Recensione a Miriam Revault d’Allones e François Azouvi, Ricœur

Miriam Revault d’Allones, François Azouvi, Ricœur, L’Herne, Paris 2004, 361 pp.

Il testo, che certamente rappresenta al momento attuale uno dei più importanti contributi critici sull’opera di Ricœur, è una raccolta di interventi redatti da studiosi di diversa estrazione. A scrivere, infatti, non sono solo importanti personalità del mondo filosofico contemporaneo (come Jacques Derrida), ma anche linguisti, giuristi, storici del pensiero, tutti coordinati da Myriam Revault d’Allones e François Azouvi.

La scelta che sottende all’ordinamento dei testi non privilegia l’ordine cronologico, né quello tematico. Piuttosto, l’idea regolativa è «cette immense polyphonie philosophique» (p. 10) che nasce dalla straordinaria capacità di Ricœur di trarre da ogni cosa alimento per la filosofia, risorse per quella «speranza di essere nella verità» che è la convinzione in forza della quale tutte le filosofie si trovano sempre nella stessa verità dell’essere, intima sorgente di qualunque gesto filosofico.

La struttura del libro si divide in cinque sezioni. Dopo la prima, intitolata «Témoigner», nella quale vengono rievocati momenti particolari della vita di Ricœur, si susseguono quattro sezioni più strettamente filosofiche, dedicate rispettivamente ai temi del linguaggio, della teoria ermeneutica, della questione dell’identità, fino al problema dell’etico e del giusto, approfonditi nell’ultima sezione.

Nel suo insieme, il principale valore del presente «cahier» sta nel riuscire a riprodurre lo stile della Ricœuriana «lunga via», sia nelle sue assonanze che nelle sue dissonanze.

Gli interpreti, infatti, non solo sono tutti mossi da un attento spirito descrittivo ma anche da un autentico sguardo critico che continuamente affiora, soprattutto in merito alle questioni più decisive. Il risultato è un’immagine unitaria, estremamente convincente, che individua il filo conduttore del pensiero di Ricœur nel passaggio dal male, inteso dapprima come colpa, e in seguito (grazie alla traversata di Freud e della storiografia) come sofferenza immeritata, all’azione, alla capacità di fare, alla polifonia dell’agire. Dall’uomo colpevole, l’uomo che scopre tutta la sua fragilità, all’uomo capace di raccontarsi, di assumersi le proprie responsabilità morali, ma allo stesso tempo di perdonare e di essere perdonato, dunque di prendere le distanze dalle azioni sue e degli altri.

Si tratta di un nuovo modo di pensare la finitezza umana sotto il segno del miracolo della nascita piuttosto che dell’essere per la morte. Si passa dall’essere per la morte all’essere per la vita. Ricœur sceglie Spinoza invece di Heidegger e Sartre, la necessità di restare vivi fino alla morte, la priorità della perseveranza nell’essere.

La tristezza del finito, l’angoscia, fanno posto all’affermazione originaria e alla speranza. Speranza che non si riduce alla semplice attesa, ma che si traduce in un agire sulla scorta di segni e testimonianze, in un coraggio di fare, di dire, di narrare in vista di un fine solo annunciato e mai visto.

L’opera di Ricœur, afferma Frédéric Worms, è orientata da due forze estreme che continuamente si combattono, «la vie et le mal, la poussée de la vie et la blessure du mal» (p. 315). È un giudizio assolutamente condivisibile.

I misteri della vita e del male attraversano e condizionano, in una maniera quasi ossessionante, l’intero percorso filosofico di Ricœur. Lo stesso andamento dialettico della sua ermeneutica ne risente profondamente.

Sotto questo profilo, è allora plausibile distinguere tre registri terminologici diversi nell’opera del filosofo di Valence. Termini come «colpa», «morte», «sofferenza immeritata», «oblio», «tragico», «angoscia», si alternano a termini come «involontario», «spontaneità», «desiderio di essere», «ricordo», «affermazione». Lo sforzo della riflessione sta tutto nel cercare di «arrampicarsi» dalla negazione della finitezza umana alla negazione di questa negazione nel dire e nel volere, fino alla affermazione originaria nascosta dietro di esse e che rende ragione dell’una e dell’altra. Da qui la comparsa di termini — intermedi — come «speranza», «perdono», «promessa», «responsabilità», «consenso», «capacità», «testimonianza», categorie di una ragione che è divenuta capace di pensare a dispetto del male e della vita, di trovare un fragile equilibrio, non esclusivamente teorico, tra una ontologia dell’agire e l’orizzonte del tragico, inteso quest’ultimo (sostiene Olivier Abel) sia come irreversibilità che come conflitto.

L’ermeneutica Ricœuriana si è sviluppata e progressivamente allargata passando attraverso una serie di paradigmi mai abbandonati in seguito. Il contributo di Jean Ladrière (pp. 68 — 77) è una ricostruzione esemplare di tale cammino. Dal simbolo alla metafora, al racconto, fino alla traduzione, il testo resta sempre il referente principale, il termine mediante il quale tutti questi paradigmi vengono intesi e definiti. L’idea direttrice dell’ermeneutica, dice lo stesso Ricœur, è l’effettuazione del discorso come testo.

Di fronte al testo la «comprensione» deve necessariamente farsi «spiegazione», assumere cioè una veste metodica e oggettivante, per diventare così comprensione dotta, coglimento del senso del testo in e grazie alla sua formalizzazione, alla estrapolazione della sua struttura. Tuttavia la spiegazione deve a sua volta tornare ad essere comprensione, perché ad un senso primo, ad un livello semantico più superficiale e ostensivo, è sempre legato un senso ancora più profondo, una referenza non ostensiva, diverso da quel che l’autore vuole dire, e cioè la «cosa del testo»: «la référence du texte, c’est son pouvoir de déployer un monde» (p. 73), un senso ontologico dunque, «qui vise le déploiement d’un Welt qui n’est plus un Umwelt, autrement dit la projection d’un monde qui est plus qu’une situation» (p. 73).

È vero che Ricœur non ha mai pensato una fenomenologia della percezione, tuttavia non l’ha mai persa di vista. Egli si muove in direzione di una teoria non intuizionista della percezione, per cui quest’ultima è un senso prima di essere un’intuizione. Esiste cioè una «culla» di senso, un significare, un dare già senso, più originario di qualsiasi intuizione, e da cui ci rapportiamo agli enti. Come sostiene Michael Foessel, Ricœur compie una rifondazione della fenomenologia della percezione in un senso ermeneutico: se il linguaggio è la condizione di possibilità di ogni nostro rapporto significativo col mondo, esso modifica e ri-orienta la nostra stessa percezione. Il mondo della vita di Husserl si chiarifica in e grazie al mondo del testo.

Questo è l’autentico significato dell’innesto del problema ermeneutico nell’ambito della metodologia fenomenologica.

Nel caso della metafora, il linguaggio è investito dall’immaginazione la quale, sotto la forma di un vedere come, compie un accostamento inedito tra cose logicamente distanti, il che si traduce in una impertinenza semantica, in una novità del dire. L’immaginazione è capace di creare modelli percettivi nuovi ri-descrivendo dalla sospensione della referenza immediata al mondo, alla critica della intuizione, a cui si aggiunge la produzione di nuovo senso, la schematizzazione metaforica. A tutto ciò corrisponde un aumento della capacità di abitare il mondo.

La metafora distrugge il nostro ambiente per metterci di fronte al mondo, per collocarci nel nostro essere — nel — mondo, aprendoci ad un nuovo modo di percepire e abitare un mondo.

A questo punto la poetica si traduce nell’ideologia e nell’utopia, le quali, completando il lavoro della prima, operano ad un livello pratico una schematizzazione metaforica che dà al mondo della vita il suo carattere di potenzialità, di orizzonte del fare e dell’agire etico, morale e politico.

Il soggetto «strappato», capace e vulnerabile allo stesso tempo, soggetto che può conoscersi solo grazie alla decifrazione di un senso che, sempre e già, lo supera da ogni parte, di un senso che non è suo, deve acquisire allora un «ritmo» interpretativo dialettico per diventare capace di leggere questo piano ontologico originario il quale, più che una condizione, si rivela un agire e un «poter-fare».