1. Introduzione
Secondo l’assunto della possibilità ontologica, Kant non è il filosofo del primato della ragione pratica, né l’ideatore di una nuova teoria gnoseologica. Kant si caratterizza per una posizione intermedia, posta a metà strada, una via di mezzo tra il «vecchio» e il «nuovo» modo di pensare la filosofia; tra l’analitica trascendentale e quella ontologico-esistenziale. Un pensatore che si muove tra la pienezza della razionalità, della logicità e la filosofia incentrata sulla fondamentalità e problematicità dell’essere. È il filosofo che, più di ogni altro, ha saputo intravedere nella trascendentalità un «qualcosa» di pre-categoriale e alogico.
Kant si pone a metà strada tra l’essenza della metaphysica specialis (scienza che si occupa delle tre sfere Dio, natura e uomo) e il fondamento della metaphysica generalis che costituisce l’apparato trascendentale per una possibile fondazione ontologica. Lo scoprimento del fondamento (che rappresenta un problema non risolto dall’ermeneutica kantiana) implica da una parte la revisione dell’uomo non essenzialmente consegnato alla moralità, la destrutturazione della metaphysica specialis, e dall’altra una valutazione rigorosa circa le implicazioni della filosofia trascendentale. Si tratta, a questo punto, di avanzare ipotesi e ricerche, per lo più volte a definire il senso della radice oscura che rappresenta il principio genetico della filosofia trascendentale e della stessa metafisica.
Il rapporto originario di coappartenenza tra l’uomo e il fare e il conoscere non riguarda l’uomo e l’etica, l’uomo e la logica, ma l’uomo e la metafisica e questo rapportamento viene, kantianamente, espresso come disposizione naturale dello spirito.
L’attività filosofica di Kant si incentra sulla possibilità di determinare il fondamento originario, quale principium essendi di tutta la realtà; qualcosa che ha a che fare — come ebbe a dire lo stesso Kant — con la metafisica della metafisica, con il fondamento del fondamento — un abisso senza fondo; che si mostra esteriormente nel dovere morale, nell’eticità, ma che si pone soprattutto come essere del dovere, nel senso che trattare la questione della morale pura significa porsi già nella direzione dell’essere in quanto essere.
2. La possibilità della metafisica nella direzione del fondamento
Per primato della ragion pratica si deve intendere la valenza morale come fondamento, anche se all’interno dell’evoluzione filosofica kantiana trattasi di un fondamento che subisce, via via, continue evoluzioni già a partire dalla prima edizione della Critica della ragion pura. Bisogna chiedersi se alla base della questione morale, che si esplicherà nella teologia morale e per logica conseguenza in una caratterizzazione di un Dio morale, non ci sia piuttosto un’altra questione riguardante un fondamento ontologico che richiami il carattere tipico della metafisica, o il problema dell’essere in generale, esplicantesi con attributi ereditati dalla tradizione filosofica, secondo il criterio di unità, universalità e costanza.
Con la seconda edizione della Critica della ragion pura buona parte dei predicati, che per tradizione sarebbero appartenuti all’autentica costituzione della metafisica, viene ad esplicitarsi nel modo attraverso cui si esprime l’attività dell’intelletto, all’interno ovviamente della rivoluzione copernicana compiuta dal criticismo.
Il problema della metafisica in Kant si manifesta nella pretesa di prospettarsi come una «scienza di concetti puri», una «metafisica della natura», una «metafisica dei costumi». Quando Kant riflette sulla metafisica, se la raffigura soprattutto in netta contrapposizione alla metafisica dogmatica di Wolff, strutturata in tre parti: teologia, psicologia e cosmologia. Il filosofare kantiano si incentra comunque su queste tre parti; ma ciò che più conta è che Kant, nonostante denominasse la sua metafisica critica, di fatto non avrebbe veramente sottoposto a giudizio critico la valenza ontologica scevra da un’impronta puramente gnoseologica. Esiste, tuttavia, un’impostazione che farebbe pensare ad un criticismo, il cui svolgimento concettuale avvalorerebbe l’ipotesi di un’ontologia esente da incrostazioni meramente logico-intellettive: un tipo di ontologia inquadrabile nella possibilità dell’essere in sé ed esprimentesi nella forma di fondamentalità e originarietà, tale da convalidare ogni possibile condizione della conoscenza umana. Solo bisogna chiedersi come Kant sia riuscito a pensare il problema dell’essere, come lo abbia rappresentato e occultato nelle sue Critiche. Uno studioso italiano — Carabellese — riferendosi a Kant, nel tentativo di accordare il criticismo kantiano con il pensiero di Rosmini, indica nella coscienza il fondamento in grado di rendere possibile la tematizzazione dell’essere.
Con la prima edizione del 1781 della Critica della ragion pura, la definizione concettuale di «unità» informa tutto lo svolgimento teoretico con un riferimento esplicito ad un fondamento,1 esprimentesi o nell’unità dell’appercezione come «fondamento trascendentale» (Critica della ragion pura, «Appendice», vol. II, p. 669), o come unità generale dell’autocoscienza (p. 660), o nell’unità dell’immaginazione trascendentale. È indispensabile chiederci se sia possibile scorgere, nelle opere successive all’edizione del 1787, una certa continuità per quanto riguarda l’unità generale di una radice fondante, sempre strategicamente e implicitamente attiva negli scritti kantiani, culminante — come si dice comunemente — nella fondamentalità morale.
Questo lavoro sarà orientato a focalizzare l’essenza della metafisica kantiana alla luce delle diverse prospettive ermeneutiche e in rapporto alle sottili implicazioni, la cui puntualizzazione avrà il preciso compito di palesare tutto ciò che la metafisica trascendentale può ancora significare, soprattutto in considerazione del sistema kantiano, senz’altro configurabile in un vero e proprio sistema aperto.
Bisogna tenere presente che per Kant la metafisica, almeno così come risulta nella Seconda edizione della Critica della ragion pura, deve essere inquadrata come:
- Complemento (indispensabile) di ogni cultura della ragione umana (Critica della ragion pura, vol. II, p. 641);
- Analisi della ragione nei suoi elementi e nelle sue massime supreme (Critica della ragion pura, vol. II, p. 641);
- Scudo della religione, con una precisazione che andrebbe analizzata e approfondita: «la metafisica non (può) essere il fondamento della religione» (Critica della ragion pura, vol. II, p. 641);
- Metafisica dei costumi, che coincide con la morale pura (Critica della ragion pura, vol. II, p. 636);
- Intera conoscenza filosofica;
- Metafisica secondo un uso speculativo e secondo un uso pratico; si articola in Metafisica della natura, che abbraccia tutti i princìpi razionali puri derivanti dai semplici concetti, e in Metafisica dei costumi, che ha a che fare con i princìpi che determinano a priori e rendono necessario il fare e il non fare; (Critica della ragion pura, vol. II, pp. 635, 636). Già a partire dalla Fondazione della metafisica dei costumi Kant aveva prospettato tale duplicità: «Sorge così l’idea di una duplice metafisica: della natura e dei costumi».2
Bisogna domandarsi se è fondato il tentativo di legittimare, in base ai punti di cui sopra, la supremazia della metafisica rispetto ad aspetti riguardanti principi logico-teoretici dell’intelletto, giacché, riguardo alla seconda edizione della Critica della ragion pura, buona parte dei critici concorda nel sostenere la supremazia logica ed epistemologica nei confronti di una presunta ontologia fondamentale, come se tutto il filosofare kantiano dovesse entrare a far parte dell’ambito generale della gnoseologia.
Ad un certo punto, con la Critica della ragion pratica, a detta dello stesso Kant, il primato filosofico deve essere attribuito alla morale: tutto deve poter essere riferito alla morale e ad una supremazia pratica della ragione.
In riferimento alla suddivisione tra metafisica della natura e metafisica dei costumi (6), tale separazione viene superata nella Critica della ragion pratica, in cui si legittima e/o si consacra la superiorità della morale pura e l’eclissamento della metafisica, di cui sembra non esserci nemmeno la più pallida traccia. Oppure il fondamento originario si esplicherebbe, definitivamente, in un’unità morale? Si tratta del superamento della metafisica o di un suo nascondimento? Il nostro lavoro deve rispondere alle seguenti domande: perché la morale soppianta la metafisica? Qual è la specificità della metafisica kantiana? Quali le sue possibili aperture d’ordine religioso?
Il punto 2. fa pensare ad una critica della ragion pura come un’introduzione, una preparazione (propedeutica) al sistema della metafisica: «la critica della ragione arrischiantesi nelle sue proprie ali, la quale va innanzi come esercizio preliminare (propedeutica)» (Critica della ragion pura, vol. II, p. 641). Il titolo di alcune opere, anteriori alla seconda edizione della Critica della ragion pura, come Prolegomeni ad ogni metafisica futura che si presenterà come scienza (1783), Fondazione della metafisica dei costumi (1785), Princìpi metafisici della scienza della natura (1786), sembra garantire il primato della metafisica.
Il punto 3. merita una riflessione più approfondita: Kant intende la metafisica più come scudo che come fondamento della religione. Preliminarmente, si può pensare che egli pensi alla metafisica come un sistema di principi, deputato a proteggere la religione. La questione centrale della metafisica nella Critica della ragion pura si pone in ordine a due precise strategie, tese per un verso ad una «pars destruens» della vecchia metafisica (con le sue prove sull’esistenza di Dio), per l’altro alla «pars costruens» con la prospettazione delle idee trascendentali. L’idea di una metafisica intesa come scudo della religione (Critica della ragion pura, vol. II, p. 636), e non come fondamento, va riesaminata alla luce di altre riflessioni. Il concetto di scudo, logicamente e implicitamente, sottende da una parte la vulnerabilità intrinseca della religione, dall’altra la forza della metafisica, atta a proteggere la teologia da eventuali assalti agnostici. Il concetto di «scudo» rafforza il ruolo della metafisica, in quanto rappresenterebbe l’apparato trascendentale in grado di proteggere quell’Essere Supremo come Perfetto ideale.
Un’altra questione importante non risolta nella Critica della ragion pura, in cui traspare già il taglio morale che sarà più dettagliato nella Critica della ragion pratica, è rappresentata dalla seguente domanda: come può la ragione teoretico-speculativa risolversi in ragione pratica? Detto in altri termini: qual è il rapporto esistente tra teoria e pratica? Kant non risponde, anzi alla domanda fondamentale, «come la ragione pura possa essere pratica», Kant replica che ciò è avvolto in vero e proprio mistero (Fondazione della metafisica dei costumi, p. 106). Ancora, qual è il rapporto intercorrente tra l’idea trascendentale di Dio e il postulato Dio? Perché ad un certo punto la teoria si converte in morale? In via ipotetica e provvisoria, esiste, per la fattispecie, un unico filo conduttore, valevole a legittimare la connessione indissolubile tra metafisica, morale pura, religione in funzione di un’idea-guida, avente lo scopo di mediare teoria e pratica?
Potrebbe risultare continuativamente attivo nell’evoluzione del criticismo un concetto, un’idea pura, un postulato, in grado di unificare e significare a mo’ di fondamento la speculazione kantiana? Sempre presente dalla Prefazione fino all’Opus postumum, tale concetto può essere colto nella libertà: un principio che oltre a richiamare alla mente una volontà pura, ha a che fare direttamente con il concetto di Dio:
Perfino il santo Vangelo deve essere paragonato col nostro ideale di perfezione morale […] Da dove prendiamo il concetto di Dio come sommo bene? Unicamente dall’idea, che la ragione stabilisce a priori, della perfezione morale, connessa indissolubilmente con il concetto di volontà libera (Fondazione della metafisica dei costumi, pp. 32-33).
La perfezione morale coincide con la volontà libera: questo schema è presente anche nella Critica della ragion pratica, nonostante il tentativo ravvisabile in quest’ultima di rendere la morale pura del tutto indeducibile da qualsivoglia principio. Anche nella Critica della ragion pura si trova l’idea-guida secondo la quale la morale deve supporre la libertà (Critica della ragion pura, vol. I, pp. 27-28).
Se per la Fondazione e per la Critica della ragion pura si può supporre una morale dedotta direttamente dalla volontà libera, per la Critica della ragion pratica la morale risulta indeducibile e quindi non dipendente da qualsivoglia fondamento. Un’ulteriore considerazione dimostrerebbe — con riferimento alla Critica della ragion pura — l’indimostrabilità logica («non abbiamo neppure voluto dimostrare la possibilità della libertà; infatti né anche questo era possibile», Critica della ragion pura, vol. II, p. 445) e l’indeducibilità della volontà libera e quindi della libertà, legata all’idea trascendentale (Critica della ragion pura, vol. II, p. 445). Nella Critica della ragion pratica il concetto della libertà acquisisce un valore negativo, il cui significato si determina come indipendenza da ogni elemento empirico, e quindi dalla natura in generale;3 quindi, viene riproposta l’indeducibilità della libertà e, ponendosi la domanda «donde comincia la nostra conoscenza dell’incondizionato pratico, se dalla libertà, o dalla legge pratica», Kant è dell’avviso che «noi non possiamo né divenir consci di essa immediatamente, perché il suo primo concetto è negativo, né dedurla dall’esperienza, perché l’esperienza ci manifesta soltanto la legge dei fenomeni» (Critica della ragion pratica, vol. II, p. 37).4
Se con la Fondazione Kant pensava al primato della metafisica anche nei confronti della morale («se manca [la] metafisica […] diventa addirittura impossibile […] fondare i costumi [la morale] sui loro veri principi», Fondazione della metafisica dei costumi, p. 37), con la Critica della ragion pratica viene sancita la supremazia dell’etica non certo deducibile da princìpi di altra natura non strettamente connessi alla legge morale. Eppure, il riferimento al dover essere, implicitamente, sottende il problema dell’essere in quanto tale, anche se visualizzato come dovere per il dovere; in questo senso la metafisica di Kant si configurerebbe come la risultante del pensiero metafisico occidentale, in quanto il problema dell’essere viene a rappresentarsi, irrimediabilmente, come problema morale. Davanti alla constatazione che «tutti gli imperativi sono espressi dal “dover essere”» (Fondazione della metafisica dei costumi, p. 39), Kant non vuole porsi, preliminarmente, la domanda: che cos’è l’essere del dovere? A questa domanda si può rispondere solo in modo provvisorio e in riferimento ad una certa tappa dell’evoluzione del pensiero kantiano. Secondo l’ottica della Fondazione si potrebbe rispondere: l’essere del dovere è rappresentato dalla libertà o meglio dalla volontà libera, nel senso che la volontà coincide con la libertà. Tale assunto è legittimato dall’intento iniziale della Fondazione: «la presente “Fondazione” non è che la ricerca e la determinazione del principio supremo della moralità»;5 questa affermazione convalida l’interesse per una ricerca del fondamento originario. Solo che il principio risulta, nel prosieguo della speculazione filosofica, omesso oppure trasformato, ma ciò che più conta è che nonostante le differenti «determinazioni» la ricerca è continua e spesso avvolta nell’oscurità e difficoltà. Nonostante lo sforzo di far coincidere ragione teoretica e ragione pratica, siffatta ricerca conduce all’impossibilità di stabilire la coincidenza tra le due forme di ragione (speculativa e pratica); Kant stabilisce una volta per tutte l’inammissibilità a comprendere simile coincidenza, in quanto «ogni sforzo e fatica per cercare di spiegare [ciò] sono del tutto inutili. È come se cercassi di comprendere perché la libertà sia possibile come causalità di una volontà».6
L’impossibilità della coincidenza e/o coappartenenza rappresenta l’ignoto, il sentiero interrotto della speculazione filosofica, il limite invalicabile. La natura del limite non ha una valenza logica, né epistemologia, né psicologica, ma essenzialmente metafisica. La domanda incalzante, cui è difficile dar risposta, è: come può la morale pura fondarsi e strutturarsi su se stessa senza un apporto speculativo dimostrativo, teoretico, psico-logico o teologico?
L’enigma avvolgerebbe la costituzione di una teoresi svolgentesi in pratica; di una risoluzione impossibile circa un’eventuale coincidenza. È impossibile pensare che ragione teoretica e pratica possano essere la stessa cosa? Oppure ragione teoretica e pratica sono la stessa cosa, ma è impossibile dimostrare tale coappartenenza. Bisogna comunque osservare che Kant, ad un certo punto, nel prosieguo della Critica della ragion pura, introduce aspetti di natura etica, che saranno più dettagliatamente e organicamente sviluppati nella Critica della ragion pratica. Tutto ciò convaliderebbe un implicito, quanto ragionevole transito dalla valenza teoretica ad una pratica? Un transito, si è detto, attribuibile alla volontà libera, la quale, nella Critica della ragion pratica, non risulta essere il principio originario in grado di fondare la pura moralità.
Heidegger afferma che sia la ragione teoretica, sia quella pratica dicano la stessa cosa:
Già nella Critica della ragione pura, Kant dice: Pratico è tutto ciò che è possibile per mezzo della libertà. Ora, la ragione teoretica, giacché la sua possibilità implica libertà, è in se stessa, in quanto teoretica, pratica.7
L’originaria sede della morale pura deve risiedere in quell’io puro, e in virtù di tale assunto la ragione pratica ha necessariamente il suo fondamento in quella teoretica. Il filo conduttore, deputato a mediare le due Critiche, si risolve proprio nel principio della libertà che coincide con la coscienza. Sotto tale aspetto, la persona, come l’essere-se-stesso, potrebbe essere, per Heidegger, la sintesi tra le due Critiche.
A proposito del carattere enigmatico circa alcune facoltà dello spirito umano, si può constatare che i princìpi puri della ragione teoretica, pur risultando a fondamento della ragione (si pensi all’importanza dell’immaginazione trascendentale8 o dell’appercezione trascendentale), appaiono essi stessi «oscuri», non spiegabili logicamente. La razionalità (o meglio il suo fondamento) della ragione teoretica, ma anche di quella pratica, sottende paradossalmente il senso stesso dell’oscurità, e l’assunto da cui muove la rivoluzione copernicana, per il quale la ragione è in grado di cercare da/in se stessa i princìpi della conoscenza e dell’agire morale, poggia su un livello di determinazione logica che, in parte, omette preliminarmente il fondamento stesso. L’aver omesso il principio, il nascondimento del fondamento originario, non inficia o invalida radicalmente il significato dell’essere in se stesso? Oppure è il suo stesso celamento che rende fattibile la metafisica kantiana? Kant nelle sue opere avrebbe indicato e determinato solo il complemento (indispensabile) (punto 1.) del «che cosa è», e il non avere fatto appello all’è dell’essere non comporta, necessariamente, l’inesistenza e quindi la stessa tematizzazione dell’essere in quanto tale.
Il tentativo di reimpostare l’intera speculazione teoretica e pratica secondo la precisa tendenza a considerare la metafisica come «propedeutica» e «fondamento» per qualsivoglia ricerca, è stato, a suo tempo, osservato da diversi studiosi9
È lo stesso Kant, a più riprese, ad insistere su un concetto chiave: la possibilità che possa darsi un tipo di conoscenza non necessariamente legata alle intuizioni sintetiche. Qualsivoglia definizione concettuale di metafisica non esplicantesi in un’accezione ontologica non può definirsi tale. La complessità del sistema kantiano consiste proprio in questo: come è possibile che un principio possa calarsi nella intuizione sensibile, senza essere inficiato nella sua intrinseca purezza. La produzione dello schematismo trascendentale — «terzo termine» — avrebbe dovuto garantire l’unità sintetica, ma Kant dovette servirsi di molteplici mediazioni sintetiche, non tanto per garantire l’unità tra «particolare» e «universale» (come si ritiene da più parti), quanto per preservare un’ontologia pura.
Kant ha cercato, per quanto possibile, di assegnare dignità alla metafisica e come prima tappa pensò bene di produrre un tipo di ontologia non collegabile alla logica, alle categorie. Il formalismo o il valore regolativo riveste una certa importanza non tanto per la morale o per le pure forme dell’intelletto, quanto per il significato intrinseco dell’ontologia fondamentale che non può esaurirsi, come avveniva in passato, solo nel pensiero puro o in una sostanzialità costitutiva.
L’idea della metafisica kantiana rievoca il limite e allo stesso tempo la grandezza, perché fa pensare che tutto ciò che si dà rimane pur sempre nel regno della sintesi a priori, solo che il concetto di «sintesi» va reinterpretato e colto nella sua complessità; la sintesi è da intendere come limite che invalida il tentativo della ragione e dell’intelletto di entrare in possesso della realtà esaustiva. La sintesi, sotto certi aspetti, ha un valore paradossale e può essere visualizzata secondo un duplice punto di vista: essa limita l’intelletto nei suoi «voli», permette alla ragione pura e pura pratica di oltre-passarsi, giacché un soggetto non sottoposto ad una valenza d’ordine empirico e «sintetico» non avvertirebbe l’esigenza di trascendersi (perenne anelito).
La teologia trascendentale, per la fattispecie, pensa al Dio senz’altro cristiano, ma essenzialmente legato alla sua irrapresentabilità, a-logicità, indimostrabilità, a-sostanzialità. Alla base di queste riflessioni c’è tutta la metafisica, per lo più disseminata lungo lo svolgimento del pensiero kantiano, che paradossalmente fa pensare ad una realtà che può essere colta oltre se stessa; fa pensare all’uomo, avente come limite e trascendenza, paradossalmente, l’altro uomo.
3. Il primato della metafisica sull’etica e dell’ontologia sulla epistemologia
Nell’ordine di successione di critica al kantismo, un’ultima impostazione è riconducibile a J. Grondin, che riconosce nella valenza morale il fondamento della filosofia kantiana e soprattutto della metafisica. Egli sostiene la tradizionale tesi, secondo cui
sia per Heidegger che per Kant, è la destinazione morale dell’uomo a prevalere sulle sue capacità specificamente teoriche e ad essere chiamata a servire da fondamento a una metafisica, cioè ad una riflessione filosofica fondamentale.10
Non sembra affatto certo che Heidegger sia stato influenzato dall’aspetto morale, anzi è vero il contrario; Heidegger nel suo libro dedicato a Kant afferma il primato della ragione teoretica, in cui già riaffiora il concetto di libertà a-morale, e rivendica il primato della critica della ragion pura (prima edizione del 1781) su quella pratica. Per quanto attiene al riferimento a Kant, Grondin ricalca la classica concezione di un primato morale senza intravedere che lo strumentario filosofico per legittimare l’autonomia morale è interamente ascrivibile all’impianto della metafisica. Oltretutto, egli insiste sull’intento di Kant di
sostituire al progetto orgoglioso di un’ontologia il programma più modesto della sua analitica dell’intelletto puro […]. Proprio una simile epistemologia […] vorrà essere la «metafisica della natura», la nuova «ontologia categoriale».11
Contro questa impostazione, Heidegger (nel «Dibattito di Davos tra Cassirer e M. Heidegger» in appendice a Kant e il problema della metafisica, p. 220) ha ripetutamente sostenuto che
Kant non voleva affatto dare una teoria della scienza della natura, ma voleva metter in luce la problematica della metafisica e, precisamente, dell’ontologia.12
Ma come si delinea la caratterizzazione ontologica in Kant? La valenza ontologica si visualizza, sotto certi aspetti, come un fondamento in grado di produrre «al di là» (anche a livello morale), il che presuppone la sensibilità, perché la stessa possa essere oltrepassata (sta tutto qui il valore della sintesi).
La differenza essenziale tra il vecchio modo di far metafisica e quello nuovo consiste nel fatto che Kant ha pre-disposto, con l’appercezione trascendentale (teoresi) e con la persona e il suo «rispetto» (pratica), le forme e i postulati orientati all’oltrepassamento e al problema dell’essere in generale. In questo modo si chiarisce quel concetto di metafisica legata alla sintesi a priori. La volontà libera richiama l’idea della trascendenza nell’atto stesso in cui l’uomo assolve al suo voler esser puro, che coincide con l’essere di un volere strutturato sull’universalità. Kant fa spesso riferimento all’universalità, sia rispetto alle categorie sia riguardo alla morale, ma non chiarisce, disgraziatamente, la natura di questo principio costante. L’universalità, nell’accezione classica, riguarderebbe «ciò che già sempre è stato». Con la seconda edizione si assiste ad un primato della logica (almeno gran parte dei critici propende per questa interpretazione), come se Kant avesse abbandonato l’idea di una metafisica per favorire più l’intelletto e la sua logicità, che, nella prima edizione, era stata surclassato da altri aspetti teoretici (immaginazione, intuizione, appercezione). Proprio a proposito dell’edizione del 1781, Kant fa presente all’amico e discepolo Markus Herz che «un’indagine di questo tipo sarà sempre gravosa. Essa contiene infatti la metafisica della metafisica…»; la prospettiva di un’indagine gravosa (purtroppo) avrebbe condotto Kant ad un diverso percorso di indagine e la seconda edizione convaliderebbe l’idea di una teoria della conoscenza, appunto per evitare una ricerca faticosa. Un’analisi più dettagliata tuttavia, potrebbe indirizzarci ad una domanda: che cosa si deve intendere per metafisica della metafisica? Metafisica della metafisica dovrebbe richiamare l’idea di qualcosa che è a fondamento della metafisica stessa; un riferimento a qualcosa di più originario, che Kant non avrebbe esplicitato, cui pensava costantemente e che per paura, forse, di incappare all’errore comune della vecchia metafisica si guardò bene di rendere esplicito. Kant non avrebbe nemmeno approfondito la questione di una metafisica come disposizione naturale, nel senso che utilizzò tale definizione concettuale senza aver mai puntualizzato l’assunto di una disposizione naturale della ragione. Una prima esposizione ammette una metafisica da intendere come scienza dei concetti puri; una seconda e più suggestiva prospettazione farebbe pensare alla disposizione nell’accezione di possibilità pura, una possibilità in grado di invertire l’uso della ragione non solo riguardo all’esperienza, ma anche rispetto ai concetti puri. Questa seconda ipotesi ha il vantaggio di spingere l’uomo oltre il concetto e la caratterizzazione delle stesse idee, la cui genesi è individuabile nel tradizionale sistema della logica filosofica; nonostante la valenza regolativa delle idee trascendentali, la ragione le recupera a partire dalla tradizione del pensiero occidentale, dalla filosofia passata. Anche se Kant utilizza la definizione «disposizione naturale della ragione», è necessario far presente che la ragione è sempre configurabile all’interno della domanda «che cos’è l’uomo? ».
Per comprendere, originalmente, il senso di disposizione naturale, bisogna far riferimento alla metafisica tradizionale del pensiero occidentale, che pensava all’essere secondo l’accezione di «essere-già-costituito» nella sua pienezza e perfezione, indipendentemente dalla domanda da parte di chi pone l’essere come problema. Se Kant insiste, a proposito della metafisica, nella direzione della disposizione o tendenza naturale dello spirito umano, ciò scaturisce dall’aver fatto dipendere l’ontologia da un fondamento che avrebbe a che fare con il problema gravoso circa la natura dell’uomo (sta qui il senso di «sintesi»?). Tutte queste precisazioni sarebbero servite a superare alcuni limiti e incertezze della metafisica, il cui procedimento è stato «finora un semplice andar a tentoni e, quel che è peggio, tra semplici concetti». L’andar a tentoni tra semplici concetti ha avuto per conseguenza il fallimento di una certa metafisica che ha seguito la direzione della Dialettica, il cui svolgimento ha avuto per conseguenza l’imperversare delle opposizioni concettuali.
Il nostro assunto, pertanto, è opposto a tutti coloro che hanno scorto nella Critica della ragion pura una semplice «teoria della conoscenza» o una fondazione epistemologica, e nella Critica della ragion pratica un taglio specificamente morale. Sotto tale aspetto, esisterebbe una continuità logica che legherebbe diverse scuole di pensiero anche riguardo agli ultimi riferimenti a Kant condotti da importanti filosofi della scienza.13
L’aspetto meramente formale della conoscenza e la perdita del senso dell’essere, secondo E. Severino, avrebbero contrassegnato il pensiero occidentale nella sua interezza (compreso quindi Kant): «dopo Parmenide ogni ricerca sulla verità è stata una ricerca formale, perché è andato perduto il senso dell’essere» (Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, pp. 135-136). L’aspetto formale della filosofia, ridotta a semplice gnoseologia o nella migliore dell’ipotesi a epistemologia, ha fatto venir meno non l’essere, ma la domanda sull’essere, e come afferma Severino lo stesso valore dell’«oltrepassamento di Parmenide compiuto dalla metafisica greca» (p. 139). In base a queste premesse, Kant — che con il suo criticismo avrebbe dovuto oltrepassare lo scetticismo empiristico — sarebbe incappato nel pensiero formale che non sa pensare l’essere, in quanto non avrebbe ripetuto, a causa del suo formalismo, la domanda «che cos’è l’essere?». La domanda sull’essere sottende il non poter non interrogarsi, pena la caduta nel niente. Senza il richiedente che pone la domanda — l’essere equivale al niente. Il domandante, proprio perché chiede, rileva già in se stesso la sua insussistenza e insensatezza. Questo ripetere la domanda implica la possibilità più pura da parte di chi aspira alla pienezza e nel rinnovare la domanda, eternamente, assume a suo carico (la responsabilità di) un essere-qualcosa rispetto al niente. Kant ripete la domanda circa l’uomo — che cos’è l’uomo? — ma per la critica convenzionale e comune la risposta era già data dall’etica; ma che senso ha riformularla come ultima domanda (che cos’è l’uomo?), quando essa era già stata posta come domanda nel secondo ordine «Che cosa devo fare?»
La filosofia della scienza che pur si riferisce in qualche misura al kantismo rifiuta di considerare l’aspetto metafisico quale pensiero dominante e fondante di tutta la filosofia di Kant. Uno degli aspetti critici nei confronti della metafisica, per la fattispecie quella kantiana, è attribuibile all’intero sistema della filosofia della scienza e come esempio si può fare riferimento alla Concezione scientifica di Rudolf Carnap, il quale considera la metafisica una disciplina contrassegnata da molteplici errori:
l’errore basilare della metafisica consiste nel ritenere che il «pensiero» possa, da solo, senza far leva su dati empirici, condurre alla conoscenza […]. Nella concezione scientifica del mondo non si danno conoscenze incondizionatamente valide derivanti dalla ragione, né «giudizi sintetici a priori», quali ricorrono alla base sia della gnoseologia di Kant, sia ancor più, di tutte le ontologie metafisiche pre- e post-kantiane.14
La posizione di Carnap, oltre a non riconoscere valide le istanze ontologiche, reputa insostenibile l’impalcatura della sintesi a priori. L’assunto comunemente sostenuto in ambito scientista ritiene inconcepibile un «pensiero» avulso dalla rappresentazione dei dati empirici. Contro tali impostazioni si deve considerare che il dato empirico è tale solo in rapporto al rappresentante — il soggetto della rappresentazione — e che il «dato» implica una veduta che pone qualcosa, appunto, come dato, che è assegnato come tale, giammai per se stesso, ma in relazione a qualche altra cosa che lo pone come tale. È nel dato empirico, implicitamente, che si consuma la metafisica e l’ontologia del «che cosa», che viene a stabilirsi sempre nella relazione dell’è. L’ontologia non si contenta del mero dato, giacché è orientata ad oltrepassare ciò che si dà. Lo gnoseologismo e l’epistemologismo accettano il dato come presenza pura e semplice, il cui senso non viene però valutato in ordine ad una certa veduta in grado di stabilire nella teoresi della datità una fonte possibile di conoscenza; tale posizione è intrisa di quella metafisicità infida che potremmo definire pre-kantiana. Il dato altro non è che il «qualcosa» rappresentato, erroneamente, come «presenza costante». Il dato empirico sottende l’esperienza, che è sempre legata ad un orizzonte entro cui si collocano strumenti tecnici e teorici, che in-formano la conoscenza, culture, giudizi di valore, che determinano nel bene e nel male e segnano preliminarmente l’esperienza della conoscenza. Kant fu il primo filosofo a trattare la questione dell’orizzonte quale condizione di ciò che l’uomo può sapere, riesce a sapere e deve sapere.
L’orizzonte-limite (veduta) è il binomio necessario per intendere la valenza specifica della metafisica, in quanto fa comprendere sia l’orizzonte entro cui si manifesta una certa conoscenza, sia la destinazione come possibilità dell’oltre-passamento. Sotto questo aspetto, la metafisica conserva una sua paradossalità, nel senso che è colta nel già dato, ma la persistenza del dato comporta un implicito celamento di qualcosa che si dà in quanto si sottrae alla «visione», ma nel sottrarsi non si estingue la possibilità di poter essere (l’alterità).
La metafisica affonda le proprie radici nel nascondimento di quell’essere (secondo la visione heideggeriana) che Kant pensò di identificarlo con il volere come dovere. Il dovere morale, tuttavia, non segna l’oblio dell’essere; se da una parte esso impedisce un uso differenziale tra la rappresentazione e l’essere, in quanto identifica l’essere con il volere, dall’altra non preclude la possibilità di prendere coscienza del problema dell’essere in sé. La metafisica va ripensata in relazione alle sue origini, alla sua intrinseca essenzialità e soprattutto in rapporto al fondamento oscuro, cui Kant ha spesso fatto riferimento.
La domanda che bisogna porsi, allora, recita: è possibile una metafisica sintetica a priori? Sembrerebbe di no. Non si può includere la sintesi nella sfera della purezza ontologica. Per Kant, se da una parte è inconcepibile un’assoluta indipendenza ontologica, dall’altra il riferimento alla sintesi implica un rimando non solo all’empirico, ma soprattutto alla fonte originaria in grado di completare la sintesi. La sintesi non è tutto, nel senso che la conoscenza è legata al significato di trascendentalità che indica non la conoscenza di un oggetto, ma la modalità attraverso cui avviene la conoscenza stessa. Il modo attraverso cui si rende possibile la conoscenza chiama in causa non tanto l’oggetto della conoscenza, quanto l’a priori — il quale pre-suppone quella possibilità dello spirito umano, orientato a porre la questione della metafisica in un’accezione meramente trascendentale. Che cosa si deve intendere allora per «metafisica sintetica a priori»? La sintesi a priori richiama l’idea di una duplicità, come se ci si trovasse ad essere limitati per ciò che attiene alla sensibilità e illimitati per quanto riguarda la stessa facoltà conoscitiva come disposizione a superare la sensibilità stessa. Questa osservazione di H.J. Vleeschuwer è altamente significativa: «Kant ha chiaramente intravisto che la ragione, benché formalmente illimitata in quanto facoltà conoscitiva, è materialmente limitata dai dati dell’esperienza»;15 qui si indica una duplicità della ragione, predisposta sia per l’illimitatezza sia per la limitatezza. Il problema consiste nel chiedersi in che cosa debba consistere l’essere determinata materialmente. La ragione non è determinata da una generica materia in un’accezione dogmatica: la ragione è limitata, ma non determinata, dal dato, dall’ente che è sempre un qualcosa di specifico, almeno per la ragione.
Ma il dato per Kant ha due specificità: l’essere in sé come noumeno e l’essere per un per sé della ragione; solo che Kant ha voluto cercare la limitatezza indipendentemente dalla ragione: un limite cioè in quanto la ragione lo trova già costituito come un in sé (noumeno). Kant individua l’essenza della limitatezza nel noumeno e l’essenza dell’illimitatezza nel concetto di trascendentalità (idee), anche se non intende speculare intorno al concetto di limite. Eppure sembra logico considerare che l’in sé è sempre in relazione con il per sé. Non è il noumeno a limitare la ragione, ma è la stessa ragione che viene a determinarsi come possibilità limitante.
Perché non pensare che concettualmente il noumeno dipenda dalla ragione come possibilità determinate? Per tale aspetto, secondo Heidegger, Kant avrebbe invece presupposto «la distinzione e la connessione dell’in me e del fuori di me» (Essere e tempo, p. 254). Kant ha ammesso per un verso «l’oggetto in un duplice significato, cioè come fenomeno o come cosa in sé»,16 per l’altro, una volontà, concepita come fenomeno e come appartenente ad una cosa in sé (Kant, p. 26). Ammette, senza ombra di dubbio, il fuor di me che non appartiene all’immaginazione (Kant, p. 35): «il senso e non l’immaginazione, che lega inseparabilmente l’esterno al mio senso interno» (Kant, p. 35). Kant non pensa alla possibilità della volontà o di un io, determinantesi o come fuori di se stessa e come in se stessa, perché pensa alla cosa come dato nella presenza costante e quindi non pre-suppone la cosa come possibilità della volontà con il suo porsi nella condizione della limitatezza (come nella seconda edizione del 1787), in quanto la cosa in sé è già data.
Kant non avrebbe applicato anche per tale aspetto la metodica dell’analogia di una ragione che pensa ad un qualcosa (provvisoriamente denominato oggetto) che viene ad in-formarsi o in un livello d’ordine fenomenico e/o in un in sé noumenico. Perché, per l’uso dell’illimitatezza, l’ente viene a porsi nella condizione della sospensione da parte della stessa ragione che è votata ad oltrepassare la soglia della sensibilità? Per la sensibilità, l’ente deve determinarsi in questa cosa; secondo l’aspetto dell’oltre-empiricità la cosa si viene a trovare nella sua sospensione, non menzionata e quindi indeterminata nella mera possibilità. A differenza di Heidegger — che afferma che «la domanda della “filosofia prima”: che cos’è l’ente in quanto ente? Dev’essere ulteriormente rinviata, attraverso la domanda: che cos’è l’essere in quanto essere?» (Kant, pp. 193-194) — bisognerebbe far presente che la questione non riguarda l’ente in quanto tale o l’essere in quanto essere, ma la possibilità di concepire il «qualcosa» come ente limitato e determinato e/o come l’essere-ente indeterminato. Non c’è o l’ente o l’essere, nel senso che l’ente è la possibilità dell’essere. Se Kant ha affermato una volontà come noumeno (nella sua accezione pura) e una volontà sintetica, tutto ciò sta ad indicare che la volontà ha voluto fare di quel qual-cosa un mero oggetto da intendere come fenomeno e come noumeno; la valenza noumenica è l’in sé come il fenomeno è il per sé della stessa volontà pura.
L’esperienza è sempre riferibile ad una volontà che vuol dar senso alla cosa ed è per questo suo proferir significato che la cosa viene a determinarsi anche come oggetto nelle sue diverse modalità: come oggetto d’arte, oggetto di consumo, oggetto sacro (per uno stesso oggetto sono possibili tanti significati). La sensibilità include preliminarmente un «senso», una veduta. Qualcosa si dà come oggetto solo in quanto si è già stabilita l’esistenza costante nel tempo di un atto di volontà, così come la permanenza nel tempo di un vissuto può determinare la stabilità di un io che si definisce come soggetto. Pertanto, ciò che viene definito come dato di esperienza è sempre riferibile ad una configurazione relazionale di soggetto-oggetto che rende possibile una certa conoscenza; non è l’attività sensoriale o esperienziale a rendere possibile la mediazione del soggetto con l’oggetto, ma è la mediazione dell’uomo inteso come soggetto e della cosa intesa come oggetto che permette una certa sensazione, legata però ad una particolare pre-supposizione. La rappresentazione sensibile, quindi, pre-suppone la rappresentazione dell’uomo-natura in soggetto-oggetto. La filosofia di Kant si posizionerebbe dentro una veduta per la quale si presentano (presenza) una soggettività e una oggettualità; in questo senso apparterrebbe al pensiero tradizionale e classico; la grandezza e l’inattualità di questa filosofia consiste però nell’aver prospettato la possibilità di andare «oltre». In che cosa consiste l’oltre-passamento per Kant? Quando Kant definisce trascendentale «una conoscenza che si occupa non degli oggetti, ma del nostro modo di conoscerli» vuol dire che il «modo» riguarderebbe l’andar-oltre gli oggetti; Heidegger non a caso insiste sul fatto che la «conoscenza trascendentale non prende in esame l’ente stesso, ma la possibilità della comprensione preliminare dell’essere».17
Quel modo è riferibile all’a priori, ma Kant non avrebbe colto o meglio svelato l’essenza di quegli a priori che valgono per l’intelletto e non solo per esso. Il nostro modo di… non riguarda l’oggetto, ma la forma in grado di in-formare tutto ciò che è oggetto di conoscenza. Alla domanda su quale sia l’essenza dell’a priori, Kant non ha risposto. E forse non poteva rispondere, giacché sarebbe andato incontro ad un campo di indagine estremamente rischioso, in quanto avrebbe inficiato e invalidato l’idea di scienza così come era intesa nel suo tempo («vide l’ignoto e indietreggiò»).
Kant aveva pensato di rispondere con la domanda «che cos’è l’uomo», ma in questo «cos’è» non poteva darsi lo svelamento della verità, del fondamento, poiché nel che cosa è si viene a precludere l’apertura dell’essere dell’uomo. Non chi è l’uomo, nel senso che per Kant varrebbe ancora che cos’è l’uomo. Il che cosa preclude, pregiudizialmente, l’essere del chi è. Se per Heidegger questo «che cos’è l’uomo?» rileva «l’interrogazione sull’esserci dell’uomo» (Kant, p. 198), secondo il nostro punto di vista esso deve poter indicare soprattutto un non poter rispondere, anche se non ci si può non interrogare. La risposta a «che cos’è l’uomo?» fu offerta, per Kant, dalla stessa antropologia: «in fondo, potrebbe ascriversi tutto all’antropologia, dal momento che i primi tre problemi si riferiscono al quarto».
4. Dall’etica alla metafisica
Nella filosofia kantiana ci si imbatte spesso in termini come tendenza, disposizioni, disposizione naturale, la ragione umana spinta da motivi pratici (Fondazione, p. 27), propensione, anelito…, ma questi termini andrebbero colti nella loro specificità, andrebbero cioè interpretati secondo due differenti significati: da una parte esistono disposizioni legate alla natura sensibile, dall’altra coesisterebbero tendenze e disposizioni riferibili all’elemento intelligibile o comunque ascrivibili all’impianto stesso della pura ragione. Sotto questo aspetto, la metafisica è collocabile all’interno della natura intelligibile, cui non ci si può sottrarre. La caratterizzazione kantiana della metafisica si incentra su un dover essere (Sollen); tuttavia per il nostro studio si tratta di appurare se la questione dell’essere convertito in dovere, oltre ad indicare semplicemente un richiamo dell’essere alla moralità, non implichi un significato diverso, nel senso che ciò che viene denominato come «morale» non debba essere interpretato come un qualcosa che vada oltre la stessa morale. In effetti, l’impegno kantiano lungo la sua evoluzione segue un filo conduttore, per lo più incentrato sulla fondazione della metafisica; la differenza tra le diverse prospettazioni — prima edizione della Critica della ragion pura e seconda edizione; Fondazione della metafisica dei costumi e Critica della ragion pratica e così via — dimostra che indipendentemente dai princìpi espressi o dal livello teoretico (si pensi al ruolo importantissimo dell’immaginazione trascendentale o dell’appercezione trascendentale nella prima edizione del 1781) o livello pratico (legge morale, dovere) esisterebbe un unico elemento che dimostra non la differenza evolutiva del pensiero kantiano, ma un’unità sostanziale: fondare e/o rendere possibile la metafisica come questione entro cui l’uomo può cogliere la verità morale, teoretica e religiosa.
Il mancato chiarimento circa la genesi di molte facoltà — il fondamento del dovere o la stessa indeducibilità della morale pura — indica che tutto l’impianto teoretico, estetico, pratico, finalistico si struttura su un qualcosa che si è, ad un certo punto, voluto nascondere, una verità che si occulta, di cui è possibile avere solo una rappresentazione. La verità autocelantesi può essere definita, kantianamente, come un in sé (noumeno) e logicamente l’elemento soggettivo, ossia la soggettività stessa, rientra nel giuoco del nascondimento, in quanto non può darsi un per sé d’ordine sintetico senza un in sé (noumenico). Anche l’io soggettivo, nell’accezione noumenica, si autocela, si sottrae alla rappresentazione sintetica per affidarsi all’ignoto. Diversa la posizione di Heidegger, per il quale non è l’in sé a segnare il carattere finito della ragione pura e della conoscenza, giacché un essere infinito non potrebbe nemmeno anticipare una cosa fissata fuori di sé; viceversa è l’essere finito dell’uomo a determinare la possibilità dell’in sé o il concetto stesso di qualcosa posto fuori di me. Non è la cosa in sé a fondare e stabilire la finitezza, ma è la finitezza dell’uomo che permette l’affermazione dell’in sé come valenza noumenica. Per il Kant di Heidegger l’in sé e per il sé si esplicano per una condizione che pre-suppone la negazione dell’essere, giacché il rapporto di qualcosa posto come per me (soggetto) e come per altro da me (oggetto) indicherebbe già un celamento per il quale si può parlare di un essere entizzato.18 Secondo questa interpretazione, il valore morale della soggettività del soggetto sottende già per se stesso da un lato il limite empirico della natura umana, dall’altro la tendenza dello spirito a non disperdersi nel condizionato, di modo che l’uomo non incorra nel rischio di essere un ente tra gli enti, ma ad orientarsi nella possibilità dell’incondizionato che coincide con la vera questione dell’essere. La questione etica quindi implica da una parte la metafisica del limite (l’aspetto empirico, ossia condizionante dell’uomo), dall’altra la questione incalzante della trascendenza; ma è necessario definire il valore autentico di questo trascendersi della volontà.
Il problema dell’oltre-passamento dipende da una ragione morale deputata al superamento dei limiti empirici, da una tendenza: «La ragione da una tendenza della sua natura è spinta a procedere oltre l’uso empirico, e ad avventurarsi, in un uso puro per semplici idee, fino agli estremi confini di ogni conoscenza».19 In verità Kant non ha mai spinto la sua analisi per meglio precisare o definire la qualità di una simile tendenza che permette l’esplicazione della metafisica come filosofia dell’oltre-passamento.
Un’altra riflessione scaturisce dall’errore della metafisica tradizionale che ha scambiato il piano del pensiero con quello dell’ontologia; l’errore (perdurato fino al criticismo che lo avrebbe definitivamente confutato sotto l’aspetto logico) era stato, a più riprese, per lo più proposto da filosofi di solida fede cristiana, la quale certo non scaturiva da quei sofisticati logicismi (prove ontologiche e cosmologiche). Quei ragionamenti (il riferimento è soprattutto alla prova ontologica di Anselmo) erano svolti senz’altro con l’uso della ragione, la quale presupponeva innanzitutto la fede, cui Kant non riconosce alcuna validità. Nella storia del pensiero non esiste un solo esempio degno di rispetto di una persona che abbia maturato una fede grazie a ragionamenti logici. Ma per Kant qualsivoglia teologia fondata sulla fede deve essere respinta.
Riflettendo che «con tutto lo sforzo della nostra ragione, abbiamo dell’avvenire soltanto una veduta assai oscura ed ambigua, e il reggitore del mondo ci lascia soltanto congetturare e non scorgere o dimostrare chiaramente la sua esistenza e la sua maestà»20 Kant fa pensare che Dio è in rapporto solo alla possibilità, e la postulazione deve essere intesa come l’eterno domandarsi su Dio. È come se egli avesse accostato alle due tendenze — di chi crede e di chi non crede — una terza via (che non coincide, come è stato ritenuto da molti critici, con l’agnosticismo), scevra dai falsi ragionamenti dicotomici e irrisolvibili e in grado di postulare un tipo di teologia, basata sulla possibilità, libera da minaccia e da promessa.
Un’analisi più attenta dovrebbe indurci ad un’altra considerazione: se la postulazione ha lo stesso significato di una richiesta, di una domanda perché Dio possa essere, allora il fatto che possa esserci un regno dei fini, che l’essere virtuoso possa mediarsi con la felicità, dipende dalla coscienza che si progetta, si «getta a favore»… La metafisica classica prospettava la trascendenza, ossia si progettava nella domanda cui seguiva una risposta; per la metafisica kantiana invece la domanda incessante sarebbe la vera legge che la coscienza impone all’uomo; solo che la teologia a ragione converte la domanda in «speranza».
Bisogna chiedersi: siccome teologia non può fondarsi sulla legge di Dio, ma solo sulla legge morale che è in ogni uomo, perché la legge morale possiede in se stessa la facoltà di fondare una teologia e postulare Dio? Perché il riferimento alla morale indica il volere, la volontà che si qualifica come un volere essere, come un porsi a favore senza che possa individualizzarsi in un qualcosa; quindi come un gettarsi verso, un tendere a, un desiderare, un aspirare a… Ma il fondamento di tutto ciò è «oscuro» soprattutto se mi pongo la domanda esplicativa: perché mi devo porre nella direzione di…?
Se da una parte Kant ha implicitamente affermato diverse possibilità del fondamento, dall’altra progetta un filosofare orientato ad una sua consapevole omissione. Simile elusione sarebbe stata riscontrata anche per quanto concerne la ragione teoretica, in quanto niente viene esplicitato riguardo alla natura fondante (l’origine) delle categorie e alla natura della deduzione trascendentale, come sulla natura dell’immaginazione trascendentale, la cui funzione dell’anima risulta essere cieca. Stessa omissione è avvertibile per quanto attiene la ragione pratica, che per la sua stessa autonomia e purezza deve trovare il fondamento in se stessa. La valenza pratica è pura anche in virtù dell’indeducibilità della morale, quando poi la stessa prospettiva morale, pur occupando una fondamentale importanza nella Fondazione della metafisica dei costumi, si costruisce in rapporto ad un altro elemento significativo, rappresentato dal tentativo, successivamente fatto cadere nella Critica della ragion pratica, di porre la legge morale sul fondamento della libertà — la libertà posta a fondamento originario della moralità stessa. Nella parte III del capitolo sul «Passaggio dalla metafisica dei costumi alla critica della ragion pura pratica» della Fondazione della metafisica dei costumi, Kant non solo riconduce il concetto della moralità all’idea della libertà, alla quale «è indisgiungibilmente legato il concetto dell’autonomia e con esso il principio universale della moralità»21 come se l’idea della libertà stesse a fondamento di tutte le azioni degli esseri ragionevoli, ma va ben oltre la tesi stessa della deducibilità morale dalla libertà, per la ragione che la
legge morale nella sua purezza e genuinità […] è da cercarsi nella filosofia pura; bisogna dunque che questa [la metafisica] preceda, altrimenti non può darsi alcuna filosofia morale.22
Non quindi una metafisica come etica, ma un’etica come metafisica; così non una metafisica come estetica, ma un’estetica come metafisica; è possibile, seguendo questo filo conduttore, prospettare, problematicamente, una teologia come metafisica, e non solo una teologia come morale? Operazione non certo facile per un motivo logico e nello stesso tempo di carattere ermeneutico: manca in Kant la possibilità di trarre un’idea guida, almeno per problematiche che abbiano a che fare con il concetto di metafisica e di teologia. Sono presenti senz’altro diversi percorsi, ma all’interno dell’itinerario speculativo o dell’evoluzione del pensiero kantiano coesistono o si scontrano differenti elementi, specie per ciò che attiene al fondamento in grado di produrre o discernere qualsivoglia originarietà dei principi. A questo proposito, quando ci si illude di aver rinvenuto il fondamento, ci si accorge che l’elemento fondante e portante — il fondamento originario — viene ad autoescludersi, perché nel frattempo se ne presenta prepotentemente un altro che in principio sembra coesistere, ma in seguito soppianta il primo. È utile, per tale aspetto, far presente che il fondamento della libertà ne La fondazione della metafisica dei costumi è solo presupposto. Kant non si è mai spinto a spiegare né la radice dell’immaginazione pura, tantomeno di comprendere perché la libertà sia possibile come causalità di una volontà (Fondazione, p. 106); né ha voluto chiarire o far comprendere in qual modo la ragion pura possa esser pratica (IFondazione, p. 106).
Bisogna aggiungere che all’idea della libertà va riconosciuto un altro fondamento (non a caso Heidegger è dell’avviso che Kant si esprima, a proposito del fondamento, con diverse definizioni come se intenzionalmente volesse intendere sempre la stessa cosa), cioè l’io, il quale «per quanto ha attinenza alla semplice percezione e alla ricettività delle sensazioni, deve considerarsi appartenente al mondo sensibile, ma per quanto in lui può essere attività pura […] deve considerarsi appartenente al mondo intelligibile, che egli però non conosce oltre».23
A proposito dell’io o della problematica attinente al soggetto, è stato Heidegger il primo a dimostrare che la pura legge morale debba rapportarsi alla soggettività del soggetto,24 la quale anche se ammessa da Kant, a livello morale, come persona non viene, ancora una volta, definita. Anzi Heidegger è dell’avviso che
Kant, nello svelare la soggettività del soggetto, indietreggia di fronte al fondamento da lui stesso posto […] La ricerca intesa a penetrare la soggettività del soggetto, la «deduzione soggettiva» conduce nel buio.25
Heidegger darà l’avvio alla tematica della finitudine, che lo porterà verso un percorso che, anche se denso di significati e risultati importantissimi, di fatto segna un’interpretazione che poco si adatta al criticismo. Siccome l’intento di Kant era la rifondazione della metafisica, senza incorrere negli errori di quella tradizionale, intrisa di dogmatismo, qualsivoglia finalità tesa alla specificazione di un fondamento avrebbe attirato serrate critiche o quantomeno dato luogo a false interpretazioni e malintesi, come del resto era accaduto con la pubblicazione della prima edizione della Critica della ragion pura del 1781.
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I. Kant, Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, Laterza, Bari 1977, vol. II, p. 662. Le sezioni II e III della I edizione del 1781 rappresentano uno snodo fondamentale per il filosofare kantiano. Per quanto attiene alla sezione II («Deduzione dei concetti puri dell’intelletto»), Kant pensa all’esistenza di un fondamento trascendentale (appercezione trascendentale), senz’altro identificato con l’unità della coscienza, in quanto «niente può venire a conoscenza se non mediante questa appercezione originaria» (p. 661). Il passaggio successivo esplicita il senso dell’unità trascendentale dell’appercezione in rapporto alla pura immaginazione; l’intelletto, sotto tale ottica, si caratterizza come «l’unità dell’appercezione in relazione alla sintesi dell’immaginazione» (p. 664). Inoltre, senza la sintesi pura dell’immaginazione non è possibile che si dia «nessun concetto di oggetti». Nella II edizione, la facoltà dell’immaginazione, intesa anche come sintesi delle intuizioni e come proprietà di determinare a priori la sensibilità, dev’essere conforme alle categorie (vol. I, p. 145). Tale conformità implica un piano di dipendenza dell’immaginazione nei confronti dei concetti. Viceversa, nell’edizione del 1781, il concetto di causa è esplicitamente rapportato all’appercezione trascendentale (autocoscienza) che risulta la fonte originaria che legittima, soprattutto, l’unità categoriale secondo una duplice valenza d’ordine universale e necessario. Nella prima versione, il ruolo della sintesi è affidata all’immaginazione pura, nella edizione del 1787 le categorie rappresentano, per se stesse, le funzioni unificatrici dell’intelletto (l’unità sintetica originaria dell’appercezione) nella seconda edizione, l’unità sintetica viene attribuita all’Io penso, cui vengono sottoposte le rappresentazioni, attraverso una funzione unificatrice a priori dell’intelletto. Sotto tale visuale, l’io altro non è che un pensiero regolato dall’intelletto. Per il primo Kant, le fonti soggettive della conoscenza, su cui si struttura «la possibilità di una esperienza in generale» sono «senso, immaginazione e appercezione» (vol. II, p. 662); l’intelletto si presenta come secondario. Nella seconda versione, gli elementi fondamentali della conoscenza sono la sensibilità e l’intelletto. ↩︎
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I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, trad. di P. Chiodi, Laterza, Bari 1980, p. 4. ↩︎
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I. Kant, Critica della Ragion pratica, trad. di F. Capra, Laterza, Bari 1974, p. 118. ↩︎
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Un’altra ipotesi, senz’altro suggestiva, utile per il nostro lavoro, può essere prospettata in questo modo: se consideriamo la tipologia della metafisica passata, ci accorgiamo che definizioni usuali come «causa sui» o «ciò che si deve intendere per se stesso…» possono essere utilizzate per significare e in-formare la pura moralità che, con riferimento all’accezione kantiana della Critica della ragion pratica, è per se stessa concepibile come ciò che è (morale pura) e non abbisogna di nient’altro per poter essere. Quest’ultima definizione concettuale che ha governato tutta la metafisica da Aristotele fino a Spinoza, potrebbe valere come la regola costante per comprendere l’essenza, per esempio, dell’imperativo categorico che, a differenza di quello ipotetico, non risulta inficiato da ciò che è altro da se stesso. ↩︎
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I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, p. 9. ↩︎
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Ibid., p. 106. ↩︎
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M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, trad. di M.E. Reina e V. Verra), Laterza, Bari 1985, p. 137. ↩︎
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«Questa costituzione essenziale originaria dell’uomo, radicata nell’immaginazione trascendentale, è l’ignoto che Kant doveva avere intravisto, quando parlava della radice a noi sconosciuta. L’ignoto, infatti, non è ciò di cui noi non sappiamo assolutamente nulla, ma è ciò che, nel noto, ci viene incontro e ci incalza come elemento inquietante. Tuttavia, Kant non ha sviluppato l’interpretazione più originaria dell’immaginazione trascendentale, anzi non l’ha nemmeno intrapresa. […] Kant ha indietreggiato di fronte a questa radice sconosciuta» (M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, p. 140). ↩︎
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Si pensi per esempio, allo studioso della metafisica kantiana Wundt, con il suo Kant als Methaphisiker (Stuttgart 1924), oppure a F. Alquié con il testo La critique kantienne de la métaphysique (Paris 1968), o R. Daval con l’opera Métaphisique de Kant (Paris 1951), che insieme all’importantissimo testo di M. Heidegger Kant e il problema della metafisica rappresentano, indipendentemente dal taglio ermeneutico, un essenziale apporto scientifico e critico rispetto al problema della metafisica kantiana. ↩︎
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J. Grondin, Immanuel Kant, Armando Editore, Roma 1994, p. 193. ↩︎
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Ibid., p. 163. ↩︎
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M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, p. 220. ↩︎
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K. Popper in Congetture e confutazioni insiste su due tipi di «rivoluzioni copernicane», esplicantisi nel campo gnoseologico e morale; quest’ultimo è da intendere come un’etica della libertà, il cui significato può essere colto con il seguente appello: «abbi il coraggio di essere libero; e rispetta la libertà degli altri». Popper riconosce in Kant solo il filosofo della cosmologia, il filosofo della conoscenza e della scienza, oltre al filosofo della morale, la quale per Popper coincide con la tematica della libertà; viene negata così qualsivoglia importanza metafisica. Cassirer è un altro filosofo che riconosce in Kant il filosofo che ha operato soprattutto una «rivoluzione nella maniera di pensare», che si esprime non solo in termini specificamente conoscitivi, ma anche secondo la «funzione del pensiero nel linguaggio, la funzione del pensiero mitico-religioso e la funzione dell’intuizione estetica» (E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche); l’interpretazione di Cassirer è orientata a considerare l’attività dell’intelletto produttiva rispetto non solo a tutto ciò che è riconducibile alla realtà naturale, ma anche a ciò che può essere oggetto di esperienza umana in senso generale. ↩︎
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R. Carnap, La concezione scientifica del mondo, Laterza, Bari 1979, pp. 74-99. ↩︎
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H.J. De Vleeschauwer, L’evoluzione del pensiero di Kant, Laterza, Bari 1976, p. 45. ↩︎
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I. Kant, Critica della ragion pura, vol. II, p. 26. ↩︎
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M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, p. 23. ↩︎
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Heidegger, a proposito della questione della metafisica, è dell’avviso che in Kant coesisterebbero due tendenze: una orientata secondo l’impostazione della vecchia metafisica, l’altra volta a scorgere la possibilità di una metafisica generale a carattere ontologico. In Kant e il problema della metafisica, nella parte introduttiva «Tema della ricerca e sua articolazione», si pensa alla Critica della ragion pura «come fondazione della metafisica, così da presentare il problema della metafisica come problema di una ontologia fondamentale» (M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, p. 11). Kant è collocato nella tradizionale impostazione, in quanto la fenomenicità e la noumenicità della cosa, di fatto, precludono, ossia nascondono preliminarmente, altre possibili aperture con/dell’oggetto stesso. Configurare la cosa come in sé e un per noi (rappresentazione) significa insinuare nella cosa un modus interpretandi di un per me e un fuori di me. Ogni questione su ciò che è dietro il fenomeno «si riferisce al fatto che la conoscenza finita […] nel momento in cui si esercita necessariamente nasconde e nasconde preliminarmente» (p. 38). Tale visione viene espressa anche in Essere e tempo, nel paragrafo «Il metodo fenomenologico della ricerca», in cui si afferma che «Kant usa il termine apparenza in questo accoppiamento di significati. Fenomeni sono per lui, da un lato, gli “oggetti dell’intuizione empirica”, ciò che in essa si manifesta. Questo automanifestantesi […] è nel contempo, “apparenza” come annunciante emanazione di qualcosa che nell’apparenza si nasconde» (Essere e tempo, trad. di P. Chiodi, Longanesi & C., Milano 1976, p. 50). ↩︎
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I. Kant, Critica della ragion pura, vol II, p. 607. ↩︎
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Ibid., p. 178. ↩︎
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I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, p. 94. ↩︎
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Ibid., p. 7. Più avanti, Kant rende più esplicito il concetto non di una metafisica come etica, ma di un’etica come metafisica: «se manca questa metafisica, non solo diventa vano determinare esattamente per il giudizio speculativo l’elemento morale del dovere in tutto ciò che è conforme al dovere, ma diventa addirittura impossibile […] fondare i costumi sui loro veri princìpi» (Fondazione della metafisica dei costumi, p. 37) ↩︎
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I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, p. 92. ↩︎
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Il concetto di soggettività del soggetto non deve far pensare all’idea di un’identità soggettiva e coscienziale, come un’unità permanente e stabile. La definizione di «soggettività» viene utilizzata da Heidegger in via essenzialmente provvisoria e comunque ascrivibile al primato ontico dell’uomo cui compete, tra le diverse possibilità, originariamente, «quella di cercare». Kant, secondo Heidegger, da una parte mantiene ben ferme alcune condizioni per la fondazione dell’ontologia fondamentale e della trascendentalità, dall’altra non va oltre la visione metafisica dell’essere, in quanto non avrebbe scorto «il presupposto ontologico che sta alla base dell’io penso […] perché l’io è nuovamente confinato nel soggetto isolato» (Essere e tempo, p. 386) e soprattutto per la inadeguata ontologia del sostanziale. ↩︎
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M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, p. 185. ↩︎