1. Introduzione
La teoria della percezione è probabilmente uno degli aspetti della filosofia dello Stagirita più delicati da avvicinare, a causa della tanto inevitabile quanto anacronistica tendenza ad esaminarla alla luce della distinzione, originatasi solo a partire da Cartesio, tra mentale e fisico.1 Le formule con cui Aristotele descrive in generale la percezione, non esplicitamente espresse in questi termini, finiscono col risultare per ciò stesso irrimediabilmente ambigue al lettore contemporaneo. A testimoniarlo, la serie di controversie tra i sostenitori di una loro interpretazione in chiave «materialista» o «fisicalista», e quelli che le intendono invece esclusivamente in riferimento a un processo mentale e di coscienza. Secondo alcuni, infatti, il filosofo teorizzerebbe la sensazione come attività cognitiva cui non si accompagna alcun processo fisiologico nel soggetto; per altri, in maniera diametralmente opposta, la sensazione non sarebbe altro che un normale processo di alterazione negli organi sensori. Diversamente, si è sostenuto che entrambi gli aspetti (mentale e fisico) siano rintracciabili nella sua teoria, che taluni credono essere sorprendentemente in linea con gli orientamenti «funzionalisti» della psicologia contemporanea. Né è mancato chi ha scorto nelle tesi dello Stagirita un’insanabile contraddizione di fondo tra le opposte istanze, responsabile di varie incoerenze e oscurità disseminate in essa, che la conducono al fallimento.
2. Sugli aspetti somatici della percezione
È anzitutto opportuno cercare di dirimere la questione se, e in che grado, Aristotele ammetta la necessità di condizioni corporee per la percezione. Il filosofo descrive a più riprese la percezione come «ricezione della forma dei percepibili senza la materia» (424a 18-19; cfr. 425b 24, 429a 15-16, 434a 29-30), come «essere affetti dalla forma» (424a 23, a 34, b 3; cfr. 427a 8-9), e come «diventare identico all’oggetto sensibile» (418a 4; 422a 7; 423b 28-424a 10), sottolineando che il processo percettivo può essere denominato «alterazione» solo in senso lato (II 5, 416b 34-35, 417b 29-418a 6). In 425b 22-24, inoltre, si legge che ciò che vede è «in un certo senso» colorato.
Quasi a voler esorcizzare, di fronte a espressioni tanto ambigue, le possibili distorsioni interpretative derivanti della distanza storica, taluni studiosi hanno cercato recentemente di rivitalizzare alcune tesi degli antichi commentatori, volte a dimostrare che ciò che avviene durante la percezione non è un normale processo di alterazione somatica.2 Già Alessandro di Afrodisia, preoccupandosi nel suo De anima di evitare la contraddittoria compresenza di qualità opposte nello stesso corpo, ipotizzava uno stato speciale in cui i colori e i suoni sarebbero presenti nei rispettivi intermediari e organi.3 Similmente, Temistio sviluppava una distinzione tra i sensi in ragione del loro grado di corporeità: mentre gli organi della vista e dell’udito non sono fisicamente affetti nel percepire, ciò non accade negli organi e negli intermediari del tatto e del gusto.4 La classificazione venne sostanzialmente confermata, con alcune precisazioni, da Filopono,5 che ritenne del tutto immateriale la presenza del colore nel mezzo trasparente e quella dell’odore nella natura «diosmica» dell’aria (almeno per quanto concerne l’ultima parte del tragitto che l’oggetto compie fino all’organo sensorio), leggendo in questo senso l’espressione aristotelica «ricevere la forma senza la materia».6 Tali idee si diffusero poi, presumibilmente attraverso le annotazioni che corredavano usualmente le traduzioni dal greco delle opere del filosofo,7 nella cultura araba e successivamente in quella latina. In particolare, Averroè teorizzò esplicitamente che le forme sensibili fossero presenti, nel mezzo e nell’organo sensorio, in uno stato intermedio tra quello materiale e quello spirituale, rilevabili rispettivamente negli oggetti percepibili e nel senso.8 Tale dottrina, strettamente connessa alla nozione di «intenzione» secondo la modalità inaugurata da Avicenna,9 fu ripresa da Alberto Magno e Tommaso d’Aquino,10 e si ritrova ancora in alcuni esponenti della tarda Scolastica.11 Rielaborando originalmente queste interpretazioni, Brentano poté quindi introdurre nella filosofia contemporanea la sua nozione di inesistenza intenzionale, affermando che vi alludesse già Aristotele con la ricezione della forma senza la materia.12
La più decisa e argomentata ripresa di una simile linea interpretativa è stata recentemente propugnata, da M. Burnyeat, sulla scorta di una dettagliata analisi delle condizioni materiali del percepire istituite da Aristotele, condotta alla luce della nozione di «quasi alterazione».13 Secondo tale disamina, la necessità di materiali ricettori omogenei diversi per ciascun organo sensorio dimostra innanzitutto che non esiste alcuna microstruttura degli organi, e quindi che è errato ritenere che Aristotele attribuisse ai suddetti organi una costituzione materiale complessa.14 Le condizioni materiali riguardanti i sensori sarebbero, per lo stesso motivo, «statiche», ossia tali da facilitare o ostacolare l’accuratezza della percezione senza alcun’altra influenza sul processo che avviene in essa.15 Un discorso simile varrebbe, poi, per gli aspetti materiali concernenti lo stimolo attivante la capacità percettiva. Il colore è definito in base al suo essere capace di muovere (κινητικόν) ciò che è in atto trasparente, ma non occorre chiedersi perché o in virtù di cosa abbia questa capacità, né ritenere che l’accenno alla κίνησι< vada inteso nel senso di «locomozione» (il termine si riferirebbe genericamente a ogni tipo di cambiamento, inclusa l’alterazione) .16 La frase indicherebbe semplicemente che il colore produce un certo effetto sul mezzo. La luce, inoltre, è descritta come atto del trasparente (418b 9), negando che sia fuoco, o un corpo, o l’emanazione di un corpo (418b 14-15), e perciò anche qualcosa che si muove.17 Il mezzo trasparente affetto dal colore non potrebbe quindi dirsi colorato e visibile se non in modo derivato (cioè tale che il colore di un corpo sia visibile attraverso esso), giacché a interessarlo sarebbe una «quasi alterazione», paragonabile a quella che ha luogo in un bicchiere riempito d’acqua che, senza diventare realmente colorato, rivela il colore di un oggetto posto dietro di esso.18 Sarebbe errato, quindi, ritenere che la tesi che la vista non può essere prodotta dal colore visto stesso, esposta in 419a 18-19, postuli tra il colore e il soggetto vedente un intermediario che agisce sul secondo. Così facendo, infatti, si cederebbe a una fuorviante supposizione tipicamente moderna, secondo cui la funzione del mezzo è quella di congiungere l’oggetto percepito al soggetto percipiente, laddove esso ha invece lo scopo di separarli.19 Le medesime considerazioni varrebbero poi per l’alterazione che ha luogo nei sensori.20 La differenza tra l’effetto sul mezzo e l’effetto sull’occhio (il secondo consiste nel vedere, non il primo) sarebbe dovuta al mero possesso della capacità di vedere da parte di quest’ultimo, e tale spiegazione sarebbe per Aristotele pienamente soddisfacente.21 Quanto detto si applicherebbe in II 8 anche al suono e all’udito,22 e sarebbe infine legittimamente esteso alla generalità dei sensi all’inizio di II 12, nella nota formula «ricevere la forma senza la materia». Con l’analogia dell’impronta dell’anello nella cera si indicherebbe, pertanto, che per ognuno dei cinque sensi si ha a che fare con una fisica delle sole forme, senza processi materiali.23 In questo stesso senso andrebbe letta, in II 5, l’affermazione che la percezione non è un caso di mutamento ordinario. Attraverso una minuziosa e precisa analisi, Burnyeat nota che Aristotele parte in questo capitolo dalla concezione dell’alterazione contenuta nella Fisica,24 ma la evolve sulla base di una distinzione tra diversi tipi di potenza,25 ponendo accanto a un’alterazione ordinaria tra contrari (ignoranza e scienza), un passaggio tra termini che non lo sono (scienziato — nel senso di possessore di scienza- e scienziato — nel senso di colui che esercita la scienza) che, caratterizzato dalla conservazione della potenza originaria, non può dirsi alterazione.26 Lo Stagirita riconosce poi (417b 9-16) che lo stesso discorso potrebbe estendersi all’apprendimento, se lo si considera come passaggio dallo stato di conoscitore in potenza a quello in atto, ma, contrastando στερετικὰς διαθέσεις ed ἕξεις precisa che ciò che ha luogo in quest’ultimo caso non è una conservazione, come nel passaggio dalla capacità all’esercizio di 417b 1-7 (va pertanto eliminato lo ὥσπερ εἴρηται in 417b 14), ma lo sviluppo e l’acquisizione permanente di una capacità. Pur essendo oggettiva in ragione della dipendenza da una causa esterna, la percezione è analizzabile secondo lo stesso modello proposto per la scienza, e risulta quindi differente dall’alterazione ordinaria.27 Gli organi non avrebbero quindi bisogno di essere affetti fisicamente per essere coscienti di un oggetto, giacché la materia degli animali sarebbe «gravida di conoscenza» e andrebbe solamente «risvegliata» ad essa.28 Ulteriore conferma dell’interpretazione avanzata sarebbe la prova della mancanza di percezione delle piante offerta in 424a 32, incentrata sul loro essere affette con la materia. Se la ricezione della forma senza la materia fosse un mero diventare qualitativamente identici alla cosa percepita, le piante, subendo con la materia, dovrebbero riscaldarsi incamerando materia calda, e diventare colorate assumendone di colorata, in maniera palesemente contraria all’evidenza empirica: un albero, posto al sole, ne è riscaldato senza che gli sia trasmessa materia calda. Ricevere la forma di qualcosa significherebbe invece, semplicemente, diventare come la cosa riguardo alla forma. Così, riceverla senza la sua materia equivarrebbe a diventarle identici quanto alla forma, ma non alla materia (ossia a esserne coscienti senza un’assimilazione fisica), mentre assumerla con la sua materia implicherebbe un’assimilazione sia in materia sia in forma, ossia un normale mutamento fisico.29
3. L’esistenza di un processo di alterazione fisica nella percezione
Ognuno dei punti su cui si regge l’interpretazione «defisiologizzante» è stato fondatamente contestato. Anzitutto, la fedeltà al pensiero aristotelico originario da parte dei commentatori greci, che per primi la elaborarono, non può considerarsi qualcosa di unanimemente riconosciuto. Piuttosto è rilevabile in essi, secondo Sorabji, l’evidente tendenza a interpretare Aristotele in vista di un’immagine il più possibile coerente del suo pensiero complessivo, e non della fedeltà ai testi. La defisiologizzazione ha quindi avuto luogo per evitare alcune conseguenze contraddittorie, come lo scontro di colori diversi nello stesso luogo, che costituirebbe un’infrazione al principio di non contraddizione.30
Spingendosi oltre nel mostrare la debolezza di fondo dell’interpretazione «defisiologizzante», si potrebbe tuttavia notare, in aggiunta al discorso di Sorabji, che il problema della coincidenza di qualità opposte nello stesso mezzo, pertinente solo per il caso del colore nel trasparente31 e non esplicitamente affrontato da Aristotele, non sarebbe mai stato sollevato se si fossero considerati attentamente alcuni passaggi del De sensu. In quest’opera, infatti, si legge che il colore è il limite del diafano in un corpo definito, che, per essendo posto all’estremità sia nei corpi trasparenti alla maniera dell’acqua e dell’aria, sia in tutti quelli che hanno un colore proprio,32 non è tuttavia, contro i Pitagorici, il limite del corpo, ma nel limite del corpo.33 È plausibile, quindi, che Aristotele si riferisca a tutto ciò quando, cercando di determinare se i movimenti causati dal sensibile nel mezzo (o gli stessi sensibili, nel caso fossero essi a provocare la sensazione) passino prima per il punto di mezzo dell’intermediario (446a 21-23), esclude fin dall’inizio il caso della luce. A giustificazione di questa eccezionalità, il filosofo scrive infatti, in 446b 27-28: τῷ εἶναι γάρ τι φῶς ἐστίν, ἀλλ᾽ οὐ κίνησις. Il senso più convincentemente attribuibile alla frase è che la luce, pur dipendendo dalla presenza di qualcosa, non è un movimento (nel senso ristretto di movimento locale) .34 Fondandosi sul proseguimento del capitolo, è ragionevole sostenere che per il filosofo essa fosse piuttosto un tipo particolare di alterazione.35 Le contraddizioni paventate dai sostenitori della teoria delle forme intenzionali come stato «quasi fisico», quindi, si rivelano solo apparenti, e se resta ancora valido il suggerimento di Burnyeat, secondo cui il mezzo è da considerare un elemento di separazione più che di unione, non c’è dubbio che lo stato della forma nel mezzo è genuinamente fisico. Ciò è confermato, del resto, dal suo essere identico allo stato della forma nell’oggetto originario non solo nel caso del tatto,36 ma pure in quello della vista.37 La possibilità di un confronto sfuma invece per l’odore, dovuto a una sorta di «lavaggio» del secco saporoso nell’aria e nell’acqua (in quanto dotate di una natura «diosmica» analoga a quella del trasparente), e per il suono, che esiste propriamente solo nel mezzo.38 Non è infatti contraria a questo rilievo, a dispetto di quanto potrebbe sembrare, la nota osservazione aristotelica secondo cui se si pone un oggetto direttamente sull’organo non lo si percepisce. Pretendendo di derivare da questa dottrina la necessità di una «de-fisicizzazione» della forma nell’intermediario, diventa difficile comprendere perché tale tesi ricorra proprio nella discussione sul tatto, il cui mezzo è certamente affetto in modo fisico.39 È evidente, al contrario, che l’intermediario non ha il compito di determinare una «de-materializzazione» dell’affezione non solo nel caso dei tangibili, ma pure per ciò che concerne il suono (che esiste solo nell’intermediario) e il colore.40 In questi casi, l’alterazione potrebbe per alcune sue peculiarità dirsi «selettiva» e «non distruttiva», ma non per questo come «quasi corporea». L’eccezione costituita anche in questo caso dai tangibili, tuttavia, mostra che il ruolo degli intermediari non può essere ricondotto, in generale, neppure alla determinazione di questi aspetti dell’affezione.41
La presenza di alterazioni fisiche nella percezione sembrerebbe del resto dimostrata dai capitoli conclusivi del De Motu Animalium (7-11), che ammettono l’esistenza di processi fisiologici concomitanti alle attività psichiche, al fine di spiegare la locomozione degli animali.42 In questo senso sarebbe quindi opportuno intendere l’essere comune al corpo e all’anima dell’attività percettiva, sul quale, all’inizio del De sensu, si modella quello della memoria e di tutte le forme di desiderio, piacere e dolore.43 Se l’essere comune della funzione significasse semplicemente l’avere una qualche condizione materiale necessaria, infatti, anche il pensiero dovrebbe annoverarsi tra le attività comuni, laddove la sua peculiare modalità di essere «non senza il corpo» (cioè l’esser tale in virtù della sua dipendenza dalla φαντασία) è tematizzata espressamente da Aristotele, in 403a 5 ss., in contrapposizione ad affezioni come il coraggio, il desiderio, la collera, in generale la sensazione.44 In II 1, 412b 4-25 il filosofo tratta infatti il rapporto tra anima e corpo alla stregua di una qualunque altra relazione forma-materia, esemplificata da quella tra la cera e la sua conformazione esteriore, laddove l’unità dell’animale e la relazione tra anima e corpo non potrebbero considerarsi tanto ordinarie, se, ammettendo l’inesistenza di qualsivoglia mutamento fisico durante la percezione, la materia procurasse soltanto le condizioni di base per mutamenti che non avverrebbero in essa né per mezzo di essa. Né sarebbe adatta l’analogia dell’anima con l’essenza dell’ascia, in quanto quest’ultima non può fare nulla senza mutamenti materiali. Sarebbe quindi, contrariamente alle parole di Aristotele, più che legittimo chiedersi se l’anima e il corpo formino un’unità, dal momento che, non essendo il corpo operativo nelle attività dell’anima, c’è un senso in cui essi non sono una sola e identica cosa, e la natura della loro unità non è quindi evidente. Le analogie con la cera e con l’ascia sono invece perfettamente adeguate se si ammettono mutamenti fisiologici negli organi corrispondenti a quelli psichici, e ciò vale pure circa la possibilità di rifiutare la domanda sull’unità tra il corpo e all’anima come mal formulata: l’anima non è infatti semplicemente una cosa alloggiata in un corpo, ma le sue attività sono le attività del corpo.45
Del resto, l’organo deve necessariamente subire un’alterazione, data la sua costituzione materiale. Dal momento che gli organi sensori sono generalmente costituiti in modo da essere ricettivi delle rispettive qualità sensibili, e l’affezione è determinata dal mero contatto con ciò che è capace di produrla (cfr. GC 1, 7, 324b 7-9, nonché Metaf. IX, 5, 1048a 5-7), sarebbe ben strano se l’affezione in questione non avesse effettivamente luogo. Ciò significherebbe infatti che gli elementi, entrando a far parte dell’apparato percettivo, perdono inspiegabilmente la loro naturale capacità di essere affetti.46
Se anche si concedesse che il processo cui allude il capitolo II 5 non è identificabile con un’alterazione materiale sottostante alla percezione, pertanto, ciò non implicherebbe che in essa non ha luogo alcun mutamento fisico,47 come è evidente prendendo in considerazione il caso del costruttore.48 Il filosofo riconosce soltanto la possibilità di descrivere, da un certo punto di vista, il passaggio dall’inoperatività all’esercizio della capacità percettiva in modo differente da una normale alterazione, quale è il mutamento tra opposti colori in un corpo determinato. Questo perché nel passaggio non si «diventa altri», ma si sviluppa maggiormente la propria natura, portandola a compimento (ἐντελέχεια, DA, 417b 6), e ha luogo la conservazione e la realizzazione di ciò che è in potenza, non la distruzione della determinazione iniziale (DA, 417 b 3) .49
Una prova stringente dell’esistenza di alterazioni materiali nella percezione, infine, è ricavabile riflettendo sulle implicazioni della dottrina per cui, in seguito ad affezioni prodotte da oggetti particolarmente intensi, i sensori perdono la capacità di percepire.50
Se quindi è ragionevole ritenere che sussistano pochi dubbi circa l’ammissione, da parte del filosofo, di una qualche alterazione fisica nella percezione,51 occorre nondimeno cercare di stabilire qualcosa di più preciso riguardo ad essa, prima di giungere a scorgere nel mancato approfondimento di questo aspetto un pregevole carattere «funzionalista» della teoria di Aristotele.52
4. L’interpretazione fisiologica letterale e i suoi limiti
Secondo l’interpretazione più diffusa e meglio argomentata, l’alterazione fisica che ha luogo nella percezione consisterebbe in un diventare letteralmente identici alla cosa percepita. Vedendo un oggetto rosso, la parte dell’occhio che percepisce diventa fisicamente e realmente rossa.53 In particolare, l’esistenza di un processo di colorazione nella percezione visiva sembrerebbe innegabilmente dimostrabile in base a 423b 27-424b 18. Qui si presenta, come problema specifico del tatto, l’esistenza di una «zona cieca» rispetto a ciò che è caldo, freddo, duro, molle come noi (424a 2-3), motivandolo (διό, 424a 2) con la necessità che ciò che sta per percepire sia inizialmente solo in potenza tale quale l’oggetto è già, e con l’impossibilità che il sensorio sia privo delle qualità che deve percepire (a differenza degli organi della vista e dell’udito, giacché i tangibili sono i caratteri definitori degli elementi sublunari, cfr. 422b 27-29). Per spiegare l’evidenza empirica che non percepiamo se non gli estremi (424a 4), si dice che la sensazione è una medietà (a 4-5), e che proprio come ciò che sta per percepire il bianco e il nero non dev’essere nessuno dei due in atto, ma entrambi in potenza, così il tatto non dev’essere né caldo né freddo, e, presumibilmente, entrambi in potenza (424a 7-10) .54
Non sono mancate tuttavia critiche anche a questa interpretazione,55 e gli stessi suoi sostenitori sono pronti ad ammetterne alcuni limiti e a effettuare precisazioni. Una prima difficoltà56 riguarda la necessità di rispettare il significato di μεσότης (letteralmente «ciò che è nel mezzo») letto in riferimento allo stato di ricettività, giacché è difficile capire come il bulbo oculare, trasparente, possa avere un colore intermedio.57 Problematica è poi, in II 12, la spiegazione della mancanza di percezione delle piante tramite il loro essere prive di μεσότης, che alluderebbe alla costituzione prevalentemente terrosa che le caratterizza.58 La spiegazione di Aristotele, secondo cui un organo terroso è inadatto in quanto il tatto, dovendo essere una medietà tra tutti i tangibili, richiede la ricettività di tutte le qualità tangibili e non solo del freddo e del secco proprie della terra (III 13, 435a 20-b 3), è infatti evidentemente problematica, dal momento che, per l’interpretazione fisiologica letterale, freddo e secco sarebbero proprio ciò che le piante, essendo già tali, non potrebbero percepire.59 La necessità che il sensorio posto nel cuore abbia una temperatura media, in aggiunta, pare difficilmente conciliabile con la dottrina del De iuventute e del De respiratione, secondo cui il cuore, centro del calore vitale, dev’essere refrigerato dall’aria proveniente dall’esterno.60
Come è stato giustamente notato, è tuttavia già assurdo in sé sostenere che la μεσότης sia la proporzione tra gli elementi che compongono un organo, e insieme che l’organo debba letteralmente diventare caldo e freddo. La μεσότης sarebbe infatti, in questo modo, inevitabilmente distrutta.61 Né si può giustificare un’eccezione per l’occhio, adducendo la considerazione che esso riceve il colore in prestito, rimanendo cioè, pur essendo «colorato», trasparente. La condizione di ricettività posta da Aristotele per l’organo della vista è, infatti, l’essere trasparente in potenza (II 7, 419b 27-31), e se esso diventasse, sotto l’effetto della luce, trasparente in atto e quindi affetto per accidente dal colore, perderebbe, come ogni altro organo, la propria condizione di ricettività. L’unico modo di rispettare il requisito della neutralità dello stato iniziale sembrerebbe quello di ipotizzare un suo recupero repentino dopo l’affezione. La percezione verrebbe tuttavia a configurarsi, in questo modo, come una sorta di processo stroboscopico. Per quanto rapido e non avvertibile, esso risulterebbe inconciliabile con la tesi che la percezione è una ἐνέργεια (II5; III 7, 431a 4-8), giacché il termine si applica ad attività che sono per definizione continue (cfr. Metaf. Θ, 6) .62
Gioca evidentemente a sfavore dell’interpretazione fisiologica letterale, poi, l’implicita distinzione tra le qualità sensibili in quanto realmente esistenti e in quanto percepite, rilevabile in alcuni passi di attestanti l’esistenza di un particolare senso, riferito alla sensazione, in cui si è affetti dagli oggetti sensibili.63 Lo stesso Sorabji ammette, inoltre, che la dottrina dell’identità tra l’atto della percezione e quello dell’oggetto (425b 26-426 a 26) riguarda il senso e non l’organo sensorio, e che l’identità in questione è cosa diversa dal semplice diventare simile dell’organo.64 L’alterazione letterale che avverrebbe nell’organo durante la percezione, quindi, non esaurirebbe comunque il discorso nella sua interezza, configurandosi come un aspetto fisiologico cui va affiancato quello «intenzionale».65
Conseguentemente, risulta ancor più difficile comprendere a quale di questi aspetti si riferisca Aristotele in II 12 con la formula «ricevere la forma senza la materia». Essa potrebbe infatti indicare che il processo di assimilazione fisica avviene senza incamerare materia66 o il diventare identico del senso con la forma dell’oggetto, oppure ancora gli aspetti intenzionali e formali della percezione. La ricezione della forma senza la materia, inoltre, potrebbe in linea di principio riferirsi anche allo speciale tipo di alterazione che si ha nel mezzo e nell’organo, recuperando così la lettura del capitolo offerta da Burnyeat, con l’importante precisazione che l’affezione in questione è selettiva e non distruttiva, ma in nessun modo «quasi fisica».67 Nessuna delle considerazioni addotte a sostegno di ciascuna tesi dai diversi interpreti, del resto, sembra decisiva.68 Qualche progresso può invece essere ottenuto prendendo in considerazione il seguito del capitolo, in cui Aristotele si chiede se le forme dei sensibili abbiano come unico effetto quello di produrre la percezione o se invece agiscano in qualche modo anche sui corpi incapaci di percepire (424b 7 ss. ). La continuità del capitolo e la rilevanza dell’aporia, infatti, sembrerebbero richiedere che la ricezione della forma senza la materia non sia peculiarità dell’organo sensorio, discreditando quindi la seconda e la terza delle ipotesi poc’anzi formulate. I sostenitori delle rimanenti esegesi, ricostruendo in maniera sostanzialmente omogenea il passo fino a 424b 16,69 ritengono quindi che si ponga in questa sezione un problema cruciale per la teoria aristotelica della percezione. Per entrambi, infatti, la ricezione della forma senza la materia non è sufficiente, di per sé, a distinguere l’azione dell’odore sull’aria da quella sull’organo capace di odorare, come testimonierebbe la domanda finale «cos’è dunque l’odorare παρὰ l’essere affetto in un certo modo?» (425b 15-16), diversamente interpretabile a seconda del senso attribuito al παρὰ («in opposizione a» ovvero «oltre a») .70
Al di là di queste differenze (davvero sottili una volta accertato che il processo di ricezione della forma senza la materia è comunque fisico), la questione fondamentale messa in gioco è quella della possibilità, per la teoria aristotelica, di distinguere rigorosamente la percezione da un normale caso di ricezione della forma senza la materia (sia che ciò voglia dire «senza inglobare materia», sia che significhi «in maniera selettiva e non distruttiva»). Secondo Burnyeat, tale obiettivo è raggiunto ponendo, in maniera abissalmente distante dal modo di pensare oggigiorno comune, la capacità di percepire come un’explanans, piuttosto che come un explanandum da ridurre a un processo fisico.71 All’opposto, si è ritenuto che la distinzione alluda, in maniera sorprendentemente attuale, all’irriducibilità degli aspetti intenzionali a quelli somatici.72 Non è inoltre mancato chi, scorgendo in questa tesi la difficoltà (se non l’impossibilità) di distinguere il pensiero dalla percezione,73 ha ritenuto le dottrine dello Stagirita sulla percezione un tentativo fallimentare di teoria dell’identità.74
A questo proposito, assai interessante è la posizione di Webb, secondo cui la dottrina aristotelica è una teoria dell’identità che riesce nella distinzione degli eventi fisici che hanno luogo nell’ organo e in un corpo inanimato, senza alcun riferimento ad aspetti intenzionali.75 L’interpretazione, inoltre, offre una diversa comprensione dell’affermazione che il senso è una μεσότης.76 Ciò sarebbe possibile grazie a una ricostruzione dettagliata della fisiologia della percezione di Aristotele, generalmente negletta da parte degli studiosi.77 Innanzitutto, occorre notare che l’organo principale della percezione è localizzato nel cuore,78 e che il mezzo di collegamento con i sensi periferici è lo πνεῦμα mescolato al sangue, contenuto nei vasi sanguigni.79 Più precisamente, lo πνεῦμα e il calore naturale che è in esso presente costituiscono il mezzo materiale dell’organo sensorio primario stesso,80 e sono differenti da quelli esistenti al di fuori del corpo animato.81 Poiché il calore è responsabile della struttura degli organi, e gli organi hanno certi poteri, i quali costituiscono l’anima, il calore, conclude lo studioso, è responsabile della presenza dell’anima.82 La funzione dello πνεῦμα consiste nel trasmettere l’impulso al principio sito nel cuore, in maniera analoga al mezzo esterno. Perché ciò possa avvenire, occorre però che il livello di calore corporeo sia preservato.83 La ragione per cui la speciale forma caratterizzante il sensorio, il τὸ αἰσθητικῷ εἶναι o αἴσθησις (424a 25-28; 426b 8-9), è paragonata a una proporzione (λόγος, 424a 28-32; cfr. 426a 27-b 7), ed è detta una μεσότης tra opposti αἰσθητὰ (424a 2-10, 435a 21-24), poi, va cercata per lo studioso in GA V 1, 779b 34- a 14. La necessità di una determinata simmetria e proporzione tra gli elementi fisici costitutivi dell’occhio che qui si teorizza, infatti, andrebbe estesa a tutti i sensori, e ad essa si alluderebbe nel De anima. In questo modo l’accusa di circolarità in II 12, 424b 16-19 si mostrerebbe del tutto infondata, pur interpretando la ricezione della forma come processo fisico. Il filosofo si riferirebbe implicitamente, infatti, alla necessità di una struttura appropriata nell’organo e a quella di tutto l’apparato (cuore, vene, organi periferici), nonché al calore naturale che è responsabile della conservazione della simmetria negli organi.84
È del tutto evidente, tuttavia, che nella tesi di Webb si ripresenta il problema della perdita della condizione materiale di ricettività dell’organo, inevitabilmente conseguente all’affezione letterale che sostiene sussista in esso.85 Né in realtà l’evento fisico che ha luogo nella percezione è distinto tanto nettamente da un suo analogo in un corpo inanimato. Se da un lato, infatti, sussiste uno speciale calore necessario al mantenimento del sistema percettivo, dall’altro si riconosce che l’acqua di cui è composto l’occhio reagisce esattamente alla stessa maniera del mezzo esterno, e che così avviene pure nell’organo sensorio principale.86 Infine, occorre sottolineare che il passo di GA V 1 difficilmente può ritenersi importante per chiarire in che senso la percezione sia una μεσότης. Lo scuro dell’occhio non è infatti capace di sensazione, e la discussione di GA 779b 34-780 b 1387 sulla densità del liquido che la compone non può in alcun modo, pertanto, chiarire in che senso la parte sensitiva sia λόγος e μεσότης. La distinzione tra lo scuro e la parte dell’occhio con cui si vede, infatti, fa da sfondo alla spiegazione di un fenomeno erroneamente ritenuto prova della sua composizione ignea (437a 22 ss.). Esponendo le proprie argomentazioni al riguardo, Aristotele sembra ammettere una struttura composita dell’occhio, giacché distingue la parte liscia e capace di brillare al buio da quella in cui è localizzata propriamente la capacità di vedere.88 Ciò è confermato nel seguito della trattazione, in cui Aristotele ribadisce che la vista si realizza materialmente nell’acqua, puntualizzando che ciò è dovuto al suo essere trasparente (Sens., 437b 12-15). La ragione per cui la κόρη e l’occhio sono costituiti d’acqua piuttosto che d’aria, poi, risiede nel fatto che quest’elemento può trattenersi e condensarsi più facilmente (Sens., 437b 15-16) .89 Ciò esclude che la vista si produca con la fuoriuscita di qualcosa dall’occhio, sia che questo pervenga fino agli astri sia che si congiunga alla luce esterna (Sens., 437a 27-28). Ciò stabilito, sarebbe un’ingenuità credere che la vista sia il congiungimento della luce con la luce nel principio dell’occhio.90 Una cosa qualsiasi non si congiunge infatti con una cosa qualsiasi, e lo Stagirita può quindi concludere (438b 1-2): «come può congiungersi la luce interna con l’esterna? Infatti la membrana è μεταξύ». Per la funzione esercitata, la parte scura dell’occhio, così come la membrana, è quindi paragonabile all’intermediario esterno: essa è μεταξύ. Questo smentisce la tesi che il vedere consista nella congiunzione tra luce esterna e interna,91 dal momento che la membrana è si trasparente in atto (vale a dire luce), ma non è ciò che vede, né è qualcosa che può permettere l’incontro tra luce esterna e interna. Piuttosto, come l’aria esterna, essendo trasparente in atto ha la funzione di intermediario. Da ciò consegue la necessità che l’interno dell’occhio sia trasparente e ricettivo della luce, ossia, in base a DA, 418b 26-419a 1, buio e trasparente in potenza.92
Se anche si ritenesse che, per Aristotele, l’alterazione somatica percettiva consiste nel diventare letteralmente come la cosa percepita, resterebbero quindi diversi dubbi sulla maniera in cui interpretare II 12: non sarebbe chiaro infatti a quale caratteristica dell’affezione fisica Aristotele si riferisca con «ricevere la forma senza la materia» (il suo essere selettiva e non distruttiva o il suo avvenire senza incamerare materia). Né se, e in che modo, egli riesca a differenziare quest’alterazione, che accade nell’organo sensorio, da quella, fisicamente identica, che avviene in un corpo inanimato. Si é potuta constatare, inoltre, la necessaria perdita delle condizioni di ricettività di un organo sensorio, in seguito al diventare letteralmente simile alla cosa percepita, che minaccia di instillare contraddittorietà nella dottrina. Anche ricostruendo più dettagliatamente il quadro fisiologico, poi, resta alquanto oscura la dottrina per cui la αἴσθησις è μεσότης, e si può piuttosto scorgere un’ulteriore difficoltà nel dover rendere conto della distruzione dell’organo sensorio da parte degli eccessi dei sensibili. Nel quadro dell’interpretazione fisiologica letterale, infatti, sembra impossibile identificare il λόγος che viene distrutto dagli eccessi dei sensibili93 in maniera soddisfacente. Non si può trattare della proporzione tra gli elementi componenti gli organi: se si esclude il caso del tatto, gli altri organi sono infatti interamente costituiti da un unico elemento (per esempio l’aria per l’udito, l’acqua per la vista). Né si può pensare a un riferimento alla distruzione della materia. Infatti (prescindendo ancora una volta dal caso della carne e del tatto), un eccesso di sensibili non distrugge certamente l’aria o l’acqua circostanti che fungono da intermediario, e non c’è quindi motivo di credere che abbia questo effetto sulla materia, identica, dell’organo. Infine, non è praticabile neppure la soluzione per cui ciò che è perso sia la condizione di ricettività dell’organo, dal momento che, nel quadro di questa interpretazione, questo accadrebbe di norma ogni volta che si percepisce.
Potrebbe a questo punto sembrare non del tutto irragionevole, rivalutando il nucleo fondamentale dell’interpretazione di Hamlyn, dare per assodato che la teoria della percezione di Aristotele si regge su due opposte tendenze: da una parte l’individuazione dell’attività di giudizio caratteristica della percezione,94 dall’altra la volontà di presentare la più antica dottrina della sensazione come essere affetti dall’oggetto. L’ambiguità delle formule con cui il filosofo cerca di descriverla come uno speciale modo di essere affetti, come appunto «ricevere la forma senza la materia», non sarebbe quindi che un riflesso delle difficoltà che si genera da questa contraddittoria impostazione.95
5. L’alterazione somatica compensativa della percezione
Prima di accettare definitivamente un simile esito della discussione, vale la pena di considerare quali importanti conseguenze deriverebbero ipotizzando il verificarsi, nel processo percettivo, di una compensazione interna esattamente simmetrica all’affezione esterna, e ad essa sovrapponentesi. Innanzitutto, senza pregiudicare l’intelligibilità di 424a 4 (il motivo per cui non si percepisce ciò che ha lo stesso grado di caldo, freddo, umido, secco, sarebbe chiaramente che non c’è nulla da compensare), la condizione iniziale di ricettività risulterebbe preservata, e sarebbe facilmente comprensibile che è a causa della sua perdita che ha luogo la distruzione dell’organo sensorio da parte degli eccessi dei sensibili.96 Tale ipotesi, del resto, si accorderebbe in maniera sorprendentemente precisa con l’impassibilità che Aristotele assegna in III 4 alla percezione, confrontandola con il pensiero.97 Tale esegesi, poi, non sarebbe ostacolata dalla ripetuta affermazione che l’organo sensorio diventa simile alla cosa percepita, giacché evidentemente diventare simile non equivale a diventare identico. Piuttosto, essa renderebbe assai più agevole comprendere perché la parte sensitiva dell’occhio è detta «in un certo senso» colorata.98 Il ruolo centrale della regione cardiaca, quindi, non consisterebbe nel ricevere la trasmissione di un’affezione subita dall’esterno, bensì nel permanere sempre nella medesima condizione, mutando a tale scopo in modo corrispondente all’affezione incombente sugli organi periferici, e preservando quindi anch’essi con questa azione regolatrice e compensatrice.99 In aggiunta, tale ricostruzione coglierebbe, in maniera esattamente collimante con la ristretta sfera semantica che Aristotele può assegnare a κρίνειν in riferimento alla percezione,100 tanto l’aspetto passivo (lo stimolo ricevuto) della percezione quanto quello attivo (la reazione compensativa). L’uso di questo particolare verbo implica infatti, per la percezione, una caratteristica valenza predicativa, di tipo relazionale e non copulativo. «Discriminare» è cioè un predicato a tre posti (un soggetto discrimina una certa cosa da una certa altra) contraddistinto da simmetria (col discriminare una cosa da un’altra si discrimina automaticamente la seconda alla prima), irriflessività (non ha senso dire che si discrimina una cosa da sè stessa) e a-transitività (il non essere né transitivo né intransitivo) ,101 e tali attributi sono tutti perfettamente rispettati ponendo come termini della discriminazione percettiva le «spinte» compensative effettuate dal principio sensitivo nei due diversi istanti.102 L’ipotesi, infine, porrebbe sotto una nuova luce alcune affermazioni dello Stagirita sparse in diverse opere,103 permettendo di riscoprire l’importante asimmetria, all’interno della teoria aristotelica della locomozione nel De motu animalium, tra le affezioni percettive «neutre» e quelle connotate emotivamente, senza tuttavia negare che nelle prime avvengano processi di alterazione fisica.104
Non sarebbe a questo punto difficile difendere tale esegesi dall’eventuale accusa di essere una mera congettura che, evidenziando alcuni problemi delle esegesi alternative e sfruttando l’ambiguità di certi brani di rilevanza secondaria, si insinua, un pò forzatamente, nelle pieghe del discorso. Chiarito il tipo di meccanismo ipotizzato, infatti, si può notare finalmente il reale significato della nota descrizione della percezione come medietà e proporzione. Aristotele, stabilisce (in II 11, 424a 1 ss. ) che il motivo per cui non percepiamo il duro, il morbido, il caldo e il freddo che abbiano la nostra stessa misura, ma solo quelli che la eccedono (τῶν ὑπερβολῶν), è che la sensazione (αἴσθησις, da intendere come «atto sensitivo», non come «senso» né come «organo sensorio») è una certa medietà dell’opposizione tra i sensibili. Per questo essa discrimina (κρίνει) i sensibili, giacché il medio è atto a discriminare, in quanto viene ad essere, rispetto a ciascuno di essi, l’altro estremo105. Il brano è quindi una esplicita attestazione a favore nel processo fisiologico di compensazione: il sensorio, alla fine del processo, resta in una condizione di ricettività identica a quella in cui si trovava prima di percepire, in virtù della presenza di due affezioni opposte. Proprio per questo essere l’atto sensitivo una sorta di medietà dell’opposizione che si ha tra i sensibili, non si percepisce ciò che ha il nostro stesso grado di temperatura o durezza. Il divenire, di fronte a ciascun sensibile, l’estremo opposto, qualifica ulteriormente il processo, chiarendo che si tratta di un tipo di medietà ben preciso, e spiegando in che senso essa possa dirsi atta a discriminare.106
Similmente, la dottrina di II 12 secondo cui l’atto sensitivo (αἴσθησις) è una proporzione (λόγος),107 non equivale ad altro che a una diversa formulazione dell’essere la sensazione una medietà. La condizione di ricettività viene infatti a trovarsi, rispetto all’intensità dell’alterazione esterna, nel medesimo rapporto in cui si trova rispetto all’intensità della compensazione interna, giacché (essendo la differenza d’intensità che separa la medietà dalle due opposte affezioni identica), l’intensità della prima, commisurata allo stato di ricettività (o stato iniziale), non può che essere pari all’intensità della seconda rispetto allo stesso stato (o, che è lo stesso, allo stato finale).
Adottata questa interpretazione, la formula «ricevere la forma senza la materia», e la relativa illustrazione con il paragone dell’impronta del sigillo sulla cera, possono essere intese come esplicita negazione dell’assimilazione letterale all’oggetto da parte dell’organo sensorio, recuperando, con un significato radicalmente differente, l’interpretazione di Burnyeat (e, prima di lui, di Filopono, Tommaso D’Aquino, Brentano). Ad un attento esame, infatti, anche la lettura finora offerta dell’aporia presentata nella parte finale del capitolo (che imponeva di riferire l’espressione, per ragioni di rilevanza e continuità, a un tipo di affezione possibile anche nei corpi inanimati come gli intermediari esterni), risulta fuorviante. A suggerirlo è un passo di III 12 (434a 29-30), in cui si stabilisce che il tatto non può essere posseduto dagli esseri che hanno il corpo semplice, né da quelli che non sono in grado di ricevere le forme senza la materia. Un corpo fatto unicamente di terra non potrebbe infatti avere la sensazione tattile, giacché essa è una medietà tra i tangibili, e il sensorio deve essere ricettivo non solo delle qualità della terra, ma di tutti tangibili.108 Né l’organo potrebbe essere composto di uno soltanto degli altri elementi, perché sarebbe adatto a percepire solo tramite un intermediario (come avviene per la vista, l’udito, l’olfatto) e quindi per contatto con qualcosa di diverso, mentre il tatto percepisce per contatto con gli oggetti stessi (435a 11-24). Neanche dal punto di vista delle interpretazioni di Sorabji e Burnyeat, quindi, l’espressione «ricevere la forma senza la materia» può descrivere il tipo di affezione che avverrebbe tanto nell’organo quanto nell’intermediario. Se così fosse, dai due criteri posti in 434a 29-30 (non avere un corpo semplice ed essere in grado di ricevere le forme senza la materia) conseguirebbe l’impossibilità di possedere il tatto per qualunque corpo.109
L’analogia della cera esemplifica quindi l’essere non affetto letteralmente dell’organo: come essa, l’organo riceve l’impronta della cosa, ma non le diventa fisicamente identico. Così, nel seguito (a 21-24), l’attestazione che la αἴσθησις è affetta da parte di ciò che ha sapore o suono non in maniera tale da essere detta ciascuno di essi (ἑκάστου ἐκείνων λέγεται), ma in quanto tale (τοιονδὶ), e in maniera conforme alla proporzione (κατὰ τὸν λόγον), riflette quella subito precedente (per cui «la cera riceve l’impronta d’oro e di bronzo, ma non in quanto è oro e bronzo»), aggiungendo un riferimento esplicativo al processo fisiologico di compensazione. Di conseguenza, la spiegazione della mancanza di percezione nelle piante in 424b 2, fondata sulla loro incapacità di ricevere la forma senza la materia, non è una «seconda» motivazione, bensì una diversa espressione per ribadire che le piante non hanno una medietà (424b 1). «Ricevere la forma senza la materia», «avere una medietà», «essere una certa proporzione» vengono a configurarsi, infatti, come descrizioni diverse dell’identico processo.110 Conseguentemente, ipotizzare che Aristotele, chiedendosi se un corpo incapace di percepire possa essere affetto dall’odore, sottintenda «ricevendo la forma senza la materia», diventa non solo non necessario, ma impossibile.111 Piuttosto, ciò che il filosofo si chiede è se può esserci una normale affezione meramente passiva nei corpi inanimati, incapaci di ricezione senza materia, una volta stabilito che l’organo sensorio, a contatto con la forma, la riceve senza la materia (cioè senza mutare, grazie alla compensazione). La risposta non è infatti scontata, giacché qualcuno potrebbe argomentare che se l’oggetto dell’olfatto è l’odore, esso, se produce un effetto, produce l’atto olfattivo (424b 6-7). Che sia proprio questo il problema posto, è confermato dalla conclusione provvisoria tratta immediatamente di seguito: «quindi, tra gli esseri incapaci di percepire gli odori, nessuno è tale da subire l’azione dell’odore (e lo stesso discorso vale per gli altri sensi), e neppure tra quelli capaci, se non in quanto ciascuno è capace di percepire» (424b 7-10). Il fatto che neppure i corpi capaci di percepire possano subire da parte dell’odore, se non nella maniera particolare che ne preserva l’impassibilità, infatti, mostra inequivocabilmente che il tipo di subire in questione è quello normalmente passivo. Lo Stagirita riconosce, inoltre, la possibilità di far valere, come indizio aggiuntivo, l’evidenza per cui sui corpi non agiscono le forme sensibili (la luce, il buio, il suono, l’odore), ma i corpi cui esse ineriscono, così come è l’aria che si accompagna al tuono a spaccare il legno (424b 10-12). A dispetto di questi due argomenti, tuttavia, Aristotele dimostra alla fine che i percepibili possono produrre anche un effetto diverso dal percepire sui corpi inanimati. I tangibili e i sapori esercitano indubbiamente un’azione sui corpi (424b 12-13: altrimenti non si capirebbe da quali agenti essi potrebbero essere alterati), mentre gli altri sensibili affettano perlomeno i corpi indeterminati e instabili (come l’aria, che subisce l’azione dell’odore). Ammessa questa possibilità, lo Stagirita può quindi legittimamente chiedersi: «che cos’è l’esercitare l’odorato in opposizione112 all’essere affetti in un certo modo? ». La risposta è palese: esercitare l’odorato è un percepire (con un rimando al processo di alterazione e compensazione), mentre l’aria, essendo affetta, diventa percepibile. Essendoci due processi di alterazione ben distinti, uno solo passivo, l’altro passivo e compensativo insieme, non è necessario leggere qui un riferimento ad aspetti intenzionali o al possesso dell’anima. La distinzione è infatti possibile già soltanto a livello della descrizione fisica.113
È così eliminata la possibilità di ritenere Aristotele un teorico della percezione «alla Frank Baum»,114 mentre resta teoricamente aperta quella di considerare la sua dottrina come un esempio di teoria dell’identità, dal momento che esiste una profonda differenza tra il comportamento fisico di un corpo capace di percepire e uno che non lo é, pur essendo essi sottoposti allo stesso stimolo. Anche chi volesse abbracciare questa tesi, storicamente piuttosto ardita, dovrebbe tuttavia riconoscere, nello stesso tempo, che la dottrina aristotelica della percezione non può essere ritenuta riduzionista. Innanzitutto, infatti, occorre tenere conto della consueta impostazione ilemorfica del discorso aristotelico, che individua in ogni cosa soggetta ad alterazione un elemento di persistenza.115 Questo elemento, che non può essere materiale (il problema cui si cerca di rispondere è proprio se, e come, possa preservarsi l’identità di una cosa, anche se la materia che lo compone varia continuamente), è rappresentato, nell’individuo vivente, dall’anima.116 Sempre nella stessa direzione anti-riduzionista si possono segnalare, poi, alcuni passi che ammettono la possibilità di realizzazioni corporee variabili della facoltà sensitiva.117
L’aspetto più radicalmente anti-riduzionista implicito nella dottrina aristotelica, tuttavia, è da riscontrare nell’impossibilità che il processo di compensazione abbia luogo senza la capacità percettiva. Se si chiedesse perché gli elementi componenti l’apparato percettivo non si comportano allo stesso modo di quelli esterni, compensando esattamente l’affezione anziché essere normalmente alterati, la risposta non potrebbe che fare appello al possesso dell’anima da parte dei primi. Se anche si costruisse una copia di un animale perfettamente identica all’originale per la proporzione tra gli elementi componenti i vari organi, essa non sarebbe capace di percepire. Gli mancherebbe infatti il principio regolatore che permette al calore un comportamento differente da quello che avrebbe solo in virtù della sua natura, attribuendogli capacità ulteriori. Il calore animato tende, come visto, a conservarsi identico anche in presenza di stimoli contrari (aumentando, diminuendo, dilatandosi, contraendosi). Questo è il punto sul quale la distanza tra le concezioni contemporanee e quella aristotelica si fa incolmabile. In una prospettiva moderna, almeno la spiegazione chimica degli oggetti viventi e non viventi deve ubbidire agli stessi principi. Si potrebbe dire che in Aristotele, invece, esistono due chimiche, quella dell’animato e quella dell’inanimato. Rispetto alla seconda, la prima utilizza un principio ulteriore, incorporeo ma inseparabile dal corpo, che si aggiunge agli elementi e alle mescolanze di essi, ma non è loro riducibile, né gli è «sopravveniente».118 È come se si dicesse, oggi, che una certa molecola (che in una prospettiva aristotelica andrebbe comunque compresa in termini ilemorfici), pur essendo chimicamente identica ad un’altra, presenta comportamenti che la distinguono da essa, perché vi è incorporato un certo qualcosa, immateriale e non comprensibile in termini chimici, che funge da principio regolatore.119 È quindi da ritenere questo il significato autentico della critica all’anima armonia, e in questo frangente si chiarisce perché la teoria aristotelica della percezione non possa essere in alcun modo ritenuta riduzionista.
Questa differenza profonda dal modo di pensare contemporaneo sembra legittimare, su un piano diverso, i dubbi di Burnyeat circa la credibilità di cui una filosofia aristotelica della mente potrebbe oggi godere. Cercare a tutti i costi un confronto, o sforzarsi di comprendere a quale tipo di filosofia della mente possa assimilarsi la teoria della percezione di Aristotele, equivarrebbe a non riconoscerla. È impossibile dire come sarebbero state trattate le attività vitali come la percezione, la nutrizione, la locomozione (accomunate dall’essere esercitabili grazie ad appositi organi), se Aristotele avesse creduto possibile spiegarle solo in base alle proprietà degli elementi costituenti il corpo. Avrebbe egli riconosciuto comunque l’originarietà di alcune facoltà, come la percezione e il desiderio? O le avrebbe ridotte alla fisiologia? Per quanto la plausibilità sul piano storico di siffatte domande sia ovviamente assai dubbia, un indizio verso l’irriducibilità della percezione a prescindere dagli aspetti somatici sarebbe ottenuto se si dimostrasse a loro riguardo l’ammissione, da parte dello Stagirita, di un aspetto ulteriore, paragonabile a nozioni moderne quali quella di coscienza o intenzionalità. Questa è una delle questioni su cui gli studiosi si sono effettivamente interrogati, analizzando alcuni capitoli del De anima (II 6; III 1 — 2). Di essi è ora necessario occuparsi, per completare la ricostruzione della teoria aristotelica della percezione.
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Come osserva giustamente C. H. Kahn, Sensation and consciousness in Aristotle’s psychology, «Archiv für Geschichte der Philosophie» 1966 (48), pp. 43-45. ↩︎
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Fondamentale, per ciò che concerne lo sviluppo storico di queste idee, il contributo di R. Sorabji, From Aristotle to Brentano: the Development of the Concept of Intentionality, «Oxford Studies in Ancient Philosophy», 1991, Suppl.vol., pp.227-259. ↩︎
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Il commentatore nota che la vista non diventa colorata, quindi non funge da materia dei colori. Allo stesso modo, il mezzo trasparente non è cambiato affettivamente (παθητικῶς) e non viene a essere materia dei colori (De anima, p. 62. 1-13 Bruns). Sorabji (op. cit., p. 230) cita inoltre come evidenza della «immaterialità» attribuita da Alessandro alla trasmissione del suono nel mezzo De anima, p. 48. 7-21 Bruns. ↩︎
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In libros Aristotelis De anima paraphrasis 75. 10-19, 79. 29-37. ↩︎
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In de anima, pp. 413. 4; 413. 9-12; 416. 30-34; 432. 32- 433. 11 Hayduck. ↩︎
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Ibid. pp. 334. 38-336. 3; 391. 11-29; 392. 3-19; 438. 6-15. ↩︎
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Sorabji, op.cit., pp. 245-247. ↩︎
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Epitome of Parva Naturalia, pp. 29. 15- 30.28; 31. 45-32. 49 Shields-Blumberg (citato in Sorabji, op.cit., pp. 254-255) ↩︎
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Avicenna Latinus, Liber de Anima, vol. I, p. 2, cap. 2, pp. 115.73-116.81; 116.84-7; 118.6-10; (citati in traduzione inglese da Sorabji, op.cit., p.254). ↩︎
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Alberto Magno, De creaturis, 2, q.34, a.2, xxxv. 300 b Borgnet; De anima, 2. 3. 6, 241a; 2. 3. 25, 278b; 2. 4. 3, 297b Borgnet. Tommaso d’Aquino, In De anima, sez. 284, 418, 493-495. ↩︎
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Cfr. l’utile studio di A. Simmons (Explaining sense perception: a scholastic challenge, «Philosophical Studies», 1994, 73, p. 257-275) sulle interpretazioni della teoria aristotelica della percezione in Rubio, Suarez, e Toledo. ↩︎
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Cfr. F. Brentano, Psicologia dal punto di vista empirico, Roma-Bari, Laterza, 1997, p.155, n. 25. ↩︎
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How much happens when Aristotle sees red and hear middle C? Remarks on De anima 2.7-8. in Essays on Aristotle’s DeAnima. Edited by M.C. Nussbaum and A. O. Rorty, Oxford, Clarendon Press, 1995, pp.421-433. L’interpretazione «defisiologizzante» era stata riproposta, nel secolo scorso, già da J. Barnes (Aristotle’s concept of mind, «Proceedings of the Aristotelian Society» 1971-1972 [72], pp. 106-110). Per quanto inseparabile dal corpo, la percezione non sarebbe identificabile con un processo di alterazione somatica (si sosterrebbe la tesi, suscettibile di una confutazione empirica devastantemente ovvia, che la percezione del verde si identifichi con il diventare verde dell’occhio), né riducibile a esso. In 417b 2-9 Aristotele afferma infatti esplicitamente che la percezione è alterazione e affezione solo in un certo senso. Probabilmente, prosegue Barnes, «ricevere la forma senza la materia» equivale a ricevere la forma senza stare ad essa come materia, e la percezione non risulta così un mutamento puramente fisiologico, in linea con le interpretazioni di Brentano e Filopono. Nella medesima direzione, J. K. Ward (Perception and logos in De anima II,12, «Ancient Philosophy», 1988 [8], pp. 217-226) ha offerto un’approfondita analisi di II 12, 424a 17-32, che, facendo leva sui differenti sensi attribuiti a λόγος nel capitolo, si propone di mostrare che l’effetto dei sensibili sugli organi sensori non necessariamente consiste in un’alterazione fisica. In un primo senso, il termine, riferito alle forme sensibili individuali degli oggetti in quanto proporzioni tra diverse coppie di opposti, esplicherebbe lo ᾖ τοιονδί (424a 24), mentre in un secondo descriverebbe l’equilibrio tra i componenti materiali degli organi sensori, che ne determina in parte la capacità ricettiva e l’estensione percettiva (424a 27-28). Perché sia percepita, la determinata proporzione della qualità sensibile deve ricadere internamente alla sfera percettiva del senso, e pertanto le proporzioni sensibili troppo (o troppo poco) intense non sono percepite e possono distruggere il senso, in quanto la αἴσθησις è, o coinvolge, un λόγος (424a 28-32). Il termine sarebbe evidentemente applicato qui, in una terza accezione, a ogni atto sensitivo, così denominabile in quanto consistente nella ricezione di una proporzione da parte del senso. Poiché le qualità sensibili inerirebbero diversamente all’oggetto sensibile e al sensorio, l’analisi mostrerebbe che i sensori possono incorporare la medesima proporzione astratta che è presente negli oggetti senza un’assimilazione fisica, bensì rappresentando analogicamente il contenuto informativo. Tale capacità dipende certamente, per la studiosa, anche dal possesso di una materia dotata di un particolare bilanciamento tra i componenti, particolarmente complessa e con funzioni altamente sofisticate. La natura della percezione, tuttavia, non può in alcun modo essere spiegata a partire dalla struttura materiale, ma solo in virtù delle capacità funzionali da essa possedute. ↩︎
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Esempi delle condizioni somatiche richieste sono il fluido trasparente nell’occhio (Sens. 2, 438b 5-8) e l’aria immobile imprigionata nell’orecchio (DA II 8, 420a 9-10). Nel caso del tatto si tratterebbe, per lo studioso, di un miscuglio omogeneo, ossia composto in ogni minima parte in modo esattamente uguale all’intero (II 11, 424a 4-10; cfr. PA II 1, 647a 5-24, Sens. 2, 437a 20 ss., DA III 13, 435b 1-3). Aristotele distingue in effetti parti osservabili nell’occhio, ma afferma che la parte sensitiva è al suo interno, interamente composto d’acqua. Similmente, in associazione agli elementi semplici, sono descritti gli altri organi (Sens. 2, 438b 18-22). Questo confuta, quindi, la convinzione di Ward circa la complessità della struttura degli organo sensori (cfr. nota precedente). ↩︎
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Lo Stagirita, nota Burnyeat (op. cit., p. 423), delinea in aggiunta la necessità, per la capacità di percepire, di un sistema di passaggi (πόροι) colleganti gli organi di senso al luogo centrale, in cui si trova la coscienza unitaria di tutti gli oggetti della percezione. Pur nella loro ambiguità, tali passi attestano per Burnyeat che ciò che accade in essi è sempre una continuazione di ciò che accade negli organi di senso (DA III 2, 425b 24-25; 3, 428b 10-14; 429a 4-5; Mem. 1, 450a 24 -b 1; Insomn. 1, 459a 14-22; 459b 3ss). Essi tuttavia, occorre notarlo, si riferiscono in realtà alla φαντασία come persistenza del movimento della sensazione, e nell’ultimo caso, all’influenza della persistenza di una sensazione sulla percezione propriamente detta. ↩︎
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II 7, 418a 31-b 1 (cfr. 419a 9-11: l’essere capace di muovere ciò che è in atto trasparente esprime il che cos’è e del colore). La natura e l’essenza di qualcosa è infatti per Aristotele qualcosa che spiega, ma non deve essere spiegato esso stesso (Analitici posteriori I 4, 73b 16-18; 24, 85b 24-25; Metafisica VIII 17, 1041b 9-33; DA I 1, 402a 7-8; b 25-26). È presumibilmente per questo che Aristotele, in 418a 30-31, afferma che l’oggetto visibile ha in se stesso la causa della sua visibilità: la causa è infatti il colore, in quanto ha da se stesso capace di muovere il trasparente in atto. ↩︎
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Come confermerebbe la critica ad Empedocle in 418b 20. Essa non è neppure un movimento (Sens. 6, 446b 30-31), bensì uno stato o disposizione (ἕξις: 418b 19; III 5, 430a 15), consistente nell’essere attualmente trasparente del mezzo. Anche la condizione posta perché un colore produca il suo effetto sul mezzo non è quindi un processo, ma qualcosa di statico, e neppure lo è la condizione posta per questa condizione. Perché un mezzo si trovi nello stato di trasparenza in atto, in cui consiste la luce, occorre infatti che sia capace di essere trasparente e che sia presente il fuoco (418b 6-20; Sens. 3, 439a 21-27). Il fuoco non ha da compiere quindi, per Burnyeat, alcuna azione, ma deve essere semplicemente presente, perché la natura trasparente del medio realizzi se stessa. ↩︎
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Si sarebbe stabilito, con ciò, che la dottrina della vista di Aristotele non prevede la presenza di un’alterazione fisica nell’occhio. L’occhio potrebbe vedersi colorato solo ponendosi dietro di esso, perché in questo caso l’oggetto colorato sarebbe visto come attraverso il bicchiere pieno d’acqua. Questa è la convinzione di Burnyeat, che ne ravvisa una conferma in 418b 4-6, dove Aristotele stabilisce che trasparente è ciò che è visibile, a rigor di termini, non in sé stesso, ma a causa del colore di qualcos’altro. All’affermazione che la luce è una specie di colore (οἷον χρῶμα, 418b 11) va poi riferito, per lo studioso, Sens. 3, 439a 19-21, in cui si legge che la luce è colore del trasparente per accidente (da ritenersi equivalente al «non per sé» di 418b 5, e in contrasto al «per sé» di a 30). Egli precisa (De Anima II 5, p. 75) che il trasparente preserva la condizione di neutralità e ricettività proprio perché ricade esternamente alla gamma dei colori. Esso non esibisce neppure il tipo di colorazione «imprestata» rilevabile su uno schermo televisivo o sulla superficie del mare, giacché non è possibile vedere attraverso i colori «imprestati» meglio che attraverso quelli inerenti. Sulla stessa linea si muove l’interpretazione di T. K. Johansen (Aristotle on Sense-Organs, 1998, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 120-145), che precisa che l’intermediario ha, sotto l’aspetto causale, solo il compito di colmare la distanza tra l’oggetto sensibile e il sensorio dal punto di vista della continuità, conformemente a Phys. VII, 2, 245a 2-11. A questo alluderebbe DA III, 12, 434b 29-435a 5. Si può quindi dire che la percezione è causata dalla qualità sensibile, e che l’effetto nel mezzo, pur non riducibile a un mutamento solo relazionale (cioè concernente l’attribuibilità di predicati relazionali in ragione di un mutamento occorso in un termine correlato), non può essere descritto che «fenomenicamente», senza cioè prescindere dall’effetto finale sul soggetto che percepisce. ↩︎
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Secondo Aristotele, il contatto diretto tra oggetto e sensorio non produce l’atto sensitivo. In II 7, infatti, ripetuto che essere un colore equivale ad essere capace di cambiare ciò che è attualmente trasparente (419 a 9-10), egli conferma la definizione osservando che un oggetto colorato posto direttamente sull’occhio non è visto (a 11), ed escludendo così la possibilità che il colore sia definibile come ciò che ha la capacità di cambiare l’organo. A questa speciale affezione alluderebbe poi, per Burnyeat, la ricezione della forma senza la materia introdotta in II 12: un oggetto colorato posto direttamente sull’occhio lo affetta come composto della forma con la materia, mentre l’intercessione del mezzo opera la loro separazione, producendo quindi una quasi alterazione. Se il trasparente è colorato in maniera derivata e senza esserlo realmente, infatti, si può dire che la forma sensibile, il colore, è presente nel trasparente in maniera particolare e da sé stessa, vale a dire senza la base materiale cui è unita nell’oggetto colorato. Sarebbe poi proprio la necessità di questa separazione, rileva Burnyeat, la premessa su cui Aristotele prova che l’organo del tatto non è la carne, ma il cuore (cfr. DA II 7, 419a 25-31; II 11, 423b 20-26; inoltre II 9, 421b 17-18; PA II 8, 653b 19-30). ↩︎
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Burnyeat nota che le motivazioni offerte dallo Stagirita per spiegare che l’occhio è necessariamente composto d’acqua sono fondate sulla circostanza che essa è trasparente come il mezzo esterno. Dev’esserci luce all’interno così come all’esterno perché la vista possa avvenire, ma gli elementi trasparenti in potenza sono l’acqua e l’aria, e l’acqua è più facilmente confinabile (Sens. 7, 438a 13-17; b 6-12; PA II 10, 656a 37-b 2). ↩︎
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Questo, per Burnyeat, il senso di II 12, 424b 16-18. Sarebbe infatti estensibile a tutte le affezioni sensitive la considerazione svolta da Aristotele in III 2, secondo cui la risonanza nell’orecchio (ψόφησις) è identica all’ascolto del suono. Si tratta quindi di un unico evento, che ammette però due descrizioni, comunque limitantisi al livello della sola forma. Pur essendo per noi la «vibrazione» in cui consiste il suono nell’orecchio un evento fisico, distinto da quello, mentale, dell’udire, la dottrina aristotelica non può essere ritenuta una teoria della identità del tipo (teorie della mente asserenti l’identità tra un certo tipo di evento fisico nel cervello, e un certo tipo di evento mentale; Cfr. M. Di Francesco, Introduzione alla filosofia della mente, NIS, 1996, pp. 84-88). Il movimento esterno, assimilato a quello interno, non sarebbe infatti, per Burnyeat, di tipo fisico. Aristotele assimilerebbe piuttosto lo stato «intermedio» tra il completamente corporeo e l’incorporeo, proprio della percezione, a quello dell’ottica e dell’armonica (scienze «intermedie» tra la matematica pura e la fisica di ciò che è del tutto corporeo, che al suo tempo godevano, rispetto alla fisiologia, di un maggior prestigio), allo scopo di guadagnare lo spazio per la loro applicazione all’interno della fisica. L’essere «intermedio» della percezione sarebbe ricavabile dal fatto che essa è inclusa, in 403a 5-7, tra le affezioni che richiedono un corpo, ma non nella più ristretta lista delle passioni che necessitano di un processo corporeo concomitante. Interpretando il passo in modo antitetico a quello di Sorabji e di Nussbaum e Putnam, Burnyeat ritiene infatti che in 403a 3 πάθη indichi in senso ampio i συμβεβηκότα, in opposizione al τὸ τί ἐστιν (cfr. 402b 25-403a 2 con 402a 7-10), mentre in 403a 16 essi dipendano dalla distinzione in ἔργα e παθήματα (cfr. a 6-7 e b 12). Conseguentemente, il πάθη λόγοι ἕνυλοί εἰσιν di a 25 non prenderebbe esplicita posizione sugli ἔργα dell’anima. Indicativa della considerazione aristotelica dell’ottica è poi la sua considerazione in opposizione alla geometria, come scienza concernente la linea in quanto fisica (Fisica II 2, 194a 7-12). ↩︎
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Cfr. Burnyeat, op. cit., pp. 429-431. Il suono è un certo movimento dell’aria (428b 11; cfr. 428a 9-11, 21-23) che, si precisa in 419b 34-35, avviene quando essa è mossa come una massa unitaria e continua (così pure per la vista in 419a 14, 435a 5-8). L’aria interposta tra il soggetto che percepisce e l’oggetto che risuona deve permanere (419b 21: ὑπομένης): essa rimbalza e vibra come un unico intero (420a 25-26) e senza essere dispersa (419b 21-22). Nel De sensu (446b 7-10, 447a 3-7), Aristotele ammette poi che il suono impieghi del tempo per giungere all’orecchio. In base a queste descrizioni, e poiché il suono si muove da un luogo all’altro, mentre l’aria no, occorre ammettere, per lo studioso, che esso si muove come un’onda o vibrazione. Poiché ciò che accade all’aria posta all’interno all’orecchio deve essere del tutto simile, essendo la sua natura comune a quella dell’aria esterna (420a 4-5), si comprenderebbe quindi in che senso essa debba essere mantenuta immobile (420a 10), affinché possa ricevere una varietà di movimenti da quella esterna. Ancora una volta, si tratterebbe di uno speciale tipo di alterazione, consistente non tanto in una specie di movimento, quanto nel movimento di una specie (o un quasi movimento), giacché in esso non ha luogo nessun passaggio di un corpo da un luogo ad un altro (Cfr. Fisica III 1, 200b 32-201a 3; V 2, 226a 32-b 1). Ciò varrebbe poi per tutti i sensibili, dal momento che essi non sono corpi, ma affezioni e movimenti di un certo tipo (Sens. 6, 446b 27). Indicativa sarebbe pertanto anche l’analogia con il congelamento di uno stagno, adottata per spiegare che l’affezione richiede tempo per giungere al soggetto (447a 3-7). Il ghiaccio infatti non si «muove» realmente su uno stagno quando questo si gela progressivamente, ma si tratta soltanto di un modo di dire per indicare che l’acqua si congela prima in un punto poi in un altro. L’analogia può quindi applicarsi senza difficoltà ai casi di quasi alterazione dell’’odore e del suono. Esemplare in proposito è la spiegazione di ciò che accade quando una persona non sente completamente le parole pronunciate da un’altra. Ciò accade infatti, per Aristotele, perché queste sono state distorte in qualche luogo dell’aria posta tra esse (in Sens. 6, 446b 7-10). Tale distorsione, descritta nella maniera più significativa come deformazione dell’aria che si muove (μετασχηματίζεσθαι φερόμενον τὸν ἀέρα), interessa semplicemente la forma, e anche la fisica dei suoni di Aristotele sarebbe quindi una fisica delle sole forme, senza processi materiali. ↩︎
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Il paragone (che denoterebbe la collocazione della capacità di effettuare giudizi già a questo livello, con un chiaro intendimento polemico verso il Teeteto, che, ritenendola trascendente rispetto alla percezione, la illustra con la medesima immagine) confermerebbe che non è necessario alcun mutamento somatico perché l’organo sensorio percepisca. Il blocco di cera non diventa infatti circolare come il sigillo che vi marca l’impronta, ma piuttosto registra e mostra un cerchio, cosicché il predicato «circolare» caratterizza non il blocco di cera stesso, ma il contenuto mostrato (Burnyeat, Is an Aristotelian philosophy of mind still credible? A draft, in Essays on Aristotle’s DeAnima. Edited by M. C. Nussbaum and A. O. Rorty, Oxford, Clarendon Press, 1992, pp. 21-22). ↩︎
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M. F. Burnyeat, De Anima II 5, «Phronesis», 2002 (47), 1, pp.47-52. Con l’identità tra patire, essere mossi ed essere in atto (πάσχειν, κινεῖσθαι ed ἐνεργεῖν) di 417a 14-17, Aristotele sosterrebbe implicitamente che esistono solo mutamenti finalizzati a qualcosa di differente da essi stessi. Lo sfondo dottrinale è costituito dalla concezione di atto e potenza di Phys. III 1-3, e l’alterazione è, in quanto movimento (κίνησι<), un tipo di atto caratterizzato dall’essere incompleto, cioè diretto a uno stato finale esterno (417a 17-18; Phys. III 2, 201b 33-35, 202a 9-13; 7, 431a 6-7; VII 5, 257b 8-9). Raggiunto quest’ultimo, il suo essere in potenza tale si esaurisce, e la determinazione iniziale è distrutta e sostituita. Nei capitoli della Fisica non c’è alcun cenno all’esistenza di attività perfette, e il passo del DA che li richiama prescinde quindi della nota e anomala contrapposizione di κίνησι< ed ἐνέργεια esposta in Metafisica IX 6, 1048b 18-35 (ibid., pp. 43-44), pur sottolineando, in 417b 29-418a 1, la possibilità di ulteriori chiarimenti.. ↩︎
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Ibid., pp. 52-57. Sottolineando la necessità di rispettare, in 417a 30-b 1, il participio aoristo ἀλλοιωθείς Burnyeat (ibid., 83-87), rifiuta le integrazioni di Torstrik e Ross, che fanno riferimento al divenire in atto scienziati, e preferisce leggere il passaggio nel modo che segue: «pertanto i primi due sono in potenza conoscenti entrambi, ma il primo <è in potenza> qua1cuno che è stato alterato attraverso l’apprendimento, ossia qualcuno che è mutato più volte dalla condizione contraria, l’altro < è in potenza qualcuno che è stato mutato> in un altro modo, ossia dall’avere scienza dell’aritmetica [accettando la lezione proposta da Ross, contro lo aiòsqhsin dei MSS] e della grammatica senza esercitarle all’attuale esercizio». ↩︎
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Se, infatti, in 417b 5-7 si dice che esso non è alterazione o è un diverso tipo di alterazione, la seconda possibilità è eliminata in 417b 8-9, ponendo come esempio il caso del costruttore quando costruisce, che, attesta II 4, 416b 1-3 deludendo le nostre aspettative moderne, rappresenta un semplice passaggio dall’inattività all’attività (ibid.p.47-60). ↩︎
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Ibid., pp. 57-61, 70-72. L’alterazione non ordinaria teorizzata non può spiegarsi, per Burnyeat (ibid., pp. 28-31), come allusione alla neutralità iniziale dell’organo sensorio (ad esempio, trasparente e rosso non sono contrari), giacché essa compare per la prima volta solo in II 8 (420a9-11) a proposito dell’aria interna all’orecchio, e diventa un tema centrale solo in II 10 (specialmente 424a 7-10). In questa stessa ottica vanno letti, secondo lo studioso (ibid., pp. 80-81), Phys. VII 2, 244b 10-11 e De motu anim., 7, 701b 18-23. Nel primo passo si afferma che i sensi sono in un certo modo alterati, così come le cose inanimate sono riscaldate o raffreddate. Nel secondo, le alterazioni non ordinarie della percezione sono elencate insieme a quelle ordinarie come membri della stessa catena causale che fa capo alla locomozione dell’animale. La trattazione della percezione come alterazione, all’interno della fisica (aristotelica), ha quindi l’ulteriore vantaggio di rendere conto del suo ruolo nel movimento degli animali, rendendo la stessa coscienza percettiva un mutamento fisico (uno dei piccoli mutamenti iniziali che mettono in atto una serie concatenata di altri movimenti nel corpo). ↩︎
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Is an Aristotelian..., p. 19. Così pure Il «diventare simile alla cosa percepita», lo «essere affetto»e «alterato» dell’organo sensorio sono da intendersi in riferimento ad un processo «spirituale», consistente semplicemente nel diventare coscienti della cosa percepita (ibid., pp. 21, 23). ↩︎
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La teoria aristotelica, pertanto, sarebbe oggi del tutto priva di credibilità e improponibile, e non solo per la mancata teorizzazione di un processo di alterazione fisiologica in senso stretto nell’organo. Dal nostro punto di vista, indissolubilmente legato all’impostazione cartesiana, sarebbe infatti inaccettabile ritenere la percezione (e, in generale, fenomeni quali la vita e la coscienza) non come un problema da spiegare, tramite una riduzione al meccanismo determinato e deducibile dalle caratteristiche fisico-chimiche della materia, ma come un dato di fatto rispetto al quale una spiegazione in termini riduzionistici non è richiesta né possibile. Essa è negata anche nelle teorie funzionaliste come quella di Putnam, nota Burnyeat, solo distinguendola dalla deduzione dei fenomeni mentali a partire dalla fisiologia, che è ritenuta invece ancora possibile in linea di principio (Ibid., p. 23). In base all’interpretazione di Burnyeat, si potrebbe quindi ritenere del tutto normale, contro Ward, l’assenza di una qualsiasi spiegazione del perché il senso può ricevere la forma senza la materia, e svanirebbe quindi la necessità di accettare l’interpretazione alternativa proposta dalla studiosa. ↩︎
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Sorabji, op.cit., pp.229, 233-235. A partire da Filopono, si cercava inoltre di evitare di contraddire Categorie 2, 1a 25, inteso come affermazione dell’inseparabilità di un accidente individuale da un soggetto individuale, ad esempio del profumo particolare di Socrate da Socrate. Riguardo alla questione che sorge dall’inseparabilità di un accidente individuale da una sostanza individuale, si può notare anzitutto che essa non sarebbe comunque risolta dall’interpretazione proposta: anche se una qualità individuale avesse un diverso status di realizzazione materiale nel mezzo rispetto a quello pieno che ha nella sostanza individuale, sul piano logico si predicherebbe comunque tale qualità del mezzo oltre che del suo soggetto proprio. Inoltre occorrerebbe dimostrare, prima di asserire la pertinenza stessa del problema, che Aristotele sostenesse che ciò che si percepisce è il profumo di Socrate, e non il profumo dell’aria tra chi percepisce e Socrate. Fortemente indicativa del contrario sembra inoltre l’insistenza sulla necessità di un intermediario, nonché l’aporia presentata in 446b 17 ss.: Solo se sono le affezioni del mezzo a produrre la sensazione è possibile dire che più soggetti percipienti, fisicamente separati, sono alterati da un oggetto fisicamente unico. ↩︎
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Mentre nel medesimo mezzo trasparente sembrano convivere colori opposti senza ostacolarsi né combinarsi, infatti, nel caso del suono e dell’odore, evidentemente, due qualità opposte che condividono lo stesso mezzo si influenzano a vicenda e si mescolano, e non offrono, così, alcuna minaccia al principio di non contraddizione. ↩︎
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439b 10 ss.. Il trasparente, aveva poco prima precisato Aristotele (439a 21-26), non è proprio dell’aria o dell’acqua, ma è comune, in diversi gradi, ai corpi di questo tipo come a tutti gli altri. Esso si trova infatti in misura maggiore o minore in tutti i corpi, e li rende partecipi del colore (439b 8-10). Che i corpi come l’aria e l’acqua non abbiano lo stesso colore quando li si guarda da lontano o da vicino, si spiega, per il filosofo, con il loro essere sostanze indeterminate, a differenza dei corpi (σώματα, termine che Aristotele sembra usare in questa circostanza in contrapposizione a «sostanze indeterminate «), in cui il colore si presenta in maniera determinata (439b 1-6). Per questo, la dottrina che la luce è colore del trasparente per accidente, causata dalla presenza di un corpo igneo in esso, pur essendo ancora corretta, va precisata specificando che ciò accade quando il trasparente in questione sia privo di limiti determinati (439a 18-27). ↩︎
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439 a 30-b 1. Poiché il colore è sempre il limite del trasparente, non è possibile alcuno «scontro» di colori in un punto qualsiasi all’interno del mezzo, né sul limite del trasparente stesso, visto che il colore proprio del corpo e quello (accidentale) dell’aria hanno un loro limite ben distinto. Il bianco dell’uomo bianco è il limite del trasparente del corpo, nel limite del corpo. Il nero dell’uomo nero, «portato» all’uomo bianco dall’aria interposta, è il limite del trasparente dell’aria, esterno al limite del corpo che la delimita (ossia il corpo dell’uomo bianco; l’aria infatti, si è rilevato sul testo, è un corpo in sé stesso indeterminato, e allo stesso modo il trasparente che è in essa). In questo modo è perfettamente plausibile che la paventata coesistenza di colori opposti non avvenga, e che quindi l’ipotesi, del tutto ad hoc, delle forme intenzionali (intese come realizzazione materiale «indebolita») non sia da ritenersi necessaria. ↩︎
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Non sono quindi condivisibili le traduzioni di Laurenti (in Aristotele, Opere, vol. 4: Della generazione e della corruzione; Dell’anima; Piccoli trattati di storia naturale, Laterza, 19944, p. 227.) e Lanza (in Aristotele, Opere biologiche, a cura di D. Lanza e M. Vegetti, UTET, Torino 1971, p. 1109), secondo cui l’eccezionalità della luce rispetto alle altre sensazioni (che sarebbero movimenti anche nel senso più ristretto di traslazione), sarebbe motivata dal suo essere, a differenza del movimento, uno stato dato dalla presenza di un elemento igneo nel trasparente. L’essere dovuta alla presenza di qualcosa e l’essere una ἕξις, tuttavia, non sono caratteri peculiari di ciò che produce la vista, cioè la luce (447a 11). La coppia di nozioni possesso-privazione è applicata mediante un’esplicita analogia con i colori (essi stessi dovuti alla presenza del fuoco nel trasparente in un corpo determinato [439b 8-18]) anche ai sapori in Sens. 4, 442a 25: come il nero è privazione del bianco nel trasparente, così il salato e l’amaro sono la privazione del dolce nell’umido nutritivo (cfr. 441a 5: la natura dell’acqua tende a essere insapore). Ciò è suggerito inoltre da 443a 2, in cui si legge che l’oggetto del gusto è nell’aria e nell’acqua. È molto facile, del resto, intuire il motivo per cui ciò che si trova sempre sul limite dell’intermediario non può, prima di giungere a chi percepisce, passarvi nel mezzo, mentre non lo è affatto doverlo ricondurre alla presenza del fuoco nel trasparente che causa la luce. Accentuando la valenza oppositiva dello «infatti (γάρ)…, ma non ( ἀλλ᾽ οὐ)…» si potrebbe quindi pensare, diversamente, che nella prima parte della frase in esame si esponga una qualche caratteristica che potrebbe portare ad assimilare la luce al movimento, ma che essa non sia tale, lasciando però la spiegazione del perché la luce non possa essere un movimento inespressa. Risulta senz’altro preferibile, pertanto, la traduzione dell’espressione offerta da R. Carbone (in Aristotele, L’anima e il corpo, Milano, Bompiani, 2002, p.115:«vi è luce perché vi è qualcosa, ma non si tratta di un movimento»), che tuttavia ricostruisce poi nel commento in maniera non dissimile da Lanza e Laurenti (ibid., n. 84, pp.300-301). ↩︎
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Aristotele, infatti, prosegue dicendo che le cose non stanno così neppure per la traslazione e l’alterazione in generale (446b 28-29). Tutte le alterazioni infatti possono (ma non necessariamente devono) avvenire istantaneamente, a differenza delle traslazioni, che avvengono invece giungendo dapprima in un punto mediano (Sens. 6, 446b 30-b 12). Ciò esclude che i movimenti impressi nel mezzo dagli altri sensibili siano traslazioni, come sostiene invece Lanza (op. cit., n. 42, p. 1109). Aristotele non avrebbe altrimenti alcun motivo per dilungarsi in queste distinzioni. Si rivolgerebbe inoltre contro di lui l’aporia di 446b 17 ss.: se ad essere percepiti fossero corpi che si spostano sarebbe impossibile che uno stesso oggetto possa dirsi percepito da più soggetti. In questo senso va pertanto riletta l’affermazione che il colore modifica (»muove») il trasparente (DA II 7, 419a 10-15; III 12, 434b 27-29). Il quadro definitivo che risulta dal passo del De sensu, quindi, fa di tutte le affezioni nell’intermediario alterazioni, e non traslazioni. Esse quindi possono, ma non necessariamente devono, avvenire in modo tale da passare attraverso il punto di mezzo dell’intermediario, prima di giungere al soggetto che percepisce. La luce, poi, per la sua peculiarità di essere sempre sul limite del trasparente, si differenzia dalle altre alterazioni, in quanto necessariamente non può avvenire passando dapprima per il punto di mezzo dell’intermediario. ↩︎
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Poiché i tangibili sono le qualità dei corpi in quanto tali, è impossibile che esista un corpo che ne è privo (DA, 423b 26-29, con il relativo rinvio a GC, II, 2-3; cfr. G. Movia, in Aristotele, L’anima, Napoli, Loffredo Editore, 19922, p. 341, n. 5). In realtà, la stessa esistenza di un mezzo sembrerebbe contestabile, essendo in apparenza il tatto dovuto al contatto diretto con l’oggetto. Per Aristotele non può tuttavia ricavarsi da ciò alcun indizio, giacché se si stendesse intorno alla carne una membrana si percepirebbe ugualmente in maniera immediata (e ancor di più se essa fosse congenita), pur non potendosi sostenere evidentemente che essa è il sensorio (432a 1 ss.). Tra due corpi a contatto nell’aria o nell’acqua, tuttavia, c’è sempre acqua o aria, sebbene ciò ci sfugga (423a 25- 423b 8). Propriamente, quindi, la percezione per contatto diretto non esiste, ed è del tutto plausibile che ci sia una membrana congenita che funge da intermediario, non avvertibile al pari della sottile pellicola d’aria che si forma tra la carne e l’oggetto (432b 8-17). Questo ruolo di mediazione è attribuito dal filosofo alla carne, che, composta dalla terra e dagli altri elementi, soddisfa il requisito di solidità necessario per il corpo animato (423a 12-17). L’organo sensorio è invece interno, e si può presumere che si tratti della carne intorno al cuore (423b 23; in PA 647a 19, 656b 34, 656b 24-30 si dice rispettivamente che il sensorio è la carne, che la carne è mezzo, e che la carne è il sensorio oppure il sensorio combinato con il mezzo). ↩︎
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In Sens. 3, 439a 21-25 il trasparente è attribuito, in diversi gradi, a tutti i corpi. Esso determina quindi il colore proprio dell’oggetto, e non c’è motivo di credere che quando il trasparente è di per sé indefinito (ad esempio nel caso dell’aria) e il suo colore (grado di trasparenza) è determinato da altro, si tratti di un tipo di colorazione differente. L’espressione di DA II 7, 417b 4-6 non è quindi una sorta di definizione del trasparente, ma una precisazone del senso ristretto, e a rigore improprio, in cui il termine è impiegato nel capitolo. Il greco διαφανὲς δὲ λέγω ὃ ἐστι μὲν ὁρατὸν, οὐ καθ᾽ αὐτὸ δὲ ὁρατὸν ὡς ἁπλῶς εἴπεῖν, ἀλλὰ δι᾽ ἀλλότριον χρῶμα, pertanto, si può rendere con «dico trasparente quello che è visibile, ma visibile non per sé come a parlare in assoluto, ma per mezzo di un colore estraneo». Non sembrano quindi condivisibili le osservazioni di Johansen (op.cit., p.39, con nota 25), che limita illegittimamente la portata del passo del De Sensu. Diversamente Sorabji (Aristotle on Sensory Process…, pp. 52-53) ipotizza, evidentemente per conciliare le affermazioni sul trasparente di DA II 7 e Sens. 3, che il colore proprio del corpo sia da ricondursi alla proporzione della terra e del fuoco presenti in un corpo. Essa è assunta dalla κόρη in un modo che è nel contempo letterale e «in prestito», analogamente a quanto accade per il mare (cfr. 439b 1-6). ↩︎
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Come opportunamente rileva T. St. Ganson (What’s Wrong with the Aristotelian Theory of Sensible Qualities?, «Phronesis», 1997,42 n. 3, pp. 270-271) e a dispetto della ricostruzione proposta da Johansen (op. cit., pp. 150-153). Si può in ogni caso rilevare, seguendo Sorabji (Aristotle on Sensory Processes…, pp. 54-55), che se anche il suono fosse assimilabile ad un’onda trasmessa nell’intermediario, come vuole Burnyest, esso non soddisferbbe alcuno dei criteri di II 5, in quanto l’affezione nell’intermediario implicherebbe il passaggio tra contrari e la distruzione dello stato precedente. Esso sarebbe «non fisico» solo perché non configurabile come movimento secondo i criteri della Fisica, secondo cui il movimento in senso stretto è quello di un corpo (III 1, 200b 3-201a 3; V 2, 226a 32-b 1). Anche questa possibilità, tuttavia, risulta in constrasto con le parole di Aristotele, che parla del suono come di un movimento dell’aria (DA II, 8, 419b 25-27; Sens,, 6, 446b 9). Per ciò che concerne l’odore, cfr. Sens. 5, 442b 28-443a 3 e le pertinenti osservazioni di Johansen (op.cit., pp.235-236), ↩︎
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Che abbia luogo un’affezione ordinariamente fisica nella carne è ammesso, limitatamente al caldo e al freddo, dallo stesso Johansen, che tuttavia, adottando l’esegesi «spiritualista» o «defisiologizzata» della teoria aristotelica della percezione (op.cit., pp.118-119), non le riconosce alcun ruolo nel processo percettivo (ibid., pp.214-215, 274-280). ↩︎
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Mentre un corpo trasparente definito produce un’affezione sul limite opposto di un corpo trasparente indefinito in atto (di giorno, un oggetto rosso determina la colorazione rossa del limite opposto dell’aria), lo stesso corpo trasparente definito non produce alcuna affezione su un corpo trasparente indefinito in potenza (lo stesso oggetto rosso non determina la colorazione dell’aria di notte). Ora, la parte sensitiva dell’occhio (la κόρη) è, per l’appunto, un corpo trasparente indefinito (è d’acqua) in potenza (418b 26-31), e per questo, non può subire un’affezione da un corpo trasparente definito, fintanto che resta in potenza. Ciò che è capace di produrre un’affezione su un trasparente indefinito in potenza (e quindi sulla κόρη) è un corpo igneo, oppure un altro corpo trasparente indefinito che, già attivato dalla presenza del fuoco e determinato nel colore da un oggetto trasparente definito, trasmette al trasparente in potenza e l’attivazione (illuminazione) e il colore che ha già subìto. Ecco quindi spiegata l’imprescindibilità dell’intermediario, anche nel caso della vista, senza ricorrere ad alcuna funzione «de-materializzante». Ciò è sufficiente a garantire, inoltre, che il colore percepito sia dell’oggetto distante, e non dell’aria che funge da intermediario. Neanche per questo scopo è quindi necessario, contro Johansen (op.cit., p.117), uno stato «quasi fisico» delle forme nel mezzo. ↩︎
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In tutti gli intermediari a eccezione della carne, infatti, ha luogo un passaggio dallo stato di ricettività o capacità di ricevere a quello di ricezione (il trasparente è affetto dal colore in quanto capace di subirne l’azione, ma non ha in se stesso un altro colore che si opponga al primo e sia da esso distrutto), classificabile probabilmente tra le alterazioni descritte in II 5 (non c’è distruzione del contrario, la potenza si preserva e il passaggio è verso una ἕξις, cfr. 417b 2-16). L’organo sensorio presenta poi in tutti i casi una caratteristica comune a quella del mezzo: l’occhio è privo di colore, l’orecchio di suono (cfr. DA, 418b 27). In tal modo, esso è affetto solo dall’alterazione prodotta nel mezzo dall’oggetto, in quanto l’intermediario è identico all’oggetto in tutte le sue caratteristiche, ad eccezione di quella accidentalmente impressagli dal sensibile. Un’alterazione non ordinaria avrebbe così luogo solo nel passaggio dallo stato di assenza della qualità sensibile nell’intermediario a quello della sua presenza a opera di un determinato oggetto. Ciò avviene ad esempio con l’illuminazione, che consiste nell’attivazione del trasparente indeterminato dell’aria (come nel passaggio dalla notte al giorno), ovvero con l’assunzione di un certo odore o suono da parte dell’aria. Lo stesso discorso non vale invece per qualsiasi successivo mutamento della caratteristica sensibile «portata» dall’intermediario, che non potrà che configurarsi secondo lo schema di distruzione della determinazione da parte di quella opposta che vi si sostituisce . Criticabile quindi la posizione di J. M. Magee (Sense Organs and the Activity of Sensation in Aristotle, «Phronesis», 2000 (45), 4., pp. 327-329) che, ritenendo (in virtù di Sens. 446b 27-28 e DA 418b 21-27) l’illuminazione un esempio di alterazione non ordinaria secondo i criteri introdotti in II 5, estende questa caratteristica al caso dei colori nell’intermediario, adducendo a motivazione il fatto che essi non viaggiano attraverso un trasparente indeterminato in atto. Lungi dall’implicare uno stato non fisico tale caratteristica dipende piuttosto, come notato, dal loro giacere tanto nei corpi determinati quanto in quelli indeterminati sul limite del trasparente. Sfuma quindi la possibilità di risolvere il problema della permanenza dello stato di ricettività dei sensori, posto dallo studioso, tramite l’attribuzione delle peculiarità del colore nel trasparente a tutti gli altri sensori (ibid,, p. 319). ↩︎
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Come opportunamente rilevato da Nussbaum e Putnam (Changing Aristotle’s mind, in Essays on Aristotle’s DeAnima. Edited by M. C. Nussbaum and A. O. Rorty, Oxford, Clarendon Press, 1992, pp. 37-41). Il settimo capitolo, in particolare, descrive le varie modalità d’interazione fra le forme di conoscenza (sensazione, immaginazione, intelletto) e desiderio che producono l’azione. Per spiegare come processi psicologici possano produrre il moto del corpo, grosso e pesante, di un animale, si ammette che essi siano cambiamenti fisiologici, consistenti nel riscaldamento e raffreddamento della regione attorno al cuore, causa di altri movimenti all’interno del corpo determinanti infine lo spostamento degli arti. Essi infatti, per quanto piccoli, provocano su grande scala movimenti notevoli nelle altre parti, in maniera simile a ciò che accade per i carretti e i pupazzi meccanici, i cui fili e leve sono paragonati agli ὄργανα degli animali (anche se, in luogo dei semplici meccanismi di spinta e trazione, nelle parti animali si verificano modifiche nella forma e nella grandezza, a causa del raffreddamento e del riscaldamento). Il quadro generale è confermato dai capitoli seguenti. Particolarmente significativo l’ottavo, che ribadisce che certi riscaldamenti e raffreddamenti sono necessariamente concomitanti a certe percezioni, estendendo l’argomento anche alla memoria. In esso si legge inoltre che le parti corporee sono organizzate in maniera tale da avere, per loro natura, la capacità di effettuare tali cambiamenti: la loro attivazione consiste quindi nella realizzazione di una capacità, che è un tipo di mutamento possibile non solo riguardo ai movimenti psicologici, ma anche ai mutamenti materiali (contrariamente a quanto, notano gli studiosi, sembra supporre Burnyeat). In polemica con la tesi per cui Aristotele considererebbe soltanto il desiderio come attività implicante mutamenti somatici, infine, i due studiosi sottolineano la perfetta simmetria con cui, nel De motu animalium, desiderio e percezione sarebbero trattate come attività di coscienza incorporate nella materia. ↩︎
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Con ciò non si indicherebbe, infatti, solamente che tali attività hanno necessarie condizioni di ricettività negli organi sensori (come richiede l’interpretazione di Burnyeat), bensì che il corpo e l’anima sono, nell’esercizio di queste funzioni, attivati insieme. Non sarebbe altrimenti comprensibile come il tatto, costruito come attivazione di una potenzialità, possa dirsi (in 441b 15 ss.) un’affezione nell’umido provocata dal secco (cfr. Nussbaum e Putnam, op.cit., p. 42). ↩︎
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Tutte queste sono dette, poco più avanti, λόγοι ἔνυλοι (forme incorporate nella materia), adeguatamente espresse in definizioni del tipo «un certo movimento di un corpo di un certo tipo, o di una sua parte, o di una particolare facoltà, causato da un certa cosa in vista di un certo fine» (403a 25 ss.). La percezione sarebbe chiaramente inclusa nella trattazione, pur essendo il discorso focalizzato, in a 16-18, su un ristretto numero di affezioni (ira, tenerezza, paura, pietà, coraggio, gioia, amore, odio). Ciò infatti è testimoniato (oltre che dall’essere perfettamente in linea con la dottrina emersa dall’analisi del De motu animalium e dell’inizio del De sensu) dall’uso, in 403a 5-8, di uno schema linguistico («x, y, z e in generale A») che lo Stagirita adotta solitamente per delineare il rapporto di varie specie rispetto a uno stesso genere (Cfr. Metafisica, 1026a 2-3 e l’apertura del De sensu per altri esempi di tale espressione), e che, in questo caso, indica la possibilità di considerare le emozioni come tipi di percezione (Nussbaum- Putnam, op. cit.,pp. 42-45). Il passo si limiterebbe invece soltanto alle emozioni per Barnes, (op. cit., p. 106) e Burnyeat (How Much happens…, p. 433 con n. 38).Quest’ultimo nota che in 403a 5-7 la percezione è inclusa nei πάθη dell’anima, ma, dato il contrasto immediatamente precedente (402b 25-403a 2) tra essenza (τί ἐστιν) e accidenti (συμβεβηκότα) e la chiara equivalenza posta tra πάθη e accidenti (ὅσα συμβέβηκε) in 402a 7-10, essi sono qui da intendersi, generalmente, come attributi. A partire da 403a 16, tuttavia, il termine πάθη, in virtù del contrasto con le attività posto in 403a 6-11, è adoperato nel senso più ristretto di affezioni passive. La percezione non è esplicitamente inclusa tra esse, e in questo stesso senso il termine compare nell’affermazione che i πάθη sono λόγοι ἔνυλοι (403a 25). Replicando a questa ricostruzione, Sorabji (Aristotle on Sensory Processes…, pp. 56-59) sottolinea che Aristotele adopera qui la distinzione tra affezioni e attività piuttosto disinvoltamente, riferendosi con il secondo termine della disgiunzione piuttosto al pensiero che alla percezione. Parlando del percepire in generale insieme a desideri ed emozioni in 403a 7, infatti, il filosofo intende evidentemente alludere a tutte le funzioni percettive, inclusi il senso comune, l’immaginazione, la memoria e i sogni che, nelle altre opere biologiche, sono causalmente fondate sulla percezione (cfr. De motu anim., 6-10, Insomn. 1, Mem. 449b 30-450a 23). Sulla stessa linea Nussbaum e Putnam notano che Aristotele non pone mai in contrapposizione, il lato «emotivo» e quello «cognitivo» del «mentale». Piuttosto, il restringimento alle affezioni «emotive» trova la sua spiegazione nella volontà di ribadire l’applicazione di una dottrina generale a un caso particolarmente controverso e problematico rispetto alla semplice percezione (in EN 1102b 29-1103a 1 si attribuirebbe una partecipazione al λόγος anche alla parte desiderativa dell’anima, e il coinvolgimento dell’opinione nelle emozioni, in Rhet.1385b 13, 1386a 22, le rende meno «comunemente animali» rispetto alla percezione). ↩︎
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Nei luoghi in cui Aristotele esamina il caso del νοῦς, tuttavia, la questione sull’unità e la separazione tra esso e il corpo non solo assume senso, ma è assai rilevante. Essa lo sarebbe anche per la percezione se, come accade nell’interpretazione di Burnyeat, la sua situazione fosse identica a quella del νοῦς, con il corpo a funzionare semplicemente come condizione necessaria, senza eseguire le funzioni. (Nussbaum e Putnam, op. cit., p.45). A riguardo di quest’ultimo punto, Johansen (op. cit., p. 289) obietta che pur in assenza di un processo di alterazione fisica, la situazione della percezione non è comunque assimilabile a quella dell’intelletto, giacché quest’ultimo, a differenza della facoltà percettiva, è del tutto privo di organi specifici. ↩︎
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Everson, op.cit., pp. 84, 86. ↩︎
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Ciò è del resto ammesso dallo stesso Burnyeat (De Anima II 5, pp. 81-83). Che non si tratti in II 5 di un processo materiale sottostante alla percezione, nota lo studioso (ibid., pp. 76-79) è chiaro in base a III 2, 425b 26-426a 26, che riprende in applicazione alla percezione la dottrina di Phys. III 3, secondo cui l’agire e il patire correlativi sono lo stesso evento che ha luogo in chi subisce, descritto da differenti punti di vista. Ciò è inferibile inoltre già dall’affermazione di II 5, 416b 33-34, per cui la percezione è classificabile come un essere mutati e affetti. L’espressione συμβαίνει ἐν ha infatti nel contesto di II 5 questo significato, e non quello di «essere realizzato in», che suggerirebbe che l’alterazione è il processo materiale sottostante alla percezione. Sarebbe privo di senso, nota lo studioso, dire che l’apprendimento è uno speciale tipo di alterazione nel senso che quest’ultima vi si relaziona come la materia alla forma, e che lo stesso vale per la percezione. In maniera identica andrebbe intesa l’asserzione di MA 7, 701b 17-18, per cui le percezioni sono εὐθύς alterazioni di un certo tipo, in contrasto con la parafrasi di Nussbaum e Putnam (Changing Aristotle’s mind, in AA. VV., Essays on Aristotle’s De Anima, cit., p. 39), secondo cui si allude al fatto che le percezioni sono realizzate in un certo tipo di alterazione. Ciò è per Burnyeat sufficiente per mostrare che non esiste alcuna distinzione tra aspetti mentali e materiali, né di conseguenza la possibilità di un’interpretazione funzionalista della teoria aristotelica della percezione. A proposito della lettura di II 5, 416b 33-34, non è difficile scorgere un implicito riferimento polemico di Burnyeat a S. Everson (Aristotle on Perception, 1997, Oxford, Clarendon Press, pp. 94-95), secondo il quale si stabilirebbe qui che la percezione, essendo un’alterazione speciale e «formale» (b 34, ἀλλοίωσίς τις), è anche un’affezione e un’alterazione materiale ordinaria (b 33, κινεῖσθαι). Il motivo di fondo dell’inferenza è espresso, per Everson, in GC I, 7, 323b 25-29: il bianco può essere affetto accidentalmente da una linea solo se quest’ultima si trova a essere nera, perché l’affezione può aver luogo solo se due cose sono o sono composte da contrari. Contro la lettura di Everson si era già espresso Magee (op.cit., pp.316-317), notando che in II 5, 417b 12-22 non si pone un contrasto tra l’alterazione ordinaria dell’organo e quella non ordinaria della facoltà, ma tra il passaggio che avviene, a opera del genitore, da un sensorio in potenza capace di percepire a uno che lo è in atto, e il «mutamento» che ha luogo in chi esercita la capacità che già possiede. Occorre tuttavia notare che, se anche II 5 non allude già al processo «formale» e a quello «materiale» ipotizzati da Everson, ciò ancora non toglie che essi siano effettivamente ammessi, in ultima analisi, dallo Stagirita. ↩︎
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Sorabji, op. cit., pp. 80-81, e Aristotle on Sensory Processes and Intentionality. A Reply to Myles Burnyeat in D. Perler (ed.), Ancient and Medieval Theories of Intentionality, 2001, Leiden, Brill, pp.50-51. ↩︎
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Meno limpida la lettura di DA II, 5 proposta da T. J. Slakey (Aristotle on sense perception, «The Philosophical Review» 1961 (70), p. 469), il quale ritiene sì che l’alterazione percettiva si caratterizzi per il fatto di non comportare la perdita di una qualità, come avviene invece ordinariamente (DA, 417b 7, 417 b 7), ma dubita che ciò detemini una differenziazione sostanziale rispetto ai normali tipi di alterazione, dal momento che avviene comunque l’acquisizione di una qualità. Come rileva opportunamente Everson (op.cit., p.93, con nota 105), Slakey è costretto ad ammettere l’acquisizione di una qualità senza la perdita di quella precedente, pur ritenendo una verità logica che ciò che diventa caldo deve cessare di essere freddo. Tali difficoltà, sottolinea Everson, dipendono dalla convinzione dello studioso che, nella percezione, non ci sia altro che un’alterazione materiale letterale. Come si avrà modo di vedere, il reperimento di oscurità e difficoltà nella dottrina aristotelica è tuttavia funzionale all’interpretazione generale di Slakey, secondo cui la dottrina aristotelica della percezione si risolverebbe in un fallimentare tentativo di spiegazione materialistica. ↩︎
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Cfr. DA II, 12, 424a 28-32; III 2, 426a 27-b 7; 4, 429a 31-b3; 13, 435b 6-16. J. Sisko (Material Alteration and Cognitive Activity in Aristotle’s De Anima, «Phronesis», 1996, 41, 2, pp.144-147) nota che è possibile rendere conto coerentemente della dottrina in questione solo ammettendo l’esistenza di un’alterazione fisica durante la percezione. Che i danni alla capacità di percepire e all’organo siano causati da qualcosa di diverso dai sensibili stessi, così come la rottura del legno lo è non dal tuono ma dall’aria in cui il suono inerisce (II 12, 424b 11-12), è infatti da escludere considerando che, in III 13, 435b 7-12, Aristotele pone un’esplicita distinzione tra la distruzione dell’organo da parte dei sensibili e quella dell’animale a opera dei corpi in cui i sensibili ineriscono (nel qual caso è possibile dire che la distruzione è operata dai sensibili solo per accidente). Né si può dire che a provocare un’alterazione fisica sono solo i percepibili dotati di una particolare intensità. L’intensità dei sensibili che per il filosofo produce impedimenti alla vista, infatti, è relativizzata in GA V 1, 780a 10-13, e Ins. 2, 459b 9-12, che pongono l’esempio di chi non è in grado di vedere passando dalla visione in piena luce a quella in penombra di un luogo chiuso. Evidentemente, i colori visti in piena luce non sono intensi né tali da impedire la visione se rapportati l’uno con l’altro, mentre lo sono in relazione a quelli visti al chiuso. Se si legge ciò nell’ottica di una ricostruzione che non ammette processi materiali di alterazione durante la percezione, si avrebbe l’assurdo di una qualità di una certa intensità che produce un’alterazione materiale su un oggetto in un certo contesto, e non, inspiegabilmente, sul medesimo soggetto in un altro contesto. ↩︎
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Come evidenzia Sorabji, in polemica con Burnyeat, nemmeno l’impiego del paragone con l’impronta sulla cera obbliga a intendere la ricezione delle forme come semplice diventare consapevoli, né a credere che ciò avvenga senza richiedere alcun cambiamento fisiologico. Aristotele adopera infatti lo stesso esempio nel De memoria (1, 450a 27-b 11) in maniera palesemente fisiologica, spiegando i diversi tipi di mancanza di memoria in analogia al carattere difettoso della superficie che riceve le impronte (op. cit., pp. 81-82.). Inoltre, rileva S. M. Cohen (Hylomorfism and functionalism, in Essays on Aristotle’s DeAnima. Edited by M. C. Nussbaum and A. O. Rorty, Oxford, Clarendon Press, 1992, pp. 66-67), la lettura di Burnyeat risolverebbe in una mera tautologia la spiegazione, contenuta in 425b 22-26, della persistenza della percezione al venir meno dell’oggetto. Se la colorazione indicasse semplicemente l’essere coscienti del colore, la persistenza della percezione sarebbe dovuta, per Aristotele, al fatto che si continua ad essere coscienti del colore. Infine, Sorabji (op.cit., p.62) sottolinea, in polemica con Barnes, che la parte dell’occhio interessata dalla colorazione durante l’atto visivo, la κόρη, non è identificabile con la pupilla, bensì col bulbo interno dell’occhio (DA III 7, 431a 17-18; HA I 8, 491b 21; PA II 8, 653b 25), e che per questo la colorazione dell’occhio non è ovviamente smentibile dall’esperienza. La strategia adottata da Sorabji, tuttavia, riconosce all’obiezione di Barnes una plausibilità che forse non è necessario ammettere. Più semplicemente, infatti, si potrebbe sottolineare l’ovvia falsità della critica, dal momento che sulla superficie della pupilla si formano durante la visione immagini colorate, com’è facile accertare rispecchiandosi in quella di chi ci guarda. Tale fenomeno, rileva opportunamnte Johansen (op.cit., p. 45), è descritto nel platonico Alcibiade I (132e 7-133a 3), ed è probabilmente all’origine dello stesso termine κόρη. ↩︎
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Come fanno Nussbaum e Putnam, op.cit., pp. 36-37, 40. ↩︎
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Questa interpretazione è sostenuta da Sorabji, Slakey, Cohen. La ricezione della forma dei percepibili senza la materia, (cui si fa riferimento in 424a 18-19, 424b 2, 429a 15-16, 434a 29-30), equivalente allo «essere affetti dalla forma» (427a 8-9, 424a 23, a 34, b 3), e al diventare identico all’oggetto sensibile da parte dell’organo di senso (417a 20, 418a 3; 9, 422a 7; 11, 423b 28-424a10. 425b 23) alluderebbero quindi a questo processo fisico. Questo varrebbe anche per 425b 22-24, dove ciò che vede sarebbe detto «in un certo senso» colorato solo per via della presenza «in prestito» dei colori nel fluido trasparente dell’occhio, che ne è in sé stesso privo (Sorabji, Ibid., p. 66-67), giacché l’argomento richiederebbe una colorazione tale da renderlo visibile (Slakey, op. cit., p. 474, facendo riferimento a 425b 18-19). Secondo Sorabji, poi, in 427a 8-9 (una cosa indivisibile non può nello stesso tempo essere bianca e nera, e perciò neppure essere affetta dalle forme di questa qualità) il «perciò neppure» non introdurrebbe un secondo processo distinto dalla colorazione (il che comunque darebbe alla colorazione un importante ruolo causale), ma una descrizione ulteriore del medesimo processo. In tutti questi passi, nota infine lo studioso, si pone esplicitamente come soggetto dell’affezione l’organo sensorio, o si ricorre a espressioni facilmente riconducibili ad esso (»ciò che è sul punto di percepire»,»ciò che può percepire»,»ciò che vede»). ↩︎
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Sorabji, Op. cit., p. 69-71 (cfr. pure Slakey, Op. cit., pp. 472-473). Il passo sarebbe decisivo perché l’unica maniera di spiegare il riferimento alla dottrina sugli elementi, e il motivo per cui ciò che deve percepire il bianco e il nero debba essere entrambi potenzialmente, sarebbe quella di riconoscere l’esistenza di un’alterazione letterale. Se si dovesse assumere solo un messaggio in codice, come una vibrazione, non si spiegherebbe la presenza della barriera alla percezione di certe temperature, del tutto intelligibile, invece, se l’organo deve acquisire la temperatura da percepire, giacché esso non può farlo con quella che già possiede. Questo smentisce decisamente l’opinione di D. Glidden (Aristotelian perception and the Hellenistic problem of representation, «Ancient Philosophy», 1984, [4], pp. 119-31), che, partendo dalla descrizione della teoria aristotelica della percezione presente in un passo di Sesto Empirico, parla delle κινήσεις trasportate nel mezzo come di «modelli cinetici», articolabili matematicamente e paragonabili a una forma d’onda o a una vibrazione. ↩︎
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Del tutto inefficace sembra quella di A. Silverman (Color and color-perception in Aristotle’s De anima, «Ancient Philosophy», 1989 [9], n.2, pp.271-292.), basata sulla convinzione che la formula «ricevere la forma senza la materia» descriva la semplice ricezione della proporzione numerica astratta del colore. La materia cui la formula alluderebbe sarebbe la qualità sensibile stessa, e nella visione si riceverebbe quindi la forma del colore senza diventare colorati. Secondo Silverman, poiché occorre rispettare la generale anteriorità dell’atto sulla potenza, nonché quella definizionale degli oggetti rispetto alle facoltà, e preservare nel contempo l’oggettività dei sensibili, la forma ricevuta è accidente necessario del colore. Altrimenti, infatti, dipendendo l’atto primo del colore da quello secondo, e quindi dall’atto secondo della vista (giacché l’ atto secondo della vista è identico a quello del colore), si violerebbe la dipendenza definizionale dell’atto sensitivo dal rispettivo oggetto (preservata, invece, ponendo l’atto secondo del colore come accidente necessario dell’atto primo, giacché l’atto secondo della vista dipenderebbe da quello del colore, senza che nel colore l’atto primo dipenda dal secondo). A questo alluderebbe la ricezione della forma senza materia: poiché il colore è analizzabile ilemorficamente dalla scienza che lo riguarda, e ciò che si riceve è l’atto secondo, la materia che si lascia indietro è il colore stesso (la sua materia prima è la superficie, la sua materia seconda è il colore stesso, dal momento che, per il principio di Ackrill, la materia è indistinguibile dalla sua forma). A invalidare l’interpretazione di Silverman è non solo e non tanto l’evidente congetturalità delle premesse, quanto Aristotele stesso. Il filosofo afferma infatti che la κίνησι<, sia l’azione (ποίησις) che l’affezione (πάθος), sono in ciò che le possiede, e quindi il suono in atto o l’ascolto in atto si trovano in ciò che le possiede in potenza e nel ricevente (2, 426a 2 ss.; II 2, 414b 11-12). È quindi del tutto improprio dire che l’essere percepito sia atto secondo dell’oggetto sensibile, perché l’essere ascoltato del suono, così come l’ascoltare, appartengono a chi percepisce (cfr. L. A. Kosman, Perceiving that we perceive: On the soul III,2, «The Philosophical Review», 1975,84, pp. 513-514). ↩︎
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Sorabji, op. cit., p. 71. ↩︎
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Riconoscendo la difficoltà, Everson (op.cit., p.82, con la nota 79) la ritiene il reale motivo per cui Aristotele parla dei sensori in generale come di «un certo tipo» di medietà. ↩︎
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Come nota Sorabji (op.cit., pp. 72-73) in polemica con Slakey. Per ques’ultimo (op. cit., pp. 475-477) la dichiarazione che la αἴσθησις è una μεσότης (424a 5 ss.), attestando semplicemente la capacità dell’organo di diventare, ad esempio, caldo e freddo, è invece del tutto inadatta a giustificare la mancanza di percezione delle piante, giacché anch’esse possono essere raffreddate e riscaldate. ↩︎
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Secondo Sorabji (Ibid., p. 73), si tratterebbe qui di un’inaccorta espressione del filosofo, o, in alternativa, di un uso insolito di «ricettivo», in riferimento non alle qualità ricevute durante la percezione, ma a quelle caratterizzanti l’organo. Le piante, quindi, non percepirebbero perché il loro ipotetico sensorio sarebbe freddo e secco, mentre dovrebbe essere una mescolanza di caldo, freddo, umido e secco. ↩︎
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Sorabji (ibid., p. 84). Si veda, per conferma, Iuv. 4, 469b 6-20 (per l’importanza del calore vitale nel cuore), 472b 1-5, 472b 34-473a 2; 474a 23-24; 478a 11-25. Lo studioso ritiene però improbabile un conflitto tra le due teorie, e ipotizza che la discrepanza sia sfuggita ad Aristotele così come lo è ai suoi critici e commentatori. ↩︎
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S. A. Freeland, Aristotle on the sense of touch, in Essays on Aristotle’s DeAnima. Edited by M. C. Nussbaum and A. O. Rorty, Oxford, Clarendon Press, 1992, pp. 232-233. Né sarebbe una valida obiezione, prosegue la studiosa, appellarsi all’evidenza di un raffreddamento o riscaldamento superficiale, dal momento che, essendo l’organo interno, si dovrebbe provare che ciò avviene internamente. Non altrettanto efficace pare un’analoga critica mossa da Burnyeat (op. cit., pp. 20-21), incentrata sulla presunta assurdità che una mano diventi morbida quando tocca qualcosa di morbido. Nulla obbliga infatti ad ammettere che ciò sia, in termini aristotelici, impossibile, giacché Aristotele potrebbe avere in mente una letterale ricezione di umidità da parte della carne, essendo per lui il morbido riducibile all’umido (GC II 2, 330a 6-11; cfr. 329b 30-33). ↩︎
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Cfr. Magee, op. cit., pp. 318-319, in polemica con Everson (op.cit., pp. 89-96), secondo il quale già in II 5 si potrebbe leggere una distinzione tra le alterazioni pertinenti la natura materiale, ordinarie e implicanti la distruzione di una determinazione da parte di un’altra a essa contraria, e quelle riguardanti la sola natura formale, che si risolverebbero in un passaggio dalla capacità al suo esercizio. Nel caso della percezione vigerebbe tra i processi un nesso di «sopravenienza» (ibid., pp. 258-275), come testimoniato da Phys. VII, 3, 246b 10-17 (pur non essendo le ἕξεις, in quanto relativi, alterazioni, hanno luogo con alterazioni) e DA I, 1, 403a 19-25 (nell’ammissione che gli stati psicologici possono avere luogo in modo anomalo a causa delle condizioni materiali del soggetto, infatti, è implicito che i primi sono causati anche ordinariamente dalle seconde). ↩︎
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Freeland (op. cit., pp. 246-247) rileva come in PA II 2, in cui si distinguono cinque diversi sensi in cui una cosa può dirsi «più calda» di un’altra, solo uno chiami in causa la sensazione (648b 15-16). In 649b 5-7, il filosofo si mostra poi convinto che questa plurivocità si estenda pure al freddo e, all’inizio del capitolo terzo, anche all’umido e al secco. Essa fa inoltre da sfondo ad un passaggio di Meteorologica IV (385a 1-11), dove si espongono due modi in cui sono distinguibili i corpi omeomeri. In un primo, essi lo sono a seconda dei modi in cui producono sensazioni, ed esempi ne sono il bianco, il dolce, il caldo, il freddo. Un secondo tipo di differenziazione è invece fondato sulle qualità passive, tra le quali si annoverano l’umido e il secco. Se non si ammettesse qui la plurivocità teorizzata espressamente in PA II 2, e si sostenesse poi che nella percezione c’è una vera e propria affezione letterale sugli organi da parte delle qualità sensibili, ne risulterebbe l’impossibilità di percepire qualità come l’umido e il secco, dal momento che esse sono qui classificate come passive in contrapposizione a quelle che agiscono sui sensi. Palesemente, però, per Aristotele umido e secco sono percepibili, ed è quindi implicito il riconoscimento da parte sua di una distinzione tra le qualità sensibili come realmente esistenti, e le qualità sensibili in quanto percepite. ↩︎
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Op. cit., pp. 67-69. A tale dottrina, che rappresenta l’applicazione di una teoria generale (cfr. Fisica III 3), secondo cui due attività, quali l’insegnamento e l’apprendimento, sono un’unica e identica attività risiedente nel paziente, si alluderebbe poi nel confronto tra il pensiero e la sensazione, compiuto in III 8, 431b 28-432a 1. Qui si mette in gioco anche la nozione di forma, ma, nota Sorabji, non quella di ricezione della forma senza la materia, proprio per evitare che si generi confusione tra questa dottrina non fisiologica (secondo cui il pensiero è identico con la forma dell’oggetto) e quella, fisiologica, della ricezione della forma senza la materia. ↩︎
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I due aspetti stanno tra loro, secondo Sorabji, in una relazione di materia a forma. Gli aspetti «formali» o «intenzionali» sono quelli discussi da Aristotele (in II 6 e nel libro III) correlando e distinguendo le varie facoltà. Il filosofo è quindi paragonato da Sorabji a coloro che oggi distinguono il contenuto della percezione e del pensiero, collegando così capacità dello stesso livello, anziché ridurle alla fisiologia, al comportamento, oppure alla funzione (ibid., pp. 59-60). Che esista un aspetto «intenzionale» oltre quello materiale è sostenuto, oltre che da Sorabji, da Nussbaum e Putnam (op. cit., pp. 45-46) e da Cohen (op. cit., p. 61). ↩︎
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In polemica con Burnyeat (op.cit., p.24), Sorabji (op.cit., p.84) obietta che non è inferibile da questa ricostruzione che la forma non è trasportata da alcun veicolo materiale, e che (in base a Sens. 6, 446b 28-476b) per Aristotele è del tutto plausibile che una forma sensibile, collocata in una parte di materia, faccia sì che un altro esemplare di sé appaia in una parte adiacente di materia. Lo studioso ammette invece che il motivo della mancanza di percezione nelle piante è, di conseguenza, il loro essere riscaldate e raffreddate inglobando assieme alla forma la materia dell’agente (Ibid., p. 74). Questa lettura, ripresa da Temistio (op.cit., p. 119 [p. 78 Heinze]) e R. D. Hicks (in Aristotle, De anima, Cambridge, Cambridge University Press 1907, p. 419), è adottata anche da Everson (op.cit., pp.86-89), che spiega che le piante non possono percepire in quanto, essendo terrose (III 13, 435a 20-b 3), sono fredde e secche. L’unico modo in cui una pianta pur restando tale può riscaldarsi, infatti, è quello di ospitare della materia più calda, che rimane tuttavia estranea. Magee (op. cit., pp. 324-326) rileva tuttavia che GC II 3, 330b 20 distingue i corpi semplici ordinari dagli elementi, giacché i primi risultano comunque dalla mescolanza di tutti gli elementi, e quindi possono solo essere aaloghi, non identici ai secondi. La tesi sul riscaldamento tramite accorpamento di materia estranea, continua lo studioso, è poi in contrasto il rifiuto della spiegazione delle alterazioni come assunzione di materia attraverso i pori, effettuata in GC I 8, 326b 21-24. La problematicità di questa ricostruzione era già stata sottolineata, del resto, tanto da Burnyeat (op.cit., p.24) quanto da Cohen (op. cit., p. 67: le piante subirebbero un tipo di alterazione corporea inadatto in quanto prive della giusta temperatura iniziale, posta tra caldo e freddo, necessaria per percepire queste due qualità), osservando che il sole riscalda un albero senza trasmettergli materia calda. Sorabji ribatte che è sufficiente che la tesi, essendo solo un’ipotesi di sostegno elaborata per spiegare la mancanza di sensibilità delle piante, non fosse empiricamente smentibile ai tempi di Aristotele. Piuttosto, egli invita a notare come l’interpretazione di Burnyeat finisca per risolvere quella che Aristotele presenta come una spiegazione in una tautologia. Ciò che viene detto secondo la sua lettura, infatti, è che le piante diventano calde e non diventano coscienti del caldo, senza alcun’altra spiegazione, laddove la terminologia adoperata (424a 32-b 3: διὰ τί, αἴτιον) dimostra chiaramente il contrario (op.cit., pp.74-75). ↩︎
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In modo simile sembra interpretare la formula Everson (op.cit., pp. 100-102), secondo cui il punto che vuole mettersi in luce, tanto con la formula indicata quanto con l’analogia dell’impronta sulla cera, è che l’organo è affetto solo da un certo tipo di qualità, e non è sensibile alle differenti costituzioni materiali. La determinazione che produce l’affezione della vista è il colore, e che esso sia nel bronzo o nel ferro è irrilevante. ↩︎
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Non sono tali, ad esempio, le critiche mosse da Cohen (op. cit., pp. 65-66) alla lettura di Burnyeat dell’analogia dell’impronta sulla cera (secondo cui la materia cui si fa riferimento nell’espressione «ricevere la forma senza la materia» è quella del ricevente, dal momento che essa significherebbe «ricevere la forma senza diventare materialmente come l’oggetto»). Non è infatti problematico ritenere che la formula abbia contemporaneamente, oltre al significato visto, pure quello di «senza assumere materia dell’oggetto», giacché non c’è alcun motivo per cui, sostenendo che la formula si riferisca a qualcosa di diverso dal diventare letteralmente simile, non si possa leggere poi, come conseguenza implicita in essa, l’impossibilità che la ricezione della forma avvenga inglobando la materia dell’oggetto. Va inoltre notato che l’identificazione del soggetto di «ma non in quanto bronzo» nell’anello non è un dato testuale (come sembra credere Cohen), ma un’interpretazione. Si potrebbe infatti sostenere che la cera riceva l’impronta d’oro, ma non in quanto la cera (e non l’anello) è oro, indicando così che la cera non diventa identica all’anello, pur ricevendone la forma. ↩︎
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Secondo la scansione del passaggio proposta da Burnyeat (op. cit., p. 25.), Aristotele partirebbe da una posizione per cui l’unico effetto di una forma percepibile è la percezione: l’odore non ha che l’odorare come effetto. Di ciò sarebbe conferma il fatto che la rottura del legno da parte del tuono è imputabile non al rumore, ma all’aria che si accompagna ad esso (424 b10-12). Tuttavia, egli ammetterebbe poi (b 12) che i tangibili provochino un’affezione sui corpi (a prescindere dalla distinzione tra l’affezione prodotta sui corpi capaci di percepire e quella sui corpi che non lo sono). Inoltre, estenderebbe la possibilità di affezione da parte delle forme percepibili anche ai sensibili distanza: da sé stesse, e non in quanto composti materiali, esse possono agire sui corpi indeterminati, rendendoli percepibili. Secondo Sorabji (op. cit., pp. 76-77) il procedimento sarebbe analogo, in quanto Aristotele muoverebbe, anche per lui, dalla negazione che una qualsiasi azione della sola forma su un corpo possa non essere un caso di percezione, finendo però poi per ammetterlo. ↩︎
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Secondo Sorabji, il filosofo si chiederebbe che cos’è il percepire oltre all’essere effetto dalla forma senza la materia. Per Burnyeat ,invece, egli si interrogherebbe su ciò che distingue l’effetto dell’odore su un corpo capace di percezione da quello su un altro che non lo è (similmente Johansen, op.cit., pp. 274-280). La frase seguente non smentisce questa possibilità, giacché la lezione per cui «l’odorare è anche (καὶ) un percepire» è viziata dall’errato inserimento del καὶ. Come ha dimostrato Kosman (op.cit., pp. 508-511), infatti, nel frammento superstite del passo, testimoniante il testo del secondo libro originariamente contenuto nel manoscritto più autorevole (E, Parisinus Gr. 1853, del X secolo), si legge ὀσμᾶσθαι αι αἰσθάνεσθαι. È quindi facile intuire che il καὶ, che non compare negli altri manoscritti, sia dovuto all’intervento dell’autore della riscrittura contenuta in E a riguardo di quello che, con tutta probabilità, era nella redazione originaria solo un errore di dittografia. A dispetto di queste argomentazioni filologiche, Everson (op.cit., p.130, n.55) ritiene di poter conservare il καὶ, sostenendo che tanto qui che nella Fisica (VII 2, 244b 2- 245a 11) Aristotlele pone come elemento differenziante tra le affezioni percettive e non percettive la coscienza dell’essere affetti, coincidente con la nozione di percepire di percepire esposta in Somn. 2 e DA III 2. Tale differenza sarebbe fondata anche a livello fisico, in ragione della necessità di un collegamento con il cuore, sede della coscienza percettiva (ibid., pp. 74-78, 134-144). ↩︎
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Burnyeat, op. cit., pp. 25-26, 431. L’accettabilità di questa descrizione della situazione filosofica odierna è negata con decisione da Nussbaum e Putnam (op. cit., 47-51). Sarebbe invece filosoficamente plausibile sostenere che nessuno stato fisico o computazionale possa essere identificato con uno stato intenzionale, asserendo invece l’irriducibilità degli aspetti intenzionali a quelli corporei. Inoltre, non essendo possibile neppure esprimere con precisione quanto i vari eventi mentali hanno in comune, andrebbe apprezzata in Aristotele anche la mancanza di un simile tentativo. ↩︎
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Sorabji, op. cit., pp. 208-209, 219. ↩︎
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Pur essendo dichiarato incorporeo in III 4 (429a 18-29), infatti, il pensiero non dovrebbe avere maggiori titoli per aspirare alla incorporeità rispetto alla percezione (interpretando quest’ultima alla maniera di Sorabji), giacché esso è sempre legato a un’immagine (431a 14 ss.), che, in base a 492a 1 ss., richiede la permanenza dell’affezione percettiva (cfr. Slakey, op.cit., pp. 482-484). ↩︎
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Secondo Slakey (op. cit., pp. 478-479. ). Il fallimento sarebbe determinato proprio dalla difficoltà di spiegare in che cosa si distingua il «diventare come la cosa» che è percezione rispetto alla semplice alterazione fisica che non lo è. Aristotele cercherebbe dapprima di esprimere la differenza con oscure formule filosofiche, affermando che il senso è una medietà, che è ricettivo delle forme senza la materia (II 10-11), e ancora, in II 5, distinguendo il carattere non distruttivo dell’alterazione percettiva. Infine non potrebbe fare altro che affermare qui, tautologicamente, che il percepire è il percepire. Non è del resto difficile notare che, una volta ammessa l’esistenza di un evento esterno fisicamente identico a quello che accade nell’organo sensorio, la dottrina di Aristotele non può essere classificata come una teoria dell’identità, dal momento che viene meno qualunque presupposto per sostenere che questo tipo di evento fisico è direttamente identico al tipo di evento mentale della percezione. Diversamente da Burnyeat (op. cit., p. 431), ciò non dipenderebbe dall’essere l’evento, tanto nell’organo, quanto nel mezzo, «quasi fisico», ma dal fatto che tra i due eventi, pur essendo essi fisicamente identici (ed entrambi normalmente fisici), solo uno conterebbe come percezione. Piuttosto ambigua è in proposito la posizione di Kosman. Pur evitando di intendere la coscienza come un qualcosa di aggiunto all’evento fisico (op. cit., pp. 518-519), egli ammette che esiste un identico evento fisico comune a chi percepisce e ai corpi inanimati (ibid., pp. 507-508). La distinzione di quello che accade in chi percepisce, che sarebbe dovuta al suo essere una forma di coscienza (ibid., pp. 511, 519), poggerebbe in ultima analisi sulla capacità posseduta dall’organo. Ciononostante egli non esita alla fine a classificare la concezione di Aristotele come teoria dell’identità (ibid., p. 518). ↩︎
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Ph. Webb, Bodily Structure and physic faculties in Aristotle’s theory of perception, «Hermes», 1982 (110), p. 37, n. 96. ↩︎
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Ibid., p. 37. Anche Webb sembra infatti sottolineare, almeno riguardo al senso del tatto, la difficoltà in cui si cade se si ritiene che ciò si riferisca alla condizione di ricettività dell’organo: se per percepire il caldo o il freddo l’organo deve essere tiepido, allora dovrà essere caldo o freddo per percepire il tiepido (p. 35, n. 89). ↩︎
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Ibid., p. 26. ↩︎
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La tesi di PA 666 a 34-35, per cui esso è il cuore, è solo un riferimento inaccurato alla dottrina per cui esso è nel cuore, testimoniato da numerosi altri passi (Somn. 455b 34-a 6; Iuv. 469a1-b 17; PA 656a 27-28, b 22-27, 665a 10-13, b 25-26 ; GA II 6, 743b 25-26). ↩︎
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Si può escludere che si tratti del sangue dal momento che esso è privo di sensazione (PA 651b 6, 656b 19-22, 666a 16-17, e i più ambigui 650b 3-4 e HA 520b 14-17). Che i canali di trasmissione siano i vasi sanguigni è mostrato dall’analogia tra i movimenti sensitivi distorti nel sonno e i vortici che si formano nei fiumi che scorrono (Insomn. 461a 8 ss.) letta come allusione ai movimenti degli αἰσθήματα nei vasi sanguigni. Sono poi inequivocabilmente essi i collegamenti che, afferma lo Stagirita, possiamo vedere estendersi dagli organi di gusto e tatto (469a 12-14, 656a 29-31, cfr. 743b 37-a 2). ↩︎
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Il calore naturale è infatti un prerequisito per l’animazione, come dimostra l’affermazione (DA II 4, 416b 29) che ogni essere animato è provvisto di calore. L’anima non esiste infatti senza calore naturale (Iuv. 6, 470a 19-20), e la vita e il possesso dell’anima si accompagnano sempre a un certo calore (Resp. 8, 474a 25-26, cfr. b 10-12: l’anima non esiste senza facoltà nutritiva, e questa senza il fuoco naturale). Il calore si trova nel seme e nell’uovo (GA III 1, 751b 6 ; 752a 2-3), e il suo venir meno provoca la vecchiaia e la morte (Iuv. 4, 469b 18; 5, 470a 5-7; 24 [18], 479a 7-20; a 30; GA V 3, 784a 31-34.) Questo calore è concentrato in maniera particolare nel cuore (Iuv. 4, 469b 1-17; 22 [16], 478a 29-30, PA III 7, 670a 23-26). Il calore è tuttavia una qualità, e inerisce quindi a una materia (GA I 6, 322b 16-18). Questa è lo πνεῦμα, come è evidente in GA II 3, 736b 29- 737a 1, dove Aristotele esplica «il cosiddetto caldo» che ha detto presente in tutti i semi, con «lo πνεῦμα … e la natura contenuta nello πνεῦμα». Le due esplicazioni non sono equivalenti, ma si deve ritenere, con Neuhäuser e Balme, che la prima sia corretta dalla seconda. Webb sembra ritenere il calore e lo πνεῦμα alla stregua di due forze contrapposte in equilibrio, spiegando l’uso del termine πνεῦμα in riferimento all’aria fredda inspirata per abbassare la temperatura, innalzatasi a causa della digestione (Somn. 2, 456a 6-11; Iuv. 22 [16], 478a 28-31; PA III 6, 668b 34-a 6; Iuv. 27 [21], 480a 16-18; PA III 10, 672b 17-19) e la necessità di συμμετρία perché la vita abbia luogo e si conservi (GA 777b 27-30; Iuv. 478a 15-17; PA III 10, 672b 14-24). Il sangue e lo πνεῦμα, che hanno nel cuore il loro principio (Somn. 2, 456a 7), sono così responsabili del mantenimento del corretto livello di calore naturale innato posseduto da ciascuna delle parti del corpo (Iuv. 4, 469b 6-8). Il processo di regolazione e mantenimento di questo equilibrio è aiutato dal cervello (PA II 7, 652b 16-30; GA II 6, 743b 26-33), oltre che dai vasi sanguigni che circondano i polmoni (GA II 1, 732b 35-a 1). Le funzioni principali del calore, così regolato dallo πνεῦμα, sono legate alla facoltà nutritiva, che, servendosi del caldo, crea, accresce e conserva gli organi del corpo (GA II 4, 740b 30-33; Iuv 4, 469b11-13; PA II 5, 668a 5 ss. : GA III 1, 751b 1). ↩︎
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Questa volontà di differenziazione, espressa già nell’adozione di termini come φυσικόν o σύμφυτον in connessione al calore (458a 27, 469b 28, 470a 20, 736a 11, 734b 7, 456a 12, 659b 18, 669a 2, 648b 1 ss.. GA V 6, 736a 11), è evidente in tre punti. Anzitutto, lo πνεῦμα interno ha una temperatura definita entro stretti limiti, che, a differenza di quanto accade in un corpo esterno, non oscilla in balìa dell’ambiente circostante. Un secondo aspetto riguarda il fatto che il calore e lo πνεῦμα sono parti di un sistema autosostentantesi. Infine, si può notare la peculiare continuità del calore vitale a partire dal genitore fino al generato, attraverso il seme e l’embrione (GA II 4, 739b 23-25; II 6, 743a 27, 34; 7, 747a 18-19; IV 4, 772a 24). Dal momento che per Aristotele le specie sono eterne, non essendo create né sottoposte a evoluzione, ciò implica che il calore vitale non sia mai stato prodotto dal calore esterno, ma si trasmetta eternamente all’interno della specie di generazione in generazione (il che giustificherebbe l’appellativo di «divino» in 736b 35-36; 737a 1-7). ↩︎
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Ciò è mostrato dall’associazione del calore allo ζωτικὴ/ψυχική ἀρχή (ad esempio in GA II 1, 732a 18-21; 3, 737a 3-6; III 1, 751b 6; 752a 2-3). Attraverso gli organi il calore si mantiene ad un livello corretto e mediante il calore gli organi sono funzionanti. Il fatto che in Iuv. 1, 467b 13-16 si dica che l’anima sta in una parte del corpo (cfr. MA 730a 28-b 2, dove analogamente si legge che, come in una città ben ordinata, ognuno svolge la propria funzione senza la necessità di un sovrano in ogni regione che lo diriga sempre) vuole solo enfatizzare il ruolo del calore regolante rispetto ai poteri dipendenti dalla struttura da esso causata. Coesisterebbero, quindi, due modalità interdipendenti di descrizione della sostanza vivente: quella che nomina le parti corporee, la loro composizione e i loro vari processi, e quella che nomina i poteri che vanno a comporre la ψυχή, anche se la capacità e ciò che la possiede e la fa sorgere non vanno comunque per Aristotele confusi: l’anima non è il calore, ma usa il calore (PA II 7, 652b 7-16). ↩︎
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Cfr. PA II 4, 651a 12-17 (in cui sono esposte le conseguenze negative della differenza di densità, temperatura e purezza di esso sulla sensibilità), 7, 653b 5-8 (il calore del cuore è sensibilissimo e risente immediatamente del movimento del calore che è nel sangue prossimo al cervello) e 10, 656b 15-16, (il movimento del calore che è nel sangue ostacola l’attività percettiva). Secondo lo studioso, inoltre, la ormai nota discussione di Sens. 6 (446a 20-b 12, 446b 27- 447a11), avrebbe come oggetto la velocità di trasmissione nel mezzo, che per lo Stagirita, sarebbe, implicitamente, infinita. Tale sarebbe quindi, ovviamente, anche la velocità sarebbe di trasmissione delle sensazioni nello πνεῦμα riscaldato. ↩︎
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Ibid., n. 96, p. 37. Simile è la proposta di Everson (op.cit., pp. 139-144), che sottolinea che la necessità di un collegamento con il cuore è motivata dalla localizzazione in esso della capacità di percepire di percepire, che equivale, nell’interpretazione adottata dallo studioso, alla coscienza percettiva ↩︎
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Il trasparente è infatti ricettivo del colore non quando è in atto, ma quando è in potenza (418b 28-31), ossia quando è oscuro (b 31-419a 1). L’aria che è incastonata nell’orecchio deve restare immobile (420a 9-11). ↩︎
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Ibid., p. 28. L’esistenza di due identici eventi fisici, di cui uno consiste in una percezione e l’altro no, implica l’impossibilità di inquadrare la concezione di Aristotele come un esempio di teoria dell’identità, contrariamente a quanto dichiarato da Webb. Se poi ci si appellasse alla distinzione vista tra lo speciale calore proprio degli animali e il normale calore esterno (Ibid., p. 31-32), la soluzione non potrà che essere analoga a quella di Burnyeat. Ciò che differenzia i due eventi, fisicamente identici, sarebbe il tipo di corpo (capace o meno di percepire) in cui l’evento fisico avviene. Lo stesso discorso vale per la spiegazione di Freeland (op. cit., pp. 232-234), che allude ad uno speciale tipo di caldo, freddo, umido, secco di cui sarebbe composto l’organo del tatto. ↩︎
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Si noti che l’argomento muta a partire da 780b 13. Si passa infatti della discussione sulla motivazione dei diversi colori degli occhi e della conseguente acutezza relativa alle condizioni di luminosità diurne o notturne, a quella sull’acutezza della vista in assoluto, dovuta, tra le altre cose, alla purezza del liquido della κόρη (e non, si badi, di quella del liquido nello scuro, responsabile invece del colore e dell’acutezza relativa) e al suo essere σύμμετρον al movimento esterno (780b 23-24) ↩︎
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L’apparente sprizzare del fuoco che consegue allo stropicciamento e movimento dell’occhio accade, nota il filosofo, solo al buio e quando l’occhio si muove velocemente, e si deve al fatto che lo scuro, essendo liscio, brilla al buio (437a 24-b 1), mentre la velocità del movimento fa sì che ciò che è visto e ciò che vede siano assieme uno e due , e appaia evidente che ciò che vede e ciò che è visto sono differenti (437b 1-4). In quel caso, come anche nel riflesso, l’occhio vede tuttavia se stesso (437b 9-10). Nonostante sia condivisibile l’impostazione generale di G. E. R. Lloyd (The Empirical Basis of thePhysiology of the Parva Naturalia, in Aristotle on Mind and the Senses, Edited by G. E. R. Lloyd and G. E. L. Owen, London, New York, Cambridge University Press, 1978, pp. 220-221) circa l’uso dell’evidenza anatomica da parte dello Stagirita (il filosofo offre qualche accenno di anatomia solo in maniera funzionale alla risoluzione di problemi specifici), sembra quindi che la struttura dell’occhio teorizzata da Aristotele fosse più complessa di quanto ritiene lo studioso. Il filosofo distingue, certamente, solo tre parti dell’occhio: la κόρη; τὸ μέλαν, posto attorno ad essa, e il bianco, che a sua volta circonda il secondo (HA I 9, 491b 21 ss.; 438a 16, b 16). Si può tuttavia dire, a differenza di Lloyd, che Aristotele abbia riconosciuto approssimativamente la differenza tra la camera anteriore dell’occhio e il liquido in essa contenuto (il nostro umore acqueo, la cui densità, e non la pigmentazione dell’iride, è per Aristotele responsabile del colore dell’occhio), e il bulbo oculare pieno di umore vitreo, alludendovi con la sua distinzione tra lo scuro dell’occhio e la κόρη. A differenza di quanto sembra credere Carbone (op.cit., p. 294, n. 20), quindi, l’identificazione della κόρη nel bulbo oculare non proibisce ad Aristotele di ritenere che essa fosse pure, nel contempo, la pupilla. In questa ricostruzione essa, pur essendo interna, risulta visibile al centro dell’occhio dall’esterno. Il bulbo interno, pieno di fluido scuro, ossia trasparente in potenza, è infatti ricoperto da una membrana trasparente e sormontato da una camera anteriore, piena di un liquido trasparente in atto, la cui quantità e densità determina il colore del’iride. Aristotele non distingue poi, come rileva Lloyd, l’effettiva molteplicità di membrane esistenti intorno al bulbo, ma si può pensare che la membrana della κόρη (cui si riferisce in Sens. 2; cfr. GA V 1, 780a 26 e DA 420a 14 ss.) vada identificata, più che con la cornea (come ritiene Lloyd), indiscriminatamente con tutte le strutture poste tra la camera anteriore e il bulbo oculare (iride, coroide, retina, probabilmente anche il cristallino). Che quest’ultimo sia ciò che intende Aristotele con κόρη è opinione dello stesso Lloyd, op. cit., p. 220. ↩︎
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Che lo siano risulta per lo Stagirita confermato dal fatto che cola acqua dagli occhi che si decompongono, e che tale liquido è negli embrioni estremamente freddo e chiaro. Al mantenimento in questo stato del liquido è finalizzato il bianco dell’occhio, e, negli animali privi di sangue, la pellicola dura (438 a 16-22). ↩︎
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438 a 27-29. Laurenti (op. cit., p. 201, n. 25) riporta la spiegazione in Alessandro di Afrodisia: «vicino o nella pupilla « ↩︎
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A dispetto dell’opinione comune degli studiosi, secondo cui nel passo μεταξύ alluderebbe a una sorta di barriera interposta (cfr. Laurenti, op. cit., p. 201; Lanza, op. cit., p. 1086; Lloyd, op. cit., p. 219; Johansen, op.cit., pp. 58-67; Carbone, op. cit.,pp. 75-76;), pare che la valenza originale del termine possa e debba essere rispettata. Se anche può dirsi che la membrana è una luce interna (essendo trasparente in atto ), infatti, essa non è ciò che vede (438b 8-11: l’anima o la parte sensitiva dell’anima non si trovano sulla superficie dell’occhio, ma all’interno). È certamente vero, ammette Aristotele nel seguito, che non si può vedere senza luce, ma ciò che produce la vista è il movimento nel mezzo. All’interno non si vede senza luce così come all’esterno (438b 2-8). Le parti dell’occhio che sono trasparenti in atto, cioè, svolgono una funzione del tutto analoga a quella del mezzo esterno, ma non è in essa che consiste il vedere, né la capacità di vedere è localizzata in queste parti. Si noti l’analogia con 423a 2 sgg.: se si percepisce tramite una membrana connaturata che funge da mezzo non ci si accorge di ciò. Esattamente questo accade nella vista, dove lo scuro dell’occhio e la membrana della κόρη svolgono proprio questa funzione. Similmente, l’orecchio è per Aristotele costituito da un condotto che porta fino alla membrana, la ἕλιξ, direttamente comunicante con l’aria esterna, che non ha altro compito che quello di continuare l’azione di mediazione. A causa sua, l’orecchio è preservato dalla penetrazione dell’acqua (420a 12-13), e il suono si conserva integro sino all’organo di senso posto internamente (781b 10-15). È quindi chiaro in che senso il risuonare dell’orecchio come un corno (quando lo si copre con una mano, cfr. la nota di Hicks in Aristotle, De anima, cit., p. 381) sia segno che si ode (420a 15-16). Palesemente, a produrre il suono non è il movimento dell’aria innata contenuta nell’organo (essa è immobile, e non può risuonare, 424a 4, 420a 9-11), ma dell’aria nella eòlix, che è a contatto con la membrana dell’organo, e in continuità con l’aria esterna: una volta chiuso questo condotto, che porta all’esterno, ciò che si sente è il suono dell’aria che resta imprigionata in esso; il suono infatti è detto, in 420a 17-18, estraneo, e non proprio dell’orecchio. ↩︎
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Non avvedendosi di ciò, Johansen estende la funzione di intermediario interno alla κόρη e a tutto il al fluido trasparente che si trova nei condotti che fanno capo al cuore. Su alcune conseguenti difficoltà per la teoria della vista e quella della percezione in generale, cfr. R. Grasso - M. Zanatta, La teoria aristotelica della percezione, Milano, Unicopli, 2003, pp. 101-102) ↩︎
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Com’é noto, lo Stagirita afferma che, una volta stabilito che è ciò che percepisce a dover essere una grandezza, e non l’essere della capacità sensitiva (τὸ αἰσθητικῷ εἶναι) né la αἴσθησις (che sono invece un certo λόγος e una δύναμις di quello), è chiaro perché gli eccessi dei sensibili distruggono il sensorio. Infatti viene meno il λόγος, cioè la αἴσθησις, così come l’accordo e il tono delle corde di uno strumento musicale quando esse sono colpite violentemente (II 12, 424a 26-32). ↩︎
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DA II, 418a 4, 422a 21; III 425b 21, 426b 10 ss., 428a 3, 431a 8, 20, 432a 15. ↩︎
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D. W. Hamlyn, Aristotle’s account of aesthesis in the De Anima, Classical Quarterly, 1959 (53), pp. 6-9. Questo non equivarrebbe comunque ad accettarne in toto l’interpretazione. Egli infatti ritiene che l’essere letteralmente affetti da parte dell’oggetto sia plausibile per alcune sensazioni (come tatto, gusto, olfatto), ma non per la vista (ibid., pp. 9, 10). Tale affezione sarebbe dapprima estesa da Aristotele all’udito con l’applicazione indebita di un rilievo logico concernente la facoltà uditiva, (e non il corrispondente organo) nell’asserzione che l’atto della facoltà è identico a quello dell’oggetto sensibile (456b 26ss.). Per Hamlyn è infatti chiaro, dal contesto, che Aristotele intende con ciò stabilire che l’organo dell’udito diventa come l’oggetto (ibid., p. 11). Riguardo alla vista, invece, non ci sarebbe neppure questa possibilità, giacché la nozione del colore (che è l’oggetto della vista) non contiene alcun riferimento alla vista, a differenza di quanto accade per quella del suono (ibid., p. 11). Concludendo, qualunque tentativo di preservare la dottrina della αἴσθησις come affezione o passione fallirebbe, per Hamlyn, perché non è vero in ogni caso che l’organo sensorio diventa come l’oggetto. Tale argomentazione non è evidentemente condivisibile, giacché l’assimilazione del sensorio all’oggetto è evidentemente implausibile per tutti i sensi allo stesso modo, comportando la perdita della condizione di ricettività. Lo Stagirita non ha quindi bisogno di ricorrere (e in effetti non ricorre) all’applicazione indebita della dottrina logica, che riguarda il senso, all’organo sensorio, che andrebbe comunque ritenuta valida per tutti sensi. A sostegno della presunta eccezionalità della vista, infatti, Hamlyn pone (ibid., p. 10) soltanto il riconoscimento, da parte di Aristotele , in, la mancanza di un nome che designi l’atto secondo del colore, a differenza di quanto accade per gli altri oggetti (426a 11). Il riferimento alla percezione corrispondente, poi, è del tutto assente non solo nella nozione del colore. Contrariamente a quanto sostenuto da Hamlyn, infatti, sono i sensi che per essere definiti fanno riferimento agli oggetti, non viceversa (sulla questione si tornerà in maniera più approfondita successivamente). Il significato della dottrina dell’identità dell’atto di senso e sensibile,infine, si applica come notato non al suono in atto (in quanto opposto a quello in potenza) e all’udito in atto, ma all’essere udito del suono (in quanto opposto al suono in atto) e all’udito in atto (e così, in generale, all’essere percepito dell’oggetto e all’atto di percezione). ↩︎
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Un sensibile troppo violento non verrebbe cioè perfettamente compensato, e ciò provocherebbe una (momentanea o permanente) impossibilità di percepire, proprio come accade alla corda della lira, che, se colpita in maniera eccessivamente forte, non ritorna al suo stato iniziale, perdendo così la capacità di produrre il suono. ↩︎
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Il pensiero, se è analogo al percepire, deve essere impassibile, ricettivo della forma e potenzialmente simile, ma non identico (429a 15-18: δυνάμει τοιοῦτον ἀλλὰ μὴ τοῦτο), a essa. Diversamente, non sembrerebbe del tutto chiara l’attribuzione di una certa impassibilità alla percezione, né la sua successiva distinzione da quella del pensiero, in base alla considerazione che non è possibile percepire dopo aver subito l’affezione di un sensibile troppo intenso (429a 29 ss. ). ↩︎
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III 2, 425b 22-25. Nell’ipotesi di Sorabji, invece, la parte dotata della capacità visiva, per essere colorata alla maniera dell’aria esterna, dovrebbe essere trasparente in atto, perdendo quindi la condizione di ricettività, che, notoriamente, consiste nell’essere trasparente in potenza. Contrariamente a quanto consegue alla sua interpretazione, risulterebbe inoltre perfettamente plausibile la distinzione di una peculiare accezione dell’essere colorato, caldo, freddo (etc.) in relazione alla percezione, dal momento che, ad esempio, la sensazione del caldo non consisterebbe nel diventare caldo del sensorio, ma nel compensare il caldo ricevuto dall’esterno, con una diminuzione regolata del calore interno che ha per risultato il suo mantenimento nell’identico grado iniziale. L’esegesi che fa della percezione una compensazione, quindi, non sarebbe scalfita dalle obiezioni sollevate da Freeland in base alla plurivocità delle qualità sensibili attestabile in PA II 2 e Meteorologica IV. Com’è facile notare, in questa interpretazione non si avrebbe poi nessuna perdita di potere esplicativo per quanto concerne la persistenza delle percezioni e delle immagini, giacché a persistere non sarebbe il residuo indebolito dall’affezione prodotta dall’esterno sull’organo, bensì quello compensativo prodotto in risposta ad essa. ↩︎
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Ciò in pieno accordo con la preoccupazione dello Stagirita di assicurare la regione cardiaca il più possibile al riparo da alterazioni. Il calore nel cuore deve essere preservato, giacché al raffredarsi delle altre parti, si può continuare a vivere, mentre se ciò si verifica in esso si va incontro alla morte (Iuv. 469b 6-20; cfr. 478a 15: gli animali dotati di polmone sanguigno abbisognano di un raffreddamento rapido per il piccolo margine di variabilità del fuoco animante [διὰ τὸ μικρὰν εἶναι τὴν ῥοπὴν τοῦ ψυχικοῦ πυρός]). L’influenza della natura del sangue (della sua purezza, densità, temperatura) sulla sensibilità (cfr. per esempio PA II 4, 651a 12-17) non ha quindi la sua ragion d’essere, come crede Webb, nella necessità di trasmettere senza distorsioni l’affezione dall’organo periferico a quello centrale, bensì, inversamente, in quella di trasmettere l’affezione compensativa dal principio nel cuore agli organi periferici. In alternativa, Aristotele potrebbe alludere semplicemente alla possibilità di percezioni fallaci, in quanto un’impurità o una variazione di condizioni nel sangue scatenerebbero immediatamente una reazione di compensazione, cioè una percezione, che, data l’assenza di un oggetto esterno, risulterebbe ingannevole. Il calore nel cuore, che è principio συμπαθέστατον, produce infatti una sensazione non appena si verifica una qualche affezione o mutamento nel sangue intorno al cervello, e per questo il suo corretto funzionamento è della massima importanza, e una sua eccessiva secchezza o umidità provocano malattia, stati di delirio (παρανοίας) e morte (PA II 7, 653b 5-8.). Si spiega quindi perché il movimento del calore del sangue ostacola la percezione, e la necessità che i sensi più acuti siano localizzati nella testa, dove il sangue è più puro (II 10, 656b 1-6). Posto questo meccanismo fisiologico compensativo centralizzato, diventerebbe chiaro, poi, che motivo della collocazione interna del sensorio del tatto (con la carne superficiale a fungere da semplice intermediario) non è solo il desiderio di un’analogia, piuttosto forzata, con i sensi a distanza. Piuttosto, nell’identificazione del sensorio del tatto, giocherebbe un ruolo decisivo l’idea che il sensorio deve essere atto a compensare l’affezione restando ultimamente identico, unita alla necessità di riconoscere l’evidenza di un riscaldamento o raffreddamento della carne in superficie. ↩︎
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Cfr. Th. Ebert, Aristotle on what is done in perceiving, «Zeitschrift für Philosophische Forschung», 1983(37), pp. 181-198. Distinti chiaramente i significati comuni di «discriminare» e «giudicare», lo studioso denuncia la pratica dei traduttori di Aristotele, tanto comune quanto erronea, di ritenerli interscambiabili, rilevando in aggiunta che, all’epoca in cui scrive lo Stagirita, l’unico senso in cui κρίνειν vale come «giudicare» non è legato al significato grammaticale e logico di «effettuare giudizi», ma unicamente a quello giuridico di «decidere». Basandosi su rigorosi indizi grammaticali, egli stabilisce che Aristotele, nel De anima e nei Parva Naturalia, usa il termine e i suoi derivati sempre nel senso di discriminare, con sole quattro eccezioni (Insomn. 2, 460b 22 [se non si ha nessun altro senso, si decide/giudica che uno è due], 3, 461a 25 [dove si riferisce al processo fisiologico di redistribuzione del sangue durante il sonno], DA I 2, 405b 8 [in cui κριτής è adoperato nel senso di «sostenitore»] e 418a 14-16 [ogni senso decide sul rispettivo sensibile proprio, alludendo all’autorità assoluta di ciascun senso sui rispettivi sensibili propri]). ↩︎
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Ibid., pp. 190-193. ↩︎
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Per esempio, la percezione del caldo nell’istante «t1» consisterebbe nel discriminare la quantità di calore necessaria, nell’istante «t0», a mantenere l’apparato percettivo alla temperatura «n», da quella necessaria per lo stesso scopo nell’istante «t1» (cioè nel momento in cui si presenta ad un organo periferico un riscaldamento esterno). Queste stesse caratteristiche generano invece diverse difficoltà se si sostiene, con Ebert, che i termini siano gli oggetti stessi. Ritenendo che recepire un colore significhi discriminare un colore da un altro, si avranno infatti due possibilità: o in ogni atto discriminativo si ha la simultanea percezione di due colori, oppure un colore sarà percepito in virtù della sua differenziazione da un altro, che lo è stato in un istante precedente. Entrambe le opzioni sono però impraticabili dal punto di vista di Aristotele. La seconda è destinata a un regresso all’infinito, perché diventa impossibile incontrare un primo oggetto sensibile che non sia stato, esso stesso, percepito per discriminazione da un altro precedente. La prima si scontra, invece, contro la convinzione dell’impossibilità di percepire simultaneamente due oggetti della stessa specie, esplicitamente asserita in Sens. 7, 448b 17- 469a 20, e in DA III 2, 426b 31- 427a 14 (cfr. specialmente 427a 7-9). ↩︎
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L’affermazione che quando si muove l’aria esterna all’orecchio, si muove anche quella interna (420a 5), potrebbe infatti essere facilmente ricompresa come allusione al movimento di compensazione interno, parallelo a quello esterno (cfr. pure Mem. 2, 425b 9-15, dove si allude a un movimento proporzionato [ἀνάλογον] alle cose esterne, tramite cui esse sono discriminate, nonché GA 780b 23-24, secondo cui il liquido della κόρη deve essere, per percepire acutamente, σύμμετρον al movimento esterno). Un altro luogo che verrebbe ad assumere un diverso profilo, qualora lo si affrontasse nelle linee di questa interpretazione, sarebbe poi 469a 14-16. Il testo (ἐν τούτῳ μὲν γὰρ τοῖς ἀλλοις αἰσθητηρίοις) non potrebbe che essere riferito, infatti, al processo di compensazione che ha nel cuore il suo principio, che termina agli organi periferici. Di notevole importanza, inoltre, si rivelerebbe l’attestazione, in Insomn. 459b23-26 (di paternità aristotelica, per quanto confinante con un passo di autenticità assai dubbia, cfr. Vegetti, op. cit., nn. 6-7, pp.1165-1167) che il sensorio dei colori non solo patisce (πάσχει), ma pure reagisce (ἀντιποιεῖ). In quest’ottica può essere letta anche la tesi, contenuta in Phys. VII 2, 244b 2- 245a 11, secondo cui le parti dotate della capacità percettiva e quelle che non lo sono, sono alterate in maniera differente, che Everson (op.cit., pp.134-144) annovera tra le prove a favore dell’esegesi letteralista. Solo apparentemente problematico è, infine, 461a 30ss.. La tesi per cui «si crede da svegli di vedere, udire, percepire per il giungere di un movimento dai sensori verso il principio», è infatti da ritenere il primo di una serie di esempi in cui si è indotti a credere qualcosa di ingannevole, a causa della generale tendenza della ἀρχή (il principio) della sensazione ad affermare sempre la provenienza dei movimenti dai sensori periferici (τὸ ἀφ᾽ ἑκάστης, letto come «il [provenire] da ciascuno [dei sensori periferici]»), se un’altra più autorevole non dice il contrario. Similmente accade quando diciamo di vedere perché crediamo che la vista sia stata stimolata, non essendolo stata, o quando crediamo che un oggetto sia due in quanto il tatto annuncia due movimenti (461b 1-3). Nell’interpretazione che si sta proponendo, infatti, i movimenti sensitivi «viaggiano» dagli organi periferici al cuore, conformemente al contesto, soltanto durante il sonno, quando le κινήσεις αἱ ἀπὸ τῶν αἰθημάτων γινόμεναι possono giungere fino al principio posto in esso e produrre così i sogni (460b 28- 461a 35). Ciò non avviene durante la veglia, in cui una contro-affezione parte dall’organo centrale e giunge a quello periferico, preservando dall’affezione l’intero apparato. Coerente è quindi la conclusione in 461b 5-7: qualcosa appare sempre, ma non sempre si crede a ciò che appare, a meno che non sia trattenuto e non si muova del suo movimento τὸ ἐπικρίνον (da riferire probabilmente all’intelligenza, che determina una credenza contraria a quella verso cui si è portati sulla scorta della sola sensazione.). ↩︎
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Burnyeat (De Anima II 5, p. 80, con la nota 138), in polemica con Nussbaum e Putnam (pp. 38, 41), nota che la distinzione tra aspetto emotivo e cognitivo è attestata, oltre che in DA II 9, 421a 7-16; III 7, 431a 8-17, in MA 701b 18-23. Il passo, secondo la lezione tradizionale, include il pensiero del caldo o del freddo tra le possibili cause delle alterazioni corporee, e l’eliminazione «caldo o freddo» operata da Nussbaum in b 20 non ha per Burnyeat una motivazione plausibile. Egli sottolinea che se è vero che caldo e freddo, come sostiene la studiosa, non hanno per Aristotele alcun potere motivazionale in sé stessi, si può notare che il passo specifica che il pensiero del caldo e del freddo che sono rilevanti sono quelli che risultano piacevoli o dolorosi per il soggetto che pensa. Si può aggiungere, del resto, che in 701b 13-32 Aristotele parla di leggere variazioni della temperatura del cuore cui conseguono, nelle altre parti del corpo, fenomeni considerevoli ed evidenti (come tremori, rossori, pallori), e giacché palesemente le conseguenze denunciate non hanno luogo nel caso di percezioni, immagini e pensieri «neutri», non sono questi l’oggetto della trattazione. In tutta esplicitezza Aristotele scrive, subito di seguito al testo analizzato: «dunque, come detto, principio del movimento è il perseguibile e l’evitabile nell’azione: necessariamente al pensiero e all’immaginazione di essi conseguono riscaldamenti e raffreddamenti» (701b 33-35). Da una parte, continua il filosofo, il doloroso è l’evitabile e il piacevole il perseguibile, dall’altra quasi tutte le cose dolorose o piacevoli si accompagnano a raffreddamenti o riscaldamenti. Cio è chiaro, conclude lo Stagirita, dalle passioni: audacie, paure, voluttà, si accompagnano a raffreddamenti e riscaldamenti, alcune in alcune parti, altre in tutto il corpo (701b 35-702a 5). Con molta cautela deve leggersi quindi PA III 4, 666a 11-13, dove è scritto che i movimenti delle cose piacevoli e dolorose, e quelli di tutte le sensazioni in generale, hanno nel cuore il loro principio, e πρὸς ταύτην πειραίνουσαι. Esso può essere inteso come asserente una implicita distinzione tra le sensazioni in generale, che hanno nel cuore il principio, e i movimenti delle cose piacevoli e dolorose, che giungono fino al cuore. In alternativa, si potrebbe conferire al πρὸς valore causale e a πειραίνουσαι il significato di terminare: nel cuore è il principio di questi movimenti e a causa del cuore essi terminano (cioè, sono annullate tramite il processo di compensazione). In ogni caso Aristotele è qui interessato semplicemente all’affermazione della centralità nel cuore, accennando velocemente alle sue funzioni, e non a una dettagliata trattazione delle funzioni medesime. ↩︎
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Quest’ultima affermazione potrebbe intendersi in riferimento allo speciale tipo di medietà che è la sensazione, oppure come valida in generale per ogni medio. A favore della prima lettura si può evidenziare come, in 424a 5, si parli appunto di μεσότητός τινος, e che sarebbe difficile immaginare come ogni cosa che può essere detta «medietà» sia capace di discriminare, se non in senso metaforico. ↩︎
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Si può quindi ritenere che la necessità che ciò che è sul punto di percepire il bianco e il nero debba essere in potenza entrambi, e in atto nessuno dei due, espressa nell’immediato seguito (424a 7- 10), sia da inquadrare nella stessa cornice interpretativa. L’organo deve restare sempre in potenza le qualità che ha da percepire, in quanto questa è la sua condizione di ricettività. Perché questo requisito sia soddisfatto, dev’essere in potenza sia la qualità percepita che il suo opposto: Solo bilanciando l’affezione del bianco con un’altra interna, di segno opposto ma di identica intensità, si può discriminare il bianco senza perdere la condizione di ricettività. Contrariamente a quanto accade, per ammissione stessa di Sorabji (op.cit., p. 71), nell’interpretazione fisiologica letterale, si mantiene così un legame con il significato proprio del termine μεσότης. Né, a ben vedere, sussiste alcun contrasto con la necessità, ammessa nel De respiratione, di refrigerazione del calore nel cuore. Tale rocesso serve infatti a evitare che il fuoco si esaurisca per consunzione (469b 20- 470a 12; 474b 20; 478a 8-10), ma in nessun luogo si legge che a ciò consegue una perdita di intensità del calore. Piuttosto, il meccanismo che è dalla base e del movimento di compressione e dilatazione del torace, che permette la respirazione, richiede che l’azione del freddo si traduca in un restringimento, quella del caldo in una dilatazione (Iuv. 27, specialmente 480a 30-b 5). Ciò rivela l’implicita teorizzazione di un meccanismo in cui la «temperatura» resta identica, traducendo le spinte al riscaldamento o raffreddamento (rispettivamente provocate dal calore sprigionantesi dalla nutrizione e dall’afflusso di aria esterna), in un meccanismo compensativo di aumento e di diminuzione del volume occupato nel cuore, a parità di calore, dallo πνεῦμα. ↩︎
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Il termine è certamente impiegato in questo senso in III 2 (426a 27-b 8), indicando che la voce e l’udito sono un accordo. Ciò posto, Aristotele può spiegare come la distruzione della sensazione sia prodotta da parte di sensibili eccessivamente intensi (426a 30- b 3), mentre il loro essere ricondotti alla proporzione ne determina la piacevolezza (b 3-5). Poiché il legame tra la sensazione come λόγος e la distruzione della capacità a opera di sensibili eccessivi era già stato stabilito in II 12, paragonandolo alla perdita dell’accordo e del tono delle corde di uno strumento musicale violentemente percosse (424a 28- 32), è opportuno intendere anche qui il termine come «proporzione». Conseguentemente, nulla implicare che il λόγος adoperato poche righe più alto (a 27 - 28) non abbia il medesimo significato. Il contesto è, qui, quello della distinzione dell’organo dalla facoltà: pur essendo una medesima cosa, essi sono distinti per l’essenza (a 25-26). L’organo infatti è una grandezza, mentre né l’essenza della facoltà sensitiva, né la sensazione, sono tali, essendo invece una certa proporzione (λόγος τις) e una capacità di quello (con un’evidente parallelismo tra «capacità» e «l’essenza della facoltà sensitiva», e tra «percezione» e «una certa proporzione»). ↩︎
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435a 20-24. L’accenno alla medietà, si noti, non chiama in causa direttamente la composizione materiale nell’organo, bensì la fisiologia compensativa. La seconda parte della frase, di conseguenza, non può essere letta come ammissione che un ipotetico sensorio di terra percepirebbe le qualità della terra (come fa invece Sorabji, pp. 72-73 ). La logica sottesa all’intero periodo è la seguente: la sensazione tattile consiste nella compensazione dell’affezione data dai tangibili (è una medietà tra essi). Se l’organo fosse di terra, non potrebbe ovviamente diventare ciò che già è, ossia freddo e secco. Conseguentemente, non potrebbe essere affetto da freddo e secco (ragion per cui non può percepire le qualità della terra). Neppure potrebbe, però, compensare le affezioni date dal caldo e dall’umido, dal momento che ciò richiederebbe un incremento compensativo di freddo e secco impossibile (essendo già l’organo massimamente tale). L’organo non può pertanto essere di terra, perché non percepirebbe nulla (cfr. 434a 24 - b 2: per questo le parti terrose degli animali e i corpi, anch’essi terrosi, delle piante, non sono in grado di percepire). Dovendo poi essere ricettivo di tutti tangibili, e non solo di quelli che caratterizzano la terra (ecco la seconda parte della frase), l’organo non può semplicemente essere diverso dalla terra, ma deve essere composto in pari misura da tutti gli elementi. Questo preserva dalle difficoltà segnalate da Sorabji (op.cit., p.73), che, perdendo di vista il valore ulteriormente restrittivo della frase, e non riconoscendo l’impossibilità di qualsiasi percezione da parte di un ipotetico sensorio terroso, è costretto ad accusare Aristotele di mancanza d’accortezza, o a ipotizzare, del tutto artificiosamente, un uso insolito di «ricevente la forma», riferito alla composizione materiale dell’organo. L’argomento, posto dal suo punto di vista, sarebbe del resto decisamente debole, poggiando sull’implicita asserzione, non dimostrata, dell’impossibilità di una sorta di senso tattile «dimezzato», cioè capace di percepire solo le qualità differenti da quelle della terra. ↩︎
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Gli unici corpi adatti a ricevere la forma senza la materia, dal punto di vista di Sorabj e Burnyeat, sarebbero infatti l’aria e l’acqua, che tuttavia, in quanto semplici, non potrebbero possedere il tatto. L’assurda conseguenza non si verifica se si ritiene che l’espressione «ricevere la forma senza la materia» descriva il processo percettivo, alludendo alla mancanza di affezione risultante dalla compensazione interna. I due criteri sarebbero così riferiti, rispettivamente, al tipo di processo e al tipo di corpo in cui esso avviene. ↩︎
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In nessuna delle ricorrenze dell’espressione, d’altronde, c’è alcun collegamento esplicito con il ruolo dell’intermediario. Piuttosto, essa è adoperata, in III 2 (425b 23 ss.), per spiegare che ciò che vede è in un certo senso colorato, e, già all’inizio di II 12, introdotta espressamente in riferimento alla αἴσθησις da un punto di vista generale. ↩︎
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La formula non si riferisce infatti, come visto, a un tipo di affezione che può accadere sia nei sensori sia nei corpi inanimati, bensì al permanere della condizione iniziale, dovuta all’alterazione interna che compensa quella esterna. Come riconosce Sorabji (op. cit., p. 76) essa non è d’altronde più adoperata esplicitamente nel testo in questione. Né la questione della rilevanza dell’aporia, né l’impiego dello stesso termine usato per spiegare perché le piante non percepiscono (μετὰ, riferito all’aria che si accompagna al tuono, reale causa della rottura del legno), sono poi sufficienti mostrare che essa è sottintesa, come vorrebbe Sorabji. È evidente, infatti, che μετὰ serve qui a specificare l’agente, e non a indicare che il tronco spezzato ha subito l’azione del tuono inglobando l’aria cui esso inerisce. Inoltre, la rilevanza può essere mostrata diversamente: una volta stabilito che l’azione di una forma percepibile che produce una percezione non si traduce, alla fine, in un’affezione passivamente subita, è legittimo chiedersi se ciò invece avvenga sui corpi che non hanno la capacità di percepire. ↩︎
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Questa era già la lettura del παρὰ sostenuta da Burnyeat. Tuttavia egli sostiene (op. cit., p. 25) che l’opposizione posta sia quella tra l’essere affetto senza la materia dell’organo e quello, sempre senza materia, dell’aria (per lui equivalente all’essere affetto in maniera speciale, cioè «quasi corporea»). Nonostante in 424b 12 si tratti di affezioni in senso «normale», infatti, Aristotele, in b 14, cambierebbe argomento, occupandosi dell’affezione che, pur non essendo percettiva, è prodotta da parte della forma soltanto. Non è però necessario ipotizzare il cambiamento, di cui non c’è del resto traccia nel testo. L’opposizione finale è quindi, invece, tra l’essere affetto della forma dell’aria, normalmente passivo, e quello dell’organo, che si risolve in una condizione di impassibilità in virtù della compensazione. ↩︎
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Certamente, in ultima analisi, ciò che regola e rende possibile il particolare processo somatico che si ha nella sensazione è l’anima sensitiva, cioè la capacità di percepire. Essa non ha tuttavia la funzione di distinguere due eventi fisici materialmente identici (come accedeva nell’esegesi di Burnyeat), rendendo solo uno di essi un esempio di percezione. In altre parole, non ricade sull’anima il compito di distinguere direttamente due medesimi processi fisici, qualificando uno solo di essi come percezione (come accade invece per Sorabji e Burnyeat). ↩︎
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Per dirla con l’incisiva immagine adoperata da Nussbaum e Putnam (pp. 46-47) in riferimento agli esiti dell’interpretazione di Burnyeat. Nel regno immaginario di Oz, frutto della fantasia di Baum, lo spaventapasseri possiede la capacità di pensare e percepire «magicamente», cioè senza che alcun connotato fisico lo differenzi dagli altri spaventapasseri che non hanno questa capacità. ↩︎
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Cfr. Nussbaum e Putnam, op. cit., pp. 28-32. Utile, per chiarire, uno degli esempi da loro addotti: si consideri la domanda «perché un cubo (di ferro, di bronzo, di plastica) di lato 2r non può attraversare un cerchio di legno di raggio r, mentre una sfera (di ferro, di bronzo, di plastica), con un raggio di poco inferiore a r, sì?». La risposta più semplice e generale, e limitata agli aspetti rilevanti, potrà prescindere dalle caratteristiche materiali (pur ammettendo che la sfera debba essere composta di qualche materiale adatto) concentrandosi invece su quelle geometriche e formali. Per quanto i rilievi dei due studiosi possano considerarsi esatti, si deve notare che limitarsi a questo non sarebbe tuttavia ancora sufficiente. Se anche l’anima fosse la proporzione tra gli elementi componenti il corpo, infatti, essa ricoprirebbe il ruolo di forma rispetto alla materia e di carattere persistente nel mutamento. Va invece ricordato che lo Stagirita rifiuta espressamente questa possibilità nella critica alla dottrina dell’anima armonia (407b 28 - 408a 19). ↩︎
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La posizione anti-riduzionista assunta da Aristotele non è quindi, in tutta evidenza, legata alla volontà di preservare un qualche aspetto peculiare e inspiegabile degli esseri viventi (la coscienza, il mentale, la vita stessa), ma ad un atteggiamento più generale verso ciò che è essenziale nelle cose, garantendone il permanere nel mutamento. Non si tratta, pertanto, di una posizione ristretta alla spiegazione dell’emergenza della vita e della coscienza dalla materia, ma di un punto di vista globale sulle spiegazione scientifiche, in cui la materia è posteriore alla forma. Se quindi un precedente all’impostazione funzionalista contemporanea del rapporto mente-corpo può essere rintracciato in Aristotele, ciò riguarda la sua generale impostazione ilemorfica del discorso sulle cose soggette a movimento, e non la sua psicologia in particolare. ↩︎
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Gli animali acquatici che esercitano l’olfatto si servono come intermediario dell’acqua (Sens. 442b 29 - 443a 3; DA 421b 9-13), ed è quindi essa, e non l’aria, a essere contenuta nei loro organi sensori (DA 425a 5). La struttura di questi ultimi inoltre varia: nell’uomo gli organi sono le narici, nei pesci le branchie, nei delfini lo sfiatatoio, negli insetti la parte mediana del corpo (cfr. R. Sorabji, Aristotle on demarcating the five senses, «The Philosophical Review», 1971 (80), pp. 57 - 58). Considerando l’interpretazione che si è avanzata, tuttavia, questa possibilità di realizzazioni materiali variabili non va esagerata fino al punto di sostenere, in pieno spirito «funzionalista», la presenza di un’implicita distinzione tra la «struttura per il funzionamento» e la sua realizzazione materiale. Non c’é infatti, ovviamente, alcun cenno alla possibilità di artefatti capaci di percezione, né a quella di meccanismi differenti da quello compensativo. Decisamente e giustamente cauti si mostrano, nel valutare la possibilità che Aristotele teorizzasse una qualche forma di plasticità composizionele, anche Everson (op.cit., pp. 254, 257) e Johansen (op. cit., pp. 281-287). Quest’ultimo chiarisce che le variazioni nei sensori non dimostrano la presenza di una plasticità di marca funzionalista. Esse sono infatti determinate ad esempio dall’ambiente, dagli altri fini e attività dell’organismo, o dall’utilizzo del medesimo organo per altre funzioni. La plasticità composizionale è per il filosofo inammissibile a qualsiasi livello di descrizione materiale, giacché gli stessi elementi componenti l’organo devono essere in potenza come l’oggetto da percepire è in atto. Se gli organi fossero composti da altri elementi, avrebbero automaticamente altri oggetti. ↩︎
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In questo senso, quindi, è vero che l’anima è ciò che rende una percezione il processo fisico che si ha nell’organo sensorio. Ciò però in maniera indiretta. Non si tratta cioè di due identici processi da distinguere (come, pur nella differente concezione del processo, in Burnyeat e Sorabji), bensì di due processi fisicamente differenti, realizzabili da due enti che, relativamente agli elementi componenti e alle loro proporzioni, sono identici. La mancanza di un nesso di sopravvenienza è da ritenersi dimostrata, fino a questo punto, solo limitatamente al rapporto tra l’anima e gli aspetti somatici del processo percettivo. Nulla è ancora stabilito a riguardo dell’esistenza di aspetti «mentali» aggiuntivi, che rimetterebbero in gioco la questione della sopravvenienza. Resta fermo, ad ogni modo, che nessun aspetto aggiuntivo siffatto è richiesto per distinguere la percezione dalle alterazioni fisiche ordinarie, giacché si è visto che questa operazione è possibile senza trascendere il livello fisico. ↩︎
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È opportuno precisare che questo non implica l’annullamento delle caratteristiche possedute dal corpo in virtù della sua composizione materiale. Restano così valide le precisazioni di Everson (op.cit., pp. 237-243, 286) a riguardo della compatibilità tra la necessità ipotetica (posta in passi come PA I, 1, 642a 9-13 e DA II, 2, 414a 14-25) e quella materiale, giacché nulla vieta che alcuni comportamenti delle parti corporee siano determinati dalla composizione fisica degli elementi (a questo proposito, egli cita come esempio la spiegazione della respirazione fornita in PA I 1, 642a 31- b2). Gli organi devono avere un certo tipo di composizione materiale, infatti, perché sia possibile un mutamento fisico di un certo tipo. Non è quindi condivisibilile la convinzione di Johansen (op. cit., pp. 43-44), secondo cui gli stessi elementi sarebbero distinti in base alla funzione. Secondo questa prospettiva, l’acqua che nell’occhio ha la funzione di vedere non sarebbe la stessa che si trova nel mare, ma il passo citato a sostegno si questa tesi (Meteorologica IV, 12, 390a 7-16), in realtà, attesta solo che ogni cosa è definita in base alla funzione (il fuoco è tale se è in grado di esercitare la funzione che gli è propria). A ben vedere, questo non implica che l’acqua dell’occhio sia distinta da quella del mare: essa è acqua in quanto ne esercita la funzione e ne conserva le caratteristiche. Certamente l’acqua nell’occhio è differente, ma non già come elemento, ossia non perché in natura esistano due elementi differenti che portano lo stesso nome, ma perché il fatto di essere dotata di anima gli conferisce delle proprietà aggiuntive rispetto a quelle che possiede in quanto acqua, e le fa assumere dei comportamenti differenti. ↩︎