A. M. Pastore, IRSEF, Pavia 1991. ↩︎
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B. Kimura, Scritti di psicopatologia fenomenologica, p. 8. ↩︎
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Ivi, p. 9. ↩︎
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Ivi, p. 10. ↩︎
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Sul rapporto tra Zarathustra e il Cristo, e, più generalmente, sul mancato superamento interno da parte di Nietzsche del cristianesimo cfr. K. Jaspers, Nietzsche und das Christentum, Piper Verlag, München 1952; tr. it. Nietzsche e il cristianesimo, a cura di Michele Corbo, Ecumenica Editrice, Bari 1978. ↩︎
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NI, pp. 98-99 ↩︎
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Sul rapporto tra ateismo e mistica e tra ateismo e cristianesimo in Nietzsche si veda lo studio di B. Welte, il quale riconosce apertamente di essere stato formato e ispirato dalla lettura di Jaspers. Cfr. B. Welte, Nietzsches Atheismus und das Christentum, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1958; tr. it. L’ateismo di Nietzsche e il cristianesimo, a cura di Giorgio Penzo, Queriniania, Brescia 2005. A insistere sull’appartenenza di Nietzsche alla mistica occidentale è il filosofo e teologo Marco Vannini. Cfr. M. Vannini, Mistica e filosofia, Edizioni Piemme, Casal Monferrato 1996, pp. 137-149. ↩︎
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F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft, Schmeitzner, Chemnitz 1882, tr. it. La gaia scienza e idilli di Messina, a cura di F. Masini e G. Colli, Adelphi, Milano 1977, pp. 162-164. ↩︎
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Ivi, pp. 31-32; NI, pp. 104-116. ↩︎
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NI, p. 396. ↩︎
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F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse, Druck und Verlag von C.G. Naumann, Leipzig 1886, tr. it. Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 1977. ↩︎
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F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, Schmeitzner, Chemnitz 1882 tr. it. Così parlo Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1976, pp. 262-263. ↩︎
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F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1880-1882, De Gruyter, Berlin 1980, tr. it. Idilli di Messina. La Gaia scienza e Frammenti postumi (1881-1882), a cura di F. Masini e G. Colli, Adelphi, Milano 1965, p. 294. ↩︎
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NI, p. 386. ↩︎
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F. Nietzsche, La gaia scienza e idilli di Messina, p. 210. ↩︎
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Ibidem. ↩︎