L’ateismo contemporaneo o, quanto meno, l’indifferenza religiosa impedisce di vedere ancora nell’Occidente un mondo cristiano. Tuttavia, la stessa secolarizzazione della religione non fa dell’Occidente il luogo sempre più astratto portatore di un messaggio etico? L’Occidente sarebbe un complesso di valori il cui tratto dominante è l’universalità. — Serge Latouche1
1. Introduzione
La prolifica opera intellettuale di Serge Latouche, economista, sociologo e filosofo francese, è ormai ben nota al grande pubblico, in particolar modo per le tematiche inerenti al movimento della decrescita, di cui egli stesso è considerato il portavoce più autorevole. Sebbene il tema latouchano dell’uscita dall’economia sia molto conosciuto, il suo fondamento filosofico resta nondimeno alquanto oscuro, anche per la mancanza di espliciti chiarimenti da parte dello stesso Latouche. Ciò che ci interessa maggiormente in questo breve lavoro è quindi di mettere in luce la fondazione filosofica del concetto di «uscita dall’economia».
2. L’ideologia dell’illimitato
Il capitalismo, variante vincente dell’ideologia della crescita, si fa carico del motto utilitaristico della «maggior felicità per il maggior numero», oggi interpretato attraverso lo slogan «sviluppo per tutti». La società dell’illimitato fonda la sua ideologia su di una doppia caratterizzazione: totalità e infinità, Latouche afferma infatti che «il nostro sistema sopravvive solo perché affonda le sue radici in una storia ricca e variegata, in tradizioni culturali che fagocita e distrugge ma che sono al tempo stesso indispensabili per la sua sopravvivenza».2 L’ideologia dell’illimitato cade nella tipica antinomia che Adorno3 imputava alla società borghese, cioè quella del perpetuo trasformare se stessa al fine di rendere giustizia alla sua caratteristica di infinità, tramite l’affermarsi dell’ossimorica «tradizione del nuovo».4 Emancipandosi da tutto il resto l’economia, veicolo prediletto di tale ideologia, non si è semplicemente ed innocentemente posta come nuovo significato immaginario-sociale, per prendere la terminologia di Cornelius Castoriadis;5 essa svuota tutto ciò da cui deriva di senso, veicolando ogni altro messaggio ed incorporandolo a se stesso, fino all’annientamento effettivo del valore della vita, sia personale che comunitaria. La distruzione dell’umano diventa la conseguenza ineliminabile della designificazione delle varie rappresentazioni sociali entro l’economico, integrandosi ad esso; in tal modo l’economia assurge a significato autonomo a cui far riferimento.
L’unica alternativa possibile alla specificità divorata ed inclusa entro l’universale diventa la soluzione mimetica a favore di quest’ultimo. Questo falso universale, in quanto tale, ha dunque bisogno di espandersi all’infinito, ciò è realizzato mediante l’esportazione degli stessi metodi di produzione e stili di vita occidentali presso coloro che ancora non li hanno abbracciati. «La logica della fabbrica si impone in tutte le sfere della società: nei laboratori tradizionali, ma anche negli uffici e nella vita privata. Non c’è alternativa a questo processo mimetico».6 È proprio la soluzione mimetica a far da garante circa il successo dell’occidentalizzazione del mondo, la specificità deve essere necessariamente mutilata fino ad omologarla con tale presunto universale. Il girardiano sacrificio fondante non è più proiettato nella sua mitica origine, ma è il rituale con cui ogni uomo viene continuamente omologato al tutto, sacrificando la propria specificità. Solo così una logica che si professa come universale può sopravvivere; la soppressione del sé diventa connaturata a tale modello. Il sacrificio egemonizza in quanto è richiesto a tutti e perpetuato ad ogni livello e in ogni istante, eliminando tutto ciò che esula dalla sua logica. La naturalità di questa riduzione dell’essere umano a mero involucro privo di qualsivoglia specificità, serve come base all’economia per determinare, e al contempo produrre, i suoi movimenti e le sue preferenze, sempre standardizzate. «La riproduzione del sociale è pensata innanzi tutto come problema di sopravvivenza biologica. Dato questo presupposto, i problemi sociali diventano problemi tecnici da risolvere con strumenti tecnici».7
Il cardine del successo di questo processo risiede nella produzione, la cui risonanza ricalca il bio-potere foucaultiano, di una nuova forma di vita, cioè di soggetti sempre-uguali, sottoposti alle medesime leggi ed interessi produttivistici; sarà dunque il livello antropologico lo snodo su cui si basa sia l’ideologia dell’illimitato che anche la fonte di salvezza da questo coercitivo universale. L’addomesticamento dei corpi, o per meglio dire, la loro stessa produzione, è stato lo snodo necessario affinché il capitalismo potesse emergere e reggersi come logica vincente. All’asserto antropologico del produttivismo, incentrato sull’idea di una predeterminata natura umana fondata sul naturalismo dell’homo oeconomicus — che Latouche analizza nella sua triplice dimensione di naturalismo, edonismo e atomismo sociale o individualismo — va opposta una diversa prospettiva antropologica che sappia rendere giustizia all’alterità mutilata e che possa essere usata come base fondativa per il concetto di «uscita dall’economia».
3. Sull’antropologia latouchana
Rifiutando l’idea di uomo come atomo calcolatore, Latouche inserisce quest’ultimo all’interno della triplice dinamica maussiana del dono, affermando che la «legge della reciprocità è alla base della socialità primaria, quella della famiglia, del vicinato e delle reti relazionali».8 L’uomo è quindi sempre in relazione con una storicità e un ambiente, non ne può fare a meno in quanto già con la sua stessa nascita vi si ritrova immerso; la caratteristica della relazionalità ha quindi radici più profonde, e concerne il concetto di immaginario, come creazione storico-sociale, di cui abbiamo parlato poc’anzi. Latouche discute ampiamente, con particolare riferimento a Castoriadis, del ruolo dell’immaginario sociale,9 il quale crea i suoi significati immaginari, i quali possono essere rappresentati solo a partire da una loro «materializzazione»; ma l’immaginario, istituito socialmente, è anche quel reale attraverso cui le cose sono istituite.10
Per quanto riguarda l’uomo la necessaria conseguenza è che l’istituzione sociale è necessariamente anche istituzione dell’individuo sociale. Vi si ritrova quell’interminabile dialettica, che riteniamo esser presente in Latouche, per cui l’uomo sociale determina il proprio immaginario da cui è esso stesso determinato. La relazionalità qui implicita è quella per cui l’immaginario si va formando, cioè quell’ibrido socialmente istituito di natura e cultura. Ciò che il nostro autore rigetta dell’umanesimo-naturalista è quindi la sua dicotomia. Il rifiuto, sia del biologismo che del culturalismo antropologico, parte dall’assunto che ogni universale è falso; ogni cosa deve essere in relazione per dare senso alla complessità del vivente, appiattire tutto ad un’unica dimensione sarebbe tradire la sua stessa essenza. Definire la natura come socialmente istituita ha senso se si riprende la critica di Latouche in merito ai bisogni naturali, cioè creazioni derivanti da privazioni e privatizzazioni da parte di coloro che Ivan Illich chiamerebbe «agenti professionali».11 Non si vuole infatti definire un essere «naturalmente così», come invece fa l’antropologia economicista, ma porre in rilievo la natura relazionale dell’uomo, dove per relazionalità si intende quella capacità di essere partecipe di tutto ciò che contribuisce a formare il suo immaginario, cioè la totalità di relazioni che intraprende con l’ambiente circostante, la società e la tradizione a cui appartiene. Dove la tradizione assume il valore di pensiero ereditato dal passato, come modo di leggere e intendere il reale, che ha superato la prova del tempo, in una sola parola: la cultura.
La natura determina la cultura nella misura in cui l’uomo, che si muove in questo reale, lo istituisce come suo reale, permettendogli di agire in questa totalità; queste metodologie di rappresentazione, poi, si determinano a livello sociale come cultura, cioè come specifici schemi mentali, socialmente istituiti, grazie ai quali l’individuo, nelle sue relazioni con l’esterno, si forma ed è al contempo formato dal suo reale. «La cultura non è altro che il modo in cui ciascuna società risponde al problema della sua esistenza sociale»;12 la chiara definizione di cultura proposta da Latouche è essenziale per comprendere quanto appena detto, volgendolo in direzione di una pluralità antropologica. La cultura, nella sua origine e conseguenza, diventa la chiave di volta non solo per un diverso approccio antropologico, ma anche come mezzo per conferire un senso alla domanda sull’Essere da parte dell’uomo. Una tale antropologia aiuta a definire le varie credenze delle varie società, come perfettamente aderenti al loro tempo e al loro luogo, delegittimando così ogni forma di colonialismo culturale e paternalismo derivante dall’errata pretesa di superiorità dell’Occidente,13 strenuamente immerso nella sue basi metafisiche dell’esistenza di un progresso lineare e a-temporale, diventando così la più strenua linea di difesa contro la soluzione mimetica. L’uomo determina ed è al contempo determinato dal suo immaginario, ed ecco così istituita l’interminabile dialettica tra natura e cultura: è la cultura il modo d’essere naturale dell’essere umano.
4. La tecnica come esempio di incommensurabilità antropologica
All’interno delle tematiche sviluppiste e anti-sviluppiste analizzate da Latouche, la questione della tecnica diventa l’esempio preminente e meglio argomentato per mostrare la concreta nozione di pluralità antropologica, sottostante e fondante il pensiero dell’autore. La stessa tecnica, intesa in primis come modo di risolvere determinati problemi attraverso specifiche strategie, è riconosciuta da Latouche come connaturata ineliminabilmente all’essenza umana: questa tecnica è sia natura, poiché si istituisce in base alle relazioni con tradizione, società e ambiente, sia cultura, poiché posta socialmente, determinando un modo specifico di assolvere una precisa funzione. «La scorciatoia tecnologica è una illusione perché la tecnica non è soltanto la macchina cui ha dato nascita, ma il complesso dei rapporti tra gli uomini, degli utensili e dell’ambiente in occasione del processo di produzione e di consumo».14 La stessa razionalità di stampo occidentale è espressione di una delle possibili istituzioni di questa dialettica antropologica di natura e cultura. Latouche afferma infatti che «se c’è un solo modo di essere razionale, ce ne sono diversi di essere ragionevoli».15 Oltre all’evidente riferimento all’occidentale passione per il quantificabile,16 la razionalità è espressione di un determinato modo di approcciarsi a specifici problemi, almeno in origine, mentre la ragionevolezza riconosce saggiamente la pluralità di possibilità in cui si può articolare la dialettica natura-cultura. La stessa pretesa di imporre una razionalità di tipo occidentale agli altri popoli risulta deleteria: essa è infatti nata in un determinato periodo, per una determinata ragione e in un determinato contesto, e gli agenti che la perpetuano non possono prescindere dal loro legame genetico, in senso forte, dalla stessa, escludendo la dinamica natura-cultura in forza della quale è nata. Latouche in proposito è molto chiaro:
Le tecniche appropriate sono spesso tecniche tradizionali migliorate. Le tecniche autoctone sono in effetti adatte alla cultura locale e all’ambiente. Il miglioramento della produttività e del rendimento può portare a introdurre innovazioni nel processo di fabbricazione locale piuttosto che a sconvolgerlo. Infine, queste tecniche sono in genere tecniche dolci, cioè rispettose dell’ambiente per via della loro dimensione, della loro concezione nonché, per le tecniche autoctone, perchè hanno subito la prova del tempo. L’adattamento all’ambiente può anzi costituire un vincolo imperativo per la loro scelta.17
Come mostrato attraverso l’analisi della questione tecnica, si evince facilmente come l’immaginario è ciò che crea la società e che la società crea una genesi ogni volta specifica, in cui l’agente individuale è antropologicamente determinato da questa natura che si fa cultura e da questa cultura che è natura.
5. L’anticultura occidentale e lo sradicamento planetario
Sebbene il progetto mimetico dell’ideologia dell’illimitato si dia attraverso molteplici e specifiche entità, siano esse geografiche, religiose, filosofiche o razziali, la sua essenza è profondamente anticulturale. Nell’incontro con l’Occidente, infatti, le altre civiltà non subiscono un arricchimento culturale, caso che potrebbe portare a definire la società dello sviluppo come una cultura, ma, contrariamente, subiscono un impoverimento, fino all’annullamento delle proprie radici. Questo meccanismo globale pone l’accento sulla mimesis e degrada gli uomini ad ingranaggi. Definendo la cultura come «la risposta che i gruppi umani davano al problema dell’esistenza sociale»,18 abbiamo mostrato come il tradimento dell’essenza umana risieda quindi nella tipicità dello stesso Occidente.
In tutte le società pre-capitaliste, o comunque pre-moderne, nella nostra accezione, tutti gli aspetti della vita umana quali arte, produzione materiale, relazioni personali, scienza ecc., erano aspetti tra loro profondamente collegati che rientravano nella sfera della cultura. La cultura ricopriva ogni aspetto dell’attività umana, non a caso Latouche, riprendendo tra le altre anche le analisi di Karl Polanyi,19 afferma che i popoli antichi non conoscevano l’economia, poiché quest’ultima era ancora parte della cultura come «risposta globale alla sfida dell’essere».20 Nella società occidentale la pratica materiale, precedentemente legata al sacro, si abbassa a mera funzione riproduttiva; la cultura perde così il suo posto e la sua caratterizzazione di dare risposta al senso dell’esistenza, fino a degradarsi a sistema simbolico di designazione selettiva di vari aspetti del reale non più interconnessi. Questo tipo di «cultura» non è più legata a valori interni alla civiltà, tribù o clan che sia, ma diventa una dimensione individuale. Viene in questo modo creato il paradosso di essere estranei alla produzione culturale della propria civiltà, di essere estranei alla cultura di appartenenza, in definitiva, di assistere alla creazione di masse incolte. Con questa degradazione della cultura a codice selettivo di segni l’uomo è degradato e svuotato di sé, gli viene tolta l’identità in quanto si recide il legame antropologico.
In una società primitiva non ha alcun senso dire di qualcuno che non è colto. Lo stesso è ancora in gran parte vero nelle società tradizionale. Quale che sia la sua condizione, ogni membro della comunità è integrato nei sistemi simbolici che danno senso all’esperienza del gruppo, attraverso le varie pratiche (alimentari, culturali, ludiche). La sua conoscenza dei miti e dei riti, delle danze e delle musiche è il risultato e il segno della sua appartenenza e della sua iniziazione. Quest’ultima in particolare non è un’educazione facoltativa. Si accede alla cultura, non si è colti.[21^ Ivi, pp. 50-51.]
Con la sua ideologia del progresso illimitato la «Grande Società»,21 per riprendere il termine usato ne Il pianeta dei naufraghi, si pone l’obiettivo del portare nell’epoca moderna ogni residuo di cultura tradizionale e tribale; ogni società dovrà godere di una sola economia, di una sola cultura e di un solo immaginario. La falsità di questo progetto è legata anche al degrado che il termine cultura ha subìto rispetto al suo originale senso; se si accetta l’accezione data dal nostro autore allora «la cultura non è una dimensione dello sviluppo, è viceversa lo sviluppo che sarebbe una dimensione della sola “cultura occidentale”».22 Questo tipo di società ha per motore la performance individuale: il nostro autore non parla infatti di civiltà in senso ampio, indirizzata all’universalizzazione del suo progetto; la sua base territoriale non ha limiti e per confermare la sua unicità ha continuamente bisogno di espandersi e sopprimere la diversità. Eliminando la risposta circa il senso dell’essere delle varie culture delle varie civiltà non si rende giustizia a quel pluralismo antropologico che, in quanto tale, non può prescindere né dal luogo, né dal periodo, né dalla civiltà a cui appartiene legittimamente.
«La pluralità dell’uomo è forse sul piano culturale come sul piano genetico la condizione della sua sopravvivenza».23 Questa consapevolezza è purtroppo estranea all’universalismo occidentale, la cui eliminazione del negativo, nella sua triplice forma di morte, fame e dolore24 è allettante, ma allo stesso tempo, induce l’abbandono totale di quelle forme, portando alla perdita del loro senso profondo e spirituale, fino alla perdita della cultura stessa. L’Occidente è anticultura poiché la sua universalità, lungi dall’essere corporativa è esclusiva. «Il suo prodigioso successo consiste nello scatenamento mimetico di modi e pratiche deculturanti. Esso universalizza la perdita di senso e la società del vuoto».25 L’uguaglianza tra culture, quand’anche riconosciuta dall’Occidente, è ammessa esclusivamente post-mortem, solo dopo che l’apparato tecno-industriale, nel suo universalismo legato all’idea di progresso, abbia appianato tutto, ricollegando ogni residuo che di diverso da sé si presentava sotto la sua logica; l’Occidente impone la modernizzazione per sopravvivere, ma essa richiede come scotto la distruzione della propria natura che, ormai nella polvere, può ora essere definita degna.
Alla pretesa di universalismo dei valori occidentali, unici portatori legittimi dell’unica verità, bisogna rispondere con il disvelamento della loro irrazionalità. Il monito di Adorno «Il tutto è il falso»26 risulta per Latouche pienamente condivisibile. Il nostro autore afferma inoltre l’adesione ad un ideale universalista, basato tuttavia su di una comunicazione intersoggettiva tra culture che, nella loro diversità, riescono ad instaurare un autentico arricchimento, ciò che Latouche chiama «acculturazione». Alla consapevolezza di non poter fondare nulla di durevole su valori pseudo-universali, il nostro autore auspica uno «spazio comune di coesistenza fraterna da scoprire e da costruire».27 Per conservare la sua essenza, un tale imperialismo economico che si presume universale deve, per sua natura, spostare i limiti del proprio dominio sempre più in là facendo adottare la soluzione mimetica ad ogni alterità, ma una volta esauriti gli spazi di riproduzione disponibili esso rivela la sua intrinseca debolezza: il collasso diventa la meta stessa di questo sistema. «La megamacchina è anticultura. La sua forza è quasi irresistibile, ma può esercitarsi soltanto nell’ambito di una organizzazione sociale ch’essa erode come un cancro».28 La costruzione in serie di questa «megamacchina occidentale» a tutti accessibile è un’idea che vive solo nel mito.
L’universalizzazione dell’atteggiamento egemonico non può generare un ordine, bensì un caos: lo stato del bellum omnium contra omines. La riduzione dell’aggressione generalizzata in concorrenza pacifica vantaggiosa per tutti, secondo il grande mito liberale, supporrebbe che fosse dimostrata l’ipotesi dell’armonia degli interessi, il che non è affatto il caso, e che la ricerca della ricchezza sia un fine in sé senza legami con la volontà di potenza e la lotta per il potere, il che è smentito dall’osservazione immediata.29
Appena il progresso diventa il valore di riferimento l’Occidente crea ex nihilo il sottosviluppo. L’idea di arretratezza tecnica, economica o culturale che sia deriva proprio da questa convinzione di rappresentare la massima espressione temporale di un progresso lineare. Le sopravvivenze, come le definisce Latouche, lungi dall’essere un elemento di degrado, sono il segno di soluzioni alternative all’unicità del sistema, già definito come insostenibile e non estendibile ovunque; politiche ed economie alternative devono cooperare al mantenimento e alla realizzazione di strade differenti che sappiano rendere giustizia alla pluralità antropologica. La presenza di logiche alternative a quello dello «sviluppo per lo sviluppo» è una necessità per la sopravvivenza sia delle specificità locali e culturali dei paesi detti sottosviluppati, sia per noi stessi occidentali, in quanto, avendo messo in luce il carattere falso dell’autodinamismo ed autosussistenza del sistema, stiamo andando sempre più verso il nostro autoannientamento; assuefatti da questa logica affrontiamo i problemi derivanti dalla tecnica in maniera tecnica, creando un circolo vizioso che non può che portare al suicidio di questa civiltà.
L’esigenza di instaurare proficui rapporti con sistemi differenti, riconoscendone la pari dignità basata sulla pluridimensionalità di approcci, in riferimento al pluralismo antropologico, è l’unica soluzione che rispetti il monito di Latouche per cui «non c’è niente di peggio di una società della crescita in cui la crescita si rende latitante».30 Il nostro autore auspica un’uguaglianza basata non più su di un universale, base teorica di ogni totalitarismo, ma fondata sulla consapevolezza della pluralità di culture e immaginari connaturati ad ogni singola civiltà e ad esse inalienabili, pena il fallimento della civiltà stessa e la sua scomparsa. Ciò che bisogna arrivare a comprendere è l’esistenza di una pluralità antropologica, e grazie ad essa: giuridica, tecnica, epistemologica, religiosa ecc., che porti alla consapevolezza dell’incommensurabilità tra le posizioni, senza però scadere in un insensato relativismo; la meta deve essere sempre la buona vita degli individui e della società in armonia con il proprio ambiente e la propria tradizione culturale. Il rifiuto di una morale universalista va di pari passo con la consapevolezza che «il giusto e l’ingiusto variano a seconda delle culture, se non dalla coscienza di ciascuno. Il senso etico delle diverse parti influisce sulla morale della città […] e quest’ultima a sua volta non può non informare gli ideali etici dei suoi membri».31
L’unico telos adeguato è quello a cui ogni singola cultura fa riferimento nel suo tempo e nel suo luogo d’origine; regole di condotta che siano erette «su un’attitudine della vita morale che trova la sua fonte originaria nel mistero della stessa vita sociale».32 Latouche, infatti, propone di sostituire il «sogno universalista» con un «pluriversalismo», cioè una sorta di democrazia delle culture dove tutte riescono a mantenere la propria legittimità.33 Al contrario dell’universalismo, il quale non può che condurre in un vicolo cieco, il pluriversalismo è la via d’uscita dal sistema34 (sebbene i metodi di questo «commercio sociale pacifico»35 non siano meglio specificati o specificabili se non nella misura di una particolarità d’azione di volta in volta specifica). Bisogna rompere con l’idea dell’unidimensionalità tecnica, dell’unicità dello sviluppo e il suo primato sul tutto sociale. Abbiamo già messo in luce come la logica dell’illimitato, essenza del capitalismo, non sia un universale a cui far riferimento: esso attiene ad un preciso contesto storico-sociale entro cui è nato e la non trasferibilità delle sue tecniche deriva dall’impossibilità di sostituzione delle tecniche autoctone, nate in quell’ambiente per quegli specifici problemi, con tecniche di matrice occidentale.
6. Conclusione
La base teorica soggiacente l’epistemologia economica latouchana risiede proprio in ciò che abbiamo definito come pluralità antropologica, l’ineliminabile dialettica natura-cultura intrinseca all’uomo. L’impossibilità di sorreggere l’universale attraverso il degrado mimetico dell’essere umano ad uno standardizzato homo oeconomicus è il fondamento filosofico su cui si basa l’approccio latouchano. Se, come afferma il nostro autore, «tutti gli uomini sono uguali e si equivalgono in quanto sono incompatibili»,36 uscire dall’economia significa rifiutare la soluzione mimetica che garantirebbe solo la sottomissione momentanea all’universale economicista, — il quale, come mostrato attraverso la nozione di pluralità antropologica, non può sopravvivere a lungo — in vista di un recupero autentico delle molteplici specificità umane, attraverso la riscoperta del verso senso e della portata teoretica delle varie culture.
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S. Latouche, L’occidentalisation du monde. Essai sur la signification, la portée et leslimites de l’uniformationplanétaireParis, La Découverte, 1989; tr. it. di A. Salsano, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria, Torino, Bollati Boringhieri, 2012, p. 42. ↩︎
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S. Latouche, Pour sortir de la société de consommation. Voix et voies de la décroissance, Les lines qui libèrent/Actes Sud, 2010; tr. it. di F. Grillenzoni, Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, p. 145. ↩︎
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Il filosofo francofortese infatti afferma: «L’antinomia di totalità e infinità –infatti l’inquieto ad infinitum fa saltare il sistema riposante su se stesso, che però si deve solo all’infinità- è tipica dell’idealismo. Essa imita una antinomia centrale della società borghese. Anche questa per conservarsi, per restare uguale a se stessa, per «esserci», deve continuamente espandersi, andare avanti, spostare i confini sempre più il là, non rispettarne alcuno, non restare uguale a se stessa. Le è stato dimostrato che non appena raggiunge un plafond, quando non dispone più di spazi non capitalistici al suo esterno, dovrebbe in base al suo concetto venir meno». Cfr. T. W. Adorno, Negative Dialektik, Frankfurt, Suhrkamp Verlag, 1966; tr. it. di P. Laurio, Dialettica Negativa, Torino, Einaudi, 2004, p.26. ↩︎
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Cfr. S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, tr. it. cit., p. 64. ↩︎
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L’immaginario di cui parla Castoriadis non è “immagine di”, ma «creazione incessante ed essenzialmente indeterminata (sociale-storica e psichica) di forme/figure/immagini, a partire da cui soltanto si può parlare di “qualche cosa”. Quelle che noi chiamiamo “realtà” e “razionalità” sono opera di questo immaginario» Cfr. C. Castoriadis, L’institution immaginarie de la société II. L’imaginarie social et l’institution, Paris, Seuil, 1975; tr. it. di F. Ciarmelli e F. Nicolini, L’istituzione immaginaria della società (parte seconda), Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p. XXXVII-XXXVIII. ↩︎
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S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, tr. it. cit., pp. 76-77. ↩︎
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S. Latouche, Faut-il refuser le développement. Essai sur l’anti-economique du tiers-monde, Paris, Presses Universitaires de France, 1986; tr. it. di O. Romano, I profeti sconfessati. Lo sviluppo e la deculturazione, Molfetta, La Meridiana, 1995, p. 234. ↩︎
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S. Latouche, Come si esce dalla società dei consumi, tr. it. cit., p. 71. ↩︎
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Per un’ampia trattazione sull’argomento Cfr. S. Latouche, L’invention de l’économie, Paris, Mille et une nuits, 2005; tr. it di F. Grillenzoni, L’invenzione dell’economia, Torino, Bollati Boringhieri, 2010. ↩︎
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È quindi palese il rifiuto dell’universale “economico”; Latouche, come da lui stesso affermato, si rifà ad una concezione “esplicitamente nominalista”. Cfr. Ivi, p. XIV. ↩︎
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Cfr. I. Illich, The Right to Useful Unemployment, Londra, Marion Boyars, 1978; tr. it. di E. Capriolo, Disoccupazione creativa, Trento, Red. ↩︎
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S. Latouche, I profeti sconfessati, tr. it. cit., p. 200. ↩︎
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Occidente, a differenza di occidente (senza l’iniziale in maiuscolo) come entità geografica, è qui da intendersi come categoria concettuale comprendente tutti gli aspetti di quella che Latouche definisce “ideologia dell’illimitato”, cioè: i suoi miti fondanti, l’apparato tecno-burocratico e i metodi di produzione. ↩︎
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S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, tr. it. cit., p. 77. ↩︎
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S. Latouche, La Défi de Minerve. Rationalité occidentale et raion méditerranéenne, 1999; tr. it. di S. Vacca, La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione mediterranea, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p. 101. ↩︎
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Latouche critica aspramente la razionalità economica, da lui definita irragionevole a causa di cinque caratteristiche ad essa connaturate: 1-La confusione mezzi-fini 2-Il vuoto degli obiettivi 3-L’impossibile omogeneità 4-Il presupposto dell’unità del soggetto 5- Passione per l’interesse non ragionevole. Cfr. Ivi, pp. 74-80. ↩︎
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S. Latouche, La Planate des naufragés: essai sur l’après-développement, Paris, La Découverte, 1991; tr. it. di A. Salsano, Il pianeta dei naufraghi. Saggio sul dopo sviluppo, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 150. ↩︎
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S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, tr. it. cit., p. 49. ↩︎
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Cfr. K. Polanyi, The Livelihood of Man, New York, Academic Press, 1977; tr. it. di N. Negro, La sussistenza dell’uomo. Il ruolo dell’economia nelle società arcaiche, Torino, Einaudi, 1983. ↩︎
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S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, tr. it. cit., p. 49. ↩︎
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Latouche afferma di usare Megamacchina o Grande Società come sinonimo di Occidente; tutti e tre indicano quindi lo stesso referente concettuale. ↩︎
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S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, tr. it. cit., p. 52. ↩︎
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Ivi, p. 144. ↩︎
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Cfr. Ivi, p. 70. ↩︎
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Ivi, p. 88. ↩︎
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T. W. Adorno, Minima moralia, Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1951; tr. it. di R. Solmi, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Torino, Einaudi, 2014, p. 48. ↩︎
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S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, tr. it. cit., p. 149. ↩︎
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Ivi, p. 121. ↩︎
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Ivi, p. 90. ↩︎
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S. Latouche, Petit traité de la decroissancesereine, Paris, Mille et Une Nuits, 2008; tr. it. di F. Grillenzoni, Breve trattato sulla decrescita serena, Totino, Bollati Boringhieri, 2013, p. 18. ↩︎
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S. Latouche, Jestice sans limites. Le défi de l’éthiquedans une économi emondialisée, Paris, Libraerie Arthème Fayard, 2003; tr. it. di A. Salsano, Giustizia senza limiti. La sfida dell’etica in un’economia mondializzata, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 256. ↩︎
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S. Latouche, (a cura di),L’économie dévoilée. Du budget familial aux contraintes planétaires, Paris, Autrement, 1995; tr. it. di V. D’Amico, L’economia svelata. Dal bilancio familiare alla globalizzazione, Bari, Dedalo, 1997. p. 26. ↩︎
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Cfr. S. Latouche, Decolonizzare l’immaginario, Il pensiero creativo contro l’economia dell’assurdo, a cura di R. Bosio, Bologna, Editrice Missionaria Italiana, 2004, p. 147. ↩︎
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Cfr. S. Latouche, Giustizia senza limiti, tr. it. cit., p. 257. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, tr. it. cit., p. 144. ↩︎