La rivolta contro Dio. Ateismo e blasfemia in Albert Camus e Manlio Sgalambro

1. La domanda e l’assurdo: le premesse di una metafisica blasfema

In modo senz’altro sorprendente, all’interno di un’accelerazione storico-culturale che improvvisamente attraversa tutto il secolo ventesimo configurando i punti di forza della ‘civiltà globale’,1 momenti di evidente svalutazione del conceto di persona si sono sovrapposti ad occasioni di vivo interesse per questioni ontologiche relative alla determinazione di uno spazio etico in cui l’individuo potesse agire e persistere.2 Senza sminuire la complessità che accompagna l’assestamento di queste tendenze e senza allargare ulteriormente la densissima scena occupata da vicende storiche che conservano un impatto ben oltre il loro normale corso, si proverà a dimostrare come il posizionamento di questi interessi speculativi, motivato dagli eventi ma spesso poco gestibile sul piano concettuale, contenga tutte le premesse per una riappropriazione dell’indagine metafisica, ormai abbandonata e dismessa dal sopraggiungere di un’era potentemente tecnologica e qui, invece, ancora ritenuta attendibile nell’accertamento e nel perfezionamento di una efficace lettura antropologica.

Per individuare le linee guida di questo tentativo di riappropriazione metafisica, cui senz’altro non si pretende di affidare alcuna riuscita preventiva, si rivolgerà l’attenzione a Le Mythe de Sisyphe3 e all’Homme Révolté,4 due opere di Albert Camus adatte alla determinazione di un sapere riconoscibilmente teologico, fissato e perfezionato in questi ultimi trent’anni dall’opera di Manlio Sgalambro,5 autore raramente presente nel dibattito filosofico, da tempo intenzionato a rivedere linee di pensiero ‘classiche’per suggerire un ripensamento della teologia contemporanea rispetto al puro ateismo e alla religiosità tradizionale.

Nel tentativo di verificare ed, eventualmente, approfondire le assonanze concettuali presenti tra le due opere camusiane e i trattati che Sgalambro dedica all’indagine metafisica (in particolare il Trattato dell’empietà6 e il Dialogo teologico),7 si tenterà di ripercorrere il sentiero che, tracciato a partire dall’indubitabile portata teorica di alcuni riferimenti antropologici, qui ritenuti tuttavia secondari, permette di riattualizzare l’incidenza di una dimensione propriamente metafisica nella rifondazione ontologica del vivente.

Come intellettuale appartenente all’oscura epoca dell’atrocità,8 Camus è pronto a ritornare sulla logica che guida lo scopo di qualunque azione, evocando in particolare il suicidio, azione che provvede all’annullamento di ogni finalità, ultima o immediata, e che merita a suo dire una valutazione filosofica perché in grado di comprenderne e anticiparne molte altre.9 Dalla semplice constatazione di una vita già in atto, Camus ribadisce l’impossibilità di investigarne il valore senza aver prima escluso la possibilità di una sua immediata negazione, senza che si disponga della certezza che il suicidio vada comunque aggirato e rimosso, non nella sgradevolezza dell’atto, ma nella sua inutilità ontologica. Nella ricostruzione dell’identità soggettiva, Camus riconosce chiaramente come il suicidio — quanto la persistenza — risulta da una scelta non facile da collocare, la cui intima determinazione rischia costantemente di cadere nel silenzio della passività o nel gesto smisurato e totalizzante.

Così, da un principio affermativo rintracciabile nella vita già data o conseguita, Camus ricava una prima definizione di assurdo, l’insieme delle modalità invisibili di questo ripiegamento dell’esistenza su se stessa, momento di rottura definitiva che trova nel posizionamento di una morte volontaria la sua più alta manifestazione. Così se non ci si può domandare nulla della vita senza accettare il più disarmante degli impedimenti alla vita stessa, è nel condensato concettuale de Le Mythe che si deve riconoscere al suicidio, almeno inizialmente, quella rispettabilità teorica che volentieri si affiderebbe alla sua implicita negazione.

Ma è in una sorta di avvitamento concettuale, in una struttura defettibile e negante, che l’assurdo si pone sin dall’inizio come confronto tra il desiderio di chiarezza (già risultante da un’insoddisfazione conoscitiva) e la scarsa ragionevolezza del mondo, espressi in un’unità franosa e dispersiva che nulla può garantire in funzione chiarificatoria.

Ma ciò che è assurdo, è il confronto di questo irrazionale con il desiderio violento di chiarezza, il cui richiamo risuona nel più profondo dell’uomo. L’assurdo dipende tanto dall’uomo quanto dal mondo, ed è, per il momento, il loro solo legame.10

La domanda che secondo Camus continua ad esigere da questo confronto una sicura risposta attendibile appartiene, per sua intima natura, all’irragionevolezza di ogni domandare, posto tra l’alternativa di un gesto non ancora imputabile di colpa (il suicidio) e la logica che ne comanda lo svolgimento, radicalmente scaturita in termini di pura pensabilità nel domandare stesso. Camus lascia intendere come, non solo l’analisi del suicidio possa iniziare a risposte chiarificanti, quanto un attento esame delle condizioni che precedono il gesto estremo, recuperato nell’intima logica che lo articola, nel tentativo ultimo di riconoscervi una situazione di normalità o l’imprevedibilità di una fuga da qualunque capacità di pensiero.11

Così, non alla sopravvivenza spontanea si deve attribuire la prima alternativa vincente al suicidio, ma all’assurdità della vita vissuta in una libertà tutta da definire e sottomessa ad una logica imponderabile. È per questa ragione che la logica di comprensione dell’assurdo può risultare tanto invischiata nelle stesse dinamiche di ciò che indaga da perdere ogni coesione e forza. Quanto può essere penetrante una domanda sull’assurdo che non sia in sé assurda?

L’imbarazzo scaturito da questa riflessione apre, dunque, una breve digressione sull’impoverimento di dispositivi conoscitivi classici ed oggettivanti, sminuendo unitamente la validità totalizzante rivendicata dall’oggettività scientifica,12 la stessa che, soltanto quando non considerata risolutiva, può attendere soluzioni più promettenti rispetto alla nebulosa condizione di partenza. Ecco, allora, che né la riproducibilità della conoscenza scientifica, né l’ossessione personale di una morte accettata (volontaria o meno) o imposta dallo spettacolo di guerra offerto a Camus negli anni 1942-1943 sembrano esaurire l’irruenza dell’assurdo e la sua sconvolgente portata.

2. La miopia degli amanti

Se si potesse abbandonare la descrizione, «estrema ambizione di un pensiero assurdo»,13 non vi sarebbero ragioni per ripiegare sulla definizione di libertà che, invece, identifica visibilmente in Camus lo spazio d’azione, teorica e pratica, destinata all’individuo. Non sarà, tuttavia, una riflessione sull’individuo, né sulle relative potenzialità a costituire qui l’oggetto della ricerca. Tantomeno un’indagine sulle modalità scelte per abitare uno spazio sociale e confermare una necessaria vocazione alla convivenza. Tuttavia, un doveroso accenno alla riflessione antropologica, che in Camus rappresenta in compendio lo scenario risolutivo dell’assurdo, permetterà di chiarire come la conclusiva affermazione della libertà assurda, consistente nel vivere e nel farlo il più possibile, rimanga avamposto di quella riflessione metafisica taciuta ne Le Mythe e ed efficacemente dispiegata ne L’Homme révolté.

Ne Le Mythe Camus non si lascia attraversare dalla delusione scaturita dall’assenza di ogni certezza, né sembra pronto a sorvolare sulle valide testimonianze di senso che abbracciano e completano l’insieme degli scopi quotidiani. La lettura dell’assurdo compare in molte occasioni come ponderazione tra il vantaggio e la perdita, ma mai, tuttavia, come una rimozione definitiva dell’incerta miseria del domandare, vero aspetto metafisico e degno di attenzione teologica. La pensabilità dell’assurdo, il tentativo di avviarne una chiarificazione, rimangono domini dell’individuo, ambiti di elaborazione di una vittoria personale e intellettualmente egotica, non rientrante, se non di riflesso, all’interno di revisioni universalistiche e comunitarie, autosufficiente e in sé compiuta, pensata da un solo individuo e, soprattutto, tale anche se pensata da un solo individuo. L’assurdo non è per Camus l’eccezione, ma il fatto consolidato che autorizza a rivedere la riuscita personale (i tempi della rivolta14 individuale) secondo un andamento solo in apparenza quantitativo, ma finalizzato in realtà alla valutazione dell’intensità del moto sovversivo che parte dall’io.

Siamo noi che dobbiamo essere coscienti. Sentire la propria vita, la propria rivolta e la propria libertà il più intensamente possibile, equivale a vivere il più possibile. Dove regna la lucidità, la scala dei valori diventa inutile.15

Nella definizione di M. Blanchot, l’assurdo è «una parola intransigente, che dona o sottrae aspettative»,16 ma che senz’altro traduce un’imposizione non revocabile, sempre riducibile all’impossibilità di un ripensamento. Questo spiega perché, seppure la morte di un singolo è nulla dinanzi all’assurdo, anche la sola morte di un singolo merita una riflessione e autorizza a perseguire nuove finalità sovversive. Raggiunta la logica dell’assurdo, consolidata sul piano individuale come una sfida mai ritardabile che puntualmente interessa il singolo,17 antichi riferimenti come il dovere, la colpevolezza, la responsabilità cadono in frantumi e si disperdono per il fatto stesso che si possano inquadrare nelle spire della mancanza di senso.

Nel sostenere che l’origine — ogni origine, si potrebbe dire — nasconde l’illusione mortifera di una riuscita, Sgalambro promette che è la vita stessa a non meritare il suicidio, allargando il motivo schopenhaueriano della rinuncia impossibile18 e rivisitando la sconfitta del genere, entrambe occasioni tutt’altro che celebrative per la vita stessa. Rinviare temporalmente il suicidio non significa certamente aver reperito buone ragioni per vivere, quanto conservare innumerevoli occasioni di scoperta ottenute perseverando nella ricerca del relativo significato. Un’attestazione che potrebbe, in apparenza, definire i limiti di un provvedimento consolatorio, ma che, al contrario, non ha nulla della tradizionale consolazione,19 perché provvede attivamente a porre rimedio rispetto ad uno stato di avversità e negazione.

Per aver compreso bene l’assurdo20 (e per poter provvedere all’esistenza in funzione di esso) l’individuo collabora a questo svuotamento, all’infecondità priva di ogni riscontro, perché avverte che ogni provvedimento volto a contrastare l’assenza di senso o ad affermarne uno è privo di riuscita. L’azione, qualsiasi azione, andrà dunque individualmente motivata e giustificata, tanto nell’illusione asettica, quanto nel disporre numerose preferenze senza futuro. Se quel suicidio, che ne Le Mythe è respinto perché si possa ribadire un principio esortativo, allo stesso tempo distante dalla pensabilità del male metafisico e orientato a ‘vivere il più possibile’,21 agevola un confronto tra l’interrogazione individuale e il silenzio del mondo, nelle premesse de L’Homme la contraddizione dedotta dall’assurdo arriva a scatenare un atto di rivolta (la ‘fosca esaltazione’), da compiere nell’irragionevolezza della vita che chiede necessariamente di partecipare ad un perverso gioco di bilanciamenti senza concedere ulteriori alternative.

La negazione assoluta non si esaurisce quindi nel suicidio. Non può esaurirsi che nella distruzione assoluta, di sé e degli altri. O almeno, non la si può vivere se non tendendo a questo dilettevole limite. Suicidio e omicidio sono qui due volti di uno stesso ordine, quello di un’intelligenza infelice che preferisce alla sofferenza di una condizione limitata la fosca esaltazione in cui s’annientano terra e cielo.22

Dal non-senso effettivo, dunque, alla rimozione del suicidio per l’attuazione di una rivolta. Questo il percorso ricordato finora. Ma la rivolta è un atteggiamento che coinvolge il singolo, che può riguardare ogni individuo storico e svolgersi in modalità sempre differenti, a seconda delle circostanze di appartenenza. Ecco perché analizzare l’importanza e la destinazione della rivolta in rapporto al singolo.

Al libertinismo sfrenato del Don Giovanni, la cui carica egoista ed egotica permette di enfatizzare quel senso di superamento individuale nell’espediente contingente dell’amore provvisorio, Camus attribuisce la ricerca di una verità che sappia fronteggiare l’assurdo in un procedimento che, solo apparentemente, è rivolto all’affermazione del numero, ma che in fondo provvede alla negazione della qualità (contrariamente al comportamento del ‘santo’):

Ciò che Don Giovanni mette in atto è un’etica della quantità, contrariamente al santo, che tende alla qualità. Non credere nel senso profondo delle cose è la particolarità dell’uomo assurdo. […] . Don Giovanni non pensa a ‘far collezione’di donne; ne esaurisce il numero e, insieme con loro, la probabilità di vita.23

Il Don Giovanni non è entusiasta del cambiamento — che invece richiederebbe la fuga da quanto ormai si disprezza — ma rincorre un nuovo amore perché interessato ad esso, come se fosse il primo. Questa tensione alla novità non prefigura alcun miglioramento effettivo perché riconosce di dover sempre correre in avanti, senza sosta, verso altre destinazioni affettive. Disporre di molte donne significherà allora prestarsi all’idea sempre più compiuta di possesso, senza soffrire del fattore limitante rappresentato dal vincolo e dalle abitudini reiterate. La rivolta di Don Giovanni si esprime così nell’illogicità del gesto che non si controlla, nella pretesa di scardinare qualcosa perché la sua volontà di conquista possa venire alla luce e mostrare quanto vi sia di autentico. E in questo, oltre a rigettare la ‘profondità’del sentimento irripetibile (la profondità dell’esperienza unica), Don Giovanni uccide il valore classico. Non contesta ciò che non funziona nella devozione individuale, ma dimostra, attraverso l’affermazione egoista dell’interesse per l’altro, che l’esattezza di qualunque alternativa vince sui limiti del puro approfondimento. All’isolamento dell’amore privato, Don Giovanni «sceglie di essere il nulla»,24 di nullificare secondo lo svuotamento del senso e la rimozione degli affetti ponderati. È eroe senza modelli, perché s’immerge in pieno nel flusso dell’assenza di senso.

Sussistono, tuttavia, occasioni di apertura all’altro che secondo Camus non contraddistinguono soltanto un volere orientato egoisticamente. Se il volere ‘confuso’in nome del quale l’individuo agisce può eccedere la persona e la relativa storicità, ciò che spinge lo schiavo a rivoltarsi è il sopraggiungere di una causa comune a tutti coloro che si trovano nella stessa condizione.

È per tutte le esistenze a un tempo che insorge lo schiavo quando giudica che, da un determinato ordine, viene negato in lui qualche cosa che non gli appartiene esclusivamente, ma che è luogo comune in cui tutti gli uomini, anche quello che lo insulta e lo opprime, hanno pronta una comunità.25

Ciò potrebbe, dunque, nascere nell’indipendenza di un moto totalmente egoista o in virtù di un sentimento di universalizzazione della libertà da riporre e approfondire nella sfera dell’emotività individuale. È a questo proposito che Camus, contestando la posizione scheleriana, che punta alla ricerca universalistica della libertà confermando l’impossibilità di amare individualmente,26 propone alcune delle motivazioni valide ad intraprendere un moto di rivolta orientato al prossimo, tanto coinvolgente perché presupposto di un’identificazione con l’altro che impegna entrambi a combattere e risorgere.27 Da un’altra prospettiva, altrettanto sconvolgente quando si affronta la salvezza del singolo e si pretende di fondare la sua felicità a partire dall’alterità, tutto sembra svolto in funzione di un gruppo, di una massa priva d’identità, che Sgalambro, potendo ancora attualizzare la voce sentenziaria di Schopenhauer, aldilà di una vera vocazione altruista e disinteressata, riconosce come forza onnipossente dell’Uno.

Ciò che Schopenhauer va chiamando ‘naturale compassione, innata in ogni uomo’, è quanto qui si va spiegando come ‘impulso all’unità’, e, magari, come ‘nefasta inclinazione all’unità’. Si vorrebbe sottolineare, così, l’azione stritolante di essa, la coazione alla quale un individuo deve obbedire e fare obbedire gli altri, che provano lo stesso nei suoi confronti. Ciò è propriamente lo stampo dell’Uno, il marchio impresso alla mandria. Per quanto possa sembrare che, in essa, vada ciascun membro per la sua sorte, invece tutti si dirigono allo stesso punto, alla medesima stalla dove la stridula voce interiore li convoca. L’irresistibile impulso all’unità spinge ogni individuo ad unirsi all’altro, ad accostarglisi quanto più vicino, a stringersi in una trama di relazioni in cui rimane impigliato come una mosca.28

Non è il rivolgimento al singolo che secondo Sgalambro risolve la tentazione a spezzare le catene dello stato ontologico di appartenenza. La verità, che radicalmente sconvolge l’esistente non condivide nulla con le dimostrazioni di partecipata solidarietà.29 L’individuo, l’altro che invoca aiuto, resta escluso a priori. Da qui si comprende meglio perché Scheler voglia puntare all’umanità, trascurando quei passaggi intermedi che non possono che rinviare alle declinazioni di un atteggiamento privato, tanto individualizzato da disperdere il vero scopo dell’impegno etico. Ugualmente la rivolta in Camus, che certo non si esprime nel radicalismo di Sgalambro, non è esaltazione patriottica di un moto di ribellione, ma un’indagine astratta, si potrebbe dire, avanzata, conclusa ed efficace, condotta nei vortici del ragionamento assurdo ed orientata ad un piano pre-umano e meta-umano.30

Avendo precisato che oggetto del presente lavoro è una ricollocazione dell’agire teologico, di quella pratica teologica che «fa urlare dal dolore»,31 bisognerà tralasciare ogni deriva antropologica che non sia espressamente necessaria alla definizione dell’oggetto ‘Dio’. Se il raggiungimento del peculiare oggetto del discorso teologico resta scandito dai vari approfondimenti sull’ontologia individuale, quasi rimessi a quell’inevitabile ‘miopia degli amanti’ (volendo utilizzare un’espressione camusiana) che spingerebbe ad indugiare eccessivamente sulle contorte fasi dell’individuazione, è tuttavia necessario evitare una dinamica ascendente in cui collocare il progressivo distanziamento dall’ambito fenomenico, immagine forse distorta di un destino che può iniziare deludentemente a compiersi soltanto a partire dalla sua naturale configurazione metafisica.

3. Lineamenti di una metafisica blasfema

Tanto nell’opera di Camus quanto nella terrorizzante attualizzazione sgalambriana, l’assurdità dello stesso domandare — volendo riprendere la difficoltà già posta all’inizio — non sembra ostacolare la subordinazione del problema antropologico alla sfera metafisica di appartenenza: al contrario, la determinazione oggettiva del carattere individuale e dei relativi risvolti sociali dimostra la necessità di premesse che rendano possibile la collocazione di un’ontologia dell’individuo in rapporto al contesto sociale o emotivo. La rimozione di questo interesse è allestita da Sgalambro come rivendicazione di uno spazio in cui la presenza casuale dell’individuo mai ha potuto sconcertare, né creare disagio al puro esercizio della riflessione finalizzata:

La maggior parte degli uomini non è necessaria al genere umano. In quanto teologi, comunque, l’umanità non ci riguarda. Essa ci è tanto distante quanto la disciplina in cui ci riconosciamo ne è il suo antipode. (Del resto ‘l’uomo’è la qualità di una cosa, come il colore o l’odore…).32

L’assurdo svuota e vanifica ogni giudizio di senso, riporta all’origine, quell’origine metafisica che Sgalambro marchia come una tremenda delusione. Nell’assurdità camusiana si può leggere lo stesso sentimento di intollerabile avversione per l’origine, per la rottura del patto e l’infrazione del divieto, consumato nella certezza di una pena ma non adeguatamente sostenibile quando si prova ad arretrare — quasi con lo stesso senso di contemporaneità che vale per la fine33 — al momento primordiale in cui l’uomo esiste senza aver scelto l’esistenza.

«Indurre con tutti i mezzi alla diffidenza. Persuadere ad aborrire il principio di nascita. Abituare a disprezzare Dio tutti i giorni»,34 ricorda Sgalambro in un nuovo dogmatismo che fa della bassezza35 di Dio, di ogni origine che rinvia vertiginosamente al momento primordiale, il punto da perlustrare rispetto alle possibilità della pratica teologica. Contro questa origine disprezzabile solo l’emersione paradigmatica dell’assurdo ricorda che si può partecipare al perverso gioco di contraddizioni attraverso la rivolta.

L’assurdo, prelevato dal regno delle realtà inspiegabili, è una forma di ripiegamento della vita su se stessa, l’inutilità di un gesto privo di scopo effettivo, come la distruzione vandalica dell’albero da frutta che nelle Confessiones (II, 4, 9) non è spiegabile in alcun modo. Non è un caso che Gottfried Benn, ricordando l’animo in rivolta di alcuni personaggi noti, assieme ad insoddisfazioni e dissidi, ritrovi nel pessimismo un fine della creatività individuale, che pur non riuscendo a decifrare completamente quanto vi è di oscuro, idealizza un processo di rassegnazione attraverso innumerevoli tentativi di negazione.36

Quando oggetti di disprezzo sono Dio, la creazione, l’origine, l’insurrezione che comanda la ribellione di ogni singolo in rivolta è sempre un’insurrezione metafisica. A comporre il mosaico di questa insurrezione maggiorata, che punta direttamente ad altre premesse e tralascia la vulnerabile specificità storica del quotidiano, contribuiscono aspetti teorici che compaiono in Camus e Sgalambro con denominazioni assai simili: entro la contestazione di un ateismo37 incapace di spiegare il conflitto con Dio (elaborato, questa volta, in maniera autonoma), la blasfemia, il cinismo,38 il delitto, l’odio, costituiscono i tasselli emblematici di una risposta al danno subìto.

Volendo puntare inizialmente lo sguardo alle linee costitutive dell’imponente metodologia intrapresa da questi due autori, si nota che un aspetto estetico,39 forse puramente narrativo e finalizzato al godimento della riflessione personale,40 guida una speculazione completamente decontestualizzata e che non mira ad altro che alla purezza del ragionamento. Tutto questo si comprende meglio se si ricorda, ad esempio, che quanto Sgalambro intende svolgere e ‘risolvere’è sempre sottratto al corpo e dato alla mente, alla penetrazione privata del concetto,41 che non necessita né della materia, né delle sue alterazioni.

Così dunque la vera vita dell’individuo — quella su cui l’Uno non può nulla — è la vita della mente. Lì ogni origine è lontana, o scompare nel disprezzo. Ed anche ogni ‘scopo’. Perché quello che può essergli dato, gli è dato tutto in un aperçu, godendo egli delle idee delle cose, non delle cose.42

È nel tenore di questa pura pensabilità che ne Le Mythe si accoglie la definizione di una prima ‘libertà metafisica’, utile ad un confronto fallimentare tra potenza divina e libertà umana, immediatamente ridimensionate e restituite all’assurdo come «peccato senza Dio»:43 questa sentenza, che si presta ad alcune sfumature di senso (la totale inesistenza di Dio; la colpevolezza individuale rispetto ad un danno di cui non si deve cercare alcuna spiegazione nella violazione del precetto; la più destabilizzante pensabilità di un’impotenza divina, dedotta dall’assenza di un soccorso rispetto alle difficoltà umane o come inconcepibile impotenza nel porre rimedio ad una colpa che supera ogni possibilità di risanamento), delinea un moto di opposizione al mondo44 espresso dalla libertà impossibile (libertà in sé),45 ricordando al tempo stesso una delle prime visibili aperture di Camus alla metafisica, assieme a quelle conseguenze che, vista l’impossibilità di arginare il concetto di potenza divina rispetto al classico problema di teodicea sull’esistenza del male, gli indicheranno di rivolgere altrove il proprio impegno.

Il problema della libertà in sé non ha senso, perché è congiunto, in modo diverso, a quello di Dio. Sapere se l’uomo è libero, impone che si sappia se egli può avere un padrone. L’assurdità particolare a questo problema deriva dal fatto che la stessa nozione che rende possibile il problema della libertà gli toglie al tempo stesso ogni senso, in quanto di fronte a Dio esiste piuttosto un problema del male che un problema della libertà. Conosciamo l’alternativa: o non siamo liberi, e Dio onnipotente è responsabile del male; o siamo liberi e responsabili, ma Dio non è onnipotente.46

La presenza di una componente esclusivamente teologica appare così ne Le Mythe aderente all’impostazione del pensiero filosofico novecentesco, erede di una tradizione ormai non più teologica,47 almeno da quando si è provveduto a rimuovere le antiche questioni di teodicea impostando un’identità tra Dio e mondo,48 cioè ricavando una conclusione tutt’altro che provvisoria sulla natura del male. È in questo momento che, venendo meno la rinomata contrapposizione tra Dio e il male, si torna a trattare della malvagità confidenzialmente, perché l’identità ‘Dio = mondo’, che nelle premesse del Dialogo teologico serve a respingere qualsiasi atteggiamento dualistico, riattualizza la comparsa del male nella paralisi istantanea e privata della morte, tanto da creare l’illusione che non se ne debba più discutere.

Teologo. Il compito della teodicea fu assolto nello stesso momento in cui essa scomparve, non per averlo fallito ma per esserci riuscita in pieno. In ultima analisi essa fece sparire la nozione stessa di male. Giusto. Se c’è Dio, da dove il male? La vecchia domanda è caduta in prescrizione o meglio è stata cacciata via a furor di popolo.49

Si è così potuto credere che in teologia fosse stato già detto tutto, che l’identità ‘Dio=mondo’, a lungo affrontata in altro modo, poi sottratta al dualismo delle forze e radicalmente assorbita dalla morte, avesse già esaurito tutto il dicibile riguardo all’assurdità di ogni contrasto. L’antica centralità del male come elemento destabilizzante (con la conseguente carica speculativa ricavata da forze in opposizione), che garantiva un’imponente caratterizzazione del contrasto metafisico fortemente vantaggiosa e accessibile, altamente affabulatoria e spendibile nella promessa di una speranza di vittoria, transitando per il suo ‘moderno’aggiornamento e risolvendo in identità tale contrasto, merita secondo Sgalambro un aggiornamento in termini ancor più pessimistici: «Il mondo è peggio di così»,50 poiché nessuna contrapposizione logica esaurisce un conflitto di forze assenti.

È da questo indubitabile assunto, chiaro indicatore di una tendenza speculativa che poggia su precise premesse, che Sgalambro sente di dover rinunciare ai problemi ‘attuali’, per tornare alla scomodità delle antiche preoccupazioni.51 Rinnovando la strumentazione a disposizione del teologo, Sgalambro prova così a rilanciare, un primo tentativo di riappropriazione dei vecchi fantasmi, destituendo il sapere filosofico puro (una ‘conoscenza umiliata’)52 e restituendo la vera ambizione teologica nella continua negazione di Dio, principio metafisico capace di compromettere perché fin troppo presente.

Teologo. Ti ripeto, l’essere è compromesso… È ingiurioso sentire parlare della mancanza di Dio quando invece Dio è di troppo. È di quest’essere in più che si occupa il teologo. . .53

Allo stesso disprezzo per l’esistente, ugualmente manifestato in continui tentativi di negazione, Camus arriva in altro modo. Ricostruendo la fisionomia intellettuale di Sade, Camus prova a rintracciare tutti le occasioni distruttive presenti nelle perversioni di una mente tutt’altro che anticipabile e banale: culminando in un genere di negazione carica di insoddisfazione e denuncia — anche ricalcando una forma di universalizzazione della condanna espressa ne Le Mythe con il suicidio come negazione della singola persona — Sade punta metodologicamente ad estendere l’odio per l’esistente nella sua forma più violenta, che con ogni probabilità trova la sua prima scintilla nella trasgressione del divieto divino di attingere dall’albero proibito e che per Sgalambro servirà a delineare il profilo del neikosofo,54 dell’individuo tradito e, ugualmente, costretto alla conoscenza della miserabile verità che lo riguarda.

Il fallimento della conoscenza adamitica, che nell’esperienza del Don Giovanni ripreso da Camus è seguito da un ultima speranza di remissione da vivere nell’estasi claustrale, predispone lo spazio in cui la verità del ‘conoscere’, ormai non più ritardabile, deve presentarsi nell’estrema ambizione del pensiero assurdo (la descrizione), prima che quest’ultimo incontri, senza esserne eccessivamente stravolto, la fine.

Vedo Don Giovanni entro la cella di uno di quei monasteri spagnoli perduti su una collina. E s’egli guarda qualche cosa, non sono i fantasmi degli amori svaniti, ma, forse, attraverso una feritoia ardente, una silenziosa pianura di Spagna, terra magnifica e senza anima, nella quale egli si riconosce. Sì, è su questa immagine malinconica e sfavillante che bisogna fermarsi. L’estrema fine, attesa ma non mai desiderata, l’estrema fine è degna di disprezzo.55

C’è una preoccupazione endemica, dunque, che dilata lo scenario ripetitivo in cui Don Giovanni è abituato ad agire, che comanda di ripristinare certezze di conoscenza e di pensiero oltre la semplicità dell’azione. Il luogo assegnato all’individualità che si realizza nel libertinismo sarà allora adeguato a ripensare i valori della primordiale scelta adamitica, che pur trovando in Don Giovanni l’emblema di una tarda rivolta, rinvia a quello stato di precario equilibrio tra salvezza e possibilità del peccato, all’urgenza di una scelta come residuo della più vasta spinta conoscitiva della specie.

Il superamento e la rivolta che Don Giovanni crede di attuare desiderando infinitamente traduce, in realtà, la persistenza nel rimando, l’innocenza di una vittima che mai è al sicuro perché solo all’ultimo prende coscienza di come dover avvicinare il mondo. Tanto la contingenza della scelta adamitica, quanto la necessità di un intervento correttivo che provenga direttamente da Dio, restano indicatori di un bisogno di superamento metafisico, riconducibile all’esercizio di una conoscenza specifica e nociva, che tenta teologicamente la ribellione all’unica volontà,56 quella divina, contraria alla stasi e responsabile di aver collocato l’albero della caduta.

In un punto di evidente contatto metodologico, Camus e Sgalambro affidano alla diffidenza57 teologica («credere con tutta sfiducia possibile»)58 le possibilità conoscitive di una mente che lavora sull’origine e sulla provenienza per tutelare l’individuo da scomode sorprese. Non è soltanto l’ingenuità classica del pensatore ad essere messa in questione — costui è convinto, prima o poi, di trovare quanto cerca — ma è la disposizione conoscitiva che si carica, appunto metodologicamente, di un disprezzo che raccoglie varie occasioni di insoddisfazione ormai insanabili. Già in Camus la generica ‘conoscenza’subisce le infiltrazioni del dissidio e del contrasto, perché anzitutto operazione con cui si prova a colmare un vuoto, a risolvere una questione, a fare luce su qualcosa di oscuro. Anche per Sgalambro la regolarità del non-senso, conferendo un grado di validità discutibile all’oggetto e restituendolo sconnesso e poco convincente, chiede asilo come costante conoscitiva perché implicata nitidamente nel ragionamento teologico.59 Proprio perché il conoscere stesso è subordinato alla fine, poiché vige una regola dello spegnimento e della consumazione, allora il male (con tutte le alterazioni conoscitive che impegna) resta «coordinato e sistematico» all’interno della vita che, a questo punto, conserva fin troppo senso.

Nonostante tutto si muore. L’avversione sistematica del mondo verso di noi culmina nella morte. […] . Il fine non è favore della specie, né il senso. Questo non è legato soltanto ad un fixum bonum, ma eventualmente ad un fixum malum, se esso si dà come un ‘male’ordinato e sistematico. Un ordine losco del mondo è innegabile. Basta la regolarità della morte a confermare che c’è un ordine e a dire di che tipo esso sia. Il fine, cioè il nesso di tutto in virtù dello scopo, è della stessa specie. Di fronte alla ‘mancanza di senso’, asserita quotidianamente, bisogna sostenere il troppo senso — che Hegel, ad esempio, vide bene. Senonché, appunto, esso è troppo.60

Il ribaltamento attuato nel Trattato dell’empietà irrompe da premesse identiche a quelle presentate da Camus, dalla stessa difficoltà di gestire l’intermittenza del significato delle cose, per condurre tuttavia ad un esito teologico ben diverso: l’abolizione di ogni senso per la vita è per Sgalambro un inevitabile atto di onestà che porta implicitamente con sé una scissione tra il desiderio di Dio e Dio stesso. La spregiudicata manovra di salvezza che si pretende di attuare con l’evasione dalla logica della sudditanza dimostra verosimilmente che non ci si libera con tanta dimestichezza di Dio, quanto del desiderio che spinge a conoscerne la natura in termini devozionali. Mentre Camus rinuncia ne Le Mythe a superare illecitamente il confine posto dalla domanda sul male, rivolgendosi alla chiarificazione delle ambizioni umane, Sgalambro esige un colpevole, per ribadire che compito del teologo è «perseguire l’annullamento di Dio, e sperimentarne, alla fine, l’impossibilità».61

Porre Dio come oggetto, dunque, è l’alternativa alla ricerca di una giustificazione divina culminante nell’esteriorizzazione del culto.62 Per questo gli attributi divini servono a spazializzare e concepire l’oggetto ‘Dio’in un possibile schematismo, perché riguardano un oggetto tra molti, una ‘cosa’tra le tante,63 che oltretutto dispiega una potenza tanto vasta e smisurata da coincidere con il mondo stesso.

Gli attributi non hanno quel senso che assumono in seguito. Dapprima, delimitano uno spazio, segnano le distanze. In una parola, consentono all’idea di Dio di funzionare. (Se Dio è un’idea che funziona, è ché supplisce alla mancanza di ‘esistenza’con un sovrappiù di senso). Infine, fanno di una realtà svantaggiosa un’idea gradevole.64

Ma oltre la riproposizione di un semplice panteismo spinoziano,65 una volta superata la futile questione dell’esistenza di Dio,66 la proposta concettuale di Sgalambro è metodologicamente allineata all’analisi del momento negativo, alla disconoscenza di Dio, per concluderne una partecipazione in termini tutt’altro che emotivi ed eminentemente teologici.

Non si potrà così aggirare facilmente l’unica questione metafisica degna di importanza: non che Dio esista o meno, ma come si debba disporre l’oggetto ‘Dio’per attuare una conoscenza che non riesce ad aggirarne la portata, implicata nel mondo e regolata come suo intimo aspetto. Ribadita, dunque, la centralità dell’oggetto teologico, l’ateismo come negazione perentoria di Dio e la rimozione di ogni possibilità di indagine metafisica non appaiono strade percorribili. Se nelle fasi della vera rivolta metafisica confluiscono tutti i desideri di ribellione per una condizione non scelta, non avrà tanto valore negarne intimamente il contenuto organizzando una forma di ateismo come convincimento personale, quanto attuare soluzioni di rifiuto e di condanna. Secondo Camus, sono questi i più ordinati presupposti metafisici della rivolta personale.

Nel tempo stesso che rifiuta la propria condizione mortale, l’uomo in rivolta rifiuta di riconoscere il potere che lo fa vivere in questa condizione. L’insorto metafisico non è dunque sicuramente ateo, come si potrebbe credere, ma necessariamente blasfemo. Semplicemente, egli bestemmia innanzi tutto in nome dell’ordine, denunciando in Dio il padre della morte e del supremo scandalo.67

La riorganizzazione di un atteggiamento sovversivo di questa portata tratta Dio da pari a pari, senza la modestia della sudditanza, né l’impiego pacifico della forma devozionale. E, negli stessi termini, Sgalambro ridicolizza la sufficienza conoscitiva dell’ateo («L’ateo, che coglione»),68 prima di insistere sulla validità di un sapere che non può fare a meno di odiare la sua causa. Un atteggiamento blasfemo consegue allora a tutte le infamie che lo schieramento teologico pretende di sistematizzare per inveire direttamente contro l’origine.69 Alla blasfemia, così, si torna come sicura modalità per riattualizzare un dire de deo70 non più egoisticamente finalizzato alla richiesta, ma universalisticamente orientato alla condanna del dolore. La contestazione racchiusa nei tentativi blasfemi non è solo contraria alla cieca religiosità (che, a buon diritto almeno, vale quanto il suo contrario), ma serve ad restituire per Sgalambro un tipo di indagine già caratterizzante nel cristianesimo medievale, forse non troppo estenuata e alla cui ridondanza affermativa sia consegnata la possibilità di elencare di Dio ogni attributo. È una particolare disposizione all’ira che deve guidare l’impegno del teologo, la cui professione è ormai svelata nella sua più intima natura:

Nell’ira noi restituiamo a piccoli colpi la mazzata che ci fu assestata in una sola volta quando nascemmo. Mi attengo a questa definizione, condivisa da Lattanzio nel De ira Dei: ‘l’ira è il desiderio di punire chi ci recò danno’. Ma, da chi fummo lesi? Chi investe questo desiderio di punire?71

La procedura descrittiva, che nelle mani del teologo rappresenta la parte più consistente di una raffinata strumentazione di lavoro, deve essere consapevole del limite che incontra come parte di un sistema che non può dominare. «Temerario è trattare la volontà come Dio e non Dio come volontà»,72 ricorda Sgalambro, perché l’evidenza dell’identità volontaristica impostata nella seconda parte della formulazione (dal soggetto ‘Dio’) potrebbe, quando esposta nella sentenza ‘la volontà è Dio’, rinviare ad un’impropria identificazione della volontà con il principio metafisico per eccellenza, come abbassamento dell’oggetto ‘Dio’alla cieca volontà schopenhaueriana. Se sicuramente Dio è volontà (adottando, forse in modo discutibile, la definizione di ‘volontarismo’), più difficile è accettare senza riserve che la volontà (Wille) è Dio, la volontà priva di regole accessibili, che agisce come cieco impulso irrazionale per la conoscenza sensibile e nel pieno dispiegamento del non-senso. In questo la volontà schopenhaueriana e l’assurdo de Le Mythe si compenetrano per indicare che nessuna indagine sul concetto Dio può essere evitata, ma solo affrontata dall’interno con la sapiente arte della parola.

4. Tra crudeltà volontaria e crudeltà creatrice

Ciò che principalmente caratterizza l’atteggiamento teologico riferisce alle condizioni della vita stessa la pretesa di rinnegare, esercitando il disprezzo73 (un odium dei74 molto particolare e solo in parte probante), un ordine fittizio e non voluto, che osservi la conquista dell’assurdo come punto di partenza. Tra le declinazioni del suicidio, Camus inserisce l’annullamento della vita come risultato di un corretto sillogismo, il suicidio logico appunto,75 un atto con cui si prova a rispondere, senza mediazioni di sorta, all’imbarazzo del semplice vivere. Ma il suicidio, risultante dall’assurdo e per il quale ci si domandava se fossero necessarie premesse logiche, può anche rappresentare una vendetta sulla vita, un gesto estremo di rifiuto o un fuori tempo anticipato ai massimi livelli. Dalla forma più moderata dell’edonismo consapevole (animato da una carica frenetica orientata al vantaggio e alla conquista) all’imitatio dei, l’elaborazione concettuale del suicidio attraversa in Camus tutte le fasi della rivincita, prima di prorompere nel mantenimento del vivente quanto più possibile. La certezza di una vita in atto serve a giustificare ne Le Mythe la stessa manovra di posizionamento dell’assurdo come valore teorico, ma oltre una semplice constatazione assertiva, finisce per prestarsi ad una strategia quantitativa, all’impegno della ripetizione, una formula di conservazione che ne dimostri in ultimo il primato della persistenza rispetto ad ogni annullamento.

Il passaggio dall’assurdo alla rivolta, caratterizzato dalla linea sotterranea del suicidio, giustifica l’arretramento alle variabili metafisiche finora menzionate. Non è quindi l’umanesimo di Camus a guidare questo confronto con Sgalambro, ma ciò che lo rende possibile come apertura e indietreggiamento alla precisa origine di ogni destino individuale. Poiché è sempre l’individuo a raccogliere le forze e ad organizzare il pensiero, ne L’Homme révolté Camus tratteggia una rivolta metafisica a partire dalla feroce dissidenza teologica di personaggi come Sade, protagonisti di una ribellione senza gloria e destinati ad entrare di diritto in una ‘storia del male’perché agguerriti detrattori di Dio e delle più comuni aberrazioni della religiosità popolare.

L’assurdo tratteggiato da Camus occupa bene lo spazio delimitato dalle due posizioni classiche della complicità di Dio o della sua inesisenza. Se Dio esiste, l’irragionevolezza del male e della crudeltà restano prove di una meschina volontà di sofferenza che non può che essere replicata in forme contingenti. La crudeltà artaudiana, contenuta senza troppe sorprese in una Révolte contre la poésie, ricorda bene l’inversione collocata nella storia del Verbo, la diretta trasmissione di un male non voluto eppure partecipato senza scampo, attenuato soltanto dall’illusione di potervi trovare rimedio in un futuro non precisato:

È attraverso la rivolta contro l’io e il sé che mi sono sbarazzato di tutte le cattive incarnazioni del Verbo che non furono mai per l’uomo che un compromesso di viltà e d’illusione e non so più quale fornicazione abietta tra la viltà e l’illusione. Io non voglio un verbo venuto da non so quale libido astrale e che fu del tutto cosciente delle formazioni del mio desiderio in me.76

D’altra parte, se Dio non esiste, nessuna colpa grava sugli uomini se non la legge transitoria e convenzionale, che non impegna in ulteriori progetti di salvezza. Agli occhi di Sade, l’inesistenza di Dio, rivalutata quasi per esorcizzare una crudeltà più empia,77 autorizza all’unica forma di dogmatismo possibile, alla rimozione di limiti che sorreggono l’unico istinto di natura (quello sessuale), fino all’eccesso ultimo alla condanna del vivente che è Apocalisse.

L’eguaglianza di cui parla è un concetto matematico: l’equivalenza di quegli oggetti che sono gli uomini, l’abietta uguaglianza delle vittime. Chi porta al limite il proprio desiderio deve dominare tutto, il suo vero adempimento è nell’odio.78

Se per fondare una libertà viva si è obbligati ad organizzare la necessità assoluta,79 l’uomo sadiano insegue la distruzione, vuole perpetrarla in forme d’odio sempre reiterate, nel perseguimento di una forma di godimento che può dirsi massimo ed estremo solo quando coincide con la distruzione.

Il ripiegamento del vivente su se stesso è in Sade il raggiungimento di un ordine che può reggersi soltanto con l’abbattimento di ogni altro ordine, in una riuscita che per Camus si fonda su occasioni di distruzione ripetibili, finalizzate al conseguimento di una compiutezza non più espugnabile. Nel grido di Sade si compie solo in apparenza una rivolta contro l’ordine fondato, perché ogni fondamento che può essere rivisitato non è mai fondante.

Ma dall’istante in cui il delitto sessuale sopprime l’oggetto della voluttà, sopprime la voluttà stessa che non esiste se non al momento preciso della soppressione. Bisogna allora sottomettere un altro oggetto e ucciderlo di nuovo, un altro ancora, e dopo questo tutti gli infiniti oggetti possibili. Si ottengono così quelle tetre accumulazioni di scene erotiche e criminali la cui fissità, nei romanzi di Sade, lascia al lettore, in modo paradossale, il ricordo di una turpe castità.80

Qui non si infrangono soltanto gli elementi antropologici già delineati dal risentimento scheleriano, ma la distruzione del prossimo,81 la sofferenza, il delitto, l’ateismo, si fondono in un finalismo perverso ed impareggiabile. La rivolta di Sade è una rivolta metafisica contro l’opposizione del vivere-morire non scelto, non soltanto diretta contro la certezza della morte attesa, quanto verso una felicità già ottenuta e che, pur in via del tutto ipotetica, potrebbe rivelarsi di gran lunga maggiore rispetto a quella conseguita. Contro questi aspetti limitanti e corrotti, il Sade conosciuto da Camus pretenderebbe di attuare quotidianamente lo scandalo e di infierire sul vivente perché ne possa conseguire qualcosa di migliore.

A modo suo, attraverso l’affronto metafisico all’intera creazione, l’eroe sadiano tenta un protagonismo senza eguali, che minaccia una potenza superiore e offende l’artefice della realtà irrisolta. È con quest’ultima opportunità che il protagonista coinvolto, con il suo ‘dire tutto’, si fa creatore, esaurendo il campo delle proprie possibilità e potenzialità creative, finendo per compiersi sì, ma con la sua stessa morte, che è conclusione — epica per alcuni tratti — della volontà, della stessa potenza di creazione.82 Già ne Le Mythe l’ipotesi di un creatore siffatto non incontra soltanto il limite della temporalizzazione delle opere rispetto all’artista che ne risponde, ma investe anche l’ipotesi della creazione più ardita, della creazione somma, analizzata e restituita nella disappropriazione nietzscheana della potenza individuale, quando Dio può essere pensato come il vero artista morente.

Tali immagini, forse, provano qualche cosa, ma i romanzieri, più che fornire agli altri queste prove, le danno a se stessi. L’essenziale sta nel fatto che essi trionfino nel concreto e che questa sia la loro grandezza. Il trionfo, assolutamente carnale, è stato loro preparato da un pensiero, in cui sono stati umiliati i poteri astratti, e, quando questi lo saranno completamente, in quello stesso istante, la carne farà risplendere la creazione di tutto il suo assurdo fulgore. Sono le filosofie ironiche che fanno le opere appassionate.83

La sostituzione dell’uomo a Dio — o di un dio ad un altro — passa per l’esilio del carattere tirannico e per l’abolizione di qualunque sottomissione, entrambi momenti coscienti della sostituzione d’identità e di apertura alla paralisi dell’assurdo. Non può esistere, forse, altro che una semplice successione di stati come rivolta, libertà, diversità,84 a coronamento di un lento processo di appropriazione in cui è l’assurdo a segnare la svolta principale.

Assolutamente fondante in questa manovra sovversiva, che porta l’uomo in cielo o scaraventa dio tra le cose, è sottrarre l’ebbrezza, lo stato di volontà, di cui Dio giustamente rivendica ogni paternità, rimozione che indica come la contraddizione tra non-senso e sensatezza può essere abolita imitando il Creatore, creando l’assurdità di ulteriori creazioni nel germe implacabile del volere. Un’eco della volontà schopenhaueriana racchiude probabilmente l’ultima ambizione dell’uomo arrivato e pacificato. Così pur potendo concludere che la vicenda di Sisifo riflette principalmente lo svolgimento di un dramma che può essere meglio raccontato da un narratore implicato nelle vicende che descrive, non è corretto asserire che la questione metafisica venga aggirata nell’opera di Camus perché sia unicamente privilegiato lo studio del complesso intreccio delle vicende umane. Se la rimozione delle illusioni della libertà metafisica, che Camus accenna ne Le Mythe, sollecita una revisione della singole azioni perché non più svolte per uno scopo soltanto contingente, è in questa stessa dimensione di partenza, e alla sua inevitabile rifondazione teorica, che si dovranno affidare tutte le circostanze (rifiuto a sperare, indifferenza per l’avvenire, esaurimento delle risorse date, assenza di gerarchie e valori) culminanti, in ultimo, in una forma di disprezzo e disapprovazione, entrambi di natura metafisica e strumenti di attuazione di quella sfiducia85 che spingerà a credere a Dio e non in Dio.86

Se si è potuto fare un ulteriore passo in avanti verso l’assestamento di coordinate esclusivamente teologiche, ciò è dovuto al fatto che tanto Camus quanto Sgalambro, pur muovendo da premesse assai diverse, condividono un interesse per la metafisica: nel primo, l’andatura antropologica è segnata da un esistenzialismo che nulla prende in prestito dalla cosmologia; Sgalambro, al contrario, saluta l’uomo attraverso la certezza del collasso termico e perviene, ancora sulla scorta di Nietzsche e Schopenhauer, all’assurdità di ogni valore attualizzando la fine e la sua sconcertante portata. In tutto questo, Sgalambro, che certamente insegue modelli assai differenti, sembra riprendere e perfezionare ulteriormente il dettato di Camus nella complessità di ogni suo più segreto risvolto teologico. Ma è in questo impasto tremendo, laddove si mescolano ambizioni e annullamenti, in cui spesso non c’è posto che per un solo eroe che cade, che vanno reperiti gli elementi dell’unica ontofilia praticabile.


  1. Si vuole richiamare l’attenzione principalmente sulla particolare accelerazione che ha investito, spesso senza preparare adeguatamente a possibili conseguenze svantaggiose, il settore tecnologico. O. Höffe, La sfida della civiltà globale. Dodici tesi, in «Iride» 17 (1996), pp. 9-15. ↩︎

  2. L’idea di una costante variazione nelle attitudini valutative soggettive attraversa tutto il capolavoro di R. Musil (Der Mann ohne Eigenschaften, Hamburg 1978, trad. it L’uomo senza qualità, Torino 1996), puntuale affresco di una civiltà in cui la fissità metafisica di valori persistenti è dismessa a favore di continua riorganizzazione ‘funzionale’. ↩︎

  3. A. Camus, Opere. Romanzi, racconti, saggi, a cura di R. Grenier-M.T. Giavieri, Milano 2003, [=MS], pp. 195-335. ↩︎

  4. A. Camus, Opere. Romanzi, racconti, saggi, a cura di R. Grenier-M.T. Giavieri, Milano 2003, [=LR], pp. 617-952. ↩︎

  5. Il pensiero di Sgalambro è noto in Italia a partire dall’anno di pubblicazione del suo primo trattato filosofico La morte del sole. Recentemente M. Perniola ha inserito Sgalambro tra gli autori dell’estetica italiana degli ultimi quarant’anni (Strategie del bello. Quarant’anni di estetica italiana (1968-2008), in «Agalma» 18 (2009), pp. 58-62). ↩︎

  6. M. Sgalambro, Trattato dell’empietà, Milano 2005, [=TE]. ↩︎

  7. M. Sgalambro, Dialogo teologico, Milano 1993, [=DT]. ↩︎

  8. L.L. Langer, The Age of Atrocity. Death in Modern Literature, Boston 1978. ↩︎

  9. A. Camus, MS, p. 205. ↩︎

  10. A. Camus, MS, p. 221. ↩︎

  11. A. Camus, MS, p. 228: «E così pure una dimostrazione per assurdo si effettua comparando le conseguenze del ragionamento con la realtà logica che si vuole stabilire. In tutti questi casi, dal più semplice al più complesso, l’assurdità sarà tanto più grande quanto più crescerà la divergenza tra i termini del mio paragone». ↩︎

  12. A. Camus, MS, p. 220. ↩︎

  13. A. Camus, MS, p. 290. ↩︎

  14. La rivolta conserva alternativamente una portata storica o metafisica (B. Rosenthal, Die Ideen des Absurden. Friedrich Nietzsche und Albert Camus, Bonn 1977, p. 72). Questa alternanza aiuta a giustificare l’esclusione di ogni ateismo perché ogni indagine che coinvolge la rivolta non può prescindere da una causa metafisica. ↩︎

  15. A. Camus, MS, p. 256. ↩︎

  16. M. Blanchot, Le détour vers la simplicité, in «Nouvelle Revue française» 89 (1960), p. 926. ↩︎

  17. L. Mailhot, Albert Camus ou l’imagination du désert, Montréal 1973, p. 45. ↩︎

  18. A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, IV,69 (trad. it a cura di S. Giametta, Il mondo come volontà e rappresentazione, Milano 2006, pp. 771-779). La rinuncia alla vita trattata da Schopenhauer risponde ad un’insoddisfazione personale e rivela il suo carattere privato e contingente che, prevedibilmente, non intacca l’affermazione della volontà. Nel definire il suicidio affermazione della volontà («ein Phänomen starker Bejahung des Willens», più che sua negazione), Schopenhauer sintetizza soltanto una declinazione del proposito suicida che in Camus arriva a comprendere ulteriori aspetti esistenziali, presenti indipendentemente dalle condizioni contingenti. ↩︎

  19. I prodotti dell’agire consolatorio si misurano, secondo Sgalambro (La consolazione, Milano 1995, pp. 30-33), nell’efficacia e non nella durata. Le potenzialità affidate alla retorica, al sapiente uso dell’ars fallendi devono provvedere ad una sostanziale revisione dell’accaduto attraverso l’uso sapiente della ‘parola’, tanto da restituire lo stato d’integrità perduto. È in tal senso che la consolazione pensata da Sgalambro può ricreare artificiosamente rimedi, ma non estromettere completamente le conseguenze dell’assurdo come disposte da Camus. ↩︎

  20. R. Rutkowski, Zwischen Absurdität und Illusion. Widersprüche und Kontinuität im Werk von Albert Camus, Frankfurt am Main 1986, p. 35. ↩︎

  21. Il compimento della vita non si reggerebbe, quindi, sull’intenzione di definire l’origine del male, ma di procurare più bene possibile vivendo quanto più possibile. Questa esigenza quantitativa della ripetizione (E.C. Rava, Il paradosso della rivolta. Saggio su Albert Camus, Milano 1980, p. 114) è la risultante di uno svantaggio metafisico che non trova altra spiegazione che l’assurdo. ↩︎

  22. A. Camus, HR, p. 627. ↩︎

  23. A. Camus, MS, pp. 266-267. ↩︎

  24. A. Camus, MS, p. 267. ↩︎

  25. A. Camus, MS, p. 636. ↩︎

  26. A. Camus, MS, pp. 637-638. ↩︎

  27. A proposito dell’individuo, del destino di riuscita e salvezza individuale, Camus e Sgalambro sembrano distanziati da premesse assai differenti che, tuttavia, possono convergere in una inevitabile valorizzazione di aspetti metafisici. ↩︎

  28. M. Sgalambro, TE, p. 87. ↩︎

  29. M. Sgalambro, Dell’indifferenza in materia di società, Milano 1994, p. 80: «La mia indifferenza per l’altro è il maggiore sforzo che io possa fare per lui. […]. A me non interessa dare da mangiare agli affamati (oltretutto i morsi della fame non li distraggono forse dai morsi della vita?). Sostengo sulle mie spalle qualcosa che richiede tutta la mia abnegazione. Sto parlando della verità. Una verità eterna e unica, io non vedo in meno di questo il compito sostanziale della professione del chierico». ↩︎

  30. H.R. Schlette, Albert Camus: Welt und Revolte, Freiburg-München 1980, pp. 53-54. ↩︎

  31. M. Sgalambro, DT, p. 53. ↩︎

  32. M. Sgalambro, TE, p. 172. ↩︎

  33. M. Sgalambro, La morte del sole, Milano 1982, pp. 99-101. ↩︎

  34. M. Sgalambro, TE, p. 35; Ibid., p. 24. ↩︎

  35. M. Sgalambro, De mundo pessimo, Milano 2004, pp. 230-231. ↩︎

  36. G. Benn, Lo smalto sul nulla, Milano1992, pp. 239-244. Assai significativa è la rievocazione del pessimismo delineata da Sgalambro (La conoscenza del peggio, Milano 2007, pp. 18-19): «’Il compito del pessimista è quello di indagare la verità definitiva’, e può aggiungere che di verità definitiva si può parlare solo secondo il metodo pessimista, e che sempre secondo questo metodo la verità si può indicare quasi con un dito. Dobbiamo infatti aggiungere che ‘verità definitiva’ è di per sé una nozione assolutamente pessimistica. Anzi, che qualsiasi verità definitiva ha a che fare col metodo pessimistico». ↩︎

  37. M. Sgalambro, De mundo, cit., pp. 215-216. ↩︎

  38. M. Sgalambro, TE, p. 98; Ibid., p. 167. ↩︎

  39. M. Sgalambro, La conoscenza, cit., p. 16. ↩︎

  40. Parlando di un ‘ethos della scrittura’ (M. Sgalambro, DT, p. 12), Sgalambro riassume così alcuni presupposti della sua attività letteraria: «Godo del mio lavoro, anche se mostruoso. Che io possa costruire, con spirito di letizia, una proposizione in cui faccio piazza pulita di sentimenti onorati e sfioro la criminalità. O confesso la mia viltà in deliziose sequenze che dicono quanto io stia godendo a scriverne. Ma la gioia della forma non compensa di nulla anche se vince spudoratamente». ↩︎

  41. M. Sgalambro, DT, p. 64; TE, p. 86. Id., De mundo, cit., pp. 209-211. ↩︎

  42. M. Sgalambro, TE, p. 86. ↩︎

  43. A. Camus, MS, p. 237. ↩︎

  44. A. Camus, MS, p. 247. ↩︎

  45. È a partire da una distinzione tra la libertà metafisica e la libertà assurda che E.C. Rava (Il paradosso, cit., pp. 102-106) ritiene di poter affermare che bisognerà attendere le conclusioni tracciate ne LHomme révolté per poter ricondurre l’analisi camusiana ad un’effettiva dimensione metafisica. ↩︎

  46. A. Camus, MS, p. 250. ↩︎

  47. M. Sgalambro, De mundo, cit., p. 209. ↩︎

  48. L’identità Dio-mondo che Sgalambro evoca riprende i tratti essenziali del panteismo spinoziano, ma non si limita a questo. Se considerato come Dio, il mondo è la volontà stessa cui si perviene nell’inspiegabile assenza di una giustizia, che non può che placarsi nelle limitazioni della morale determinate a posteriori. Ciò può anche rinviare (B. Rosenthal, Die Ideen, cit., p. 77) al primato della vita nietzscheano, l’unica riduzione possibile di Dio come divinizzazione dell’esistente a cui prendiamo parte. ↩︎

  49. M. Sgalambro, DT, p. 37. ↩︎

  50. M. Sgalambro, TE, p. 124. ↩︎

  51. M. Sgalambro, DT, p. 10: «Un’altra cosa che mi separa dai miei compagni è il loro impegno, quasi esclusivo, sui problemi ‘attuali’. Sui problemi di cui l’epoca ha bisogno. Imporre alla propria epoca un problema al quale essa rilutta, o almeno tentarlo, mi sembra cosa più adatta a chi fa onoratamente questa professione». ↩︎

  52. M. Sgalambro, DT, p. 39. ↩︎

  53. M. Sgalambro, DT, p. 48. ↩︎

  54. M. Sgalambro, La consolazione, Milano 1995, pp. 60-61. ↩︎

  55. A. Camus, MS, p. 270. ↩︎

  56. A. Camus, HR, p. 737: «In verità, la rivoluzione non è altro che il logico sviluppo della rivolta metafisica, e nell’analisi del movimento rivoluzionario ripercorreremo il medesimo sforzo disperato e sanguinoso per affermare l’uomo di fronte a quanto lo nega». ↩︎

  57. M. Sgalambro, TE, p. 35; Ibid., p. 58; DT, pp. 80-81. La definizione del cartesianesimo riportata da Alain (Propos, ed. M. Savin, Paris 1956, p. 568) ben si adatta alla strategia teologica impiegata da Sgalambro: l’incredulità scaturirebbe da una continua protensione ai modelli divini che, proprio perché non raggiungibili, quando proiettati nelle uniche forme contingenti disponibili subiscono continui attacchi secondo gli effetti di una pretesa giustizia. ↩︎

  58. M. Sgalambro, La consolazione, cit., pp. 94-95. È in questi passaggi che Sgalambro accenna al credere a qualcosa come al credere al male. ↩︎

  59. In un passaggio emblematico del Dialogo teologico (p. 56), Sgalambro accoglie la teologia come una scienza che, al pari di altre, deve avere il suo oggetto e ritenerlo verosimile. ↩︎

  60. M. Sgalambro, TE, p. 61. ↩︎

  61. M. Sgalambro, DT, p. 38. ↩︎

  62. M. Sgalambro, DT, p. 57. ↩︎

  63. M. Sgalambro, DT, p. 54. Id., TE, pp. 139-140. ↩︎

  64. M. Sgalambro, TE, pp. 64-65. ↩︎

  65. Per individuare una tendenza simile nell’opera di Camus, espressa nelle definizioni di panteismo, panpatetismo e animismo, si rinvia a H.R. Schlette, Albert Camus, cit., pp. 73-77. Lo Schlette introduce il termine ontofilia (Ontophilie) per indicare un’ontologia della mancanza che tuttavia confermerebbe un interesse metafisico in Camus senza alcunché di religioso. ↩︎

  66. M. Sgalambro, TE, p. 70; Id., DT, p.47. ↩︎

  67. A. Camus, HR, p. 648. ↩︎

  68. M. Sgalambro, DT, p. 38. ↩︎

  69. M. Sgalambro, La consolazione, cit., p. 98. ↩︎

  70. M. Sgalambro, La consolazione, cit., p. 39. Questa attitudine vale anche contro l’agire che non può avere alcun esito. Quasi con le stesse parole in Nichilismo e storia (HR, p. 730) Camus identifica il moto di rivolta dei maggiori rappresentanti del nichilismo come orientato, non alla conservazione della vita, ma alla precisa richiesta delle sue ‘ragioni’. ↩︎

  71. M. Sgalambro, DT, pp. 58-59. ↩︎

  72. M. Sgalambro, TE, p. 66. ↩︎

  73. M. Sgalambro, DT, p. 50. ↩︎

  74. M. Sgalambro, TE, p. 176. ↩︎

  75. A. Camus, MS, pp. 299-300. ↩︎

  76. A. Artaud, Rivolta contro la poesia, Brescia 2007, p. 28. ↩︎

  77. A. Camus, HR, p. 662. ↩︎

  78. A. Camus, HR, p. 664. ↩︎

  79. A. Camus, HR, p. 668. ↩︎

  80. A. Camus, HR, p. 669. ↩︎

  81. Nella sintetica ricostruzione del pensiero di M. Stirner (A. Camus, HR, p. 690), Camus vede il primato di una rivolta che giustifica il delitto, che trasforma il disagio del vivere in distruzione autorizzata del vivente. ↩︎

  82. A. Camus, MS, p. 308. ↩︎

  83. A. Camus, MS, p. 310. ↩︎

  84. A. Camus, MS, p. 310. ↩︎

  85. M. Sgalambro, De mundo, cit., pp. 213-215. ↩︎

  86. M. Sgalambro, DT, p. 50; Id., TE, pp. 109-110. ↩︎