Il corpo tra scrittura e morte. Una lettura fenomenologica del racconto di Franz Kafka «Nella colonia penale»

1. Introduzione

Il presente articolo si propone di analizzare il modo in cui il corpo, da sempre al centro della cultura occidentale, è rappresentato da Franz Kafka nel racconto «Nella colonia penale» del 1914. Procedendo secondo la prospettiva fenomenologica e partendo dalle nozioni di Leib e Körper che Edmund Husserl introduce nella quinta delle sue Meditazioni cartesiane, si cerca di mostrare come, nel racconto kafkiano, i personaggi siano sottoposti ad un’inarrestabile quanto irreversibile processo di regressione allo stato di Körper, con conseguente e definitiva chiusura di qualunque spazio relazionale e caratterizzazione della colonia penale come la rappresentazione letteraria di quella società disciplinare successivamente teorizzata da Michel Foucault in Sorvegliare e punire (1975). In questo senso, l’incisione impressa sulla pelle del soldato dalla macchina delle esecuzioni diventa il segno di un potere che trova nel corpo Körper il naturale spazio in cui imporre se stesso. Il corpo marchiato, che nelle società arcaiche è spazio simbolico per eccellenza, assurge nella colonia kafkiana a simbolo di un sistema coercitivo per il quale l’individuo è semplicemente il corpo che ha piuttosto che il corpo che è. La colonia si configura dunque come un apparato costruito in modo tale che i corpi reificati diventino finalmente docili e chiusi in un orizzonte dove niente ha più senso, nemmeno la morte.

2. Corpo e scrittura attraverso il processo di regressione a Körper

Quale destino attende la parola scritta quando la sua vita si consuma nella serialità di un gesto meccanico e ripetitivo, quando, nella coazione a ripetere, è declassata a mero segno che non rimanda ad altro se non a se stessa? Dato atto che scrivere è

una questione di divenire, sempre incompiuto, sempre in fieri, che travalica qualsiasi materia visibile o vissuta, […] ossia un passaggio di vita che attraversa il visibile e il vissuto,1

quando il gesto scrittorio coincide con le

funzioni puramente pratiche di contabilità, di comunicazione, di registrazione, censurando il simbolismo che anima il segno scritto»,2

quello che ne deriva è la morte del segno, ovvero la morte di tutte le sue possibilità di senso. «In tal modo, scrittura entra in opposizione con […] scrivimento»,3 ossia con «la semplice trascrizione dei messaggi».4 In questo quadro, l’incisione dolorosa che la micidiale macchina per le esecuzioni capitali descritta da Franz Kafka in Nella colonia penale (1914)^[5] scava sulla pelle del condannato, non rinvia a nient’altro se non a quello che indica, cioè al comandamento trasgredito dal reo: onora il tuo superiore.

È una macchina curiosa, disse l’ufficiale all’esploratore, abbracciando con uno sguardo in certo senso ammirato la macchina, che pur conosceva bene. Ma l’esploratore sembrava aver ceduto soltanto per cortesia all’invito del comandante di assistere all’esecuzione capitale di un soldato condannato per insubordinazione e oltraggio al superiore.5

La pena, che il reo apprende soltanto nel momento in cui la subisce, è sempre la stessa:

Quando l’uomo è steso sul letto e questo comincia a sussultare, l’erpice viene abbassato sul corpo e si colloca da sé in maniera da toccarlo appena con le punte. Una volta fissata la posizione, questo cavo d’acciaio s’irrigidisce in modo da diventare come una sbarra. Ed ora, incomincia il gioco. Chi non è iniziato, non si accorge lì per lì di qualche differenza tra pena e pena. L’erpice par lavorare sempre allo stesso modo. Vibrando, trafigge con le sue punte il corpo, che vibra per conto suo nel letto. Per rendere possibile a tutti di controllare l’esecuzione della condanna, l’erpice è fatto di vetro. C’è stata qualche difficoltà tecnica da superare per riuscire a fissarvi gli aghi, ma dopo molti tentativi ci siamo riusciti. Ed ora, tutti possono vedere, attraverso il vetro, come l’iscrizione venga segnata sul corpo.6

Durante le prime sei ore, il corpo viene ripetutamente trafitto dall’erpice e, solo più tardi, il condannato inizia a decifrare, nel fitto groviglio di ferite disegnate sulla schiena e sull’addome, lo scritto della legge violata. La macchina

non deve infatti uccidere subito, ma in media soltanto in un periodo di dodici ore. Dopo sei ore, si calcola, giunge il punto culminante. Occorre dunque che lo scritto vero e proprio sia circondato da molti ghirigori, perché da solo gira intorno al corpo.7

Il terribile supplizio, a cui il carnefice sottopone le sue vittime, poggia su tutta un’arte quantitativa della sofferenza», giacché «la morte supplizio è l’arte di trattenere la vita nella sofferenza, suddividendola in mille morti e ottenendo, prima che l’esistenza si concluda, le più sublimi agonie.8Il sistema di potere della colonia penale, governata dall’ufficiale custode della macchina, agisce in modo da svuotare la scrittura del suo essere

pratica di godimento legata alle profondità pulsionali del corpo e alle produzioni più sottili e più felicemente riuscite dell’arte9

e il corpo della sua capacità di significazione, riducendolo, in quanto inerte superficie di scrittura, a pura estensione. Perduta ogni possibilità di apertura all’interpretazione, la scrittura, portatrice di morte e morta essa stessa, conserva come unica funzione quella di proiettare sulla carne i segni indicativi di un potere annientante che, esibendo il corpo all’interno di spazi di controllo e di manipolazione, lo trasforma in oggetto. In questo racconto, il corpo perde la sua peculiare qualità di corpo-Leib, nel senso di corpo soggettivo e vivente, che è «subito fuori di sé, aperto al mondo, proteso sulle cose»,10 per scadere al livello di Körper, quale realtà somatica esperibile come mera aggregazione di organi e, in quanto tale, chiusa nell’unica modalità di esistere, ossia nella modalità dell’avere. Ma l’esperienza corporea, della cui complessità abbiamo costantemente coscienza, non può essere ridotta ad un fascio di funzioni vissute in terza persona e slegate fra loro e dal mondo, dal momento che

noi siamo anzitutto viventi e abbiamo poi un’apparecchiatura chiamata corpo, ma viviamo vivendo come corpo. […] Vivere come corpo è qualcosa di essenzialmente diverso da un mero essere gravati da un organismo,11

e coincide con «l’orizzonte d’essere»12 del nostro soggiorno, nel senso dell’abitare il mondo quale luogo delle nostre azioni e scopi. Col che s’intende il corpo non semplicemente come mezzo per fare qualcosa, bensì come possibilità per essere nel mondo, ovvero come possibilità per accedere, in quanto soggetti incarnati, alla rete di significati che il mondo dischiude. Nella colonia penale, in cui è negata qualsivoglia libertà d’azione, I personaggi sono circoscritti ai loro corpi e penosamente

irrigiditi nel proprio ambiente, senza mai essere posti nella libertà dell’apertura dell’essere, mentre solo tale apertura è il mondo.13

Il movimento senza posa entro gli interminabili labirinti che disegnano l’immutabile mondo kafkiano in cui Josef K. e l’agrimensore K. si smarriscono alla ricerca di una meta inesistente, viene qui ricondotto all’immobilità del faccia a faccia tra l’ufficiale e l’esploratore, e al meccanico dilaniare di un corpo che è, come quelli, solo Körper.

3. Il corpo marchiato: da spazio simbolico a simbolo del potere

Il corpo rappresentato da Kafka sul punto di essere scavato dagli innumerevoli aghi della macchina, non è più il corpo inciso e inscritto nell’ordine del simbolico delle società arcaiche, le quali, «marchiando il corpo, lo de-signavano come l’unico spazio degno a portare il segno del gruppo»,14 ma è l’organismo inserito in un «orizzonte spersonalizzato»15 che, annullando l’individuo come «polo d’identità intenzionale»,16 dissolve la potenzialità eversiva della corporeità in quanto centro d’irradiazione del desiderio e delle pulsioni. La trasformazione del Leib in Körper, imposta dal sistema disciplinare interno alla colonia penale, coincide con il venir meno di quel patto originario che deve necessariamente stabilirsi tra

il mio corpo come esigenza di certi piani privilegiati e lo spettacolo percepito come invito ai medesimi gesti e teatro delle medesime azioni», un patto che «Fa usufruire dello spazio e in pari tempo dà alle cose un potere diretto sul mio corpo. […] Il mio corpo è in presa sul mondo quando la mia percezione mi offre uno spettacolo il più possibile vario e chiaramente articolato, quando le mie intenzioni motorie, dispiegandosi, ricevono dal mondo le risposte che attendono.17

Se il corpo definito dalla logica del potere è un corpo-Körper oggettivato che si manifesta entro la forma del dato anatomico, quello delle società primitive è un corpo Leib comunitario

a cui i singoli partecipano come frammenti o anelli dell’ordine unitario, dove circola quell’ordine simbolico che compone le energie del corpo umano con quelle degli altri.18

In queste società strutturate in clan e tribù, imprimere tatuaggi e scarificazioni sulla pelle di qualcuno significa non soltanto segnalarne l’età o il rango sociale, allontanare le malattie o acquisire poteri magici, ma indica soprattutto la possibilità di condividere con gli altri lo stesso linguaggio simbolico, che, precedendo la parola nella sua immediatezza espressiva, consente una comunicazione più profonda, in virtù di quella capacità, propria del simbolo, di produrre forti «legami di identificazione tra singolo e comunità».19

Il gruppo, nel suo farsi realtà concreta di riferimento, si costituisce a divinità incarnata capace di gestire quell’energia dei singoli, che i singoli, nella loro finitudine, non possono sopportare. Il gruppo vive e ha bisogno di questa energia che è qualcosa di più potente, nel bene e nel male, della semplice somma delle parti, proprio come il singolo ha bisogno del gruppo.20

Anche il dolore sofferto durante le pratiche di modificazione del corpo contribuisce in modo determinante alla formazione dell’identità individuale. Avvertendo con maggiore intensità le parti sottoposte al trattamento, il singolo vede enormemente potenziata la sua capacità percettiva, dato che è proprio nelle situazioni estreme che il corpo si rivela nella sua essenziale natura di corpo vivente. Ma c’è di più: poiché ad essere perforate o incise sono spesso la lingua, i capezzoli e gli organi genitali,21 zone tradizionalmente considerate erogene, l’esperienza dolorosa è accompagnata dall’aumento dello stimolo sessuale in sé e nel proprio partner, il che favorisce l’accesso all’insieme integrato delle sensazioni corporee, e quindi all’idea della persona come totalità. L’immagine che questi popoli hanno dell’uomo, non è quella

d’un io distinto, con i suoi organi, pelle, affettività, pensieri separati dal resto della comunità, ma quella di un corpo in comunicazione con tutta la natura e tutta la cultura, e tanto più singolo quanto più si lascia permeare dal maggior numero di forze naturali e sociali. Il corpo comunitario crea così un gioco sottile e precario fra il simbolico e l’immaginario, dove però queste categorie non sono pertinenti come pretendono di essere nella società moderna. L’immaginario è talmente presente, soggiacente e aggrovigliato al simbolico, che, molto spesso, anche nelle sue manifestazioni estreme come la follia, fa irruzione nella socialità delle comunità arcaiche.22

L’equilibrio tra il singolo e la comunità e tra questa e l’ambiente si fonda sull’idea che l’uomo e l’universo siano governati dalle medesime leggi e che, proprio in virtù di tale analogia, l’armonia del macrocosmo si rifletta sul microcosmo umano attraverso la perfetta sintonia di corpo, mente e spazio. In questo contesto simbolico di corrispondenze, Il corpo segnato da cicatrici e ornamenti vari si apre al mondo per immergersi nel più vasto ordine cosmico, dove tutte le cose sono indissolubilmente legate in un eterno fluire. Si tratta di un movimento circolare e del tutto estraneo ai rigidi binari della ragione oggettivante fondatrice della dialettica degli opposti, che l’Occidente ha di volta in volta nominato in diversi modi:

universale-particolare, inconscio-coscienza, se-io, eros-tanatos, eros-logos, emisfero destro-emisfero sinistro, immagine-parola, simbolo-parola, omologazione-differenziazione, materno-paterno. […] È vero che di volta in volta la vita si può dare, o meglio, noi la possiamo vedere ed esperire, ora solo nell’uno, ora solo nell’altro modo, ma questo accade e si dà come momento di un unico processo che racconta il dialogo amoroso tra i due. Solo questo continuo fluire è vita.23

In questa dimensione di apertura alla totalità dell’essere, il corpo, in quanto mediatore tra interno ed esterno, rivela la sua capacità di conferire senso alla scena dello spazio-tempo di cui l’individuo è protagonista e dove persino la morte rappresenta un evento collettivo non disgiunto dalla vita quotidiana. Sebbene essa modifichi in maniera decisiva la fisionomia dell’intera comunità, il gruppo cerca di fronteggiarne le conseguenze ricorrendo alla funzione mediatrice offerta dai paradigmi mitici e rituali,

cosicché l’esperienza di morte, per quanto concerne l’individuo, viene costantemente mediata dai modelli che il gruppo di cui fa parte gli offre. L’individuo reagisce alla morte difendendosi magicamente e religiosamente dai possibili attacchi degli stregoni, ovvero realizza la sua esigenza di superamento della morte in una proiezione d’immortalità e di resurrezione, ma, in ogni caso, il suo atteggiamento è condizionato dalle soluzioni che il gruppo gli propone e che trova vere e reali.24

Quando l’Occidente ha smesso di assumere l’integrità corporea come suo concetto fondamentale e ha iniziato a pensare l’uomo unicamente nei termini della divisione tra la psiche e il soma, la morte si è trasformata nel definitivo scioglimento dell’anima dal corpo prigione e nella sola vera possibilità per l’uomo di attingere la perfezione. Limite estremo di una vita sulla quale impera un sapere medico che tende a superare ogni limite, la morte come fenomeno accidentale e non più come accadimento naturale della vita umana, ha conosciuto nelle società contemporanee la sua definitiva rimozione in quanto sovvertitrice di una scena da cui è stata espunta ogni forma visibile di dolore. Con ciò, si è consegnato

il morente all’estrema solitudine, senza nemmeno più il contatto e l’affetto, in quanto alla morte pensa sempre di più il competente. […] Oggi, la scena si è scomposta ed è stata destrutturata. Noi non ci rappresentiamo più la morte.25

4. La colonia penale come luogo di scissione

L’abbandono del simbolico, relegato all’ambito artistico e religioso a tutto vantaggio della ragione speculativa, ha di fatto prodotto la disintegrazione dell’unitarietà dell’essere e la sua declinazione secondo quelle categorie antinomiche che l’orizzonte di concettualizzazione del pensiero dualistico occidentale ha chiamato nei modi più diversi. In questa cornice, inaugurato da Platone e radicalizzato da Cartesio, ha avuto inizio il processo di rimozione e demondanizzazione del corpo umano, che, privato delle sue implicazioni simboliche, è stato ridotto a oggetto di scissione. Ma che il corpo fosse molto di più di un comune oggetto, era cosa che si offriva e si offre all’evidenza di ognuno, giacché

il mio corpo si distingue dalla tavola o dalla lampada perché costantemente percepito, mentre da quelli posso distogliermi. Pertanto, è un oggetto che non mi abbandona. […] In realtà, questo essere sempre con me del corpo, è un’indicazione della sua soggettività.26

Il vissuto dell’individuo inserito nel circuito vitale io-altri-mondo delle società arcaiche s’infrange contro la realtà della colonia penale, che, lungi dall’essere la comunità al cui centro è collocata l’esperienza soggettiva del corpo, si configura quale luogo dell’impossibilità per il soggetto di esser-ci, in un’esistenza pienamente libera, laddove libertà coincide con «la condizione della possibilità di sentirsi situati»27 nello spazio non come cosa tra le cose, nel senso di una relazione puramente oggettiva, ma come corporeità che esprime il costante bisogno di tendere alle cose e al mondo delle altre persone. L’orizzonte spaziale in cui agiscono i protagonisti del racconto di Kafka, non è mai il mondo dell’esperienza possibile di persone e cose, e non può esserlo in forza dell’insanabile frattura tra il soggetto e la realtà esterna, che, ridotta a soffocante prigione, comporta il venir meno del processo di formazione reciproca. Perciò l’uomo, «impotente a rettificare il suo destino, è costretto a non essere».28 In un mondo fondato su strutture categoriali di tipo antinomico quale appare la kafkiana colonia penale, e in cui si assiste all’interruzione del corso ordinario del punto di vista logico basato sul principio di non contraddizione e d’identità, anche la coppia colpa-innocenza assume un nuovo significato, e precisamente quello che «la reciproca appartenenza dell’ordine della legge e del caos»29 le conferisce. L’intrecciarsi dei piani, che sta alla base del ribaltamento del normale rapporto tra i termini del binomio, fa sì che il personaggio kafkiano risulti sempre colpevole, verso se stesso e gli altri,

non di una singola azione, ma di un manco ontologico. È colpevole perché è inadeguato alla legge. Ma che cosa chiede la legge? Esiste un’individualità in grado di soddisfarne le esigenze? […] In un universo separativo, la legge si presenta sia mediante una serie di regole, sia incarnandosi in individui che la esemplificano, e che rappresentano per il soggetto dei modelli (Ciò che Freud chiama l’ideale dell’io). In un universo confusivo congiuntivo, la legge non può esprimersi mediante regole perché l’ordine, includendo il caos, implica un’infinita possibilità di smentire le regole e di sottrarsi ad esse. Le regole acquistano un’elasticità infinita, parodica, autoparodica, e la legge viene infinitamente elasticizzata dalle interpretazioni di cui si riempie come una spugna, che s’imbeve di qualunque liquido.30

Nella società degli ordini e delle coercizioni

il controllo […] sugli individui non si effettua solo attraverso la coscienza o l’ideologia, ma anche nel corpo e con il corpo. […] è […] importante, prima di tutto, il biologico, il somatico, il corporale.31

Per questo, il marchio della colpa non può che avere nel corpo Körper il suo naturale spazio di rappresentazione, ed è proprio per il medium della carne che il colpevole perviene «a decifrare direttamente lo scritto, dalle cui lettere apprenderà il nome della sua colpa sconosciuta».32 Il processo di oggettivazione messo a punto dal sistema giuridico della colonia penale, colloca scrittura e corpo all’interno di spazi autosufficienti e improduttivi, che negano all’una la progettualità insita in ogni forma di comunicazione, e all’altro la possibilità di assumere tutti i significati conferitigli dal soggetto stesso e dai soggetti altri con cui viene in relazione. Il «significare attivo»33 della parola, che apre allo «scambio comunicativo attraverso un linguaggio che avviene tra diversi soggetti»,34 e la peculiare specificità del corpo umano, che è dato al soggetto in modo del tutto differente dal modo in cui sono date le altre cose materiali, vengono forzati entro un contesto refrattario ad ogni dialogo e relazione fra il corpo vivente del soggetto e il corpo vivente degli altri. Allora, le parole impresse sul corpo del condannato, nella loro esclusiva funzione di pratica di morte, diventano il sigillo che sancisce la definitiva collocazione del corpo e del linguaggio in un altrove dove nessuna comunicazione è ormai davvero più possibile.

5. Estraneità contro intersoggettività

Il Leib, quale corpo vivo non può costituirsi senza la relazione con altri soggetti. L’uomo, il Mensch, rimanda per essenza ad altri uomini a lui correlati e la sua apparizione porta un nuovo strato di senso nell’oggetto Leib. La soggettività che nel Leib si esprime, non si esaurisce come soggettività psicofisica, e per il costituirsi di questo ulteriore strato di senso è necessaria l’esperienza di un soggetto altro, analogo al soggetto percipiente. Nel formarsi dello schema Leib, il corpo del soggetto e quello dell’altro, risultano originariamente appaiati. Almeno per una costituzione completa di tutti gli strati di senso che il Leib implica, i due corpi sono quindi legati, connessi, costituiti in una coppia.35 La mancata costituzione del Leib e il conseguente regredire del corpo allo status di Körper annullano di fatto qualunque possibilità di relazione interpersonale, sicché «il corpo […] si predispone come corpo macchina, tassello di una circolazione tesa a nullificare gli affetti».36 Difatti il sentimento

non è per niente qualcosa che si svolge soltanto interiormente, ma è quel modo fondamentale di esistere in forza del quale e in conformità del quale, noi siamo sempre trasportati al di là di noi stessi nell’ente nel suo insieme che, in un modo o nell’altro, ci riguarda o non ci riguarda. Disposizione emotiva non è mai un essere emotivamente disposto meramente interiore, chiuso in sé, ma è anzitutto un certo lasciarsi predisporre e porre in una disposizione emotiva. La disposizione emotiva è appunto il modo fondamentale in cui noi siamo al di fuori di noi stessi.37

Dall’impossibilità di realizzare questo movimento di uscita dai confini corporei, non funzionale ai meccanismi di autoconservazione del sistema di potere della colonia penale, deriva l’atomizzazione dell’esperienza esistenziale e l’inevitabile collocazione dei personaggi all’interno di un ordine fondato su un pensiero oggettivante, nonché su un processo di totale distacco emotivo dall’altro da sé, che viene reificato e destinato all’annientamento. Per l’ufficiale e per l’esploratore, che pure sembra mostrare fin da subito qualche dubbio rispetto alle modalità dell’esecuzione, il condannato è solo un corpo depersonalizzato, assurto per il carnefice ad archetipo della colpa, e per il visitatore a rappresentazione di un barbaro spettacolo. I due personaggi, chiusi nel loro solipsismo, non riescono a costituirsi come soggetti in grado di farsi carico l’uno dei vissuti dell’altro e entrambi dei vissuti del condannato, e a realizzare quel dialogo fecondo e aperto al comprendere che trasforma il semplice incontro nella «relazione intersoggettiva propriamente detta»,38 ovvero nella relazione implicante la scoperta dell’altro come essere nel mondo, in un interscambio continuo e costitutivo della propria identità.

Nessun vero dialogo è possibile senza assumere quel rapporto dagli interminati e dai molteplici rimandi dell’alter nascosto nell’alienus e di se stessi nell’altro, -non nell’eterna lotta di sé con l’altro, ma nell’ascolto infinito dell’altro in sé, nell’incessante moltiplicarsi di voci e ridefinirsi di volti, identità plurali in se stesse, perché in se stesse diverse, mai definibili in sé benché inesorabilmente singolari e uniche, da cui ciascuno di noi è continuamente attraversato. Né relativismi dissolventi, né confini inviolabili. In questo implacabile attraversamento, che è insieme sempre ininterrotta apertura, il senso è dato proprio dall’incontro della vita e della morte, del lutto e dell’ospitalità dell’altro in me e fuori di me, che non finiscono mai e che non smettono mai di finirci e di sfinirci, di de-finirci.39

L’oggettivazione dell’altro, che all’io totalizzante appare solo nella sua identità di Körper, segna il progressivo scivolamento dell’ufficiale e dell’esploratore in un luogo altro, con ciò precludendo loro l’accesso al mondo dell’intersoggettività, e cioè al «mondo che c’è per tutti e icui oggetti sono disponibili a tutti»40 sebbene ognuno abbia «le sue esperienze, le sue manifestazioni ed unità di manifestazione, il suo fenomeno mondano».41 La colonia penale, in cui l’atroce agonia inflitta con l’erpice rappresenta l’unico modo d’intrecciare la propria vita con quella degli altri, si configura come un mondo strutturato all’insegna dell’estraneità, ossia all’insegna dell’irrimediabile frattura della dialettica io/tu, che al contrario implica sempre una visione relazionata dell’altro. Nella dimensione dell’estraneità, il restringimento dello spazio relazionale alla sola sfera dell’io riduce a soma il secondo termine della coppia e fa in modo che il tu, espulso dalla relazione, sia avvertito come minaccia per la propria sopravvivenza. Non a caso, quando l’ufficiale si rende conto che il viaggiatore spezzerà il suo unico legame con il mondo adoperandosi per l’abolizione della macchina della morte, capisce che da quel momento in poi la sua vita non avrà più senso e, liberato il soldato, si sottopone volontariamente all’azione dell’erpice. Egli compie così l’ultimo atto di quel processo di reificazione di sé, originatosi dalla mai avvenuta identificazione, «nella forma dell’essere, tra il corpo e il soggetto».42 Per chi come lui concepisce l’uomo unicamente nella forma dell’avere, e il linguaggio in quella della parola che non dice, ma che prescrive e interdice soltanto, è assurdo pensare di poter vivere senza ciò da cui parte e converge il suo sguardo sul mondo. Per tutta la vita, non aveva fatto altro che «venire ad esistenza come soggetto, attraverso quelle strutture comportamentali»,43 che proprio nella loro eterna ripetitività, lo avevano fatto essere in qualche modo. La grottesca autodistruzione della macchina, incarnazione di un’auctoritas che ha perso ormai ogni sua giustificazione, segna il definitivo venir meno «dell’interlocuzione simbolica»,44 ovvero di quell’ente sovraindividuale a cui l’ufficiale sapeva di dovere obbedienza. Il suo corpo senza vita, su cui aveva voluto incidere il comandamento «Sii Giusto», non mostra alcuna traccia di quella avvenuta redenzione che pure gli altri sembravano aver trovato nella macchina. Dai suoi occhi, in apparenza ancora vivi sotto la fronte spaccata dal grande puntale dell’erpice, traspare lo stesso impassibile distacco di sempre. nessuna salvifica rivelazione accompagna il momento finale della dissoluzione, perché non è dato all’uomo conoscere nulla di più della sua terribile condizione di estraneità verso il proprio corpo e il mondo. Il lettore di questo racconto non sperimenta alcun senso di catarsi, giacché nell’opera di Kafka la morte non ha mai una funzione liberatoria, ma si presenta piuttosto, come tutte le azioni umane, nella sua intrinseca paradossalità. Gli atti violenti come il suicidio dell’ufficiale o la morte insensata di Josef K, assassinato come un cane, ritrovano una qualche interpretabilità solo all’interno della forma narrativa, in virtù di quell’elemento della riflessione ad essa immanente. In questo senso, la morte dell’ufficiale e di K. servono a ricordarci la condanna senza appello che incombe su ognuno di noi.


  1. Gilles Deleuze, Critica e clinica, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 13. ↩︎

  2. Roland Barthes, Variazioni sulla scrittura seguite dal piacere del testo, Einaudi, Torino 1999, p. 13. ↩︎

  3. Roland Barthes, Variazioni sulla scrittura, cit. in nt. 2, p. 42. ↩︎

  4. Roland Barthes, Variazioni sulla scrittura, cit. in nt. 2, p. 42. ↩︎

  5. Franz Kafka, Nella colonia penale, cit. in nt. 5, p. 26. ↩︎

  6. Franz Kafka, Nella colonia penale, cit. in nt. 5, p. 36. ↩︎

  7. Franz Kafka, Nella colonia penale, cit. in nt. 5, p. 38. ↩︎

  8. Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976, p. 37. ↩︎

  9. Roland Barthes, Variazioni sulla scrittura, cit. in nt. 2, p. 3. ↩︎

  10. Umberto Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 1983, p. 67. ↩︎

  11. Martin Heidegger, Seminari di Zollikon, Protocolli seminariali, Colloqui-Lettere, Guida, Napoli 1991, p. 154. ↩︎

  12. Martin Heidegger, Seminari di Zollikon, cit. in nt. 12, p. 154. ↩︎

  13. Martin Heidegger, Lettera sull’Umanismo, Sei, Torino 1975, p. 90. ↩︎

  14. Umberto Galimberti, Il corpo, cit. in nt. 11, p. 185. ↩︎

  15. Gabriel Marcel, Manifesti metodologici di una filosofia concreta, Minerva italica, Bergamo 1972, p. 73. ↩︎

  16. Edmund Husserl, Logica formale e logica trascendentale, Laterza, Bari, 1966, p. 292. ↩︎

  17. Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Milano, Il Saggiatore, 1980, pp. 334, 335. ↩︎

  18. Umberto Galimberti, Il corpo, cit. in nt. 11, pp. 18, 19. ↩︎

  19. Eric Voegelin, La politica. Dai simboli alle esperienze, Giuffré, Milano 1993, p. 13. ↩︎

  20. Ada Cortese, Microanalisi dei nostri rituali quotidiani, «Conferenze», n. 1, 1999, in http://www.geagea.com↩︎

  21. Un esempio è fornito dagli Aborigeni australiani che incidono la parte inferiore del pene e allungano le labbra vaginali, edalle popolazioni del Borneo, Okkaido, Samoa, Amazzonia, che praticano la perforazione dei genitali (cfr. «L’ornamento e la modificazione del corpo nel corso del tempo», in http://docenti.lett.unisi.it)↩︎

  22. José Gil, Voce «Corpo», in Enciclopedia Einaudi, Torino, 1978, p. 1119. ↩︎

  23. Alberto Toniutti, La dimensione simbolica, in Individuazione, trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale, n. VIII, anno 29, settembre 1999, p. 11. ↩︎

  24. Marco Pucciarini, Dallo scacco del pensiero filosofico alla risposta della religione, 1 gennaio 2000, in http://www.centrostudilaruna.it↩︎

  25. Ada Cortese, Sorella morte, ancora…, in Individuazione, anno XV, maggio 2006, n. 56, p. 7. ↩︎

  26. Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. in nt. 18, p. 544. ↩︎

  27. Ludvig Binswanger, Il delirio, antropoanalisi e fenomenologia, 1990, p. 12. ↩︎

  28. Marino Freschi, Introduzione a Kafka, Bari, Laterza, 1993, p. 109. ↩︎

  29. Giovanni Bottiroli, L’identità modale dei personaggi di Kafka, in Cultura tedesca, n. 35, luglio/dicembre 2008. ↩︎

  30. Giovanni Bottiroli, L’identità, cit. in nt. 30. ↩︎

  31. Michel Foucault, La nascita della medicina sociale, in Archivio Foucault, vol. II, Feltrinelli, Milano 1997, p. 222. ↩︎

  32. Walter Benjamin, Angelus Novus, Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1995, p. 298. ↩︎

  33. Arcangelo Licinio, Filippo Silvestri, Alessandro Toriello, Corpo, Linguaggio, Intersoggettività. Studi husserliani, Albalibri, Milano 2007, p. 107. ↩︎

  34. Corpo, Linguaggio, Intersoggettività, cit. in nt. 34, p. 202. ↩︎

  35. Laura Scarpat, Un’espressione sbagliata e un penoso enigma, in Leitmotiv, 3/2003, http://www.ledonline.it/leitmotiv↩︎

  36. Tiziana Villani, Una scrittura di carne e sangue, in Mille piani, 1997, n. 11, p. 69. ↩︎

  37. Martin Heidegger, La volontà di potenza come arte, in Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, pp. 107, 108. ↩︎

  38. Corpo, Linguaggio, Intersoggettività, cit. in nt. 34, p. 202. ↩︎

  39. Bruno Callieri, Mauro Maldonato, Fenomenologia dell’incontro, in Ciò che non so dire a parole, Guida, Napoli, 1998, p. 33. ↩︎

  40. Edmund Husserl, Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1960, p. 101. ↩︎

  41. Edmund Husserl, Meditazioni cartesiane, cit. in nt. 41, p. 102. ↩︎

  42. Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit. in nt. 18, p. 540. ↩︎

  43. Ada Cortese, Microanalisi dei nostri riti quotidiani, cit. in nt. 21. ↩︎

  44. Ada Cortese, Microanalisi, cit. in nt. 21. ↩︎