Recensione a Hilary Putnam, Jewish Philosophy as a Guide to Life. Rosenzweig, Buber, Levinas, Wittgenstein

Hilary Putnam, Jewish Philosophy as a Guide to Life. Rosenzweig, Buber, Levinas, Wittgenstein, Indiana University Press, Bloomington 2008.

Il nome del filosofo statunitense Hilary Putnam è immediatamente associato a studi di filosofia della matematica, di logica, di epistemologia e di filosofia della scienza. Meno noti sono i suoi interessi per la filosofia ebraica, incrementatisi nel decennio precedente al suo pensionamento avvenuto nel 2000. Questi ultimi sono testimoniati dall’introduzione a Understanding the Sick and the Healthy, traduzione inglese all’opera postuma e ripudiata di Rosenzweig Das Büchlein vom gesunden und kranken Menschenverstand; dall’articolo Levinas and Judaism scritto per il The Cambridge Companion to Levinas; dai corsi di filosofia ebraica tenuti presso la Harvard University negli anni 1997 e 1999 e, infine, dalle due Helen and Martin Schwartz Lectures tenute alla Indiana University l’uno e il due dicembre 1999. Questo materiale, rivisto e incrementato con alcuni inediti, è stato raccolto in un agile volume pubblicato nel 2008 dal titolo Jewish Philosophy as a Guide to Life. Il libro è diviso in sei capitoli. I quattro centrali possono essere considerati brevi monografie su Wittgenstein, Rosenzweig, Buber e Levinas, autori che Putnam considera i quattro principali filosofi ebrei del Novecento, meglio i tre e «un quarto», come egli stesso puntualizza considerando che soltanto un nonno di Wittgenstein era davvero ebreo. L’introduzione, prevalentemente autobiografica, e la postfazione hanno il compito di dare unità al testo, infatti spiegano perché Putnam si sia interessato alla filosofia ebraica e che cosa egli si aspetti da uno studio di questo tipo. Una struttura così precisa comporta una presentazione schematica che si limiti a passare in rassegna le singole parti. Soltanto in un secondo momento sarà possibile una valutazione complessiva che allarghi lo sguardo verso lo status della Jewish Philosophy e della stessa filosofia analitica.

Nell’introduzione autobiografica Putnam sente il dovere di spiegare ai suoi lettori il perché si sia occupato dei temi trattati in questo libro. Egli ricorda di essersi formato alla filosofia della scienza e di non essersi occupato d’altro per oltre mezzo secolo. I momenti decisivi che lo hanno avvicinato al giudaismo sono stati esterni alla sua professione di filosofo. Il primo ha una data precisa: il 1975. In quell’anno, a seguito della richiesta del maggiore dei suoi due figli, di nome Samuel, di celebrare il bar mitzvah, Putnam contattò Rabbi Ben-Zion Gold e iniziò ad avere contatti stabili con la comunità ebraica di Harvard. Nello stesso periodo, sollecitato dal contesto sociale che spingeva le persone a praticare la meditazione trascendentale, Putnam preferì rifarsi alla preghiera tradizionale ebraica e dedicarsi ogni mattina a venti minuti di daven. Nonostante non possa proclamarsi un ebreo ortodosso, egli non ha mai abbandonato questa pratica religiosa trovandola un’attività spirituale feconda, capace di trasformare e migliorare la sua esistenza. Rimaneva però un problema, cioè la possibile conciliazione tra il suo essere un filosofo materialista e la sua identità religiosa. L’approfondimento delle Lezioni sulle credenze religiose di Wittgenstein e i temi affrontati in Rinnovare la filosofia lo hanno condotto a una filosofia meno legata allo scientismo e più attenta alla dimensione antropologica. Allo stato attuale Putnam confessa di essere ancora un filosofo naturalista, sebbene non riduzionista, e di non essere ancora riuscito a considerarsi un filosofo in quanto ebreo. Tale tensione lo ha infine sollecitato allo studio dei maggiori esponenti della filosofia ebraica del secolo scorso. Le loro posizioni sono distanti, ma accomunate dal rifiuto di ogni ontoteologia, dalla rinuncia ad ogni tentativo di costruire delle teorie intorno a Dio e dal desiderio di offrire delle riflessioni di carattere religioso e spirituale capaci di arricchire la vita delle persone. Obiettivi che interessano direttamente a Putnam in quanto filosofo.

Il primo capitolo è dedicato a Rosenzweig e Wittgenstein, accomunati dal modo di fare filosofia. Il pensatore austriaco ha difeso la religione sia nei confronti della superstizione in cui inevitabilmente cadrebbe ogni tentativo di razionalizzare la fede, sia dal tentativo illuminista di rigettarla e sostituirla con la scienza. La chiarezza richiesta da Wittgenstein e la sua attenzione al senso comune non comportano l’abbandono della filosofia e della metafisica, ma sollecitano a riflettere sugli aspetti scontati dell’esistenza per riscattare le attività umane più soggette a confusione, tra le quali un posto rilevante spetta alla pratica religiosa. Questo modo di considerare la riflessione filosofica è tipico dei pensatori ebrei considerati nei capitoli successivi, ma anche della filosofia antica, come ha mostrato Hadot in Esercizi spirituali e filosofia antica, che Putnam non manca di annoverare tra i suoi libri preferiti. Rosenzweig, in modo analogo, riconosce l’importanza della storicità dei fatti narrati nella Bibbia, in qualche modo decidibile scientificamente, ma sottolinea come la domanda più importante per un ebreo riguardi i motivi della sua condotta di vita. In Dell’intelletto comune sano e malato, Rosenzweig attacca con determinazione l’idealismo, rigettando la sua proposta totalizzante di metafisica sulla scorta di Kierkegaard, autore non a caso letto anche da Wittgenstein. Per tutti costoro la ricerca dell’essenza in vista del suo possesso è un assurdo, una vera e propria tentazione intellettuale. Ciò però non implica cadere nelle maglie del nominalismo, in quanto incapace di offrire una coerente concezione dell’essere umano e della vita. Quello che va cambiato, insomma, non è questa o quella teoria filosofica, ma la prospettiva stessa della filosofia. Essa deve tornare a prestare attenzione a ciò che davvero determina l’esistenza personale, senza pretendere di stabilirlo razionalisticamente a priori. Nel caso specifico della filosofia della religione ciò che è rilevante non è offrire una teoria del divino, ma riflettere sul rapporto con Dio che parte dalla meraviglia e passa attraverso il timore del vivere e del morire. Putnam riassume in tre punti la proposta di Rosenzweig, considerandola non un’antifilosofia, ma un lucido tentativo di rinnovarla: (1) il nuovo pensiero è un pensiero che parla, un comunicare, un dialogare; (2) la filosofia e la teologia devono essere umanizzate; (3) la vivacità di spirito è più necessaria della pianificazione.

Il secondo capitolo è intitolato Rosenzweig on Revelation and Romance e consiste nell’offrire una chiave di lettura a La stella della redenzione. Anche in questo capitolo Putnam insiste sulla novità proposta da Rosenzweig nel suggerire una filosofia esperienziale ed esistenziale. Solo così è possibile comprendere il significato più profondo della rivelazione quale evento tra due. Qualsiasi resoconto scientifico della religione, sia esso psicologico, sociologico o storico, non riveste un’importanza decisiva per la vita dell’ebreo praticante. Ciò che è decisivo è invece la relazione con Dio, il fatto che Dio si riveli e comandi di amarLo. Un amore comandato è un paradosso, a meno che non si faccia riferimento alla narrazione biblica e alla figura del matrimonio. In questo modo l’amore per Dio è imitatio Dei e la componente verticale dell’amore si completa con quella orizzontale, cioè l’amore per Dio si accompagna con l’amore per il prossimo, qualunque cosa si intenda per prossimo. Putnam mostra come la riflessione di Rosenzweig si spinga fino a caratterizzare la nozione di redenzione, nozione fondamentale per le religioni monoteiste e per l’ebraismo in particolare. L’aspirazione al matrimonio tra Dio e l’anima di ciascun individuo non termina con la cura del proprio prossimo, ma si apre alla redenzione, un evento futuro anticipato già nel presente ogni qualvolta si guardi al mondo dal punto di vista di Dio. In sintesi: l’intero scopo della vita umana è la rivelazione e l’intera rivelazione consiste nell’amore. L’amore tra l’amante e l’amato culmina nel «matrimonio», cioè nella redenzione. La redenzione ha un aspetto personale (è parte dell’esperienza di ciascuna persona religiosa) e un aspetto comunitario (è un qualcosa esemplificato e modellato attraverso l’intera comunità religiosa ebraica); inoltre essa ha una dimensione escatologica, ma non è solo escatologica perché la sua venuta futura è qualcosa «presente» nell’individuo ebreo già ora1.

Il terzo capitolo si concentra sull’opera principale di Buber, Io e tu. Lo scopo è quello di mostrare come Martin Buber cerchi di fornire una concezione della nostra relazione con Dio che non tenda a risolvere la questione del male, ma piuttosto che elimini la possibilità stessa del porsi questo problema. La relazione io-tu non è meramente descrittiva, né meramente normativa, bensì è una dimensione nella quale gli uomini devono impegnarsi a vivere e senza la quale nessuna regola morale e nessuna istituzione potrebbe avere un valore reale. Putnam affronta alcuni ostacoli linguistici che hanno reso ambigua la traduzione inglese dell’opera di Buber. In particolare l’aver reso du con you e geistige Wesenheiten con spiritual beings, senza tener conto del contesto biblico di queste espressioni e dell’accezione filosofica in cui vengono correntemente usate, ha finito per tradire il dettato buberiano. Questi problemi di traduzione sono comunque più superabili rispetto a due errori in cui spesso incorrono gli studiosi di Buber. Ciò che viene fraintesa è la relazione io-mondo. Il primo errore consiste nel contrapporre la relazione io-mondo a quella io-tu: mentre questa seconda sarebbe sempre positiva, la prima sarebbe sempre negativa. Il secondo errore è dato dall’interpretare la relazione io-tu come una relazione tra persone umane, ritenendo secondario il riferimento a Dio. Al contrario la relazione io-mondo e la relazione io-tu sono profondamente interdipendenti: la trasformazione della vita di un individuo, fonte e origine di ogni cambiamento, comporta la trasformazione della vita sociale. Detto in altri termini, l’esperienza del divino non è mai fine a se stessa, ma implica una conversione e di conseguenza un nuovo modo di vedere il mondo. Putnam, per ovviare al secondo errore, propone un ardito confronto tra Buber e Moore, dove emerge l’originalità della posizione di Buber solo se considerato il contesto teologico della sua filosofia. Le rivoluzioni sociali con presupposti materialisti sono così destinate inevitabilmente al fallimento: la fede nel comunismo, nel socialismo, nel libero mercato sono in ultima analisi meri tentativi di rinunciare alla relazione con Dio. Dopo queste precisazioni è possibile capire perché il male non è più un problema da risolvere con una teoria intorno a Dio. La relazione io-Tu non solo non è ostacolata, ma addirittura è occasionata, resa possibile dall’interrogare Dio sui temi della sofferenza e del male: emerge qui il tema biblico del lottare con Dio. Entrato in questa relazione, l’uomo arriva a comprendere che Dio è letteralmente una persona e può provare a descriverLo, ma non può costruire una speculazione metafisica su Dio, né attraverso una teologia negativa, né, tantomeno, tramite una teologia positiva. Porsi domande metafisiche, quale quella circa l’esistenza di Dio, non è possibile perché è già porsi fuori della relazione; lo stesso vale per la conoscenza di Dio, la quale non può mai darsi se non dall’interno dell’esperienza del divino.

Il quarto capitolo è dedicato a Levinas. Putnam si sofferma sull’interpretazione che questo pensatore offre circa l’elezione del popolo di Israele in termini etico-fenomenologici. Tale mossa consente al filosofo lituano di entrare in dialogo con i non ebrei, con particolare attenzione ai cristiani e alle persone che ragionano con categorie mutuate dalla modernità occidentale. L’universalizzazione dell’esperienza ebraica consente a Levinas di affermare che, nella loro essenza, tutti gli uomini sono ebrei. La proposta specifica di Levinas consiste nel presentare l’etica come filosofia prima. Ciò comporta il rinunciare a dedurre l’etica da una metafisica e, più positivamente, implica l’impegnarsi a riflettere su ciò che è più specificamente e propriamente umano a partire dall’etica presente in ogni uomo. L’obbligo fondamentale comune a ciascuna persona è quello di rendersi disponibile al bisogno e specialmente alla sofferenza dell’altra persona. L’atteggiamento in questione è magistralmente espresso dalla nozione biblico-ebraica dello hineni, quasi intraducibile nelle lingue moderne. Si tratta di una disponibilità piena, consapevole, sollecita. Questo obbligo fondamentale non è un codice di comportamento, né fonda una teoria della giustizia; piuttosto è il concetto limite verso cui ogni etica dovrebbe tendere. In quest’accezione lo hineni è asimmetrico e originario. Chiedersi perché offrire questa disponibilità è palesare la propria in-umanità. La difficoltà di comprendere la filosofia di Levinas da parte degli analitici è tale che Putnam tenta di partire da alcuni concetti di Husserl e di Cartesio, autori più prossimi alla mentalità analitica, e di mostrare l’originalità di Levinas rispetto ad essi. La relazione etica si può comprendere solo se si ammette che l’altro sia una realtà indipendente e non una costruzione del soggetto che desidera relazionarsi. La prova cartesiana dell’esistenza di Dio viene apprezzata da Levinas, che però la stravolge, perché rifiuta di considerarla il frutto di un ragionamento deduttivo e la interpreta come il frutto di un’esperienza originaria di alterità di matrice religiosa: io riconosco che l’Altro non è parte della mia costruzione del mondo, perché tale incontro sfida le mie categorie e le provoca fino a farle implodere. La proposta di Levinas può essere compresa attraverso il riferimento a Nagel: entrambi considerano il realismo metafisico come il tentativo di vedere il mondo da nessun luogo e, in questi termini, lo rifiutano. Levinas declina l’obbligazione etica fondamentale in termini di infinita responsabilità, di attenzione al volto e di altezza prospettica. Putnam evidenzia una tensione presente nell’umanesimo ebraico di Levinas: da una parte, esso è radicato nell’ortodossia religiosa, dall’altra, pretende di essere condiviso (o, almeno, condivisibile) da tutti gli uomini. Già il Talmud ha affrontato questa tensione: universalizzare certe istanze vetero-testamentarie non comporta la conversione personale al giudaismo. La Thorà, compendiata nel decalogo, è la traccia più evidente della presenza di Dio, ma è per l’appunto una traccia e non la presenza stessa di Dio. Tale traccia è presente all’intera umanità in maniera più o meno esplicita. L’aspirazione profonda a vedere in faccia il nostro prossimo e all’andargli incontro è una verità per chiunque. La dimensione etica è la sola capace di aprire alla sfera religiosa; Dio è l’Infinito, il non-tematizzabile e l’esperienza di Lui consiste nella contemplazione della Sua gloria attraverso l’altezza dell’altro. Putnam puntualizza infine come Levinas non cada nelle critiche rivolte agli intuizionisti, né a quelle rivolte a Kant, sebbene riconosca l’eccessiva tendenza utopica della sua filosofia e gli rimproveri di non aver trattato il rapporto tra cura di sé e cura per l’altro.

Nella postfazione, l’autore valuta il cammino percorso e, ancora una volta, lo fa in chiave personale, affermando che ora la sua posizione circa la religione è da qualche parte tra il John Dewey di Una fede comune e Martin Buber. Con questa curiosa espressione, Putnam intende condividere il pragmatismo religioso di Dewey, cioè apprezzare il valore delle pratiche religiose perché capaci di aprire alla relazione buberiana io-tu. Solo in questo modo Putnam si dice capace di considerare Dio un ideale non soggettivo e una persona al riparo da ogni pericolo di antropomorfizzazione.

Dal punto di vista accademico gli autori considerati sono discordanti: Rosenzweig è un metafisico che insiste sulla tesi dell’assoluta non identità tra l’uomo, Dio e il mondo; Buber è un filosofo religioso che nega la possibilità stessa di costruire una teoria di Dio come se fosse una terza persona; Levinas è un filosofo religioso il quale insiste sul fatto che Dio e l’altra persona sono oltre l’essere. Ciò che invece accomuna questi filosofi è l’invito a dedicarsi ad una filosofia esperienziale. Essa consiste nell’idea che l’attività filosofica più rilevante è l’attività che ha a che fare con i problemi concretamente vissuti dagli interlocutori umani e che si esplica nel dialogo genuino e non in lezioni.2 Con questa dichiarazione programmatica dal sapore di monito Putnam chiude il suo saggio, aprendo la discussione.

Esprimere un giudizio sul libro esaminato è complesso, esso infatti si presenta come un testo introduttivo e non specialistico. Nonostante alcune acute osservazioni contribuiscano agli studi su Wittgenstein, Rosenzweig, Buber e Levinas, non è questo il piano privilegiato per apprezzare il lavoro di Putnam. Ritengo opportuno suggerire una lettura contestuale di altri lavori di Putnam, dalla quale emergono quattro possibili filoni interpretativi. In primo luogo, questo libro di Putnam favorisce lo studio della filosofia ebraica, settore presente nel mondo analitico, ma praticato in prevalenza per la sua valenza storica.3 Una seconda linea di indagine riguarda la filosofia della religione con particolare riferimento alla teologia naturale, alla teologia negativa,4 alla filosofia della religione di Wittgenstein5 e alla necessità di separare il senso religioso dall’idolatria.6 Un terzo ambito concerne questioni meta-filosofiche e riguarda da vicino il dibattito interno alla tradizione analitica.7 Putnam suggerisce implicitamente una risposta a domande quali: che cosa è la filosofia? Che cosa dovrebbe essere? Dove sta andando oggi? Che cosa si può fare per essa? Il testo qui presentato corrobora l’attenzione dedicata da Putnam agli aspetti più sapienziali del filosofare, riprendendo una sollecitazione che va da Wittgenstein ad Hadot8 e che per lui si è nutrita del confronto con la tradizione classica, in particolare con il realismo tomista.9 La valorizzazione dell’esperienza concreta e una visione della filosofia come possibilità di cambiare il nostro atteggiamento verso Dio, gli altri e il mondo supportano un nuovo modello di sapere e una rinnovata concezione delle istituzioni universitarie, che Putnam aveva tratteggiato in una conferenza tenuta a Bologna. In quell’occasione ebbe a dire: che la verità non possa diventare nostra una volta per tutte grazie alla rivelazione è qualcosa che vale per la verità etica e religiosa non meno che per quella scientifica. […] in questa situazione non possiamo far altro che cercare di correggere e migliorare i sistemi di vita che abbiamo, o anche provarne di nuovi se li riteniamo migliori: ma sono tentativi che non devono ostacolare gli altri a fare i propri. […] la funzione più importante dell’Università come istituzione liberale è ancora quella di incoraggiare la capacità di comprensione empatica che ho riassunto nel termine imperfetto di «cultura». Il compito più importante dell’Università è promuovere la cultura, e non il sapere.10

Bastino questi esempi a riconoscere che Jewish Philosophy as a Guide to Life non è la passione momentanea di un filosofo giunto al termine della carriera, né un improvviso ed effimero interesse, bensì è l’esito coerente del percorso di un filosofo analitico libero dai pregiudizi spesso imputati a torto verso questa tradizione ed è al centro di una serie di temi verso cui il dibattito filosofico contemporaneo spinge con urgenza.


  1. Putnam, Jewish Philosophy as a Guide to Life, cit., p. 54 (trad. mia). ↩︎

  2. Putnam, Jewish Philosophy as a Guide to Life, cit., p. 106 (trad. mia). ↩︎

  3. Cfr. Goodman L.E., Judaism; Rudavsky T., The Jewish Contribution to Medieval Philosophical Theology e Gibbs R., The Jewish Tradition, tutti in Quinn P.L. - Taliaferro C. (eds.), A Companion to Philosophy of Religion, Blackwell, Oxford 1999, rispettivamente pp. 43-55; 95-102 e 179-185 con le rispettive bibliografie. ↩︎

  4. Cfr. Putnam H., Thoughts Addressed to an Analytical Thomist, «The Monist», 80 (1997), pp. 487-499 (rist. in Paterson C.-Pugh M. S. (eds.), Analytical Thomism. Traditions in Dialogue, Ashgate, Aldershot 2006, pp. 25-36); Putnam H., God and the Philosophers, «Midwest Studies in Philosophy», 21 (1997), pp. 175-187 e Id., On Negative Theology, «Faith and Philosophy», 14 (1997), pp. 407-422. ↩︎

  5. Putnam H., Rinnovare la filosofia, Garzanti, Milano 1998, pp. 131-172. ↩︎

  6. Cfr. Putnam H., From Darkness to Light? Two Reconsiderations of the Concept of Idolatry, «Harvard Divinity Bulletin», 29 (2000), pp. 18-9. ↩︎

  7. Cfr. Putnam H., Rinnovare la filosofia, cit. ↩︎

  8. Cfr. Hadot P., Wittgenstein e i limiti del linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 2007. ↩︎

  9. Cfr. De Anna G., Realismo metafisico e rappresentazione mentale, Il poligrafo, Padova 2001; Damonte M., Wittgenstein, Tommaso e la cura dell’intenzionalità, MEF, Firenze 2009, pp. 87-9; Haldane J., Putnam on Intentionality, «Philosophy and Phenomenological Research», 52 (1992), pp. 671-682 e Id., San Tommaso e Putnam: realismo ontologico e realismo epistemologico, «Intersezioni», 8 (1988), pp. 171-188. ↩︎

  10. Putnam H., Sui compiti dell’università, in Matteucci N. (a cura di), L’università nel mondo contemporaneo, Bompiani, Milano 1991, pp. 36-7. ↩︎