La soggettività come campo di tensioni. Affettività, dovere, vita etica in Husserl

Una tettonica della vita intenzionale

Nel dibattito contemporaneo sulla questione della soggettività, la fenomenologia può offrire ancora un punto di vista decisivo e strumenti di analisi raffinati, nell’ottica di una problematizzazione che sappia tener conto della complessità del tema. Il punto di vista decisivo è l’idea husserliana della meravigliosa correlazione1 di soggetto e mondo, da intendersi come nesso strutturale originario che permette l’articolazione dei due poli. Gli strumenti di analisi sono quelli resi possibili dall’indagine intenzionale. Secondo questa impostazione, la soggettività è un che di relazionale, non semplicemente perché non può darsi al di fuori di tale nesso, bensì perché, più radicalmente, si costituisce e si forma come relazione – al mondo, agli altri e a sé. Prima o al di là del rapporto intenzionale non solo non si dà un mondo, ma neppure un soggetto. Per questa ragione, esso non può essere inteso al modo di una sostanza o di un principio metafisico dotato di sussistenza autonoma e di proprietà stabili. Ciò non implica però, per converso, neppure che esso sia il semplice risultato di dinamiche fattuali, come in un primo momento lo stesso Husserl aveva sostenuto nelle Ricerche logiche. La soggettività si costituisce nell’esperienza e a partire dall’esperienza, quindi per un verso certamente come prodotto di fattori empirici e contingenti, non determinabili a priori, ma per l’altro secondo nessi motivazionali strutturali, che rappresentano l’oggetto della fenomenologia cosiddetta genetica. Come emerge già nei testi delle Idee, il soggetto prende forma in quanto polo di affezioni e azioni, in quanto incarnato in un corpo vivo, mediante cui si costituisce come coscienza originaria di potere (Ich kann) e come centro di uno spazio pratico-percettivo, in quanto precipitato di abitualità, in quanto interconnesso agli altri secondo modi e livelli differenti di comunità.2 Detto con la terminologia dell’ultimo Husserl, esso abbraccia tutte le dimensioni che contribuiscono a determinare la piena concrezione della monade, termine di matrice leibniziana che serve a sottolineare il carattere di apertura, relazionalità e totalità (non reale, ma intenzionale) della soggettività.3

È indubbio che una simile tematizzazione del soggetto sia in Husserl funzionale, in una misura considerevole, al progetto di una teoria della ragione, quindi all’esigenza normativa di determinare le condizioni di possibilità che rendono validi il sapere e l’agire umani nei molteplici ambiti dell’esistenza. Non è però meno vero che una simile indagine ha anche una portata più ampia e radicale, volta a ritrovare con la consueta acribia husserliana le molteplici modalità in cui la vita intenzionale concorre a delineare le dinamiche di soggettivazione e di donazione di senso. Uno dei meriti maggiori di Husserl è proprio questo: aver provato a elucidare i fondamenti per un pieno dispiegamento della ragione, senza però indulgere a una prospettiva conciliante o edificante, trascurando o, peggio, occultando le tensioni e i punti di rottura che attraversano la vita del soggetto. Il razionalismo per così dire esigenziale della sua impostazione non inficia una paziente presa in carico del carattere molteplice, ibrido e, in ultima istanza, irriducibilmente contingente della vita intenzionale.

Questa fedeltà ai fenomeni si nota non soltanto nelle analisi gnoseologiche dedicate a percezione, ricordo, fantasia, giudizio, ma anche in quelle riservate alle dimensioni pratico-emotive del sentimento, del desiderio, del volere, dell’azione. Husserl sottolinea spesso, infatti, che la vita intenzionale non è una semplice somma di vissuti diversi e distinti, ma è piuttosto un intreccio (Verflechtung),4 in cui elementi differenti sono strutturalmente configurati secondo determinati nessi fondativi, ovvero secondo modelli di complessità. La dimensione affettiva è sicuramente uno dei maggiori nuclei di agglutinamento di tale complessità, nel quale componenti percettive, cinestetiche, somatiche, emotive, pratiche concorrono a delineare un rapporto con il mondo all’insegna della compenetrazione. Come è ben sottolineato in un importante gruppo di manoscritti risalenti per lo più alla prima metà degli anni Dieci e alla prima metà dei Venti, le Studien zur Struktur des Bewusstseins, la «dimensione affettiva è un prendere parte alle cose».5 Sulla base dell’intenzionalità emotiva, le cose sono presenti per noi non soltanto in quanto semplici obiecta, ma noi ci volgiamo affettivamente ad esse, partecipiamo alla dinamica del loro apparire, siamo coinvolti nell’accadere del mondo provando piacere, amore, gioia, noia, eccitazione, tedio, disgusto. In quanto partecipazione, la coscienza affettiva non implica un contrapporsi frontale, uno stare l’uno di fronte all’altro, nel senso letterale di ciò che è posto innanzi (ob-iectum) e sta di contro (Gegen-stand); essa è invece interazione, coinvolgimento, compenetrazione, coappartenenza, quindi si connota come una dinamica di rottura della frontalità, di transito e attraversamento, che avvinghia la coscienza al mondo e permette alle cose di catturare il soggetto. Le analisi sulla dimensione emotiva portano Husserl a comprendere come l’intenzionalità non debba essere concepita solo come coscienza-di, ma anche come interesse:6 nella loro esperienza, gli uomini non sono osservatori distaccati, piuttosto essi sono implicati in un mondo in cui ogni cosa appare caratterizzata da qualità di valore tipo attraente o repellente, utile o dannoso, bello o brutto, eccitante o banale. Dunque, il rapporto intenzionale è, costitutivamente, anche un avere a cuore le cose, gli altri e sé stessi, da cui viene l’esigenza di farsene carico. Nelle dinamiche della coscienza pratico-emotiva, pertanto, sono da rinvenire le radici della vita etica.

Nella prospettiva husserliana, il modello storico-filosofico per questa presa in carico di sé e del mondo è dato dalla figura di Socrate. In un certo senso, come si può ricavare da alcuni frammenti di lezioni su Ethik und Rechtsphilosophie risalenti al 1897, si potrebbe sostenere che l’idea di una giustificazione razionale emerga inizialmente in Husserl forse proprio in relazione a problematiche etiche, sulla base di un’esigenza di risposta alla varie forme di scepsi (storicismo, psicologismo, materialismo, naturalismo) che ai suoi occhi rischiano di travolgere il mondo occidentale.7 Alla filosofia autentica spetta il compito di fronteggiare queste sfide, così come Socrate fece valere i diritti del pensiero rigoroso contro la sofistica. Rifacendosi a una tradizione ermeneutica piuttosto classica, risalente per lo meno ad Aristotele, anche Husserl vede in Socrate un pensatore interessato a questioni fondamentalmente pratiche,8 attribuendogli un’importante «riforma della vita etica», basata sulla convinzione «che la vita veramente soddisfacente è una vita di pura ragione».9 Il metodo socratico consisterebbe in un’infaticabile automeditazione (Selbstbesinnung) e in una radicale opera di dare ragione (Rechenschaftsabgabe) delle proprie azioni, scelte, valutazioni, giudizi, nella convinzione che solo il sapere autentico rende virtuoso l’uomo. Il criterio di questa attività critica, la fonte ultima di ogni diritto e conoscenza è già individuato da Socrate – e questa è la sua grandezza, secondo Husserl – nel «ritorno alla piena chiarezza, “intuizione”, “evidenza”».10 Ciò è quanto dire che egli è il primo a sviluppare il metodo d’essenza, che nella conduzione del dialogo mira a una «compiuta comprensione eidetica».11 Nella sua riflessione, pertanto, nonostante la mancanza di un quadro sistematico fondato in modo compiutamente scientifico, sono riscontrabili «le forme germinali (Keimformen) dei pensieri fondamentali di una critica della ragione».12

Conformemente alla sua lettura del modello socratico, Husserl cerca di determinare le strutture eidetiche in ambito etico, ma senza rinunciare all’avventura (e alla fatica) di un dialogo ininterrotto con sé stesso, in cui il campo pratico è incessantemente dissodato mediante indagini minuziose e i risultati raggiunti sono costantemente rimessi in discussione. Anche in ambito etico, l’approccio fenomenologico è sempre improntato a un’adeguata valorizzazione della complessità dell’esperienza, che non può essere ridotta forzatamente a principi che ne limitino la ricchezza di senso. In effetti, uno dei problemi principali della ricerca filosofica e di tutte le scienze poco sviluppate, secondo Husserl, consiste proprio nella tentazione di ricorrere a generalizzazioni illegittime e teorie unilaterali, basate su procedimenti induttivi limitati e frettolosi che non garantiscono alcuna evidenza genuina. Il rischio è sempre quello di «voler erigere a norma un’intuizione limitata».13 In particolare, l’esigenza legittima di rinvenire nessi eidetico-strutturali in abito pratico non può essere soddisfatta a scapito dell’occultamento di un dato che si dimostra originario, vale a dire la constatazione che la soggettività concreta è un campo di tensioni irriducibili. Essa non è cioè una formazione pacificata, livellata internamente sulla base di un ordine gerarchico fondamentalmente stabile e onnicomprensivo, ma è invece un divenire caratterizzato da dinamiche distinte, alcune centrifughe e collidenti, altre centripete e avvolgenti, che danno luogo a una sorta di tettonica della vita intenzionale.

La dimensione affettiva è quella in cui si rende possibile la percezione di valore (Wertnehmung),14 indispensabile per la determinazione del volere corretto, ma è anche quella in cui troviamo – come emerge nelle già citate Studien zur Struktur des Bewusstseins15 – una molteplicità piuttosto intricata di vissuti, come i sentimenti sensibili (sinnliche Gefühle), gli affetti (Affekte) o reazioni emotive, le tonalità affettive (Stimmungen),16 i sentimenti pulsionali (Triebgefühle)17 – fenomeni di costituzione umbratile e talvolta liminare, che possono intorpidire e contrastare la determinazione di ciò che è moralmente valido. In questo quadro, già di per sé assai complesso, si innesta la sfera del volere, che a sua volta si caratterizza per vissuti differenti e divergenti, compresi tra la pulsione cieca (blinder Trieb),18 il volere (Wille), la decisione (Entschluss, Entscheidung) e i rispettivi riempimenti pratici sul piano dell’azione (Handlung)19 in senso vero e proprio. Queste e altre considerazioni contribuiscono a rendere l’idea della complessità dell’indagine in ambito pratico, in cui la molteplicità radicale degli elementi costituenti restituisce l’immagine di un campo non completamente circoscrivibile e in continua ridefinizione.

Le ricerche etiche husserliane sono leggibili proprio in questo senso. Le varie fasi in cui esse si dispiegano comportano una costante rimodulazione e ristrutturazione delle questioni principali, nel tentativo di dare conto di tutti i nuovi elementi che, volta per volta, entrano nello spettro analitico del momento. Per questa ragione, tali fasi sono differenti e dotate ciascuna di caratteristiche proprie, ma non per questo sono per forza inconciliabili o reciprocamente alternative.20 In esse sono rinvenibili elementi ricorrenti, tra i quali spiccano: la necessità di un’etica come scienza rigorosa, che possa fungere socraticamente da guida per la vita; la molteplicità e la complessità delle istanze fondative, in virtù delle quali si danno una varietà di principi (sentimento e ragione, vita e legge, valore e imperativo), che non sempre stanno tra di loro in rapporti pacifici, ma che lavorano costantemente a una sintesi originale; la prospettiva di un’etica intesa come una presa in carico di sé, del mondo e degli altri basata sull’idea di autonomia, autodeterminazione e autoresponsabilità, ragion per cui il concetto di dovere costituisce pur sempre la nozione di riferimento.21 Nel contesto del presente saggio, si prova a delineare un percorso plausibile attraverso la fasi della riflessione pratica husserliana, nel tentativo di mostrare come Husserl sia costretto dal suo stesso rigore analitico a ridefinire costantemente i termini e le condizioni di validità della dimensione etica, onde evitare di depotenziare o, peggio, silenziare in modo surrettizio le dinamiche e le tensioni che contribuiscono concretamente a costituirla. Solo attraverso questo tipo di lavoro dal basso diviene possibile delineare una prospettiva che, se pure non risolve appieno tutte le questioni, è almeno dotata di sufficiente forza teorica.

L’esigenza teorica di principi a priori

Come noto, il primo approccio husserliano alle questioni etiche prende le mosse, come lui stesso mette in evidenza,22 dal celebre studio di Brentano Vom Ursprung sittlicher Erkenntnis.23 In esso, il pensatore austriaco si fa promotore di una conoscenza etica rigorosa in grado di fornire «una legge morale naturale (natürliches Sittengesetz), nel senso che essa, valida in generale e incontrovertibile in base alla sua stessa natura, ha valore per gli uomini di tutti i luoghi e di tutte le epoche, anzi per tutti i tipi di esseri pensanti e senzienti».24 Si tratta di individuare, detto ancora in altro modo, la «sanzione naturale per il diritto e l’etica».25 Husserl si pone in sostanziale continuità con la prospettiva brentaniana, che nel suo caso si esprime nell’esigenza di una filosofia pratica come scienza rigorosa – ciò che egli definisce alternativamente assolutismo,26 obiettivismo o idealismo27 etico.

Ancora nelle lezioni del 1920-1924, troviamo un esplicito riferimento al testo brentaniano, cioè all’idea di una sanzione naturale intesa come «riduzione di ciò che è legittimo e razionale a ciò che è “naturale”, che si rispecchia nella coincidenza linguistica di “naturale” e “razionale”».28 Ma non è un caso che questa considerazione venga fatta nel contesto di un excursus sulla sofistica, che rappresenta, secondo una classica matrice ermeneutica di stampo platonico e aristotelico, la prima forma di scepsi radicale. Husserl riconosce alla prima sofistica il merito – notevole ai fini del discorso morale – di aver distinto tra physis e nomos, tra ciò che vale per tutti gli uomini sulla base di fondamenti naturali comuni e ciò che invece è da ricondurre al piano del diritto positivo e della tradizione valoriale in senso ampio, dunque a fattori storici e convenzionali.29 Tuttavia, questa distinzione va incontro fin da subito a una lettura fuorviante, dovuta al carattere oscuro e intrinsecamente equivoco proprio del termine “natura”. Questo può indicare, infatti, un kosmos dotato di principi e strutture stabili, cioè un ordine che implica precisi nessi ontologici, etici, estetici, politici; ma può anche significare una dimensione puramente fattuale, vale a dire una serie di eventi caratterizzati da semplici dinamiche di movimento o da forze prive di scopo. Quest’ultima lettura della natura, che si fa strada già con i sofisti, sta alla base del naturalismo moderno, inteso in senso ampio come la tendenza a ridurre tutti i fenomeni dell’esperienza – implicitamente o esplicitamente – a puri fatti naturali (di ordine fisico, biologico, chimico, psicologico-sperimentale ecc.). Le forme in cui questa tendenza prende corpo in ambito etico sono molteplici e piuttosto variegate, ma tutte hanno in comune, secondo Husserl, il medesimo controsenso, cioè l’idea di voler ricavare principi morali da semplici fatti empirici. Così come l’idea della verità non può essere tratta dalla psicologia della conoscenza, allo stesso modo l’idea del bene morale non può essere ricavata dalla psicologia delle funzioni pratico-emotive, dalla biologia delle funzioni vitali, dalla fisiologia dei meccanismi neuronali e così via, perché «dai fatti non si possono spremere idee».30 Questo tipo di approccio finisce volente o nolente in qualche forma di scetticismo etico, che ha per conseguenza una prassi anti-etica. Nelle sue declinazioni più radicali, come nota Husserl stesso in uno dei suoi non frequentissimi riferimenti all’attualità, produce prospettive – di pericoloso darwinismo politico-sociale – basate sull’idea che «la natura vuole che domini il più forte, il più potente, il più capace».31 Per questa ambiguità del termine e per il carattere spesso riduzionista delle varie forme di naturalismo moderno, pertanto, Husserl tende a fare un uso molto parsimonioso e piuttosto circoscritto della parola “natura”, per lo meno in ambito etico.32

Si spiega anche in questo modo la sua preferenza per termini differenti, come quello di idealismo, che nella sua riflessione morale implica solo la prospettiva di una validità a priori dei principi pratici. Per l’etica deve essere possibile individuare una serie di leggi formali, universali e necessarie, analoghe a quelle che, in ambito teoretico, caratterizzano la logica formale. Aristotele, che è stato il padre della logica come disciplina autonoma, non può essere allo stesso titolo considerato anche come il fondatore dell’etica formale.33 Forse la principale ambizione di Husserl nei suoi primi corsi di filosofia pratica è proprio quella di essere l’Aristotele dell’etica, vale a dire il fondatore di un insieme di discipline – l’Axiologie e la Praktik in prima battuta – in grado di individuare i nessi formali a priori che rappresentano le condizioni di possibilità generalissime di ogni correttezza in ambito pratico.34 Ma le discipline formali da sole non sarebbero sufficienti, se non fossero delineabili anche dei nessi relativi ai concreti contenuti del valutare e del volere; il tema di un a priori materiale o contenutistico nella sfera morale risulta, pertanto, altrettanto importante di quello formale o analitico.35 In questa considerazione si gioca il rapporto con Kant, rispetto al quale Husserl si pone in atteggiamento di continuità e, al contempo, di rottura. Ai suoi occhi, la strategia kantiana di far leva sul concetto di un dovere oggettivamente determinabile risulta, per un verso, perfettamente centrata, mentre per l’altro irrimediabilmente gravata da un fraintendimento di principio: in essa, a tutte le materie emotivo-assiologiche è attribuito un valore puramente empirico, per cui risultano escluse di principio da ogni possibile costituzione di validità. Il risultato paradossale è che l’imperativo kantiano è, da un certo punto di vista, troppo poco formale – in quanto è da solo sufficiente a determinare il volere in ogni circostanza concreta36 – e, al contempo, da un altro punto di vista, eccessivamente formale – in quanto esclude la considerazione della peculiarità contenutistica degli oggetti del valutare e del volere.37 Detto in altri termini, il principio pratico kantiano implica in questa prospettiva una legalità calata “dall’alto”: il suo difetto non sta nella sua pretesa di essere forma di ogni agire, quanto piuttosto nel fatto che attraverso di esso si produce un certo declassamento delle materie assiologiche del sentimento a meri fatti empirici, per cui quella forma non riesce ad articolarsi nelle situazioni concrete di valore.38 In questo senso, Husserl non sembra interessato a rigettare tout court l’impianto formale, quanto piuttosto a rifondarlo “dal basso”, attraverso un rinvenimento della forma nei contenuti.39 Il problema principale di Kant, ai suoi occhi, è che questi esclude la possibilità di una motivazione a priori del volere che passi anche attraverso il sentire, cosa che rischia di ridurre la volontà a semplice funzione della ragione-intelletto.40

Per Husserl, la volontà autenticamente tale – quella che pretende di dichiararsi libera in senso pieno – si basa esplicitamente su motivi assiologici.41 In virtù di questo impianto generale, risulta possibile stabilire connessioni normative tra valutare e volere, ovvero rapporti di ragione sui quali si edifica la correttezza pratica: un volere è corretto quando si regola su un valutare corretto, dunque quando si indirizza a valori riconosciuti come tali.42 Ma tale correttezza non è ancora sufficiente, da sola, a rendere possibile un’autentica razionalità pratica: il senso di quanto praticamente dovuto, in altri termini, non può risiedere solo nelle materie assiologiche della valutazione. Qui si dà uno snodo teorico centrale, in cui si delinea la differenza che separa in modo decisivo la riflessione pratica husserliana da ogni possibile etica materiale dei valori, cioè da ogni pensiero che individui nell’esperienza emotiva di contenuti assiologici il fondamento della vita morale dell’uomo. Per Husserl i valori, nella loro determinatezza materiale, contenutistica, sono bensì importanti in quanto motivi del volere, ma di per sé non sono sufficienti a dischiudere il campo etico in quanto tale.43 Non è da essi infatti che deriva l’esperienza eticamente preminente del dovere, bensì proprio dal volere, il quale pone il suo intentum con il senso di qualcosa che spetta al soggetto compiere. Nella maggior parte della sua vita volitiva, l’uomo ha a che fare, per dirla in termini kantiani, con doveri solamente ipotetici, cioè con obbligazioni non incondizionate, bensì relative al sussistere di determinate ipotesi e premesse. Ma il volere propriamente etico, quello che comanda in modo assoluto, cioè senza subordinare la sua richiesta al darsi di qualche presupposto estrinseco (piacevolezza, utilità ecc.), è quello che prospetta un dovere incondizionato e che quindi trova la sua sanzione in un imperativo categorico.

Nelle lezioni del 1914, Husserl propone una formulazione dell’imperativo che rinvia in sostanza a quella di Brentano, fondendo assieme la forma della legge e il richiamo ai contenuti di valore in essa strutturati.44 Non basta che nel campo pratico ci siano beni da realizzare affinché nel volere si dia il senso di un dovere incondizionato: questo si dà invece solo nella misura in cui è possibile determinare in tale campo il bene massimo, laddove ciò che è buono diviene un disvalore se preferito a ciò che è ottimo. In virtù di questo carattere incondizionato dell’imperativo – per cui esso, se deve essere tale, non può a sua volta venire assorbito da altri comandi –, molte cose dotate di valore perdono la loro qualità assiologica positiva all’interno del contesto pratico di riferimento. È solo il volere, infatti, a porre la validità pratica, assumendo di certo come motivi i contenuti assiologici dell’esperienza valutativa, ma strutturandoli nell’ottica di un agire diretto al massimo bene volta per volta possibile nella situazione data.45 In questo modo, si mostra che la pur necessaria datità dei valori, in quanto materie assiologiche concrete, è fin dal principio articolata, nell’ottica pratica, secondo i nessi propri della legalità del volere. È il volere, pertanto, ovvero il corrispondere all’ingiunzione del dovere, a dare valore al soggetto.46

Si delineano così i tratti principali della moralità, anche se Husserl non sembra ancora soddisfatto del lavoro compiuto. Questa impostazione, tutta incentrata sulla delineazione di nessi normativi a priori, sembra tralasciare in effetti una vasta dimensione della concreta vita del soggetto che pure ha un’importanza non secondaria sul piano etico. Nelle ricerche successive, l’analisi di questa sfera individuale, con tutte le sue difficoltà, acquisterà un peso crescente.

La vita buona: razionalità, autenticità, conflitti di valori

Nelle lezioni del 1920/1924 ritornano vari degli elementi emersi in precedenza, prima fra tutti, ovviamente, l’esigenza di un’etica come scienza normativa caratterizzata da nessi eidetici. Ma ora il raggio d’indagine si amplia fino a inglobare la soggettività individuale nella sua piena concretezza. Husserl si rende conto che in ambito pratico non è possibile prescindere da una considerazione più globale e comprensiva della vita del singolo. In particolare, non si può ignorare il fatto che la prospettiva morale è innanzitutto quella di una persona che desidera migliorarsi, che ambisce a dare alla sua esistenza una forma più compiuta e ricca di valore: «l’Io morale […], l’Io della costante e ininterrotta autoeducazione, è l’Io che vuole migliorarsi, trasformarsi (se stesso come Io) a tal punto che, in quanto Io etico, può essere eo ipso solo un Io che-vuole-il-bene».47 Da questo punto di vista, pertanto, l’elemento decisivo della volontà eticamente connotata non è la «produzione di semplici atti di tipo prescrittivo (vorgeschrieben)»,48 quanto piuttosto il prendere l’impegno, in una determinazione costante, di compiere atti di questo tipo. Questo significa che le condizioni di validità viste in precedenza non sono da sole sufficienti a costituire un agire morale in senso stretto. Detto in altri termini, il volere etico deve basarsi su una libera decisione, come si evince da un testo coevo del 1923:

La mia vita è razionale e io stesso sono razionale dal punto di vista pratico, se voglio in generale la miglior cosa possibile e la compio nel miglior modo possibile, e inoltre se faccio mia in generale la volontà di non lasciarmi andare, bensì di perseguire, fare e volere la miglior cosa possibile; così, io sono razionale non solo in senso obiettivo e casuale, bensì sono coscientemente razionale; io vivo nell’atteggiamento della ragione, e la mia vita stessa ha più valore attraverso tale atteggiamento. Questa riflessione è quella “etica”, essa mi indica la forma della vita razionale. Ma io sono etico non attraverso la semplice conoscenza, bensì mediante una decisione libera.49

Si tratta di un passo di grande importanza, che testimonia della novità di questa seconda fase della riflessione husserliana sull’etica. L’evidenza della valutazione e l’imperativo della miglior cosa possibile, che a essa fa riferimento, non forniscono ancora, da soli, la sanzione di un agire etico. L’atteggiamento morale, in cui si manifesta una volontà esplicitamente diretta al bene, è instaurato da un atto originario di decisione libera, che esprime la prima presa di posizione etica dell’io. Questi fa una scelta di campo, si decide autonomamente per una vita conforme al dovere. Senza una simile presa di posizione della volontà, che si predispone a vedere nei contenuti assiologici di un valutare evidente i motivi di determinati doveri, non sarebbe possibile alcuna etica in senso stretto. Da questo punto di vista si può forse dire – servendosi di un concetto sviluppato ampiamente da Husserl nell’analisi della percezione – che la decisione libera apre l’orizzonte etico, all’interno del quale vengono a definirsi le concrete azioni morali.

Ma se ogni valutazione assume rilevanza etica solo sul fondamento di una decisione che ha già instaurato l’interesse del dovere, allora tale decisione deve coinvolgere la vita del soggetto nel suo complesso. Il singolo dovere riferito a una determinata situazione rimane ipotetico, senza la scelta originaria dell’orizzonte etico.50 Dal momento che la vita etica rappresenta l’idea di un uomo capace di condurre se stesso in modo autonomo, ovvero in grado di assumersi costantemente il compito di rendere ragione delle sue scelte, allora tale vita deve connotarsi come un progetto unitario. A differenza del conoscere, i cui giudizi sono validi anche se presi singolarmente e anche se compiuti saltuariamente e separatamente, il volere etico non ha un senso pieno se non come un tutto, solo all’interno del quale ricevono validità le singole azioni virtuose.51 L’etico si impianta solo nella prospettiva di questa totalità, grazie alla quale ogni atto è vivificato nella sua pretesa assiologica di compiere qualcosa di buono. Il singolo atto diretto a un determinato bene presente in una certa situazione, riempie, per così dire, l’intenzione etica originaria, evitando che questa finisca col divenire una vuota dichiarazione di intenti.52 In tal modo, per Husserl si fa largo la prospettiva di un’etica della miglior vita possibile, la quale non può limitarsi a una legge che prescriva la miglior cosa tra quelle raggiungibili in un dato momento, ma necessita di un nuovo imperativo che abbracci l’interezza di un’esistenza che voglia essere buona.53 Attraverso la decisione etica, il singolo soggetto sceglie di essere autonomo, assumendosi la piena responsabilità di ogni sua azione.

La decisa affermazione che l’ambito etico costituisce un tutto e riguarda la vita nella sua interezza, rappresenta esattamente lo snodo in cui si incrociano e tendono a fondersi, come già detto al principio, persona e legge, ovvero anche esistenza e scienza. Nelle lezioni del 1908-1914 Husserl si cimenta soprattutto – analogamente a Kant54 – con la questione della comprensione fenomenologico-trascendentale dei principi pratici, cioè con l’esigenza di una loro conoscenza scientifica. Il parallelismo di logica ed etica, l’assiologia e la pratica formali, il principio categorico del dovere sono inscritti in un discorso sulle strutture di senso che presiedono a priori al comportamento morale. Si tratta di un aspetto centrale che continua a connotare in profondità l’impostazione di Husserl, ma che con il passare del tempo viene ripensato nell’ottica di una valorizzazione della soggettività concreta, che è esistenza personale, singolare, frutto di una storia e di specifiche circostanze. Come mette in evidenza De Warren, «una vita etica non è semplicemente basata su una richiesta della ragione e alla ragione; è invece fondata concretamente su una richiesta della vita alla vita stessa, questa mia vita».55 La singola azione, per quanto moralmente connotata, non assume un valore pieno se non sullo sfondo di un’esistenza caratterizzata da uno stile pienamente etico. Detto ancora in altri termini, la cosa più importante è «leading an ethical life rather than merely conducting oneself ethically».56

Questa nuova prospettiva implica l’affermazione di temi che in precedenza non avevano trovato una declinazione teorica significativa. Intanto, l’enfasi che Husserl pone sulla vita buona nel suo complesso lo conduce a confrontarsi con una serie di strumenti concettuali che richiamano l’etica aristotelica, come quelli di disposizione,57 abito e carattere.58 La questione dell’abito offre la possibilità di pensare la legge morale come sempre vivificata entro l’orizzonte del carattere etico della persona.59 La decisione per la miglior vita possibile dischiude la dimensione propria dell’ethos, la quale comporta un cambiamento o un rinnovamento complessivo del soggetto, in virtù del quale etico non è solo il carattere di determinati atti piuttosto che di altri, bensì l’atteggiamento e la volontà di fondo che li animano in modo costante, ovvero «lo stile unitario della vita di ragione».60

Ma questa idea di uno stile unitario della vita etica non implica già, di per sé, uno sviluppo armonico nel quadro di una prospettiva pacificata. Con il passare del tempo, Husserl sottolinea sempre più il carattere incalcolabile e contingente dei casi dell’esistenza, per cui la vita etica è la costante posta in gioco di una «lotta per me (Kampf für mich)», cioè di una lotta per il fatto che «io possa rispettare me stesso».61 La persona è soggetta alle dinamiche impredicibili del reale, che con il loro carattere accidentale e frammentario minano costantemente i progetti di vita buona. Ciò comporta che, oltre all’imperativo formale della miglior vita possibile, si dà in ogni circostanza concreta, per ogni singola persona, un imperativo categorico concreto-individuale o imperativo dell’ora (Imperativ der Stunde),62 che si delinea grazie al richiamo della coscienza determinato dalla situazione concreta. A partire dagli anni Venti, questo imperativo concreto-individuale può assumere due declinazioni fondamentalmente differenti. Da un lato, esso si profila sulla base della compagine assiologico-materiale della circostanza data, quindi in virtù della determinazione di ciò che è meglio attraverso una considerazione comparativa di molteplici beni possibili, secondo il modello prospettato già a partire dalle lezioni del 1914. Dall’altro lato, tuttavia, esso irrompe senza alcun elemento di valutazione razionale, sulla base di una chiamata individuale che, pur non traendo la sua legittimità da una motivazione evidente, prospetta in ogni caso un dovere inaggirabile. A tal riguardo, l’esempio più utilizzato da Husserl è l’istinto materno, che vincola la madre alla cura incondizionata dei figli.63 Qui Husserl si scontra con il fatto di un dovere, dettato dalla voce della coscienza (Stimme des Gewissens), che risulta assoluto e inaggirabile, pur non essendo motivato sulla base di un’evidente determinazione assiologica.64 Ovvero, detto anche in altri termini, in casi del genere la mancanza di una fondazione razionale non esclude la legittimità del vincolo, che trae la sua forza da un’affezione non ulteriormente deducibile.65 L’intrecciarsi di dimensioni prescrittive così differenti, l’una basata sulla determinazione razionale del meglio, l’altra su un dovere tanto inaggirabile quanto ingiustificato sul piano dei consueti criteri fenomenologici di validazione (il principio di tutti i principi, la datità in originale), porta alla luce conflitti di valore che non possono essere ricondotti entro alcun ordine assiologico stabilito e neppure essere soggetti a processi di mediazione. Nei casi in cui si presenta una simile situazione, non è possibile operare una scelta ponderata di ciò che è meglio, in conformità al criterio di assorbimento per cui l’ottimo è nemico del bene. Ci si trova di fronte a doveri parimenti assoluti, per cui ogni preferenza finisce inevitabilmente in un sacrificio valoriale. In tali contesti, si tocca con mano un certo carattere tragico dell’esperienza etica ed esistenziale.66

In ultima analisi, la vita pratica del soggetto è, in ottica husserliana, un terreno d’esperienza piuttosto accidentato e sconnesso. Da un lato la dimensione emotiva con tutte le molteplici modalità del sentire e del desiderare, dall’altro quella volitiva, con le differenti declinazioni del dovere, non sempre razionalmente giustificate e talvolta reciprocamente inconciliabili, contribuiscono a rendere aspro il cammino del soggetto che sceglie di condurre una vita buona. Essere l’unità di un tendere, divenire sé stesso – che è ciò che caratterizza l’io secondo questa prospettiva67 – è allora una dinamica sottoposta a numerose forze centrifughe. È possibile individuare un a priori di nessi eidetici in ambito pratico, ma questi non bastano a determinare in modo univoco la fisionomia di una vita buona. Lo sviluppo dell’uomo è legato all’idea (in senso kantiano) del pieno dispiegamento dell’autonomia della ragione,68 ma l’autenticità del sé dipende dal rimanere fedeli alla chiamata individuale della coscienza.69


  1. V. E. Husserl, L’idea della fenomenologia, ed. it. a cura di E. Franzini, Bruno Mondadori, Milano 1995, p. 51. ↩︎

  2. V. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, ed. it. a cura di V. Costa, 2 voll., Einaudi, Torino 2002, vol. II, Libro secondo. Ricerche fenomenologiche sopra la costituzione↩︎

  3. Per una lettura sistematica della nozione di monade in Husserl si rimanda a A. Altobrando, Husserl e il problema della monade, Trauben, Torino, 2010. ↩︎

  4. V. per es. E. Husserl, Vorlesungen über Ethik und Wertlehre (1908-1914), Kluwer, Dordrecht/Boston/London 1988, pp. 192, 252, 359 (d’ora in poi: Hua XXVIII). ↩︎

  5. «Gemüt ist Anteilnahme an Sachen» (E. Husserl, Studien zur Struktur des Bewusstseins. Teilband II. Gefühl und Wert Texte aus dem Nachlass (1896-1925), Dordrecht, Springer 2020, p. 37. D’ora in poi: Hua XLIII/2) ↩︎

  6. V. E. Husserl, Phänomenologische Psychologie. Vorlesungen Sommersemester 1925, Martinus Nijhoff, Den Haag 1968, p. 412. ↩︎

  7. V. Hua XXVIII, pp. 381-384. Per un inquadramento di questo tema, v. R. De Monticelli, Il dono dei vincoli. Per leggere Husserl, Garzanti, Milano 2018, pp. 119-122. ↩︎

  8. E. Husserl, Introduzione all’etica. Lezioni del semestre estivo 1920/1924, ed. it. a cura di F.S. Trincia, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 35-38 (d’ora in poi: IE). ↩︎

  9. E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Erster Teil: Kritische Ideengeschichte, Martinus Nijhoff, Den Haag 1956, p. 9 (d’ora in poi: Hua VII). ↩︎

  10. Ibid. ↩︎

  11. IE, p. 36. ↩︎

  12. Hua VII, p. 11. ↩︎

  13. E. Husserl, Grenzprobleme der Phänomenologie. Analysen des Unbewusstseins und der Instinkte. Metaphysik. Späte Ethik, Springer, Dordrecht 2013, p. 270 (d’ora in poi: Hua XLII). Come esempi di questa tendenza alla generalizzazione frettolosa e, quindi, a ricavare leggi e principi infondati, Husserl cita in questo contesto la teoria brentaniana del giudizio e quella hobbesiana della società. Quest’ultima è particolarmente significativa in ambito etico. Le basi di tale teoria sarebbero in un ragionamento di questo tipo: l’uomo tende al suo piacere e alla sua soddisfazione; l’egoista è colui che tende solo al suo piacere e al suo utile; quindi l’uomo è per natura egoista. In questo modo, l’egoista, che indica un certo tipo d’uomo con determinate caratteristiche, di cui peraltro non si determina in modo più approfondito il modo d’essere ma lo si dà per ovvio e scontato, diventa l’uomo tout court, poiché vengono declassate a elementi accessori le differenze che pure articolano la costituzione umana. In questo tipo di approccio permane un misto ovvietà, limitata portata analitico-descrittiva e generalizzazioni forzate. ↩︎

  14. V. M. Deodati, L’intenzionalità all’opera. Studi sul pensiero pratico di Husserl, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 11-50. ↩︎

  15. V. Hua XLIII/2. ↩︎

  16. V. M. Deodati, In The Mood For. Dimensioni della Stimmung, in «Agalma» 39(2020), pp. 110-117. ↩︎

  17. V. M. Deodati, Analyses Concerning Phaenomena of Desire in Husserl’s Thought, in P. Janik - C. Canullo (ed.), Intentionnalité comme idée. Phenomenon, between efficacy and analogy, Ksiegarnia Akademicka, Krakow 2021, pp. 193-212. ↩︎

  18. V. R. Bernet, Zur Phänomenologie von Trieb und Lust bei Husserl, in D. Lohmar - D. Fonfara (ed.), Interdisziplinäre Perspektiven der Phänomenologie. Neue Felder der Kooperation. Cognitive science, Neurowissenschaften, Psychologie, Soziologie, Politikwissenschaft und Religionswissenschat, Springer, Dordrecht 2006, pp. 38-53. ↩︎

  19. V. M. Deodati, L’intenzionalità all’opera, cit., pp. 51-98. ↩︎

  20. Per una distinzione delle varie fasi della riflessione etica husserliana v. U. Melle, The Development of Husserl’s Ethics, in «Études phénoménologiques» XIII-XIV(1991), pp. 115-135; Id., Husserls personalistische Ethik, in B. Centi, G. Gigliotti (ed.), Fenomenologia della ragion pratica. L’etica di Edmund Husserl, Bibliopolis, Napoli 2004, pp. 327-356; S. Loidolt, Husserl und das Faktum der praktischen Vernunft: Phänomenologische Ansprüche an eine philosophische Ethik, in C. Ierna - H. Jacobs - F. Mattens (ed.), Philosophy, Phenomenology, Sciences: Essays in Commemoration of Edmund Husserl, Springer, Dordrecht 2010, pp. 483–503; H. Peucker, Husserls Ethik zwischen Formalismus und Subjektivismus, in V. Mayer - Ch. Erhard - M. Scherini (ed.), Die Aktualität Edmund Husserls, Karl Alber, Freiburg-Munich 2010, pp. 278–298. Per una lettura continuista delle varie fasi v. M. Deodati, L’intenzionalità all’opera, cit., pp. 99-124; S. Rinofner-Kreidl, Husserl’s Concept of the Absolute Ought: Implications For Ethics and Value-Theory, in M. Cavallaro - G. Heffernan (ed.), The Existensial Husserl. A Collection of Critical Essays, Springer, Dordrecht 2022, pp. 251-275. ↩︎

  21. L’idea di dovere è «l’idea etica centrale» (IE, p. 197). ↩︎

  22. V. Hua XXVIII, p. 90 (tr. it. Parziale a cura di P. Basso - P. Spinicci, Lineamenti di etica formale. Lezioni sull’etica e la teoria dei valori del 1914, Le Lettere, Firenze 2002, p. 106. D’ora in poi: LEF). ↩︎

  23. F. Brentano, Vom Ursprung sittlicher Erkenntnis (1889), Felix Meiner Verlag, Hamburg 1969. ↩︎

  24. V. ivi, p. 9. ↩︎

  25. V. ivi, p. 7 ↩︎

  26. V. LEF, p. 32. ↩︎

  27. V. ivi, p. 105. ↩︎

  28. V. IE, p. 34. ↩︎

  29. Ibid. ↩︎

  30. LEF, p. 33. ↩︎

  31. V. IE, p. 35. ↩︎

  32. Sugli usi di questo termine si veda M. Deodati, I significati principali del concetto di natura in Husserl, in «Dialegesthai» 24 (2022), https://mondodomani.org/dialegesthai↩︎

  33. «Aristotele è stato il padre della logica […]. Purtroppo, per quanto si sia occupato di etica e per quanto la sua Etica nicomachea abbia da offrire cose assai belle, non è stato allo stesso modo anche padre dell’etica» (Hua XXVIII, p. 441). ↩︎

  34. V. LEF, sezione seconda e quarta. ↩︎

  35. V. ivi, pp. 153-154. ↩︎

  36. V. ivi, p. 62. ↩︎

  37. V. ivi, pp. 153-154. ↩︎

  38. «Nel suo complesso, questo contrasto tra sensibilità e ragione, in cui dal lato della sensibilità sta la sensibilità della sensazione, del sentimento e dell’istinto, dal lato della ragione si hanno invece le categorie non sensibili che modellano per prime la sensibilità, è fondamentalmente errato, al pari della coincidenza, che secondo Kant questa contrapposizione ha con quella del tutto diversa tra la fatticità irrazionale e l’apriori razionale» (ivi, p. 215). ↩︎

  39. «Husserl lavora così congiuntamente sul versante della forma, tradizionalmente presentato come collocato dal lato della soggettività trascendentale, e del contenuto, riscattandolo dalla semplice fonte di resistenza, di attrito, rispetto alla libertà del plasmare. Husserl non sminuisce il significato della sintesi kantiana: si preoccupa di pluralizzarla» (G. Gigliotti, Materia e forma della legge morale nell’interpretazione husserliana del formalismo di Kant, in B. Centi - G. Gigliotti (ed.), Fenomenologia della ragion pratica, cit., p. 38). ↩︎

  40. «Soltanto l’essere ragionevole può agire secondo la rappresentazione delle leggi, ossia secondo principi, cioè può avere una volontà. Ma poiché la determinazione delle azioni in base a leggi richiede la ragione, la volontà è null’altro che la ragion pratica» (I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di P. Chiodi, Tea, Milano 1997, p. 30). ↩︎

  41. «Ogni discorso sul motivo (Motiv) nel senso del fondamento della volontà, del fondamento determinante della volontà, rimanda a questa fondazione intenzionale del volere in un valorizzare» (IE, p. 210). ↩︎

  42. «Il corretto volere si regola sul corretto valutare» (LEF, p. 142). ↩︎

  43. «Il valore materiale, però, persino là dove è dato come tale nella sua legittimità normativa, non è sufficiente» (IE, p. 240). ↩︎

  44. «Fai ciò che è meglio tra ciò che è raggiungibile» (LEF, p. 167). ↩︎

  45. «Già ha attirato la nostra attenzione il fatto che la falsità di ciò che ha meno valore in quanto praticamente scelto non è predelineata dal sentimento, così come neppure la verità di ciò che è meglio in quanto praticamente dovuto. Il “dovuto”, la correttezza del volere, è introdotta dalla volontà» («Schon das fiel uns ja auf, dass die Falschheit des Minderwertigen als praktisch Gewähltem nicht vom Gefühl vorgezeichnet ist, ebenso \<nicht> die Wahrheit des Besseren als des praktisch Gesollten. Das „gesollt“, die Willensrichtigkeit bringt der Wille herein», Ms. A VI 30, 146b). ↩︎

  46. «La mia vita è necessariamente senza valore, non bella, se non riconosco la richiesta dell’imperativo categorico» («Mein Leben ist unbedingt ohne Wert, unschön, wenn ich nicht die Forderung des kategorischen Imperativs anerkenne», ivi, 144b). ↩︎

  47. IE, pp. 158-159. ↩︎

  48. Ibid. (trad. lievemente modificata). ↩︎

  49. Hua XLII, pp. 305-306. ↩︎

  50. «Ogni imperativo, rivolto per così dire isolatamente, è un mero “imperativo ipotetico”. Unicamente nel quadro di una vita etica – e ciò corrisponde a quanto detto in precedenza per tutti gli atti – si compie una valutazione universale e, pertanto, una valorizzazione assoluta» (E. Husserl, L’idea di Europa, ed. it. a cura di C. Sinigaglia, Raffaello Cortina, Milano 1999, pp. 50-51). ↩︎

  51. «l’essenza del volere è talmente mirabile, che esso non può avere la sua verità nell’isolamento, come il giudicare […]. Isolare una volontà per sé e indagarne la verità non dà mai una verità valida in sé e per sé. Ogni verità di volontà è una verità solo nell’universale connessione delle volontà del corrispondente soggetto di volontà; si può parlare della verità di una qualunque volontà, ossia di ciò che il soggetto deve veramente, solo in rapporto alla vita individuale nel suo complesso» (IE, p. 247). ↩︎

  52. «Quel che conta, quindi, è che il meglio […] è emerso da una volontà, che fonda una volta per tutte la vita etica, ed è diventato l’imperativo categorico che guida abitualmente la vita nel suo complesso. Ogni ben volere, dunque, è una sua conseguenza, motivato da questa volontà, sebbene d’altra parte ogni volere siffatto sia possibile solo mediante la sua speciale motivazione e i suoi particolari motivi di valore, che la situazione singola implica come materia determinante» (ivi, p. 248). ↩︎

  53. Ecco come suona la nuova versione: «d’ora in avanti e senza oscillare compi il meglio, sempre il tuo meglio, afferralo in una conoscenza conforme a norma, desidera il meglio in una volontà consapevolmente normativa» (ibid.). ↩︎

  54. Di contro a molte frequenti interpretazioni che fraintendono il rigorismo in senso psicologico, bisogna ricordare che, innanzi tutto, per Kant «la categoricità dell’imperativo è quella della legge scientifica, non del comando» (G. Gigliotti, Materia e forma della legge morale nell’interpretazione husserliana del formalismo di Kant, cit., p. 65). ↩︎

  55. N. De Warren, “Mag die Welt eine Hölle sein“: Husserl’s Existential Ethics, in M. Cavallaro - G. Heffernan (ed.), The Existensial Husserl, cit., pp. 65-86, qui p. 78. ↩︎

  56. Ivi, p. 79. ↩︎

  57. V. E. Husserl, Studien zur Struktur des Bewusstseins: Teilband III Wille und Handlung Texte aus dem Nachlass (1902-1934), Dordrecht, Springer 2020, p. 12 (d’ora in poi: Hua XLIII/3). ↩︎

  58. V. ivi, p. 435. ↩︎

  59. «Io “mi creo un carattere etico”, un abito volitivo. Mi creo una “memoria volitiva”, cioè proprio un abito in virtù del quale ogni volizione è nel senso di una tendenza e la riempie, per cui se io seguo la tendenza, tale volizione si esibisce come scaturente da quel volere generale» (ibid.). ↩︎

  60. V. Hua XLII, p. 321. ↩︎

  61. Ivi, p. 329. ↩︎

  62. V. ivi, p. 321. ↩︎

  63. V. ivi, p. 383, dove le due declinazioni di imperativo sono definite in termini di rationales Wollen e irrationales Wollen (o anche impulso istintivo). ↩︎

  64. «La voce della coscienza, del dovere assoluto, può richiedermi qualcosa che in nessuno modo potrei riconoscere come il meglio in una comparazione di valori» (ivi, p. 390). ↩︎

  65. V. ivi, p. 392. ↩︎

  66. V. ivi, p. 352. ↩︎

  67. «Esso (scil. l’io) è nella misura in cui aspira a essere e aspira a essere sé stesso» (ivi, p. 338). ↩︎

  68. V. ivi, p. 441. ↩︎

  69. «Essere fedele a me stesso e seguire di volta in volta questa chiamata individuale dell’attimo corrispondente è vivere in autenticità (Echtheit) personale» (ivi, p. 395). ↩︎