Una nuova idea di ragione
Secondo l’interpretazione storica di Ortega, a partire dall’età moderna in poi, compare nell’immaginario umano una nuova fede in sostituzione del vecchio Dio cristiano. Dal XVII secolo in avanti infatti, il centro intorno a cui ruota l’universo simbolico dell’uomo è rappresentato dalla ragione. Nello specifico si tratta di una ragione naturalistica, figlia dell’ampio progresso che la Rivoluzione scientifica comporta. Per ragione naturalistica deve intendersi il motore della scienza fisico-matematica e della scienza biologica. L’oggetto di tale ratio è la natura, che Ortega definisce come «una cosa, una grande cosa composta da molte cose minori […] [le quali] hanno tutte una caratteristica radicale in comune: il semplice fatto che le cose “sono”, hanno un essere». Questo significa fondamentalmente attribuirle una struttura fissa e data. Tale consistenza invariabile è ciò che siamo soliti intendere come «l’essere di una cosa. Un altro nome per esprimere questo è la parola natura».1
Quando la ragione naturalistica incontra come suo oggetto d’analisi l’essere umano, essa tenta di captarne proprio la natura. Ma tale compito rimane disatteso. Ed è in virtù di quest’applicazione frustrata e fallimentare, che la fede nella ragione naturalistica agli inizi del XX secolo comincia a vacillare. Essa di fronte all’uomo entra in crisi. Scrive infatti Ortega:
si dà il caso che siamo a questo punto da trecento anni e che tutti gli studi naturalistici sul corpo e sull’anima dell’uomo non sono serviti a chiarirci nulla di ciò che sentiamo come più strettamente umano, di ciò che ciascuno di noi chiama la sua vita.
Poco più avanti, aggiunge:
Il prodigio che la scienza naturale rappresenta come conoscenza di cose contrasta brutalmente con il fallimento della stessa scienza naturale nei confronti di ciò che è propriamente umano. L’umano sfugge alla ragione fisico-matematica come l’acqua da un canestro.2
La ragione nell’epoca moderna tenta di interpretare tutto secondo un modello fisico-matematico che prova a fissare la realtà in elementi stabili, permanenti, che non variano. Questo tipo d’indagine si arresta di fronte all’uomo che mostra la sua essenza precisamente nel non possedere una natura. Ortega afferma radicalmente che «l’uomo non è una cosa, [che] è falso parlare della natura umana, [in quanto] l’uomo non ha natura».3 Egli è piuttosto caratterizzato da un’assoluta plasticità di fronte alla quale il concetto di essere eleatico è, nell’ottica del filosofo spagnolo, totalmente insufficiente. Per questo motivo abbiamo bisogno di una nuova ontologia e di una rivoluzione delle categorie attraverso le quali siamo soliti leggere la realtà.
L’uomo non è né il suo corpo né la sua anima, secondo Ortega. Egli è piuttosto ciò che gli accade, ovvero la sua vita. Per questo non ha natura, bensì possiede storia. Scrive il filosofo spagnolo:
[l’uomo] non è altro che ciò che gli accade. La sua essenza sono proprio le sue incessanti ed intense emozioni, perpetue peripezie che, proprio per questo, non possono essere definite, ma solo raccontate. Ma questa è la nuova forma di ragione -- la ragione “narrativa” o storica -- e sarà questa a mettere l’uomo nuovamente in tremendo contatto con una realtà trascendente, quella del suo destino.4
La ragione storica è una forma di integrazione di quello che Ortega, a partire dal 1923,5 chiama: ragione vitale. Le due nozioni camminano l’una a fianco all’altra, sono concetti che si compenetrano. Come dice Zamora «possiamo parlare di storicità della ragione vitale e di vitalità della ragione storica, perché la vita umana solo può essere compresa storicamente e la storia può essere intesa solo se viene analizzata dal punto di vista della vita umana».6 La ragione vitale e storica è la nuova rivelazione di cui ha bisogno l’uomo di fronte al fallimento della ratio naturalistica, la quale non ha saputo illuminare nell’intimità, la complessa essenza di quest’essere particolarissimo che è l’umano. Ortega spiega il rapporto fra la due nozioni attraverso l’idea, secondo cui, la razón vital costituirebbe una disciplina astratta per quella realtà radicale che è la vita umana, essenzialmente e assolutamente personale, e dunque, sempre diversa. Attraverso la ragione vitale si può tracciare una definizione generale di questa realtà individuale e concreta che è la vita dell’uomo. Ma tale definizione si limiterà a contenere «un’architettura di momenti astratti che avrà una serie di leere Stellen (luoghi vuoti) da riempire quando si passa dalla pura “ragione vitale”, alla “ragione storica” che la prima richiede di per sé e postula, e nella quale viene a realizzarsi».7 La ragione storica rappresenterebbe dunque una sorta di concretizzazione della ragione vitale.8
La vita umana è un accadere, ed insieme, un fare costante. Nella circostanza si aprono continuamente una molteplicità di fare tra i quali si è chiamati a decidere. Questa caratterizzazione della vita umana è un tentativo di fluidificare il modo con cui, al contrario, nella storia della filosofia da Parmenide in avanti, senza alcuna soluzione di continuità, è stata determinata la realtà attraverso un’idea di essere fisso ed immutabile, sul quale si è schiacciata la categoria di res. A questo proposito, Conill è molto chiaro quando afferma che:
Ortega cerca di dinamizzare raziovitalmente e raziostoricamente la terminologia strettamente ontologizzatrice, sostenendo che l’uomo non è, ma al contrario “va essendo”, e questo “andare essendo” è ciò che chiamiamo “vivere”. Per tanto, l’uomo non è, ma vive. Dunque la ragione dovrà consistere in narrazione.9
Conseguentemente, vediamo come per cogliere la realtà umana abbiamo bisogno di narrare gli eventi in cui essa consiste. La ragione storica permette di raccontare la serie dialettica di esperienze attraverso cui l’uomo si fa. Questa caratterizzazione della vita umana comporta una comprensione del suo essere come una tensione, come un movimento, in cui la dimensione della scelta e dell’assunzione di sé, costituiscono fattori cruciali nella comprensione dell’idea di condotta umana che Ortega propone.
L’animale umano: una sobrenaturaleza
Per cogliere nel profondo il modo in cui Ortega rivoluziona l’idea di vita umana, è necessario fare riferimento alla maniera in cui, nel pensatore spagnolo, l’uomo viene distinto radicalmente dal resto del mondo animale. Tale differenziazione emerge con decisione nel saggio Ensimismamiento y alteración che rappresenta la prima lezione del corso El hombre y la gente tenuto da Ortega a Buenos Aires nel 1939.
Il filosofo madrileno definisce la vita dell’animale non umano come eteronoma: «Esso non governa la sua esistenza, non vive a partire da se stesso, ma al contrario è sempre attento a quello che succede al di fuori di lui, all’altro da lui». L’animale è trascinato e comandato dal suo “intorno”. Ciò significa «che vive sempre alterato, alienato, che la sua vita è costitutiva alterazione».10 Ovviamente la condizione di immersione in una circostanza composta da cose che spaventano e cose che attraggono, è anche la situazione in cui si trova l’essere umano. Tuttavia a differenza dell’animale:
l’uomo può, di quando in quando, sospendere la sua occupazione diretta con le cose, disarmare il suo intorno, disinteressarsi di questo […] volgere, in un certo modo, le spalle al mondo e mettersi dentro di sé, curarsi della propria intimità, o, che è lo stesso, occuparsi di se stesso e non dell’altro, delle cose.11
Questo potere di ritiro temporaneo dal mondo, Ortega lo definisce ensimismamiento, parola che possiamo tradurre nell’italiano “immedesimarsi”, a patto che il movimento sia inteso in senso introiettivo ed introspettivo, ovvero come un mettersi nella propria intimità, cercarsi ed incontrarsi nello strato profondo del proprio sé. L’uomo quindi ha questa peculiare facoltà di staccarsi dalla pura esteriorità del mondo che è l’assoluto “fuori”, per entrare nel suo intimo e prendere contatto con il se stesso (sí mismo). Quando dal ritiro nel mondo interiore l’uomo ritorna nell’esteriorità, egli ritorna in qualità di protagonista non per lasciarsi governare dalle cose ma, al contrario, per dominarle, per imporre su di esse la propria volontà, il proprio personale piano d’azione. L’essere umano porta il suo “se stesso” nel fuori che è il mondo, lo umanizza per renderlo coerente con il suo volere, con le sue idee. Questo processo è esattamente ciò che rende l’uomo un animale non naturale, dotato di una dimensione “ultrabiologica”.
Per comprendere pienamente in che senso l’essere umano non si limiti ad un’esistenza puramente biologica ed organica come quella degli altri animali, bisogna fare riferimento ad un altro testo di Ortega, sempre degli anni trenta. Si tratta di Meditación de la técnica,12 saggio pubblicato in realtà anteriormente con una serie di articoli sul periodico La Nación, tra aprile e ottobre del 1935. Il filosofo spagnolo mostra come le creazioni tecniche siano il frutto della sospensione di quel repertorio primitivo di azioni che istintivamente tentano di soddisfare le necessità primarie. Agli occhi di Ortega, l’uomo è infatti in grado di «separarsi transitoriamente da quelle urgenze vitali, di staccarsi da esse e rimanere libero di impegnarsi in attività che, di per sé, non sono soddisfazione di necessità». Ed aggiunge che «l’animale, al contrario, è sempre ed inevitabilmente perso in esse. La sua esistenza non è altro che questo sistema di necessità elementari che chiamiamo organiche».13
Gli atti secondari che l’uomo inventa e che dipendono dalla sua personale capacità di uscire fuori dallo schema della soddisfazione meramente biologica, sono azioni di riforma e di trasformazione della circostanza in cui egli è inserito. Questa seconda tipologia di atti sono ciò che Ortega definisce la facoltà tecnica dell’essere umano, ovvero la riforma che l’uomo impone alla natura in virtù del soddisfacimento delle sue necessità. Queste sono imposte dalla natura stessa, ma di fronte a tale imposizione, l’uomo risponde con la propria pressione sulla natura per trasformarla. Dunque, in realtà, è scorretto dire che la tecnica è la realizzazione delle necessità naturali. Al contrario essa è la riforma che l’uomo impone alla natura, per far sì che essa con le sue necessità, smetta di imporglisi come problema da risolvere, ovvero smetta di darsi come forma d’angoscia.14
La tecnica viene a rappresentare esattamente il contrario dell’adattamento del soggetto all’ambiente. Come facoltà soprannaturale, nel senso cioè di azione trasformativa operata sulla natura, essa comporta che sia l’ambiente ad adattarsi al soggetto. Questa è la radicale unicità dell’essere umano. Differentemente da come le scienza biologiche, a partire dalla rivoluzione darwiniana in particolar modo, hanno letto la vita umana attraverso il paradigma della conservazione e del modellamento sull’ambiente, Ortega ritiene che l’uomo si impegni nella sua esistenza non solo per vivere, ma per stare bene, ovvero per il suo benessere. La rivoluzione assoluta che comporta l’interpretazione orteghiana della vita umana sta nel fatto di considerare che «per l’uomo è necessario solo l’oggettivamente superfluo».15 Le necessità biologiche, il suo semplice “stare nel mondo” è strumentale per la sua vera finalità, ovvero lo “stare bene”, il conquistare un certo benessere. La tecnica è, in questo senso, la creazione del superfluo, la condizione per la realizzazione del vivere bene e non del semplice esistere, del puro sopravvivere, che invece caratterizza l’animale, il quale è intimamente a-tecnico. Zamora sottolinea che quella «sobrenaturaleza»16 che l’essere umano costituisce attraverso la tecnica, debba essere intesa come un mondo del benessere, assolutamente distinto da quello naturale, dove le necessità imposte da quest’ultimo sono «praticamente cancellate o riconvertite in modi di soddisfazione piacevoli ed estetici».17 È allora secondo quest’idea che dobbiamo intendere l’accento posto da Ortega sulla dimensione del superfluo, ovvero su una nozione antitetica alla mera utilità, che rilancia una prospettiva completamente diversa da cui guardare la vita, la quale viene pensata, secondo quest’ottica, come attività esuberante e non come arida reazione.
Inoltre, bisogna aggiungere che la capacità tecnica dell’uomo viene vincolata dal pensatore spagnolo alla sua ipertrofica facoltà immaginativa. L’essere umano è un animale “fantastico” che trasforma la sua circostanza in virtù della realizzazione dei suoi “desideri fantastici”, i quali trascendono la soddisfazione biologica. Regalado crede che all’origine di quest’idea vi sia l’assimilazione da parte del filosofo madrileno della dottrina nietzscheana della volontà di potenza. L’interprete spagnolo sostiene infatti che la «volontà di potenza come volontà di finzione promuove il concetto orteghiano di uomo come essere tecnico, come scopritore della tecnica e inventore di se stesso».18
Rispetto all’esistenza umana, Ortega traccia sostanzialmente il profilo di una vita creatrice, in una prospettiva profondamente nietzscheana e decisamente antidarwinista. Infatti, il filosofo di Madrid riforma il concetto di adattamento in un senso creativo, dove ciò che conta sul serio è il perfezionamento vitale, un vero e proprio imperativo alla vitalità.19 L’essere umano è in realtà un disertore dell’animalità che fugge dalla natura, in quanto essa non gli permette la realizzazione della sua felicità. Come già detto, egli non si adatta, ma al contrario si adopera per inventare un nuovo mondo che possa garantire la soddisfazione dei suoi desideri. Nel suo farsi costante, l’uomo non ha propriamente limiti, se non quelli rappresentati dal suo passato sul quale di fatto non può retroagire. Ma, per il resto, la vita è un evento all’interno del quale si aprono molteplici possibilità, alcune già incontrate, altre inventate dall’uomo stesso, entro le quali egli è libero di scegliere. Anzi, volendo essere più precisi, egli è necessariamente libero, ovvero non può esimersi dal decidere ciò che sarà.
Dionisiaco e Sport: la critica dell’utile
Non è solo Regalado a sottolineare l’impronta nietzscheana nella prospettiva delineata dal filosofo di Madrid. Conill sottolinea la coincidenza tra Nietzsche ed Ortega rispetto al rifiuto dell’interpretazione darwiniana della vita, pensata come lotta per la conservazione e per l’adattamento all’ambiente. Il carattere utilitario dell’azione viene messo fra parentesi per far risaltare, al contrario, l’aspetto creativo, sportivo, festoso e lussuoso della vita. L’esistenza umana è creazione e sperimentazione e, quello che nei termini nietzscheani definiremmo “dionisiaco”, viene concretizzato dal filosofo spagnolo attraverso la nozione di “sport”. Si tratta di un concetto declinato in opposizione alla vita di lavoro. Di fatto, nell’ottica di Ortega, sotto la maschera dell’uomo lavoratore, ovvero di quello che potremmo definire homo oeconomicus, palpita un altro tipo di umano: lussuoso e sportivo, che trascende l’esistenza meramente utilitaria e biologica. La differenza fondamentale tra le due modalità esistenziali sta nel fatto che l’uomo utilitario, rappresentante del tipico animo borghese, anela ad una vita tranquilla, fatta di sicurezza e stabilità dal momento che il suo desiderio più profondo è quello di continuare a vivere ad ogni costo.20 Lo sportivo invece si espone al rischio e vuole essere, secondo le parole di Ortega gravide di una chiara eco nietzscheana, un poeta dell’esistenza.21
Nel 1925 il filosofo di Madrid pubblica un testo molto importante per comprendere il modo in cui deve intendersi la vita in antitesi al credo darwiniano-utilitarista. Si tratta di El origen deportivo del estado. In queste pagine Ortega offre non solo un’originale interpretazione della nascita delle prime organizzazioni sociali, ma presenta anche alcuni elementi fondamentali con cui, all’interno del suo pensiero, viene a caratterizzarsi in un senso marcatamente nietzscheano l’idea di vita.
Il XIX secolo, secondo la lettura orteghiana, è stato dominato dal topico dell’utilitarismo. Il fenomeno vitale viene cioè interpretato secondo la visione per cui l’attività primaria della vita consisterebbe nel rispondere a esigenze ineludibili. Dunque, l’esistenza viene presentata attraverso le categorie dell’utilità e dell’adattamento. Tuttavia, Ortega ritiene che l’Ottocento si sia appunto macchiato di una certa cecità nei confronti dell’essenza vera della vita. Al contrario, le ultime ricerche storiche, e soprattutto lo sviluppo della nuova biologia, secondo il filosofo spagnolo, possono aiutarci a mettere in evidenza l’aspetto realmente determinante del fenomeno vitale, chiarendolo nella sua profonda intimità. Di fatto, gli atti utilitari ed adattivi impiegati in risposta alle necessità naturali, non sarebbero altro che una forma di attività secondaria. Il fenomeno vitale infatti nella sua originarietà è in realtà un atto spontaneo, superfluo, una libera espansione di energie. Non si tratta dunque di un movimento forzato, ma di un evento libero. In realtà il repertorio di atti utili nasce solo in un secondo momento, proprio da un eccesso di energia superflua, esuberante, che agisce nell’essere vivente.22
Ciò che è importante sottolineare è che, mentre l’attività utilitaria non è propriamente creativa, e di fatto si innesta sempre in maniera secondaria su quella spontanea e disinteressata, quest’ultima, proprio in virtù della sua sovrabbondanza d’energia, è origine di creazione. Ortega presenta dunque un’idea di vita come sforzo che nell’esuberanza di forza e vitalità crea, e creando, si alimenta in un processo che non è mera conservazione ma, piuttosto, configura un movimento di aumento, concretizzandosi come un “più vivere”. Ma se la vita piena è sempre sforzo, dobbiamo tuttavia distinguere due tipologie di tensione differenti. Da una parte vi è lo sforzo del lavoro, dall’altra quello propriamente creativo che è un sforzo superfluo, non obbligato, e che corrisponde precisamente al gesto sportivo. Mentre il lavoro è la risposta ad una necessità che mira all’utile, lo sport rappresenta una tensione superflua, prodiga, abbondante ed assolutamente libera. Ed è questo tipo di attività che genera molteplici possibilità nella e dell’esistenza umana, configurandola come vita creativa.
Leggere il fenomeno vitale in termini di creatività rappresenta forse la più importante eredità nietzscheana raccolta dal pensatore spagnolo. Sebbene Ortega sia sempre stato abbastanza diffidente nei confronti del termine “volontà di potenza” (anche se egli stesso impiega l’espressione “volontà d’avventura” la quale riecheggia inevitabilmente il conio nietzscheano) in questa idea di vita come sforzo superfluo, come abbondanza di energia che nella sua esplosione e dispersione crea, non si può eludere un certo richiamo a Nietzsche, e precisamente alla sua dottrina della Wille zur Macht.
La Wille zur Macht
La teoria della volontà di potenza è stata oggetto di molteplici ed anche controverse interpretazioni. Riconoscendo l’enigmaticità dello stesso Nietzsche nel pronunciarsi in merito alla Wille zur Macht si rende necessario compiere una scelta di “direzione”, poiché semplicemente ponendo l’accento su uno o l’altro dei due termini costituenti l’espressione “volontà di potenza”, ci si può compromettere declinando l’intera filosofia di Nietzsche secondo una determinata tonalità piuttosto che un’altra. A titolo di esempio possiamo comparare la lettura heideggeriana con quella deleuziana.
Heidegger interpreta la volontà di potenza come una volontà di volontà, cioè come una spinta a volere di più. Nella lettura del pensatore friburghese, Nietzsche rappresenta il compimento della metafisica come trionfo della soggettività che si impone sull’ente, nel più profondo oblio dell’Essere. La volontà di potenza rappresenta quell’ipertrofica tendenza al dominio incondizionato della realtà di cui la tecnica è l’evidente manifestazione.23 La Wille zur Macht viene stretta in un vincolo con l’eterno ritorno dell’eguale che, come dice Carlo Sini, esprime secondo Heidegger «l’essenza della macchina, della tecnica moderna come ripetizione costante dell’identico». L’oltreuomo sarebbe allora l’incarnazione di «una volontà iper-volente»[^fn24] che ripropone il vecchio umanismo metafisico, ossia un volontarismo animato dal nevrotico desiderio di più volere, ispirato dalla capacità di imporsi e di instaurare se stessi come misura dell’ente.
Evidentemente una tale lettura può, con maggior facilità, far cogliere nell’elemento della sopraffazione e del dominio l’essenza stessa della nozione di Wille zur Macht.
Deleuze, al contrario, nella sua interpretazione del dispositivo della volontà di potenza a partire dai concetti di forza e di differenza, pone l’accento sul termine Macht, con l’intenzione di svincolare la nozione nietzscheana da un’idea di «desiderio di dominare». Scrive il filosofo francese: «La Potenza, come volontà di potenza, non è ciò che la volontà vuole, ma ciò che vuole nella volontà». Essa «è l’elemento differenziale da cui derivano le forze (e la loro qualità rispettiva) in un complesso».24 Deleuze guarda al dispositivo nietzscheano come a un principio plastico, mobile, plurale, configurato tanto da forze che dominano, quanto da forze che obbediscono. Si tratta sempre di una relazione, come abbiamo già avuto modo di vedere. Una relazione che può qualificarsi come affermativo-creativa o come negativo-reattiva, secondo la qualità che determina la volontà di potenza stessa.25
Porre l’accento su “potenza” piuttosto che su “volontà” significa sfumare la Wille zur Macht secondo i concetti di affermazione e di creatività, semanticamente ben più ricchi rispetto al termine “dominio”. Quest’ultimo, vincolato ad una volontà di potenza limitata semplicemente a ripetere se stessa nella formula “volontà di volontà”, misconosce il carattere plastico e, dunque, differenziale della potenza la quale, al contrario, è affermazione di molteplicità.
Conclusa questa breve disamina, condotta per offrire uno sguardo su come la ricchezza e, senza dubbio, l’enigmaticità del pensiero di Nietzsche possano aprire a linee interpretative diverse, conviene sostare temporaneamente sul concetto di volontà di potenza in maniera più dettagliata, soffermandosi su quei brani nietzscheani che meglio ci illuminano su tale nozione.
La volontà di potenza è innanzitutto l’essenza di ciò che si dà, è la forma stessa della realtà. La vita, guardata nella sua profonda intimità, parla il linguaggio della volontà di potenza, è Wille zur Macht. Ciò significa innanzitutto che l’esistenza non tende mai di per sé alla mera conservazione, ma piuttosto è spinta all’espansione. La vita è l’atto dell’espandersi-oltre, è il movimento di trascendimento di sé. Essa è propriamente questa tensione che non si fissa, che non si appaga. Fink la paragona ad una «torre gigantesca che si eleva ogni volta più in alto, che cresce costantemente. Ogni posizione raggiunta diviene un trampolino per un nuovo impulso».26 Per questo motivo, il fenomenologo ci invita a pensare alla vita nell’ottica nietzscheana come un’inquietudine, un movimento che non è lineare.27 La volontà di potenza ha di fatto il carattere del divenire e non la rigida struttura dell’essere.
In La gaia scienza, Nietzsche afferma che il vivere è un respingere da sé ciò che vuole morire.28 Quest’atto di respingimento comporta un aumento della vita stessa, una sua crescita. La vita si nutre affermandosi su ciò che in lei e fuori di lei si spegne nella debolezza. La crescita ottenuta non è mai un punto d’arrivo. La volontà di potenza in quanto divenire, non può fissarsi in maniera definitiva ma, ogni stabilizzazione, ogni irrigidimento d’essere è strumentale al movimento dell’oltre, al nutrimento del carattere diveniente che la configura. L’autoconservazione in realtà è del tutto secondaria. In Al di là del bene e del male scrive, di fatto, Nietzsche:
I fisiologi dovrebbero riflettere prima di stabilire l’istinto di conservazione come istinto cardinale di un essere organico. Un’entità vivente vuole soprattutto scatenare la sua forza -la vita stessa è volontà di potenza:- l’autoconservazione è soltanto una delle più indirette e più frequenti conseguenze di ciò.29
La volontà di potenza, come non può interpretarsi secondo il prisma della conservazione, deve inoltre essere distinta dall’azione utile. Possiamo vincolare l’utilità a ciò che siamo soliti considerare come il gesto economico, ovvero ad una condotta che si mette in gioco in virtù di un calcolo per il raggiungimento di un fine. Tuttavia, e qui vediamo ancora una volta la profonda convergenza tra Nietzsche ed Ortega, la vita come volontà di potenza non fa calcoli, ma si esprime originariamente in maniera assolutamente libera e spontanea, per esuberanza di forza, per senso di pienezza energica. Scrive Nietzsche:
Sia edonismo che pessimismo, sia utilitarismo che eudemonismo, tutti questi modi di pensare, che misurano il valore delle cose secondo il piacere e il dolore, cioè secondo stati concomitanti e fatti collaterali, sono modi esteriori di pensiero, nonché ingenuità, che chiunque sia consapevole delle sue forze plasmatrici e abbia una coscienza d’artista guaderà dall’alto al basso.30
Nella Genealogia della morale troviamo ancora un altro esempio di come Nietzsche rifiuti l’interpretazione della vita come azione utilitaria. Nelle pagine della seconda dissertazione, in merito all’analisi genealogica del concetto di pena, Nietzsche sostiene che è assolutamente errata quella tendenza ad identificare «la causa genetica di una cosa e la sua finale utilità». Al contrario, l’utile, lo scopo sono qualcosa di assolutamente secondario poiché vengono sempre posti in maniera relativa, e mai definitiva, a seguito dell’affermarsi di qualcosa di più radicale ed originario, ovvero della vita come volontà di potenza. Secondo Nietzsche, bisogna intendere che ogni accadimento è «un sormontare, un signoreggiare e che a sua volta ogni sormontare e signoreggiare è un reinterpretare, un riassettare, in cui necessariamente il “senso”, lo “scopo” esistiti fino a quel momento devono offuscarsi o del tutto estinguersi».31 L’idea del reale come campo di forze, dove ogni fenomeno è il frutto di una complessa relazione tra processi d’assoggettamento e relative resistenze, dissolve l’utilità in un elemento assolutamente secondario, tutt’altro che identificabile come origine del processo vitale o di qualsiasi delle sue molteplici estrinsecazioni.
La vita che dona se stessa
Secondo l’analisi che abbiamo proposto di alcuni dei concetti più importanti che compaiono nei due pensatori, possiamo sostenere che, tanto in Nietzsche quanto in Ortega, il fenomeno vita è qualcosa di molto complesso, caratterizzato nei termini della sovrabbondanza e della creazione, piuttosto che nella piatta conservazione e nella ripetizione meccanica di gesti che configurano la condotta economica. In particolar modo, rappresenta un significativo punto di coincidenza tra i due autori, il tipo umano che si prospetta come superamento dell'homo oeconomicus. Lo sportivo orteghiano è colui che agisce uno sforzo superfluo, creativo, libero. Un movimento cioè che ricorda il ritmo della volontà di potenza come forma essenziale dell'oltreuomo. Infatti, come fa notare Cacciari, lontano dall’essere la formula in cui si identifica un mero istinto di sopraffazione, un duro impulso al dominio, la Wille zur Macht è l’espressione di «un tutto donare, di un non tener per sé»,[^fn33] nella sovrabbondanza traboccante. Questo dono è l’essenza della creatività.
Continuando in questa direzione e riprendendo l’insistenza di Ortega sulla dimensione del superfluo come tratto caratterizzante la vita umana, può essere proficuo richiamare all’attenzione l’interessante lettura che, del dispositivo della Wille zur Macht, offre Georges Bataille (1897-1962) in uno dei suoi testi più affascinanti. Si tratta di Sur Nietzsche, pubblicato la prima volta a Parigi nel 1945. Il filosofo francese riscrive la volontà di potenza attraverso il concetto di «chance», ovvero l’idea di un’apertura totale al futuro, intesa come «libero verificarsi» in cui si esplorano molteplici possibili. Questo tipo di postura si offre nel momento in cui ci si libera della logica dell’utile, quando cioè si smette di inchiodare il movimento della propria attività ad un fine che limita le potenzialità esplosive della vita. Quella vita che Bataille definisce «intera» e che conserva tale integrità solo offrendosi, cioè dando se stessa.32 Scrive l’autore francese:
La totalità è in me questa esuberanza; un’aspirazione vuota, un desiderio doloroso di struggersi senz’altra ragione che il desiderio stesso --e la totalità lo è interamente-- di bruciare. In ciò essa è la voglia di ridere […] questo prurito di piacere […] [che] Non ha più compiti da assolvere.33
La volontà di potenza non è un desiderio di potere. In questo senso la si vedrebbe tradotta in uno scopo e, come dice Bataille, «sarebbe un tornare indietro […] alla frammentazione servile […] [ovvero] la potenza voluta mi dominerebbe». Al contrario, dobbiamo guardarla attraverso il prisma del riso e della danza, due tratti determinanti della figura di Zarathustra. Il gesto ridente e danzante è simbolo di un movimento superfluo, esuberante, assolutamente libero. É «la felicità sospesa sull’abisso».34 La vita come volontà di potenza è un donarsi che trascende l’utilità e la necessità.
Nello Zarathustra è rinvenibile chiaramente questa caratterizzazione della volontà di potenza come un desiderio di versamento della propria pienezza, di una vita ricca, lussuosa, che nella sua superfluità straripa di doni. Proprio nella prime righe del Prologo, Nietzsche propone una similitudine tra Zarathustra ed il sole tramontante. Anche il profeta, dalla sua solitudine sulla montagna dove si è riempito di saggezza, ha ora bisogno di discendere, di portare la sua luce agli uomini, come il sole scende sull’abisso del mare. Così si esprime Zarathustra rivolgendosi al sole:
La mia saggezza mi ha saturato fino al disgusto; come l’ape che troppo miele ha raccolto, ho bisogno di mani che si protendano. Vorrei spartire i miei doni […] Anch’io al pari di te devo tramontare […] Benedici il calice, traboccante a far scorrere acqua d’oro, che ovunque porti il riflesso splendente della tua dolcezza! Ecco il calice vuol tornare vuoto, Zarathustra vuol tornare uomo.35
Bisogna inoltre fare riferimento alle splendide pagine del capitolo “Della virtù che dona”. Qui la metafora è con l’oro, il quale ha acquisito il massimo valore donando se stesso. Ma l’oro è il riflesso della virtù più nobile, ovvero la virtù che regala: «Simile all’oro, luccica lo sguardo di colui che dona», dice Zarathustra. E rivolgendosi ai suoi discepoli che al momento del suo congedo gli porgono in regalo un bastone con l’impugnatura d’oro di un serpente, afferma:
Insaziabile, l’anima vostra anela a tesori e gemme, perché la vostra virtù è insaziabile nella volontà di donare. Voi costringete tutte le cose a venire a voi e dentro di voi, perché riscaturiscano dalla vostra sorgente come doni del vostro amore.36
Tali parole devono essere messe in relazione con ciò che Ortega scrive in un passaggio dello scritto Introducción a un “Don Juan”. Di contro ad un’intera tradizione, Ortega difende il carattere assolutamente non egoistico di questa figura leggendaria del folklore spagnolo. Allo stesso tempo, Don Juan viene utilizzato come simbolo per mettere in luce quel carattere donativo che, sulla scia del personaggio nietzscheano dello Zarathustra, deve determinare il tipo umano prospettato in superamento dell’homo oeconomicus. Scrive infatti il pensatore madrileno:
Innanzitutto, Don Giovanni non è un sensuale egoista. Ne è sintomo inequivocabile il fatto che Don Giovanni porti sempre la sua vita sul palmo della mano, pronto a donarla. Dichiaro che per distinguere un uomo morale da un uomo frivolo non conosco indizio più sicuro se non l’essere capace o meno di dare la propria vita per qualcosa. Quello sforzo in cui l’uomo prende se stesso di tutto peso e si appresta a lanciare la propria esistenza oltre la morte è quel che fa di un uomo un eroe. Questa vita che fa dono di se stessa, che supera e vince se stessa, è il sacrificio – incompatibile con l’egoismo.37
Conclusione
L’affinità tra Nietzsche ed Ortega mi sembra innegabile. Il filosofo di Madrid riprende la nozione nietzscheana di vita per proporre il paradigma della creatività, in contrasto con la mera reazione alla necessità; per risaltare il carattere superfluo, di eccesso del ritmo vitale, di contro alla conservazione con cui la logica economica è solita leggere l’esistenza. Sobejano sottolinea precisamente quest’impronta nietzscheana nel viraggio orteghiano verso un senso sportivo e festivo della vita. L’interprete spagnolo afferma infatti che Ortega sostituisce all’homo oeconomicus «un tipo umano vitalmente lussuoso per il quale vivere non è guadagnare, ma regalare». In ciò, dice, «si può rintracciare una memoria della virtù generosa esaltata da Zarathustra e del trabocco vitale o lusso di forza che è la base del modello di vita ascendente»38 prospettata da Nietzsche.
Nel filosofo madrileno, in effetti, abbiamo visto come l’esistenza nella sua pienezza trovasse espressione nel gesto sportivo, quale forma di vita che tende all’aumento di sé, nell’esuberanza della sua energia che spinge anche a “gettarsi” di fronte al pericolo, contraddicendo lo spirito di mera conservazione. Quest’ultimo caratterizza invece l’anima industriale, quell’homo oeconomicus la cui attività primaria è il lavoro finalizzato all’utilità e alla sicurezza.
Nella postfazione allo scritto di Deleuze su Nietzsche, nel riflettere sul modo in cui il filosofo francese legge l’affermazione come tratto caratterizzante lo Übermensh, Giorgio Frank sostiene che con l’autore dello Zarathustra «ci è offerta la visione di una leggerezza sovraumana, l’immagine di un fanciullo che ride e che danza».39 Anche Fink ci invita a leggere la creatività dell’oltreuomo proprio nei termini del gioco, scrivendo che «il “creatore” non è l’uomo laborioso, ma l’uomo che gioca creativamente, che crea valori, il volente che con grandezza di volontà si propone un obiettivo e corre il rischio di un nuovo progetto». Ciò dipende dal fatto che «Per il creatore non c’è un mondo di significati già terminato che egli si limita ad assumere allineandosi ad esso ma, al contrario, mette in gioco una relazione originale con tutte le cose, crea nuovi pesi e nuove misure, condiziona in maniera nuova la vita umana nel suo insieme».40
In Ortega compare il dispositivo dello sport che, in qualche modo, si avvicina proprio a quest’idea del gioco come movimento espansivo e creativo della vita. Una vita sentita con entusiasmo e desiderio d’avventura. La superfluità creativa dello sforzo sportivo contrasta l’esistenza utilitarista dello spirito borghese, limitata all’adattamento all’ambiente e alla morale della conservazione. Ricordiamo, ancora, come Conill abbia giustamente sottolineato la prossimità tra il senso sportivo della vita nella concezione orteghiana, e il concetto del dionisiaco nella postura nietzscheana.41 Il simbolo del dionisiaco è il fanciullo che gioca. Quel fanciullo che rappresenta nello Zarathustra l’ultima metamorfosi dello spirito e che è luce in cui appare, in prospettiva, il superuomo. Entrambi i termini, gioco e sport, rimandano di fatto a un’incarnazione della libertà che crea la realtà, la trasforma e parimenti l’aumenta. Il flusso vitale, in suddette attività, si rinnova come energia creatrice nel senso dell’espansione e non della mera conservazione. La vita che crea, che apre nuovi possibili, che riproduce se stessa nella differenza delle forme molteplici è una vita che dona se stessa. Il nuovo tipo umano che si prospetta è colui che rende carne queste forma di esistere.
Dunque, avviandoci a concludere, possiamo affermare che, tanto per la riflessione di Ortega, quanto per quella di Nietzsche, si tratta di prospettare un nuovo tipo umano, al di là di quell’umanità decadente che, come critici della modernità, i due pensatori demistificano, rivelandone le profonde zone d’ombra. Al fondo delle due filosofie vi è una decisiva istanza di rinnovamento, che giunge sino alla soglia del nostro mondo. Un mondo sempre più complesso, gravido di sfide, di rischi, di scommesse, un mondo in cui il pensiero di Ortega, così come quello di Nietzsche, hanno evidentemente ancora qualcosa di prezioso da dirci: un tesoro che dobbiamo avere il coraggio di fare nostro.
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J. Ortega y Gasset, Obras completas, 6ª ed., Revista de Occidente, Madrid 1964, vol. VI p. 23. ↩︎
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Ivi, p. 24. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Si veda a tal proposito lo scritto: J. Ortega y Gasset, El tema de nuestro tiempo, in Obras Completas, op. cit., vol. III. ↩︎
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J. Zamora Bonilla, Guía Comares de Ortega y Gasset, 1ª ed., Comares, Madrid 2013, pp. 97-98. ↩︎
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J. Ortega Y Gasset, Epistolario, 1ª ed., Revista de Occidente, Madrid 1974, pp. 111-112. ↩︎
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Cfr. J. Zamora Bonilla, Guía Comares de Ortega y Gasset, op. cit., alla nt p. 98. ↩︎
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Jésus Conill Sancho, «La superacion del naturalismo en Ortega y Gasset», Isegoría, 2012, n. 46, (06/30), pp. 167-192, p. 175. ↩︎
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J. Ortega y Gasset, Obras completas, op. cit., vol. VII, p. 83. ↩︎
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Ivi, p. 84. ↩︎
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J. Ortega y Gasset, Obras completas, op. cit., vol. V, pp. 317-371. ↩︎
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Ivi, pp. 322-323. ↩︎
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Cfr. Ivi, p. 323. ↩︎
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Ivi, p. 327. ↩︎
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Ivi, p. 368. ↩︎
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J. Zamora Bonilla, Guía Comares de Ortega y Gasset, op. cit., p. 119. ↩︎
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A. Regalado García, El laberinto de la razón: Ortega y Heidegger, 1ª ed., Alienza, Madrid 1990, p. 47. ↩︎
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Cfr., J. Conill Sancho, «La superacion del naturalismo en Ortega y Gasset», op. cit., p. 177. ↩︎
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Cfr., J. Conill Sancho, «El sentido deportivo de la vida en la herméneutica raciovitalista de Ortega y Gasset», Pensamiento, 2019, n. 286, pp. 1061-1078, pp. 1068-1069. ↩︎
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Cfr., J. Ortega y Gasset, Obras completas, op. cit., vol. II, p. 493. ↩︎
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Cfr. Ivi, p. 261. ↩︎
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Si veda a tal proposito il testo: M. Heidegger, Nietzsche, 3ª ed., Adelphi, Milano 2013. ↩︎
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G. Deleuze, Nietzsche, 1ª ed., Se, Milano 2018, p. 26. ↩︎
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Cfr. Ivi. pp. 26-27. ↩︎
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E. Fink, La filosofía de Nietzsche, 1ª ed., Herder, Barcelona 2019, p. 131. ↩︎
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Cfr. Ibidem. ↩︎
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Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza, 25ª ed., Adelphi, Milano 1977, p. 82. ↩︎
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F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, 22ª ed., Adelphi, Milano 1977, pp. 18-19. ↩︎
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Ivi, p. 133. ↩︎
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F. Nietzsche, La genealogia della morale, 24ª ed., Adelphi, Milano 1984, p. 66. ↩︎
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Cfr., G. Bataille, Su Nietzsche, 2ª ed., SE, Milano 2018, pp. 22-24. ↩︎
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Ivi, p. 24. ↩︎
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Ivi, p. 28. ↩︎
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F. Nietzsche, Così parlo Zarathustra, 41ª ed., Adelphi, Milano 1976, p. 3. ↩︎
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Ivi, p. 83. ↩︎
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J. Ortega y Gasset, Obras completas, op, cit., vol. VI, p. 136. ↩︎
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G. Sobejano, Nietzsche en España, 1ª ed., Gredos, Madrid 1967, p. 545. ↩︎
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G. Franck, Opposizione e differenza: note sul “Nietzsche” di Deleuze, in G.Deleuze, Nietzsche, op. cit., p. 124. ↩︎
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E. Fink, La filosofía de Nietzsche, op. cit., p. 122. ↩︎
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Cfr. J. Conill, Intimidad corporal y persona humana. De Nietzsche a Ortega y Zubiri, 1ª ed., Tecnos, Madrid 2019, p. 220. ↩︎