Kant, il problema del trascendentale e della Teologia fondata sulla trascendentalità

1. Cosa si deve intendere per Trascendentale?

Il trascendentale, riguardando il modo attraverso cui si viene a conoscere, è legato alle rappresentazioni «non tanto di oggetti quanto del nostro modo di conoscerli». Connesso intrinsecamente al criticismo, esso è la condizione fondamentale della conoscibilità, pur non avendo alcuna origine empirica si presenta come la possibilità dell’esperienza. Il costante riferimento, nella Critica della ragion pura, alla cosiddetta «esperienza possibile» sottende il presupposto trascendentale che coincide con la possibilità ché gli oggetti possano essere riprodotti fenomenicamente e la condizione ché qualcosa possa essere esperito. L’esperienza non deve essere considerata come semplice conoscenza empirica, in quanto è di continuo relazionata ad un principio che preliminarmente garantisce la possibilità perché un oggetto possa apparire, cioè manifestarsi nella coscienza.

L’attività del nostro modo di … si esplicherebbe solo a livello fenomenico e ciò che appare dipende da un per me, fondamento della soggettività, quindi della stessa rappresentazione di una coscienza di sé. Tuttavia, il soggetto è in grado di riconoscere il fenomenico perché ammette una parte non subordinata al nostro modo di conoscere, un in sé non accessibile e pensabile come l’in-esse (cosa che è in sé), considerato come un ostacolo in grado di influenzare la mente umana. L’in sé o cosa in sé solo pensabile come concetto limite o concetto problematico, più che un oggetto del puro pensiero è un ‘dato’: un qualcosa che si dà non a partire da se stesso, ma in rapporto ad altro e la definizione di oggetto trascendentale farebbe pensare, contro le premesse della Critica della ragion pura, ad un’altra impostazione, presente nell’Opus postumum, che convaliderebbe un in sé dipendente da una relazione, da un rapporto trascendentale, pertanto «la cosa in sé […] non è un altro oggetto, bensì un’altra relazione (respectus) della rappresentazione allo stesso oggetto […] la differenza tra i concetti di una cosa in sé e di una cosa nel fenomeno non è oggettiva, ma semplicemente soggettiva».1 Il rapporto soggetto-oggetto deve rimandare ad un’altra relazione tra un in me ed un fuor di me, per tutto ciò soggetto e oggetto non possono essere intesi ontologicamente, come enti reali. Essere fuori e dentro, essere un in sé e un per sé, io e non-io sottendono, quindi qualche altra radice che ha rappresentato in passato e nel nostro tempo la chiave ermeneutica per poter comprendere l’essenza della metaphisica specialis (l’uomo, il mondo e Dio). La filosofia non ha la pretesa di venire a conoscenza dei tre elementi, ma di comprendere innanzitutto il rapporto tra l’uomo e il mondo, tra l’uomo e Dio e tra uomo e uomo, e il kantismo ha il merito di aver stabilito relazioni originali tra le tre componenti della metafisica classica (uomo mondo e Dio) e tra le stesse facoltà dell’uomo. È indubbio che nel rapporto tra i tre elementi, il trascendentale deve poter svolgere una funzione fondamentale fino al punto di porsi come l’origine di ogni possibile correlazione.

Nella Critica della ragion pura, tutto sembra essere informato di trascendentalità: l’estetica è trascendentale, come la logica, la deduzione, la dialettica. Non solo, tutte le facoltà dell’uomo possono essere comprese trascendentalmente: le categorie, le idee, l’io penso. Tuttavia, Kant non si attenne rigorosamente all’impiego del trascendentale, in quanto coesistono, contraddittoriamente, due vedute: da una parte chiama trascendentali tutte quelle parti informate da elementi a priori, e non gli stessi principi, e per tale aspetto sono da considerarsi trascendentali la logica, la dialettica, lo schematismo … ma non le categorie, le idee, lo schema, dall’altra, nel contempo Kant definisce trascendentali le stesse idee, l’io penso, tanto che anche tale «uso non (risulterebbe) rigoroso».2 Un altro aspetto da approfondire è l’uso della ragione e la sua idea di Dio, cui inspiegabilmente Kant attribuisce il concetto di trascendentale, senza che a tale idea possa corrispondere un oggetto, quindi la corrispettiva rappresentazione e tutto ciò manifesterebbe una contraddizione, giacché la ragione con le sue idee di fatto estende l’uso della trascendentalità in senso oltre-fenomenico.

Si ravvisa una certa omissione circa un riferimento principale, valevole ad informare, appunto rigorosamente, tutte quelle facoltà, quelle parti (logica, estetica, deduzione) della ragione pura, come se mancasse, all’intera impalcatura della ragione pura, l’esplicitazione di una chiara enunciazione, capace di risolvere malintesi: un anello mancante o l’assenza di un concetto e le diverse interpretazioni del kantismo possono dipendere proprio da una volontaria omissione.

La ragione ha facoltà di farsi un’idea, l’intelletto con le sue categorie può sussumere attraverso lo schema, l’equivalente di una categoria calata nel tempo — per ogni specifica facoltà dell’uomo deve corrispondere una differente costituzione della trascendentalità, in base alle caratteristiche specifiche delle facoltà? Oppure, ipotesi più ragionevole, il trascendentale risulta indivisibile e costante, indipendentemente dalle funzioni dell’intelletto e della ragione? Per tale aspetto, è presente una valenza trascendentale, da considerarsi in se stessa, che informa tutte le facoltà e che si caratterizza come un estendimento, un «voler rivolgersi a… » e che ha luogo in una soggettività pura. Kant ha interpretato trascendentalmente gran parte delle facoltà (come il tempo per sé, l’io penso per sé ecc.) rapportandole alla loro «identità originaria, senza tuttavia riconoscere quest’identità come tale».3 Solo che stabilire un carattere originario invalida di fatto la correlazione tra trascendentale-fenomenico-limite, a meno che non si voglia insistere sull’eventualità di due diverse direzioni coesistenti nel criticismo. Se l’intelletto opera con la presenza dei fenomeni perché si possa avere un’adeguata rappresentazione, la ragione invece può ‘regolarsi’per un impiego più esteso della trascendentalità e l’idea di Dio costituisce un chiaro esempio. Inoltre, l’immaginazione pura svolge la funzione di produrre gli schemi e questa produttività non subisce alcuna mediazione dalla rappresentazione empirica, pur accettando la considerazione che lo schema (l’immaginazione produttiva è produttrice di schemi) è comunque riferibile alla categoria, calata nel tempo. Da queste considerazioni possono essere dedotti due punti essenziali: il trascendentale non può essere limitato solo ad una rappresentazione fenomenica; coesisterebbero nella pura ragione facoltà poco, addirittura per niente, legate alla fenomenicità.

2. Correlazione tra a priori, puro e trascendentale

Il trascendentale può avere senz’altro un rapporto con l’insieme di tutti quegli elementi presenti nella ragion pura, come per esempio la definizione di puro, contrapposto ad empirico e prossimo ad a priori (contrapposto ad a posteriori) che originariamente significava ciò che precede e che Kant fondamentalmente conserva l’aspetto meramente formale, una conoscenza a priori «stabilisce qualcosa relativamente agli oggetti ‘prima’che ci siano dati». Anche la definizione concettuale di trascendentale indica un’anticipazione, ossia ciò che viene prima, ciò che precede un’esperienza rendendola possibile. Esisterebbe una correlazione tra gli a priori e il concetto di trascendentale, giacché quest’ultimo ha a che fare con le forme a priori, stabilendo il modo di rapportarsi alla realtà, la quale coincide il ‘fenomenico’. Quindi ciò che precede (a priori), l’antecedente (trascendentale) ed il puro (non sintetico), che è assimilabile sia all’a priori sia al trascendentale, sembrerebbero indicare la stessa cosa o meglio fanno pensare ad un’unica e originaria radice che Kant non esplicita, anzi tralascia, e non ci è dato di sapere se deliberatamente. L’impossibilità di stabilire una valida distinzione tra a priori, puro e trascendentale ci porta a concludere che tra questi tre concetti debba esserci un certo legame o addirittura che essi siano sinonimi. Puro, trascendentale ed a priori non sono dedotti da qualcosa d’altro, non sono ricavati dall’esperienza, tantomeno devono essere intesi in senso innatistico. La posizione criticistica farebbe pensare all’uso del postulato che ammette, appunto a priori e per evidenza, un principio, non dimostrato, per poter spiegare qualsivoglia teoria. Solo che i «postulati del pensiero empirico» sono gli stessi princìpi strutturati sugli a priori e proprietà pure che a loro volta rappresentano i fondamentali di altri princìpi puri come per es. le stesse categorie, denominate appunto principi puri. Per tale aspetto, gli a priori sono a base di altri concetti puri, come se un postulato nella sua purezza e indimostrabilità servisse da fondamento per spiegare ciò che a sua volta si presenta come puro, che deve prestarsi come principio per un altro potulato.

Kant come altri filosofi sembra aver adottato una vera distorsione nei confronti della originaria definizione concettuale di trascendentale nel senso che questo termine era stato utilizzato da alcuni pensatori della scolastica per designare l’essere, assieme ad alcuni predicati universali da intendere in senso prettamente trascendente, comunque non assimilabile alle categorie, tantomeno a qualsivoglia funzione conoscitiva. Pur stabilendo una certa analogia con il significato dato dalla Scolastica, riguardo al modo di intendere il trascendentale (che sotto certi aspetti ha in comune con il criticismo l’universalità) , tuttavia tale concetto viene assunto solo per quegli elementi a priori deputati alla conoscenza e in funzione del nostro modo di. A differenza degli scolastici che attribuivano il concetto di universalità alle realtà in sé per sé esistenti, Kant lo assegna, solo formalmente, a tutti quegli elementi, deputati alla conoscenza.

Non risulta ancora neppure abbozzata la filiazione genetica della trascendentalità, a meno che non si risponda con un’impostazione che faccia riferimento ad un uomo che si trovi nella condizione di poter solo prendere atto di una funzione universale, già bella e fatta ab origine, ma tale supposizione sembrerebbe del tutto arbitraria. Si avverte l’esigenza di assegnare alla conoscenza umana un fondamento di derivazione non empirica, non legato però a principi innati, o a teorie tipiche del dogmatismo che ricorre a idee meta-empiriche. Sostenere una derivazione antidogmatica e anti-emperica, non aggiunge niente rispetto alla natura di una fondazione trascendentale se prima non si chiarisce la sua origine che avrebbe dovuto costituire la base di tutta l’impalcatura teoretica della ragione. Kant avrebbe quindi spiegato solo la funzione o lo svolgimento delle varie facoltà umane, ma non avrebbe svelato la natura della trascendentalità che sottende, nel contempo, sovrasta l’esperienza e la realtà ridotta a fenomenicità. Alla domanda che cos’è il trascendentale (?), si risponde con la riduzione fenomenica e col nostro modo di conoscere, ma il modo attraverso cui si viene a conoscere deve far riferimento a tutte quelle facoltà che da sempre sono contrassegnate trascendentalmente e non solo, se il trascendentale si riduce al fenomenico, a sua volta il fenomenico chiama in causa il trascendentale.

3. Il trascendentale come nostro modo di conoscere o modus essendi?

Nella Critica della ragion pura si fa spesso riferimento al concetto di trascendentale senza che si possa avere un’idea chiara e inequivocabile e in quelle poche pagine in cui si definisce la trascendentalità si ha la sensazione di trovarsi nell’impossibilità di afferrare un’esplicitazione certa, tantomeno un’indicazione sulla sua genesi. Kant, una volta decisosi a riscrivere la seconda edizione, si è guardato bene dallo specificare il senso della trascendentalità, che nella prima edizione risulta essere compresa all’interno della soggettività, ma non definita in modo chiaro, soprattutto per ciò riguarda la filiazione genetica. Per Husserl mancherebbe non tanto una fondazione diretta,4 puntata sulle fonti originarie, quanto una profonda penetrazione che avrebbe consentito di spingere l’uso trascendentale in campi diversificati, invece il criticismo si sarebbe tramutato in semplice gnoseologia specie con l’edizione del 1787 che confinerebbe la filosofia trascendentale nell’ambito psico-metodologico delle scienze. Compiere un estendimento ermeneutico ragionevole e plausibile della seconda edizione, specie riguardo al rapporto tra l’edizione del 1781 e 1787, trova piena giustificazione grazie alla precisazione offerta dallo stesso Kant che esplicita che le correzioni nella seconda edizione «importano per il lettore una piccolissima perdita, alla quale ognuno può mettere riparo, quando gli piaccia, con il confronto della prima edizione»,5 infatti, precipuo compito consiste nel porre riparo o rimedio senza snaturare comunque il criticismo.

Il modo attraverso cui avvengono le conoscenze andrebbe sostenuto dal «modo entro cui» si manifesta una possibile conoscenza, in quanto la tematizzazione di un per sé e un in sé (non conosciuto e non accessibile) rimanda ad una configurazione preliminare, che deve anticipare la costituzione di un dentro di me e di un fuor di me, per la fattispecie fenomeno e noumeno sono posti e non dati, ed entrambi oltre ad essere in stretta relazione devono poter dipendere da qualche altra ‘cosa’.

Che cosa rende valido il presupposto trascendentale o la condizione trascendentale? Qual è il fondamento del trascendentale? Kant redarguisce Aristotele per aver affrontato rapsodicamente il problema delle categorie e soprattutto per l’assenza del filo conduttore che non avrebbe permesso una strutturazione rigorosa dell’intera impalcatura della ragione. Anche Kant, comunque, avrebbe commesso lo stesso errore e solo in parte può essere convalidata l’affermazione: «la filosofia trascendentale ha il vantaggio, ma anche l’obbligo, di ricercare i suoi concetti colla guida d’un principio»,6 in quanto il richiamo al principio non viene esposto in modo chiaro e Kant non poteva esplicitarlo per aver eluso un’adeguata tematizzazione del concetto di trascendentale. Eppure, la Prima Edizione del 1781 avrebbe offerto una possibile risposta con un richiamo all’appercezione trascendentale7 (appercezione originaria); l’appercezione o la coscienza o la soggettività si scopre come facoltà trascendentale, la coscienza sembrerebbe identificarsi con la pura trascendentalità. Il primo pensatore ad accorgersi dello stretto rapporto tra coscienza e trascendentalità è stato Husserl, per aver compreso che «tutta la problematica trascendentale si aggira attorno al rapporto di questo mio io — dell’ego -».8 Tuttavia, per Husserl come per Heidegger, Kant pur fondando la filosofia trascendentale non sarebbe riuscito a spingersi fino in fondo così da sviluppare tale condizione in ambiti inusuali, perché limitato dalle condizioni del suo tempo. Husserl, ancor prima di Heidegger, avverte la possibilità che nella critica kantiana possa celarsi una verità taciuta, implicita, la cui scoperta avrebbe potuto dare avvio non solo ad un nuovo modo di intendere l’uomo e il mondo, ma anche ad una «nuova dimensione filosofica». Tutto ciò che si conosce del kantismo si riscontra nell’ambito della superficie,9 rimane da cogliere questa verità non detta e apparentemente inafferrabile. La mancanza di rigore e l’ambiguità possono dipendere da un qualcosa che Kant non si sente di spiegare, per motivi poco chiari e non certo legati ad un’eventuale ricaduta all’idealismo. La radice dell’impianto teoretico (radice oscura) si trova in un altro posto, nell’altra Critica (quella del 1781), che non si studia nelle scuole o università, ma che di fatto ha consentito lo sviluppo originale del pensiero e ha dato i ‘fondamentali’per l’idealismo, la fenomenologia, l’esistenzialismo…

La coscienza per essere trascendentale si qualifica nell’anticipazione, nel suo rivolgersi a sé e al mondo esterno, nel distendersi nell’in sé e nel fuor di sé, e Platone, (l’anima mi si mostra come ciò che nel ‘passaggio’attraverso se stessa prende di miraTeeteto), aveva compreso la natura della coscienza nel ‘passaggio’, un rapportarsi a sé e all’altro da sé per un ritorno proficuo, e non un abbandono che è estraneazione da se stesso. Il trascendentale deve indicare qualcosa di diverso, non assimilabile ad una mera questione di metodo, ché una ricerca più profonda potrebbe consentirci di sostenere che in Kant è presente una distinzione tra conoscenza e possibilità della conoscenza da intendere, quest’ultima, nel modo di una «origine non empirica di queste rappresentazioni»,10 quindi il trascendentale pur consentendo la conoscenza non può coincidere con il semplice fenomenismo.

Contro l’impostazione kantiana, il problema del rapporto con l’altro (che è l’oggetto e l’altro uomo che per la Critica della ragion pura non è posto nemmeno come problema, e demandato in un ambito solo morale) non si pone nei termini di una mera conoscenza, ma di un dis-porsi nell’oltre il sé, in un’apertura all’altro e il mondo. L’assunto «secondo il nostro modo di conoscere» andrebbe convertito in «secondo il nostro modo di essere», che non riguarderebbe solo le conoscenze sintetico a priori, ma la tematizzazione dell’essere in sé e per se stesso. Tutto ciò è giustificato dalla considerazione fondamentale che l’in sé, sia che si riferisca all’oggetto che al soggetto, chiama in causa, contro lo stesso kantismo, il problema dell’essere, dal criticismo trasfigurato in noumeno.

Per il kantismo esistono tre limiti, analizzati e superati in modo diversificato: l’oggetto-natura, rappresentato a partire dalla conoscenza intellettiva, Dio e l’uomo — problemi, questi ultimi, riprodotti, successivamente, in un’ottica prettamente etica. Non a caso già a partire dalla dialettica trascendentale si ravvisa una seppur pallida indicazione morale, come se l’idea non bastasse da sola a legittimare il problema-Dio. Nella Dottrina trascendentale del metodo si fa appello, per questioni che riguardano Dio, la fede e un altro mondo, ad un intreccio tra sentimento e morale11 e ancora un richiamo ad «una ragione moralmente legislatrice?…? per legare questa immediatamente all’idea di un Ente supremo».12 Man mano che affiora il rimando alla moralità, che viene ad esplicarsi interamente nella Critica della ragion pratica, il trascendentale perde pian piano la sua influenza fino a scomparire del tutto nelle opere successive, per poi riaffiorare in alcune pagine dell’Opus postumum. L’uso del trascendentale viene tuttavia convalidato per la conoscenza degli oggetti e per Dio della ragione trascendentale, ma non per la comprensione del sé e dell’altro che trovano legittimità solo nella Seconda critica.

Il kantismo pone il non rappresentabile in due limiti fondamentali: il noumeno (concetto limite per circoscrivere le pretese della sensibilità13, e Dio, da intendere entrambi come la oltre-esperibilità. Il problema-uomo nella Critica della ragion pura non viene tematizzato e la riduzione dell’uomo ad una questione prettamente epistemologica e in seguito etica non convince, in quanto esso si pone per la sua complessità, nella maniera di un in sé per me, nel preciso senso che l’altro uomo per me è un problema non facile, e non certo risolvibile a livello fenomenico (partire dalla mia esperienza per comprendere l’altro) o meramente etico.

Il noumeno viene a qualificarsi nell’in-essere, ossia come cosa in sé e Kant avrebbe riposto il problema dell’essere nel noumeno, mentre in Aristotele tale questione (libro IV della Metafisica) viene a caratterizzarsi non solo come l’essere in quanto essere, ma anche l’essere come «ciò che in antico ed ora […] sempre rimane senza accesso» (Aristotele, Metafisica, libro VII). Non solo, il noumeno oltre ad essere l’inaccessibile (il senza accesso nella maniera aristotelica) per la conoscenza, rappresenta anche ciò che è al di là dal nostro modo di conoscere. La cosa in sé è la distorsione, il surrogato dell’essere che viene a prospettarsi come la parte puramente intellegibile rispetto al fenomeno. La cosa in sé è l’irrappresentabile, non riducibile a qualsivoglia funzione o principio della pura ragione e in questo senso essa si pone come l’al di là di ciò che può essere sussunto: il noumeno riproduce il problema dell’essere trasposto e opportunamente celato per non far coincidere l’in sé con il per sé, quindi l’essere con la rappresentazione soggettiva e fenomenica.

Quando Kant fa riferimento al trascendentale, intendendolo solo nel nostro modo di conoscere, di fatto si riferisce unicamente all’attività dell’intelletto, senza minimamente considerare che la trascendentalità avrebbe dovuto assumere una condizione pre-categoriale che, oltre ad informare le funzioni deputate alla conoscenza fenomenica, è in grado di estendere se stessa oltre la destinazione meramente gnoseologica. Un altro paradosso della filosofia kantiana sta proprio nel tentativo dell’uomo di andare oltre l’esperienza e il reiterato richiamo kantiano di non poter andare oltre il fenomenico convalida l’idea per cui l’uomo è da sempre tentato di andare oltre, nonostante il rischio di cadere nell’errore, come la colomba che pensa di volare più agiatamente senza la resistenza dell’aria. Proprio in questo tentativo si ha coscienza che l’uomo non si contenta del fenomenico, giacché vuol dare voce a ciò che è impossibile per esperienza, ma possibile per la sua disposizione, per una sua pretesa: un chiedere che non coincide con una presunzione, ma con una condizione intrinseca che si pone, appunto, nella possibilità di oltrepassare i limiti di ogni esperienza possibile e dell’apparenza. Come dire, l’uomo avverte l’esigenza di spingersi oltre, e questo suo disporsi al di là di ciò che è possibile fenomenicamente deve poter sottendere una pura facoltà dello spirito, eternamente pronta, nonostante tutto, a mettersi in pericolo, ad arrischiarsi nel prendere il volo contro la logica dell’intelletto, oltre i limiti imposti dalle categorie. Oltrepassare i limiti dell’intelletto è una possibilità, una naturale condizione che può dipendere proprio dal nostro modo di essere trascendentalmente che ci porta addirittura nell’anticipazione fino ad oltrepassare l’uso regolato e logico dell’intelletto. Una disposizione trascendentale esplicantesi nel suo distendersi, comproverebbe la possibile apertura della coscienza, la cui destinazione va ben oltre la conoscenza, in quanto orientata ad una penetrazione più profonda, più comprensiva, ossia un prendere con sé. Per tale aspetto, la natura della disposizione convalida l’uso più puro del trascendentale che indica un volgersi a sé ed ad altro da sé, l’essere dentro e fuori — una coincidenza tra l’immanenza e la trascendenza. Tutte le facoltà come l’intelletto, l’immaginazione, la ragione, l’appercezione possono mediarsi con altre facoltà e con l’oggetto-fenomeno, in quanto sono contrassegnate da una pre-tensione che non può coincidere con le funzioni o principi trascendentali e tantomeno consumarsi esclusivamente nell’uso fenomenico. La definizione di appercezione significa aver coscienza di percepire, ma la percezione oltre ad essere legata al fenomeno si rende possibile grazie ad un in sé. Questi due aspetti sono differenti in quanto implicano due diverse tipologie di orientamento. Se affermo che esiste un in me solo in rapporto al fenomeno, devo supporre che tutto ciò che ha a che fare con la coscienza dell’uomo può dipendere dallo stesso rapportamento ad un qualcosa che è altro, per cui l’assunto potrebbe essere esposto: io ho possibilità di conoscer-mi fenomenicamente, quindi esisto. Ma l’attività del conoscere non è data soltanto da un fuori, perché la coscienza si imbatte in contenuti che si svolgono anche dentro di me. Ora tutto ciò che si produce dentro di noi può avere una causazione dal mondo esterno, ma è indubbio che ciò che si avverte in sé è un contenuto che si svolge, si dilata indipendentemente dai fenomeni esterni. La ragione con le sue idee, in fondo, testimonia un significato più ampio dell’uso del trascendentale non legato all’attività sensoriale e quindi alla possibilità dell’esperienza e nemmeno dell’intelletto che deve mediarsi con le rappresentazioni. Ci si affida alla natura stessa della ragione per giustificare le tre idee, senza spiegare debitamente l’origine di queste pure intuizioni. In tale ambito il trascendentale viene a svolgersi al di là dell’esperienza e il convalidamento di questo uso è dato dalla intrinseca natura della ragione, che avrebbe dovuto affrancarsi dall’innatismo e soprattutto dall’empirismo.

4. La non-presenza dell’oggetto fenomenico

Kant sosteneva a proposito dell’io penso: «unità sintetica dell’appercezione trascendentale deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni» e aggiungeva che senza quest’io è impossibile che possa aversi alcuna unità e sintesi. Il fenomeno è indispensabile per l’Io penso, almeno nel suo operare per sintesi; tutto ciò che vien pensato, per poter essere, abbisogna del fenomenico e su qualcosa si può affermare l’esistenza o la non-esistenza solo a partire dall’esperienza. La mia esistenza è data dal fatto di pormi in relazione a qualcosa di fenomenico, o dalla constatazione che, già, io dispongo intuitivamente dell’esistenza di oggetti o di me medesimo? L’essere io, cosciente di me, oscillerebbe in Kant secondo due prospettive: una pura e l’altra sintetica. Non si deve escludere la possibilità di cogliere una autocoscienza originariamente e trascendentalmente, anche se una simile questione comporta una ricerca non certo priva di ostacoli. Per poter ampliare questo aspetto, è necessario far riferimento all’immaginazione trascendentale, una facoltà di rappresentarsi un oggetto intuitivamente, anche senza la sua presenza. Per tale questione, si insiste però su un’altra facoltà: l’intelletto, che regola a priori un’immagine, per es. geometrica, nell’intuizione. L’immaginazione è possibile solo con il sostegno dell’intellezione, quindi la non-presenza è legata alla facoltà dell’intelletto. Questo modo di intendere è tipico della Seconda edizione, dove l’immaginazione, ma aggiungiamo pure la soggettività, è sottomessa alle condizioni imposte dall’uso ristretto dell’intelletto. Ci sono scienze che possono svilupparsi di più e meglio senza il vincolo fenomenico, attraverso l’immagine pura, per esempio la figura del cerchio dipende dalla facoltà pura di immaginare e nient’altro, in quanto non è possibile appurare nella realtà qualcosa che si avvicini il più possibile ad un concetto di un cerchio. Altre scienze, invece devono necessariamente esporsi alla rappresentazione fenomenica o esperienziale. La considerazione per la quale l’io deve poter accompagnare le rappresentazioni riproduce l’altro paradosso, in considerazione del fatto che l’io può conoscere solo rappresentandosi un qualcosa, nel contempo esso così agendo si rende sinteticamente consapevole che esiste. Siccome qualsivoglia rappresentazione è in funzione alle regole dell’intelletto puro, anche l’io alla fine sembra essere sottoposto ai principi puri. Si sa che l’immaginare, a meno che non si tratti di una chimera o di un sogno, è sempre legata all’esperienza: immaginare altro non è che l’espansione di un qualcosa di cui si è avuto una certa esperienza, in questo caso Kant direbbe che si è di fronte ad un’altra immaginazione desunta da una percezione e che è definita di tipo sintetico (immaginazione riproduttiva).

5. L’Io e l’Altro

Il motivo per cui l’uomo abbisogna del riferimento esperienziale dipende da una soggettività non sostanziale, né compiuta. L’incompiutezza è l’evidente manifestazione della pura trascendentalità di un soggetto che si viene a segnare nel suo «dis-porsi» per esperire ed ottenere più ricchezza da ogni incontro. Il criticismo andrebbe rivisitato al fine di superare l’impostazione della filosofia del limite e dell’ermeneutica della finitudine, in considerazione del fatto che il concetto di trascendentale si segna nel porsi oltre un io finito. Affermare (contro l’ontologismo heideggeriano e l’esistenzialismo sartreano) la metafisica del finito o del limite significa porsi all’interno di un pensiero che delinea l’uomo come un essere limitato perché chiuso ed impedito dal fenomenismo. L’esser aperto all’altro dipende da una tendenza e da una profonda inquietudine dello spirito che vuole intendere (tendere verso), non solo secondo le esigenze dell’intelletto, ma soprattutto nella direzione dell’oltrepassamento. Il trascendentale solo in questo senso può esporsi al trascendente: la possibilità di fare esperienza sottende all’origine un rivolgersi a qualcosa e siffatta radice è la condizione, appunto, della possibilità di un estendimento, termine quest’ultimo spesso utilizzato da Kant. Il contatto con un oggetto forma una rappresentazione fenomenica, il soggetto avverte il limite nell’io penso, che per poter pensar-si deve essere accompagnato da qualcosa di altro, ma è indubbio che il suo rivolgersi a … , indipendentemente ad alcunché di esteriore, non viene a cessare. Cosa avviene quando la soggettività del soggetto trascendentale si rivolge a qualcosa che non si percepisce come questo oggetto? Il cogliersi dell’uomo come essere finito si manifesta solo nella sua soggettività, nell’impossibilità per la sua stessa possibilità di spingersi oltre, nella trascendenza che non implica un oltre-oggetto. L’essere finito dell’uomo si manifesta nell’ambito della relazione soggetto-oggetto, per tale aspetto il soggetto si sente limitato e già compiuto, la finitezza implica, appunto, il senso di destino completato dell’uomo di svolgersi nel regno del limite-finito o mondano.

Il poter essere della ragione viene a compiersi con un Dio che non è oggetto o idea di esperienza, l’idea di Dio e non «un’affermazione di un’esistenza necessaria in sé».14 Ma un Dio non dato o una idea non esperibile sta a significare una fondamentale mancanza per la mente umana che non può ciò che vuole che sia. Un volere, però, di non potere disporre di un’esperienza né di un oggetto adeguato manifestano non una metafisica del limite, ma soprattutto un vuoto di una ragione che fa della fondamentale mancanza o assenza la radice della filosofia trascendentale. La ragione trascendentale, nel suo non poter essere, per non poter provare l’esistenza del suo ‘oggetto’, rappresenta l’origine per tutto ciò che può essere definito, oltre Kant, come religione trascendentale.

Se la ragione è in grado di formarsi l’idea di Dio lo deve all’uso del trascendentale che si volge non solo all’oggetto-fenomeno, ma anche al non-rappresentabile. Per tale aspetto, Kant, affermando che l’idea trascendentale non è un qualcosa di arbitrario, poiché dato «dalla natura della stessa ragione»,15 mette in risalto un uso in grado di sconfinare nella trascendenza fino a sorpassare i limiti di ogni esperienza, un esporsi nell’oltre, senza poter essere in presenza di «un oggetto che sia adeguato all’idea trascendentale».16 La ragione con le sue idee non potendo, a differenza dell’intelletto, aver di fronte un ente tantomeno una rappresentazione, è inadeguata a constatare l’effettiva esistenza di un Ente di sommo grado. La teologia concepita alla maniera ontoteologica, da Kant collocata all’interno della teologia trascendentale, pensa di conoscere la esistenza (di Dio) mediante semplici concetti, senza il soccorso della minima esperienza.

La ragione però per sua natura (trascendentale) può porsi nella direzione «di procedere oltre l’uso empirico […] fino agli estremi confini di ogni conoscenza».17 Il non poter trovare un Ente deve condurci a constatare un uso più puro della trascendentalità per la condizione di non scorgere un dato, tantomeno conoscere alcunché. La ragione non trova un Dio come ente, né poteva trovarsi di fronte a qualcosa, la sua natura si caratterizza problematicamente nell’esporsi all’oscuro, nella totale mancanza di conoscibilità; rimane impresso, tuttavia, il sigillo esteriore di un principio regolativo della ragione o di un ideale, un aspetto meramente formale ed estrinseco che non soddisfa, comunque, la natura della pura trascendentalità. L’idea di Dio deve rappresentare la riduzione estrinseca per un uomo che pensa di accontentarsi di una minimale teologia incentrata sull’idea Dio. L’idea, intesa kantianamente, deve invece far pensare alla trascendentalità nella direzione dell’irrappresentabile, il cui senso sfugge all’opposizione sotto forma di esistente-inesistente, perché si sottrae all’intuizione ed all’intellezione. Sotto tale ottica, Dio è il non-dato, il non-ente, il non-rappresentabile, il non-detto, il non-comprensibile per la sintesi-a priori, per i principi puri, in quanto rappresenta un di più, un’eccedenza rispetto a qualsivoglia concetto. Tutto ciò testimonia una produzione necessaria da parte della ragione umana che obbedisce a «leggi originarie»18 e comunque riferibili alla soggettività, benché manchi l’oggetto «che corrisponda ad un’idea», (I. Kant, vol. 2, p. 313) nonostante non possa esserci una conoscenza adeguata, l’uso dell’idea rivela solo «un concetto problematico».19 Per questo modo di intendere, le risultanze convalidano la problematicità di un’esposizione al non dato, al non esperibile e l’impossibilità di discernimento rendono possibile ciò che si definisce come teologia trascendentale, il cui intrinseco significato si esplica proprio nell’impossibilità di rappresentare un qualcosa. Il non poter constatare l’esistenza di Dio, fondamentalmente rappresenta il cedimento della pretesa di una ragione che rivendica il vanto di poter tutto. La filosofia trascendentale, riferendosi ad una semplice idea per evocare l’essere possibile di Dio, di fatto vuole invalidare la presunzione di un soggetto che spesso si avverte come il «re sole» del pensiero fino al punto di arrogarsi il diritto di spingersi là dove il suo potere non coincide con la sua volontà.

6. La possibilità di una teologia intesa trascendentalmente

Riguardo alla questione teologica kantiana, credo sia necessario fare alcune precisazioni che possono essere così sintetizzate:

  • il criticismo offre diversi spunti per rivisitare la definizione concettuale di Teologia;
  • la teologia non può essere equiparata alle altre scienze, in quanto non dispone di un oggetto specifico di studio;
  • la teologia, pur non occupandosi di un determinato ente, può riconsiderare un possibile «contenuto» non assimilabile all’oggetto o ad una generica e semplicistica intuizione;
  • il cercato (l’essere supremo) è sempre in rapporto a colui che eternamente si pone nella direzione della ricerca; il cercare non implica, come avviene nella quotidianità mondana o per la mentalità scientifica, uno scopo, perlopiù volto a conseguire risposte funzionali ad ogni costo;
  • la teologia non è una scienza e non può servirsi di una semplice rappresentazione soggettiva o inter-soggettiva, né può far riferimento ad una soggettivissima esperienza interiore o ad un momentaneo sentimento religioso;
  • se per la religione può aver senso l’identità tra il cercare e l’aver incontrato, per la teologia dovrebbe valere soprattutto il cercare (perché ho la possibilità di … );
  • con Kant-oltre-Kant, la morale pura pratica non può aver la pretesa di surclassare la teologia;
  • puntare sulla dimostrazione ontologica o cosmologica (prove sull’esistenza di Dio) o sulla critica agnostica dell’inesistenza può pure convincere alcuni filosofi, ma contraddice l’autentica disposizione e possibilità dell’oltre. L’uomo può pure ammettere logicamente e metafisicamente l’esistenza dell’essere originario, tuttavia se non avverte amicizia per tale essere, finisce con il proclamare la totale indifferenza nei confronti di una «accertata»esistenza; è come affermare: so che esisti ma non ti sento, quindi per me è come se non esistessi;
  • affermare o negare l’esistenza di Dio sottende la stessa logica, in quanto entrambe le prospettive non dispongono di un argomento fermo e inconfutabile (sotto l’aspetto scientifico ed ancor meno empirico). Diversa è l’impostazione di chi crede per fede, giacché il credente non abbisogna di conoscere niente — se l’essere supremo si manifestasse sarebbe impensabile aver fede;
  • - La teologia, non trovandosi nella condizione di occuparsi di un oggetto, paradossalmente si presenta come una disciplina privilegiata in base alla sua pre-onticità, quindi ha pieno diritto di estendere metodo e contenuti ad altre discipline, ché le stesse possano trovare giovamento dal continuo confronto interdisciplinare; è altrettanto ragionevole pensare che debba essere praticata la direzione inversa;
  • La teologia beneficia più e meglio di altre discipline di una smisurata presenza di contenuti coscienziali, un privilegio tutto suo di trovarsi continuamene esposta alla pura trascendentalità;
  • non è necessario stabilire se Kant sia stato un agnostico, un credente o meglio (ipotesi attendibile) un cercatore di Dio, ciò che può interessare è scandagliare il criticismo al fine di rifondare il nostro modo di pensare l’uomo, il mondo e l’oltre- fenomenicità.

Una fondazione di una teologia trascendentale, per Kant, sarebbe impossibile per due considerazioni principali:

  1. perché intende dedurre l’esistenza dell’essere originario da un’esperienza in generale (senza determinare nulla di più intorno al mondo a cui essa appartiene), e si dice cosmoteologia;
  2. perché crede di conoscere la sua esistenza mediante semplici concetti, senza il soccorso della minima esperienza, e vien detta ontoteologia (in nota 22). Riguardo al punto (2) lo spunto critico è di presumere di provare un’esistenza tramite semplici concetti, non appurati empiricamente. Questa impostazione teologica sembra ricalcare più l’abuso dell’intelletto e dell’estensione categoriale, che un significato allargato di trascendentale, quindi un’interpretazione assimilabile all’uso scriteriato dell’intelletto. Il (1) argomento puntualizza l’impossibilità di stabilire, per deduzione, l’esistenza dell’essere originario affidandosi all’esperienza che è sempre configurabile in una sfera (cui essa appartiene) prettamente fenomenica.

L’uso del trascendentale informa non solo tutte le facoltà rivolte al fenomeno, ma anche quelle idee che nulla hanno a che fare con l’esperienza. L’impossibilità per l’intelletto si trasforma in possibilità della ragione che, pur ammettendo una semplice idea di Dio, non può dar certezza circa l’esistenza che tuttavia diviene solo possibile. La possibilità del sovrasensibile viene a delinearsi proprio in chiave trascendentale almeno sotto l’aspetto problematico di idea e non di esistenza.

Altre considerazioni che devono emergere da questa analisi possono essere così riepilogate, in base ai seguenti assunti, estrapolati dall’Opus:

  1. «trascendentale e trascendente non sono la stessa cosa»;20
  2. il trascendentale «trae il suo nome dal confinare col trascendente, nonostante il pericolo di cadere non solo nel soprasensibile, ma addirittura in ciò che è privo affatto di senso».21 (Da confrontare con la citazione — nota16 «di procedere oltre l’uso empirico […] fino agli estremi confini di ogni conoscenza»).

Pur mantenendo fermo il principio per il quale tra trascendentale e trascendente non possano esserci transiti teologico-speculativi, la posizione principale dipende dall’impossibilità che l’uso del trascendentale possa fondare il trascendente. I punti di cui sopra, però, sembrano evidenziare una certa dubbiosità: da una parte si afferma la diversità tra trascendentale e trascendente, dall’altra si sostiene un certo confine, il cui senso non indica un limite invalicabile, uno sbarramento con il trascendente: il confinare sta a significare un’intrinseca vicinanza — il trascendentale è in continuazione esposto al trascendente.

Il pericolo di cadere nel soprasensibile è cosa ben diversa dal cadere in ciò che è privo di senso, per la semplice considerazione che l’insensato è ciò che va oltre l’uso della ragione. Il trascendentale trae il suo nome… , cioè è nella possibilità di avvicinarsi in prossimità del trascendente, che è altra cosa dallo sconfinare, ossia identificarsi totalmente con la trascendenza. Se l’uomo può trarre beneficio dall’uso legittimo di volgersi in una certa direzione, ciò sta a significare che l’idea trascendentale può esporsi senza incorrere nell’errore, non per incontrare qualcosa, ma solo per volere ciò che non può, in quanto il potere non coincide con il volere. La ragione genera un’idea trascendentale, tuttavia, per tale idea non si spiega la possibilità del trascendentale nella sua complessità. Kant comunque non ammette la teologia trascendentale, in quanto la assimila al concetto di dio in senso trascendentale,22 e all’impossibilità di venire a conoscenza, ossia dimostrare, appunto, trascendentalmente l’esistenza di Dio. Eppure, l’indimostrabilità dell’esistenza di Dio o del suo concetto trascendentale non invalida la possibilità di una teologia trascendentalmente intesa che, anziché occuparsi di un oggetto di studio (Dio come un qualcosa di dato) e quindi della sua conoscenza-esistenza, si interessi, problematicamente, di quella fonte pura che è fondamento della disposizione alla ricerca (euristica) dell’oltre-fenomenico. In questo senso, sembra prendere forma, senza scriteriate forzature, il concetto di trascendentalità nel confinare col trascendente. Kant critica la teologia trascendentale al fine di invalidare la possibilità dimostrativa di una esistenza (divina), e la sua impostazione di fatto non va oltre la veduta di una teologia, perlopiù, rappresentata secondo gli schemi desunti dalla tradizionale concezione filosofica. La mancata tematizzazione del concetto di trascendentale ha avuto come conseguenza di pensare alla teologia come studio dell’Essere orinario e non ad un’indagine sul rapporto tra l’uomo e Dio, trascendentale e trascendente, incompiutezza dell’uomo e volontà di compiersi, disperazione e speranza, tra ragione e scandalo della ragione (S. Kierkegaard), tra coscienza trascendentale e il senza-accesso. Il problema dell’oltre-passamento dipende da una ragione deputata al superamento dei limiti, da una tendenza che spinge oltre, fino agli estremi confini (Kant, Critica della ragion pura, cit., vol. II, p. 607), comunque, Kant non ha mai spinto la sua analisi per meglio precisare la peculiarità di simile tendenza.

Il rifiuto della teologia trascendentale si incentra su due assunti che espliciterebbero la impossibilità di addivenire alla conoscenza dell’Essere originario23 e nel contempo di ammettere «con la semplice ragione l’esistenza di un Essere originario», per la precisa considerazione che l’idea è semplicemente trascendentale, anche se si ammette la possibilità di poter pensare all’«essere, che ha ogni realtà, ma che non si può determinare di più» (in nota 21). La ragione umana non sa pronunciarsi sulla esistenza o sulla inesistenza di Dio, facendo intendere che tra i due aspetti possa esserci un’altra via — Dio come eterno problema per l’uomo. Se l’idea di Dio non può essere intesa come una rappresentazione è perché richiede un approccio differente, ma non viene esplicitata la radice che produce questa differenza. In altri termini non si comprende la genesi di siffatta produzione ideale se non con una generica regola per estendere e unificare l’esperienza stessa, tuttavia niente viene detto circa l’aspetto anticipatorio di una idea.

Anche l’intelletto può costruirsi un concetto trascendentale di Dio, ma il suo essere legato alla mediazione sintetica non gli permette altro uso, in quanto una diversa estensione comporterebbe conclusioni insensate e illegittime. Esiste tuttavia una certa analogia tra l’intelletto e la ragione: entrambe le facoltà si presentano come pure e trascendentali, indipendentemente dall’uso specifico sono attività trascendentali. Chi porta l’intelletto a spingersi oltre, nonostante il suo imbrigliarsi? Chi muove la ragione a supporre l’essere creatore? A tutto questo non c’è risposta se non si ammette una pura attività che precede ed è quindi fondamento di qualsivoglia funzione umana.

Se Kant fa spesso uso del concetto di possibilità a proposito di esperienza possibile, ciò può dipendere dalla ragionevole considerazione di un uso della possibilità in sé, e di proposito il trascendentale deve potersi reinterpretare come condizione possibilitante: un’apertura non rivolta solo alla conoscenza dell’ente, nel suo manifestarsi come apparenza in me, ma anche alla non-presenzialità dell’ente per il suo essere nella maniera di pura trascendentalità in me. Per trascendentalità si deve considerare la condizione della possibilità secondo due fondamentali prospettive: fenomenica e oltre-fenomenica, senza quindi poter escludere un uso del trascendentale non sottoposto alla fenomenicità. Per un uso più esteso di trascendentale si deve far riferimento soprattutto ad alcuni richiami kantiani altamente caratterizzanti come: disposizione (porsi nella direzione) , estensione il cui significato sembra aggiungere qualcosa in più, al di là dell’intelletto e delle altre facoltà umane ad esso sottoposte. Il trascendentale, tra le sue più pure possibilità, può incorrere nel pericolo di cadere nel sovrasensibile, ma nel contempo esso è legittimato a prendere di mira ciò va oltre la sensibilità e nonostante il pericolo di…, l’uomo non può non arrischiarsi nell’oltrepassamento, perpetrando, all’infinito, la sua domanda su….

Una teologia che non punta sulle prove per convalidare un’esistenza del soprannaturale, che non può presumere di cogliere l’essenza tento meno l’esistenza. Una teologia rinnovata trascendentalmente, che consideri l’esistenza dell’uomo e del mondo come un dono, per non cadere in contraddizione, deve accettare il presupposto per il quale ogni uomo deve dar conto solo a se stesso, e se tutto ha a che fare con un presupposto donativo — Dio non potrà pretendere niente dall’uomo che ha la possibilità di poter mettere in serbo tutte le sue azioni, soltanto, al tribunale della sua coscienza. Donare qualcosa a qualcuno sottende l’estrema, totale, assoluta libertà di disporre del bene, dato in dono. La teologia strutturata sul valore donativo deve considerare che ciò che viene donato implica un atto di riconoscenza e responsabilità da parte del destinatario, va da sé però che se qualcosa è donata, al contrario del prestito, l’elargizione si trasforma in bene libero, il cui uso compete a quell’essere destinatario del dono — per tutto ciò quell’essere da sempre cercato non può essere paragonato al giudice che dietro rimunerazione si scinde dal suo essere più puro per sentenziare non secondo coscienza, bensì in base a norme stabilite per convenzione: l’essere che è Dio non può essere sottoposto ad alcun vincolo, neanche all’umana troppo umana rappresentazione del dio-giudice, pronto a premiare o a castigare. Quando Kant insisteva sul puro volere si riferiva non tanto ad un generico e malfermo uso del dovere per il dovere, quanto alla tematizzazione della libertà e di una volontà non soggetta ad alcun condizionamento.

La teologia rinnovata, secondo l’uso trascendentale, non si occupa di Dio come «oggetto di studio» filosofico, ma esclusivamente del rapporto tra il nostro modo di essere e l’essere-Dio, un rapporto problematico che è posto nel confinare col trascendente senza che possa esserci identità nell’immanenza e nemmeno assoluta trascendenza: «questa filosofia può portare il nome di filosofia trascendentale quasi trascendente»,24 questa citazione rappresenta la base e nel contempo lo scandalo della speculazione filosofica, in quanto sottende l’uso legittimo del trascendentale per la fondazione, appunto, di una nuova teologia. Inoltre si deve aggiungere che il trascendentale riguardando non solo l’oggetto, ma anche il soggetto (abbraccia tanto il soggetto quanto l’oggetto (I. Kant, Opus Postumum p. 363) è deputata tanto alle escogitazioni, ai principi della ragione teoretico-speculativa, quanto, considerazione estremamente importante, ai principi etico- pratici.25 Quest’ultimo assunto soppianterebbe il presunto primato della ragione pura pratica, nel senso che il primato dell’etica non può trovarsi all’interno di un postulato (dell’esistenza di Dio), neppure nella parte interna di una morale autonoma — la trascendentalità deve quindi essere intesa come il principio fondativo della filosofia criticistica nella sua interezza.

Nell’Opus postumum, pur nella frammentarietà speculativa di un filosofo sofferente e prossimo alla dipartita, si avverte che tutta l’attenzione è rivolta alla definizione di trascendentale come se si trattasse di una questione basilare per poter ricomprendere la ragione pura teoretica e pura pratica. Come se Kant volesse chiudere, negli ultimi appunti, il cerchio, e le ultime pagine parlano di trascendentale e Trascendenza (Dio). Come se volesse mediare le due ragioni — teoretica e pratica, unificare tutta la speculazione filosofica servendosi di quel filo conduttore che risultava mancante, l’ultimo tassello che avrebbe risolto la giustapposizione tra deduzione trascendentale oggettiva e soggettiva, tra teoretica e pratica, tra trascendentale e trascendente e la citazione seguente offre il presupposto per quanto affermato «la filosofia trascendentale è la coscienza della facoltà del soggetto di essere autore delle sue idee sotto il rispetto teoretico come sotto il rispetto pratico».26 Se la trascendentalità chiama in causa il soggetto, nel suo esser cosciente di tutte le facoltà, ciò sta a significare che anche il problema morale e per logica conseguenza la questione Dio andrebbero rivisitati all’interno di una soggettività che deve determinarsi per l’argomento del sovrasensibile attraverso il trascendentale, in quanto il problema-Dio non dipenderebbe da un postulato morale, ma da un’altra radice, più pura, più incondizionata e più libera rispetto alla presunta morale pura pratica. Il trascendentale sembrerebbe soppiantare, negli ultimi frammenti dell’Opus, la stessa riduzione di Dio ad una questione puramente morale o ideale, ponendosi come un’autentica svolta per la filosofia e la teologia kantiana.


  1. I. Kant, Opus postumum, Laterza, Bari 1984, p. 285. ↩︎

  2. N. Abbagnano, Dizionario di Filosofia, Unione Tipografico-editrice, Torino, 1971, p. 885. ↩︎

  3. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, trad. di V. Verra, Laterza, Bari, 1985 p. 165. ↩︎

  4. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, ed. Est, Milano, 1997, p. 134. ↩︎

  5. I. Kant, Critica della ragion pura, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Laterza, Bari, 1977, p. 36. ↩︎

  6. I. Kant, Critica della ragion pura, vol. I, p. 105. ↩︎

  7. I. Kant, Critica della ragion pura, vol.2, (sez. Appendice - Prima Edizione), p.656. ↩︎

  8. E. Husserl, op. cit. p. 125. ↩︎

  9. Ivi, pp. 147,148. ↩︎

  10. I. Kant, Critica della ragion pura, vol. I, p. 97. ↩︎

  11. Ivi, vol. 2, pp. 627,628. ↩︎

  12. Ivi, vol. 2, p. 621. ↩︎

  13. Ivi, vol. I p. 257. ↩︎

  14. Ivi, vol. II, pp. 485, 486. ↩︎

  15. Ivi, p. 308. ↩︎

  16. Ivi, p. 308. ↩︎

  17. Ivi, p. 607. ↩︎

  18. Ivi, p. 313. ↩︎

  19. Ivi, p. 313. ↩︎

  20. Ivi, p. 287. ↩︎

  21. I. Kant, Opus postumum, cit. p. 363. ↩︎

  22. I. Kant, Critica della ragion pura, cit. vol. II, p. 460. ↩︎

  23. «Se per teologia intendo la conoscenza dell’Essere originario, essa è fondata o sulla pura ragione (theologia rationalis) o su una rivelazione (rivelata). La prima concepisce il suo oggetto o semplicemente con la ragion pura, mediante meri concetti trascendentali (ens originarium realissimum, ens entium), e dicesi teologia trascendentale; ovvero, mediante un concetto, che essa ricava dalla natura (della nostra anima), con la suprema intelligenza, e dovrebbe dirsi teologia naturale. Chi ammette soltanto una teologia trascendentale è detto deista; chi ammette anche una teologia naturale, teista. Il primo ammette che in ogni caso noi possiamo conoscere con la semplice ragione l’esistenza di un Essere originario, di cui per altro il nostro concetto è semplicemente trascendentale, cioè solo di un essere, che ha ogni realtà, ma che non si può determinare di più. Il secondo afferma, che la ragione è in grado di poter determinare di più l’oggetto secondo l’analogia con la natura, ossia come un essere che per intelletto e libertà contenga in sé il primo principio di tutte le altre cose. Quello si rappresenta, dunque, in tale essere solo una causa del mondo (senza dire se mediante la necessità della sua natura, o mediante la libertà); questo, un creatore del mondo. La teologia trascendentale o intende di dedurre l’esistenza dell’essere originario da un’esperienza in generale (senza determinare nulla di più intorno al mondo a cui essa appartiene), e si dice cosmoteologia; o crede di conoscere la sua esistenza mediante semplici concetti, senza il soccorso della minima esperienza, e vien detta ontoteologia. La teologia naturale conclude agli attributi e all’esistenza di un Creatore del mondo movendo dalla costituzione, ordine e unità, che si dà in esso mondo, in cui bisogna ammettere due specie di causalità, e la loro regola, ossia natura e libertà. Quindi da questo mondo sale all’intelligenza suprema, o come principio di ogni ordine e perfezione naturale, o come principio di ogni ordine e perfezione morale. Nel primo caso si dice teologia fisica, nel secondo teologia morale […]. Di qui ben si vede che le questioni trascendentali non consentono se non risposte trascendentali, ossia fondate su meri concetti a priori, senza la minima mescolanza empirica. Ma qui la questione evidentemente è sintetica, e richiede un estendimento della nostra conoscenza al di là dei limiti dell’esperienza, fin all’esistenza di un essere, che deve corrispondere alla nostra semplice idea, a cui nessuna esperienza può riuscire mai adeguata. Ora, secondo le nostre antecedenti dimostrazioni, ogni conoscenza sintetica a priori non è possibile se non in quanto essa esprime le condizioni formali di una esperienza possibile, e tutti i princìpi son dunque soltanto di valore immanente, cioè si riferiscono unicamente ad oggetti della conoscenza empirica o fenomeni.» (I. Kant, Critica della ragion pura, vol.II, pp. 493-498). ↩︎

  24. I. Kant, Opus postumum, cit. p. 363. ↩︎

  25. «La filosofia trascendentale è il complesso (complexus) delle idee (escogitazioni) di tutti i principi della ragione teoretico-speculativa ed etico pratica» (I. Kant, Opus postumum, cit. p. 366). ↩︎

  26. I. Kant, Opus postumum, cit. p. 368. ↩︎