Lineamenti per un Nuovo Umanesimo

1. Introduzione

È ormai scontato, nel parlare della contemporaneità, di come le nuove tecnologie hanno influenzato e continueranno ad influenzare ciò che siamo ed il mondo nel quale ci troviamo. Gli ultimi vent’anni sono stati un’accelerata costante sulla linea del disastro, se si vuole prestar fede ai dati che vogliono l’ecosistema danneggiato oltre ogni possibilità di recupero. La situazione attuale chiama una presa di posizione nei confronti di questi problemi; presa di posizione che però non può essere parziale, settoriale, limitata a solo uno degli aspetti del mondo contemporaneo dove queste criticità sono evidenti. Un discorso che parli unicamente delle necessità ecologiche rischia di tralasciare l’arte e la medicina, così come limitarsi a tentare di risolvere la crisi economica può voler dire abbandonare i cosiddetti “poveri della terra” al loro destino per salvare soltanto una parte degli abitanti del globo. Crescita, decrescita, sostenibilità; ognuna di queste parole magiche propone una soluzione che rischia, però, di essere troppo limitata.Con questo non voglio assolutamente negare l’importanza di simili tentativi, anzi: hanno il coraggio di affrontare il problema e proporre soluzioni, a differenza di molti altri atteggiamenti conservativi nei confronti della situazione attuale. Ma il punto di rottura si fa sempre più imminente: ogniqualvolta tali soluzioni sono state messe in atto nel loro piccolo hanno provocato cambiamenti e miglioramenti non sufficienti. Sempre di più quello che emerge è la necessità di un radicale cambio di prospettiva, di una metanoia: soluzioni strumentali sono in grado solo di affrontare parte del problema in quanto ancora frutto di una visione del mondo che quel problema l’ha generato.

Per questo il pensiero di Raimon Panikkar, filosofo e teologo indo-catalano, può risultare così importante. Le risposte settoriali che spesso dai suoi scritti sono state estratte, come la teofisica, l’ecosofia, l’invito alla pace ed al dialogo interreligioso, a volte rischiano di dimenticarsi come il suo sia un pensiero costantemente interrelato, dove ogni parte non è separabile dal tutto ma con esso dialoga, in esso si ritrova, con esso risplende. L’ecosofia non ha senso senza il dialogo interreligioso, la teofisica difetta di mordente senza il lavoro filologico fatto sui Veda, e tutto rientra nella sua intuizione cosmoteandrica. Il suo è un pensiero pericoretico, che rifacendosi al pneuma intreccia e pervade ogni momento della sua sterminata produzione.Questo breve saggio non vuole però essere una presentazione critica del pensiero panikkariano, né tantomeno focalizzarsi su di lui. Quello che si cercherà di esporre è stato però ispirato dal confronto tra il pensiero e le proposte panikkariane ed il dibattito contemporaneo tra transumanesimo e postumano, correnti di pensiero anch’esse ancora incastonate all’interno del pensiero strumentale che ha creato il problema in cui siamo immersi. Per questo, la spinta che emerge dalla riflessione con il pensiero di Panikkar è quella di un Nuovo Umanesimo: una metanoia in senso stretto, che più che proporre la soluzione spinge verso la revisione completa del nostro modo di vedere il mondo e del nostro modo di considerarci Umani.

2. Il problema della tecnologia: tecnofobia ed utopia

Più che una dichiarazione di intenti, la proposta cui il titolo di questo breve scritto vuole riferirsi è indicativa di un modo di riflettere su quella serie di tematiche che, emergendo dalla contemporaneità, si trasformano in emergenza. In altri termini, dal punto di vista del senso comune tendiamo a considerare ciò che è un processo continuativo, del quale sono riscontrabili le tracce sin da quando l’Umano per la prima volta ha lasciato il suo impatto sulla Terra, come una emergenza cui far fronte. Un deviare rispetto allo stabilito, un momento improvviso nel quale la situazione che storia e tradizione hanno fatto diventare dato di fatto viene stravolta da qualcosa che ad essa non è conforme — come se esistesse un normale scorrere delle cose in base al quale giudicare ogni altro evento. Si parla di come la tecnologia contemporanea abbia stravolto il modo di vivere dell’Umano, di come questo venga costretto entro una gabbia sempre più schiacciante di regole e di tecniche che ne in-formano mentalità e comportamento. A fronte di studi specialistici sempre più focalizzati sul mostrare questo elemento di rottura, però, la domanda che da un punto di vista filosofico non ci si può evitare di porre è: la tecnologia contemporanea, con ciò che essa porta con sé, è veramente qualcosa di così tanto diverso rispetto a quella che è stata la storia, finora, dell’Umano?

È nel rispondere a questo interrogativo che si possono, generalmente, distinguere due atteggiamenti diversi all’interno del pensare filosofico: la tecnofobia e l’utopia. Non si tratta, si badi bene, di una riduzione ad un semplice dualismo e generalizzazione di quello che è un dibattito molto complesso, con numerose voci in campo di diversi ambiti disciplinari e diverse formazioni; per questo il termine impiegato è quello di atteggiamenti, che più di altri sembra essere in grado di trasmettere più un sentire che una presa di posizione in senso stretto. L’importanza dei termini, nel tentare di definire la proposta che anima questo breve scritto, è tale per cui ogni parola usata lo è non tanto nel suo riuscire a trasmettere significato ma nell’invocare un sentire profondo, rifacendosi a quella sacra verbi quaternitas panikkariana1 nella quale le parole non vengono sfruttate come dei termini portatori di un significato univoco, come cioè dei concetti, ma come simboli, riferentisi ad un universo di senso ben al di là della lettera,2 dimensione positiva di «ciò di cui non si può parlare».3 È anche per questo che, invece che usare il nome con cui vengono normalmente categorizzate queste correnti di pensiero, propongo delle parole che non vogliono categorizzare ma aiutare nella comprensione di quello che, a tutti gli effetti, vuole essere un primo tentativo, le linee di un affresco di un nuovo modo di pensare l’Umano. Di qui la necessità chiarificatrice di questa prima parte. Tecnofobia contiene in sé il termine «fobia», rifiuto irrazionale: ma quanto qui vorrei significare, come si vedrà a breve, non è affatto una dimensione irrazionale, anzi. L’atteggiamento che la tecnofobia indica è un avere profondamente a cuore il destino dell’Umano e del pianeta nel quale viviamo e saperne riconoscere criticamente il baratro verso il quale stiamo andando. L’utopia è l’atteggiamento opposto: chi si fa portavoce di questo atteggiamento riconosce la ricchezza e la possibilità che la tecnologia può offrire al futuro dell’Umano, ma pone un contrasto e rifiuto totale alla strada fatta fino a quel momento, e non solo all’antropocentrismo malato i cui frutti sono quotidianamente sulle pagine dei giornali e che testiamo sulla nostra pelle quotidianamente per gli effetti del cambiamento climatico.

L’atteggiamento che rifiuta la tecnologia e la possibilità stessa che essa possa aver qualche possibilità è ben rappresentato da Heidegger — soprattutto nell’ultimo periodo della sua produzione, il cosiddetto “secondo Heidegger” — e dal pensiero di Emanuele Severino, che eredita la critica alla tecnica heideggeriana rielaborandola nelle sue originalissime posizioni; ma anche entro certi limiti da Panikkar stesso. Il pensatore indo-catalano è chiaro nel dichiarare come il suo attacco non sia alla scienza di per sé, di cui anzi spesso sottolinea gli aspetti positivi,4 ma alla tecnologia, alla tecnocrazia; cioè a quella struttura sociale, storica, economica e di potere che da particolarità dell’Occidente vuole farsi universale.5

Techné (arte in greco) può essere annoverata come invariante umano. Ogni essere umano utilizza e manipola il mondo esterno a proprio vantaggio, beneficio e miglioramento. La tecnologia però è un caso particolare, una trasformazione di questa techné. Essa è generata da una cultura particolare, più precisamente da uno sviluppo particolare della techné in quella cultura che è riuscita ad applicare la macchina di secondo grado (che utilizza fonti naturali di energia) — come ho cercato di spiegare altrove. Se traduciamo «tecnologia» in altre lingue non-europee notiamo subito la differenza. Techné attiene allo spirito (in-spirazione), tecnologia è legata ad uno speciale know-how cognitivo (techno-logos). La tecnologia non è un universale culturale — né tantomeno un invariante umano.6

Per Panikkar, il metodo scientifico è intrinsecamente violento (giudizio privo di qualunque connotazione etica o morale) in quanto astrae singole parti dal tutto che indaga per tentare di comprenderlo,7 senza realizzare che questa operazione non fa altro che allontanarlo dalla Realtà e rinchiuderlo in una dimensione unicamente formata da un logos ridotto a mera ratio. Queste espressioni, nel suo linguaggio, non si strutturano nel rifiuto della scienza e della ragione; non sono l’invocazione di una forma di irrazionalismo, ma anzi spingono al recupero di una dimensione originaria del logos. In essa, ciò che è comprensibile razionalmente non preclude a forme di conoscenza guidate dalla saggezza oltre che dall’intelligenza,8 all’interno della sua prospettiva ontologica che vede la realtà un Ritmo plurale e relazionale. Trasformando ciò che è Ritmo dinamico ed armonico in oggetto che si può conoscere, possedere, controllare in ogni sua forma, la violenza non morale del metodo scientifico storicamente degenera in logocentrismo ed ideologie che tutte, chi più chi meno, hanno perso di vista la Realtà per paura di perdere il controllo su di essa e tornare ad una supposta epoca dell’Umano schiavo della Natura. In questo senso, la scienza assume un ruolo identico a quello che la religione aveva in tempi passati: basti pensare a come certe forme di pseudoscienza9 siano sempre più alla ribalta negli ultimi anni, soprattutto grazie alla diffusione di internet e forme di comunicazione molto più rapide di quanto non fosse vent’anni fa.

Per questo, quindi, uso termine «tecnofobia» con un’accezione simbolica più che descrittiva: non genitivo soggettivo ma genitivo possessivo, cioè quell’atteggiamento che sottolinea la paura non detta che la tecnologia ha di perdere il controllo, che mostra il punto debole della scienza occidentale. Non è un rifiuto della scienza e della tecnologia strictu sensu, ma il ricordare come la tecnologia occidentale, quando intesa nel senso comune e non dagli addetti ai lavori, si basa sul controllo, sul desiderio di governo e di possesso delle leggi che orientano la Realtà. Per questo Panikkar parla di «dogma parmenideo» nell’indicare come la cultura occidentale sia fondata sulla pretesa che tutto ciò che Esiste è Pensabile, ed in quanto tale controllabile.10

Altro importante rappresentante di questo atteggiamento tecnofobico può essere considerato Francis Fukuyama:11 guardando con forte critica ed inquietudine a come informatica, biotecnologia, chimica ed altre discipline se lasciate libere stringeranno in una forma statica e sterile la società umana, lungi dall’essere una critica tranchant della tecnologia, la sua posizione è un grido d’allarme verso quel rischio che, nel perdere di vista l’Umano, si corre. Interpretato sotto la luce di questo particolare modo di intendere la tecnofobia, il suo pensiero rafforza l’immagine del controllo cui tende la tecnologia occidentale non soltanto da un punto di vista biologico o meccanico, ma anche politico, comunitario, sociale: la perdita di qualsiasi forma di libertà a favore di una tecnocrazia assoluta, il cui controllo è totale.

L’atteggiamento che indico col termine «utopia», invece, può essere inteso come rinchiudente tanto la corrente del transumanesimo che quella del postumanesimo. Non entrerò qui nel dettaglio di quali siano le rispettive posizioni ed in che modo i due approcci si somiglino e dove si differenzino, anche per via del gran numero di autori che ad essi vi sono dedicati. In linea di massima, con una semplificazione consapevole dei limiti ma che si spera possa risultare funzionale, quella trans-umana sarebbe la convinzione che l’imprevedibilità genetica dell’evoluzione umana possa essere sostituita con un controllo totale attraverso una nuova tecnologia, che sia bionica o cyborg, non governata da tecno-ottimismo (è per questo che utilizzo il termine utopia invece che altri più sotto il cappello semantico della speranza) ma più da un’analisi empirica.12 Il postumanesimo, d’altro canto, dalla formulazione di Katherine Hayes13 al pensiero di Rosi Braidotti14 si struttura come un rifiuto totale dell’antropocentrismo così come storicamente determinato, a favore di una riflessione sul modo con cui l’Umano si sta evolvendo in questo periodo storico. Più che un obiettivo da raggiungere, quindi, il pensiero postumano tenta di sottolineare quelle questioni radicali e fondamentali in rapporto alla relazione tra l’Umano ed il suo ambiente nella contemporaneità. Particolarmente interessante è proprio la proposta di Rosi Braidotti: influenzata dalla sua teoria femminista, essa si interroga su come la presenza ormai innegabile di macchine e tecnologia aiuti a definire identità e differenze di genere e specie, e come questo possa rinforzare od abbattere le barriere tra l’Umano ed il resto del mondo. Mutuando tale espressione da Achille Mbembe, Rosi Braidotti parla della necropolitica come quella «generale strumentalizzazione dell’esistenza umana e distruzione materiale dei corpi umani e della popolazione».15 Muovendo i passi dalla biopolitica foucaultiana, la necropolitica si struttura nel momento in cui il potere non agisce più in relazione alla vita del cittadino ma alla sua morte — o meglio, nel momento in cui il potere interagisce con la salute, la sanità e la sicurezza in modo tale da trasformare lo Stato nel proprietario del termine della vita biologica dell’individuo. In coerenza anche con la riflessione di Giorgio Agamben sull’umanità «usa e getta»,^[16] il pensiero di Braidotti smaschera la paura della tecnocrazia europea nei confronti dei flussi di migranti: soggetti umani fuori da chi ha accesso a sanità e cure mediche, questi sono un attacco diretto al welfare state di cui godono i propri cittadini, non più cura della vita ma guarigione dalla morte.16 Ma ciò che più il pensiero postumano di Rosi Braidotti mette in luce è la stasi politica all’interno della quale il mondo occidentale ed occidentalizzato si è trovato: non avendo più a cuore la vita dei cittadini ma focalizzandosi sulla loro morte e costruendo il proprio consenso sulla morte del «nemico»F non c’è spazio per innovazione, per miglioramento, per uno stile di vita ed un progresso consapevole della vita di Umano ed Ambiente. Un approccio consapevole delle nuove tecnologie, che vada oltre alla separazione tra l’Umano e l’ambiente in cui esso si trova, è visto quindi come una possibile via di salvezza alla catastrofe che si prospetta.

Anche qui non c’è un ottimismo cieco ma la dimensione utopica permane, e forte. Dimensione utopica che però a mio parere rischia di perdere di vista alcune domande fondamentali della riflessione teoretica: innanzitutto, l’alienazione dell’Umano nei confronti di se stesso e della realtà, che viene da una parte spostato in un qualche obiettivo futuro di controllo totale della propria evoluzione biologica e culturale e dall’altra che rischia di infrangersi in una generalizzazione indistinta — pur essendo gli sforzi dei teorici del postumano ragguardevoli nel tentare di evitare un simile destino. In secondo luogo, entrambe sembra ricerchino una definizione dell’Umano, qualcosa che possa strutturarlo all’interno di un logocentrismo violento che, ancora una volta, scambia il predicato per oggetto.

Il «nuovo umanesimo» di cui in questa sede vengono presentati i primi lineamenti vuole essere una qualche terza via tra tecnofobia ed utopia: come qualsiasi tentativo di mediazione, anche questo può offrire il fianco ad attacchi da parte di entrambi gli atteggiamenti, l’uno per il tentare di recuperare la tecnologia sotto forma di tecnica invece di rinnegarla e l’altro per il rifiuto di abbandonare l’Umano, la sua ricchezza e la sua potenzialità.

3. Per un «Nuovo Umanesimo»

Come prima cosa, è necessario chiarificare il fatto che per «Nuovo Umanesimo» non si intende in alcun modo un ritorno ad una situazione di culto dell’antichità e ad una qualche supposta posizione privilegiata dell’Umano rispetto alla natura, così come fu tra il quattordicesimo ed il quindicesimo secolo. Egualmente, non voglio indicare una qualche forma di gerarchia nella Realtà che finisca per riconfermare quella idea del mondo come casa per l’Umano17 ed ogni altra cosa mero servente dei suoi scopi. Voglio inoltre rimarcare questa differenza con l’utilizzo che faccio del termine «Umano»: riconoscendo gli stimoli molto importanti della riflessione del postumanesimo sulla responsabilità verso gli animali, sulle problematiche legate alla queer theory ed a biopotere e necropotere, questo termine vuole essere un tentativo di utilizzare un neutro che rifiuti:

- qualsiasi forma di maschilismo e femminismo derivante dall’utilizzo di un termine maschile o femminile per designare l’insieme della nostra specie (l’uomo, la donna);

- qualsiasi forma di assoluto derivante dall’utilizzo di un collettivo che annulli l’irriducibile unicità inter-relazionale di ciascun membro ad esso sottoposto (umanità);

- qualsiasi forma di limitazione alla dimensione biologica utilizzando un termine classificatorio che chiude alla forza ed alla ricchezza del Mistero di cui la realtà fisica è parte ricca, ma non per questo escludente ciò che ad essa non si conforma (razza umana, essere umano).

In secondo luogo, Nuovo Umanesimo vuole essere espressione simile, nelle intenzioni, alla «nuova innocenza» che propone Raimon Panikkar:18 tutt’altro che un recupero di qualcosa di dimenticato, la nuova innocenza panikkariana è la consapevolezza della necessità del trovare un modo nuovo di approcciarsi al mondo. La prospettiva della nuova innocenza si muove nell’ambito dell’ontonomia, cioè di quell’atteggiamento che riconosce la rete delle relazioni che ogni cosa ha con ogni altra cosa, e che rifiuta la tendenza all’universalizzazione.19 Ben distante da un atto contemplativo nel senso deteriore della parola, lo sguardo contemplativo della nuova innocenza nega il negotium a favore del finis operationis: non è l’atto ripetitivo e meccanico che guida la sua azione, ma la consapevolezza che l’atto ha un valore in sé stesso, rifiutando l’azione del padrone o dello schiavo a favore di quella dell’artista. Il contemplativo è consapevole dei meccanismi di una lingua e di quanto il colonialismo linguistico rischi di pregiudicare la mutua fecondazione tra le culture. La metafora che utilizza Panikkar per descrivere lo sguardo innocente è quella dei gigli,20 mutuandola dalla parabola evangelica sugli uccelli del cielo ed i fiori di campo,21 per quanto per non lasciare che la sua riflessione si leghi troppo al cristianesimo la lascia aperta anche ad istanze buddhiste ed hindu. L’idea che vuole sostenere è che dove l’uomo contemporaneo utilizza i gigli come intermediari, come servi di un fine altro, la spiritualità della nuova innocenza che egli desidera indicare accetta i gigli per quelli che sono, li ascolta, li osserva, lascia che essi diventino parte di sé stesso — ma non perdendosi in essi. Non è una mera partecipazio, ma il punto più profondo e sincero della contemplatio, che rifiuta una sperimentazione il cui metodo fa violenza al giglio.

Per questo il Nuovo Umanesimo non può essere un semplice tornare alle istanze ed al sentire rinascimentale: ciò che è passato non è recuperabile. L’attuale crisi ecologica e sociale è figlia proprio di questo atteggiamento antropocentrico nato in quel periodo, anche se Panikkar lo fa risalire ancora più indietro, a quello che lui chiama, come si è visto, dogma parmenideo: stessa cosa è essere e pensare, dice il frammento 3 DK, e seguendo questo comandamento la cultura scientifica (cioè chi segue religiosamente lo scientismo dominante) è convinta che l’Umano abbia sotto il proprio controllo tutto ciò che è. Siamo ancora figli di una forma mentis, di un modo di considerare l’Umano che ritiene la sua essenza, il suo τὸδε τι sia «animale razionale», o «cittadino», o qualcosa di altrettanto definibile.

Quanto voglio suggerire, con l’espressione Nuovo Umanesimo, è che ogni definizione non può che essere figlia di un momento storico e geografico ben preciso e ben determinato: quanto voglio suggerire è che l’umanità è morta venti anni fa, quando la velocità delle innovazioni tecnologiche ha cominciato a scontrarsi con il desiderio, da parte dell’essere umano, di rimanere fermo in una stasi rassicurante — quella stessa stasi mentale che porta molti, in vari paesi del mondo, a negare il fatto del cambiamento climatico, od alcune partorienti a considerare più grave un’operazione rispetto alla morte del nascituro e via discorrendo, quella stessa stasi mentale che ha fatto aumentare il numero di patologie psicologiche, di stress, di logorio psicofisico, di incertezza nel futuro. Come se ci fosse qualcosa, nell’Umano, che non sopporta una stabilità che uccide la spinta a cambiare: come se noi non potessimo, per il nostro stesso essere, permanere in quello stato di benessere (sempre che sia tale) che abbiamo tentato così a lungo di raggiungere, con l’avanzare della medicina, dell’arte, della cultura, di ogni nostra tecnologia. Come se ci fosse qualcosa che ci spinge ad essere sempre in movimento.

Questo qualcosa viene da Panikkar definito il «dramma teantropocosmico»:22 momento nel quale l’Umano scopre prima l’esser soggetto, poi predicato, infine coappartenenza di soggetto e predicato in un dialogo tra se stesso e ciò che gli è attorno dove è consapevole del proprio essere costitutivamente responsabile del suo ambiente, che è a lui mutualmente interrelato. È simile a ciò che Gabriel Marcel chiama «condizione di creatura»:23 sapere che il pensarsi dominatori del mondo è solo frutto dell’influenza di una ragione puramente speculativa, che è filosofia divenuta scienza (cioè tecnologia), e che l’astrazione che essa comporta se non integrata da tale consapevolezza diviene superbia. Con ispirazione ancor più teologica, altrove parla della «coscienza agente» come «l’esser tutti presi dalla realtà, di modo che noi non sappiamo più esattamente se siamo noi che operiamo sulla realtà o è la realtà che agisce su di noi».24 Galati 2, 20: non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me. Un Cristo però che non è tanto (o soltanto) il Figlio di Dio ma simbolo precipuo dell’intera Realtà intesa come compresenza dell’Umano, del Mondo fisico e di quel Mistero che le manifestazioni storiche del fatto religioso chiamano divino, che in Panikkar diviene incarnatio continua, in Teilhard de Chardin diventa cristogenesi e che, facendo un viaggio di migliaia di chilometri nello spazio e nel tempo, Dôgen chiama «natura di Buddha».

Sono consapevole che quest’ultima apertura alla mistica può sembrare in contrasto con quanto esposto fino ad ora. Eppure, tali sono i simboli che la nostra cultura utilizza per trasmettere questo significato: il cercare di rimanere fedeli alla Realtà, recuperarne le dimensioni frammentate e, soprattutto, essere consapevoli che l’Umano non è qualcosa di definito ed inossidabile, ma la sua apertura a ciò che non può essere compreso dalla ragione e dalle scienze esatte lo rende quello che Heidegger chiamava un «progetto gettato».25

In questo senso, quanto vorrei proporre è l’idea dell’Umano come un evento dinamico. La teoria dell’evoluzione della nostra specie ci insegna che la biologia dell’Umano ha attraversato vari stadi, ed ancora ci spinge in questo cammino in una direzione che non possiamo prevedere, solo immaginare.26 La nostra storia ci insegna che anche le nostre forme di cultura passano in vari momenti, con un costante evolversi di tabu, pregiudizi, convinzioni e rielaborazioni. L’approccio storico occidentale inquadra entrambe queste direttive all’interno di un processo di sviluppo, di progresso, che dà per scontato vi sia un qualche obiettivo futuro migliore del precedente. Considerare questo approccio un universale, cioè applicato a tutto l’Umano, è puro colonialismo culturale:27 la nozione del tempo circolare, ad esempio, tipica di molte tradizioni asiatiche, africane e mesoamericane e fatta propria da Panikkar,28 ci ricorda che possono esistere altre forme di pensiero, altri modi di vedere il mondo.

Questa differenza evidenzia un problema notevole: siamo qui perché siamo frutto di un processo che ci ha portato ad essere tali, ma chi ci garantisce che questo processo è il «migliore»? Stiamo distruggendo la nostra stessa casa, stiamo inquinando il nostro ambiente fino al punto di non ritorno — non ritorno che è unicamente per noi, non questo pianeta che nel giro di qualche centinaia di migliaia di anni, non importa quanto gravi i danni che gli infliggiamo, rigenererà una nuova vita magari basata sugli idrocarburi o sul silicio invece che sul carbonio, chissà; la produzione di plastica della nostra cultura è tale che esistono già degli organismi microcellulari marini che si nutrono di questi scarti.29 Sempre dal mare è venuta la vita, e potrebbe essere loro il prossimo passo evolutivo a fianco dell’Umano — od al suo posto, se non prendiamo provvedimenti, perché risalendo la catena alimentare è solo questione di tempo prima che anche noi finiremo per nutrirci di plastica.

Ci siamo dimenticati che cambiamo. Che l’Umano è dinamico; è dynamis, movimento e potenzialità, e che è questo che ci ha portati ad essere ciò che siamo. Transumanesimo e postumano condividono l’idea di un cambiamento alla base dell’umano, a differenza di alcune forme tecnofobiche che invocano un immutabile alla sua base; ma tale cambiamento viene inquadrato in una definizione di malleabilità30 funzionale all’ingegneria genetica, all’enhancement, all’immortalità digitale. Questo è il primo punto del nuovo umanesimo: la consapevolezza che non esiste qualcosa definibile come essere umano neanche secondo un prima ed un dopo sul quale si deve lavorare ma solo l’Umano dinamico, aperto al cambiamento ed all’evoluzione, consapevole del suo ruolo nell’ambiente che non è di guardiano, custode, amministratore ma fratello e sorella, madre e padre, figlio e figlia. In un certo qual modo, l’Umano di cui parlo recupera quell’umiltà e mitezza che in Occidente è ben rappresentata dal santo patrono d’Italia, Francesco d’Assisi, ma che è presente in tutti i mistici delle tradizioni mondiali; umiltà e mitezza spirituale che di religioso (intendendo con questo una manifestazione storica del fatto religioso) ha poco, e solo successivamente. L’Umano deve recuperare la sua bellezza, la sua ricchezza e la sua potenzialità, riemergendo dalla stasi delle rovine dell’Occidente, senza per questo cadere di nuovo nell’arroganza di considerarsi centro della Realtà ma solo momento in cui essa è consapevole di se stessa.Se non ci rendiamo conto di questa necessità, l’Umano si suiciderà proprio nel momento in cui maggiormente può aprirsi a questa consapevolezza — che passa per un recupero della tecnologia come techné, secondo punto che vorrei proporre nel tracciare i primi lineamenti dell’affresco del nuovo umanesimo. Ho già ricordato come da una parte l’atteggiamento tecnofobico rifiuta la tecnologia accusandola di deumanizzare l’Umano, mentre il transumano tenta di trascendere l’Umano accettando le nuove tecnologie fino alle utopie di plastica e silicio. La proposta del nuovo umanesimo vuole seguire la spinta di Panikkar a recuperare la dimensione della techné, liberandola dall’influenza del logos occidentale. Con questi termini tecnici, il pensatore indo-catalano sottolinea come quella che noi chiamiamo tecnologia sia frutto di un fraintendimento tra ciò che essa indica ed il modo con cui si comunica.31 Per spiegare la sua intuizione, ricorre spesso alla storia del postino: una donna che ha ricevuto per anni lettere d’amore dal suo uomo lontano, si innamora del postino e lo sposa. Così l’occidente verso la scienza: ciò che gli scienziati sanno bene, cioè che le teorie e le discipline sono unicamente un mezzo interpretativo col quale approcciare la Realtà e ben lungi dal descriverla con identità, spesso da chi non ha una formazione scientifica viene frainteso in senso dogmatico, scambiando la descrizione per la cosa stessa. Sarebbe troppo lungo, in questa sede, addentrarsi nell’affascinante intuizione cosmoteandrica panikkariana;32 basti ribadire come per il pensatore indo-catalano la Realtà è Ritmo, è Armonia inter-relazionale ed inter-indipendente, secondo una prospettiva simile in alcuni punti allo «spirito nella materia» che Teilhard de Chardin ha visto quando ha guardato dentro un ciclotrone e quando ha potuto riflettere sui test nucleari nelle isole Bikini.33 E proprio quest’atteggiamento del gesuita francese può aiutare a intendere il senso del recupero della techné: non più freddo strumento, separato dall’Umano, la techné tornerebbe ad essere carica di manifestazione fisica dello spirito dell’Umano, cioè della sua creatività, della sua immaginazione, della sua inventiva. Anche per questo il termine «umanesimo»: la tecnica vista come techné invece che tecnologia avrebbe la possibilità di fiorire nuovamente nelle meraviglie, queste si, che il Rinascimento ha potuto offrire. Non per nulla Panikkar parla di teofisica per indicare la disciplina che riconosce la necessità di guardare anche oltre al mero dato empirico ed al risultato delle equazioni per comprendere il mondo, rifiutando la violenza del metodo scientifico a favore di un ascoltare la Realtà; non si tratta di rifiutare l’esperimento, ma di accompagnare ad esso osservazione ed esperienza, intendendo con questo l’ascoltare ciò che la cosa comunica e lasciarsi attraversare dalle informazioni, rendendole vive in se stessi.34 Ancora una volta, è la contemplatio che accompagna il negotium nel suo farsi artefice della materialità del pneuma. Per dirla con termini meno teologici, una pratica scientifica simile coniugherebbe il rispetto alla Realtà accettando i dati empirici ottenuti, ma lungi dal pretendere che con un esperimento scientifico frutto di una particolare visione culturale l’interezza del Reale possa venir compresa appieno e totalmente. Ed è dall’Occidente, proprio perché finalmente consapevole di queste problematiche ed avendo a disposizione il livello tecnologico sufficiente per agire, che un simile cambiamento deve arrivare; e dev’essere un atteggiamento ben diverso dal colonialismo culturale del passato, umile e consapevole dei danni che ha provocato — danni per i quali gli altri popoli della terra non avranno tempo per attraversare tutte le fasi di consapevolezza che l’Occidente, invece, ha la possibilità di concludere.35

Come si strutturerebbe praticamente questa Armonia? La riflessione parte dal riconoscere il ruolo che la tecnologia ha nei nostri confronti e nei confronti del mondo. Lungi da essere semplicemente un orpello, ora è diventata parte integrante della nostra vita — anche e soprattutto biologica. Non sto parlando soltanto dell’importanza della medicina, delle vaccinazioni, dei farmaci, delle operazioni per mantenere la nostra esistenza corporea, ma anche di come l’ecosistema della Terra è talmente fuori asse, talmente sconvolto che è necessaria una costante attività tecnologica, ad esempio, per mantenere intatti determinati ambienti, come le oasi naturali, o le aree protette.

C’è una piccola oasi naturale tra Bassano del Grappa e Montebelluna, l’Oasi di San Daniele. Punto sulla rotta migratoria di molte specie volatili, nel luogo di una antica cava prima e discarica bonificata poi è nato un ecosistema palustre meraviglioso che piano piano ha accolto la fauna sfuggita ad un costante aumento delle aree urbanizzate e sfruttate per l’agricoltura. Il sistema di fiumiciattoli e laghetti ospita fauna ittica locale ma anche la carpa koi giapponese, giunta lì scaricata da persone che la avevano comprata per decorazione e che è divenuta talmente presente da minacciare la presenza delle specie autoctone. Inoltre, alcuni rampicanti infestanti, la robinia e l’alianto (anche questi importati, rispettivamente da Nordamerica ed Asia, originariamente per fini decorativi) rubano terreno e soffocano la flora locale. Se i volontari non procedessero regolarmente a tentare di controllare la popolazione di carpe koi ed a bonificare le piante aggressive, questo piccolo paradiso che la natura ha recuperato verrebbe nuovamente distrutto.

Dove tecnologicamente si opera come guardiani e padroni, infatti, un ritorno alla techné significherebbe la consapevolezza che i nostri strumenti concorrono al mantenere il contatto e l’interrelazione col nostro ambiente: senza depuratori d’acqua alla fine degli acquedotti veneziani l’inquinamento della laguna sarebbe ancor più insostenibile, ad esempio, così come senza le (poche) bonifiche fatte a Porto Marghera il terreno sarebbe ancora più acido e pregno di mercurio di quanto non sia, e senza i volontari l’Oasi di San Daniele andrebbe perduta. Anche per questo il livello tecnologico che abbiamo raggiunto spinge verso la consapevolezza del ruolo dell’Umano; mai come in questo periodo storico i nostri strumenti cominciano a suggerirci le loro potenzialità ma, soprattutto, i loro limiti. Per questo Edward Tenner, nel proporre una soluzione ai problemi creati dalla tecnologia senza scappare da essa, in conclusione di uno dei suoi testi parla di astuzia:36 questo sarebbe l’atteggiamento che sostituisce l’attacco frontale ad un movimento di accompagnamento, compiuto ad esempio da un medico che piuttosto che curare una febbre lascia che essa sia sfogo per malattie che, se represse, rischierebbero di tradursi in problemi peggiori. E sono convinto l’Umano debba sbrigarsi in questo suo stato febbricitante, prima che la Terra su cui siamo sviluppi la devastante malattia che sta covando; ed una filosofia consapevole di questi problemi e di queste potenzialità deve essere il medico che, con astuzia e senza violenza alcuna, accompagna la tecnologia verso una techné più armonica nei confronti dell’Umano, del Cosmo e del Mistero.

4. Conclusione: primi tratti di un affresco

È questo intervento una parola definitiva sull’argomento, una definizione completa e totale del nuovo umanesimo? No. Per ricordare per un’ultima volta Panikkar, la filosofia non è null’altro che «quell’attività umana che solleva domande circa i fondamenti ultimi della vita dell’uomo sotto il cielo e sopra la terra».37 Grande importanza nella proposta del nuovo umanesimo è anche quanto emerge dalla riflessione sul digitale, o meglio sulla digital physis;38 senza contare ogni riflessione di carattere etico, sociale, culturale, ma anche narrativo ed estetico che al nuovo umanesimo si collega — basti pensare a come l’arte può venir influenzata da un simile rinnovamento di sguardo sul mondo. E soprattutto, quali sfaccettature religione e spiritualità sembra emergano in questa prospettiva. Spero quantomeno di essere stato in grado di esprimere le questioni, le inquietudini e le riflessioni che questa terza via porta con sé, senza negare nulla ma accettando ogni criticità ed ogni problema come la sfida che l’Umano deve comprendere e superare nella contemporaneità — sfida che rischia, se persa per paura di cambiare, di porre la parola «fine» all’esperienza dell’Umano sulla terra. La proposta di un Nuovo Umanesimo consapevole di queste problematiche e, soprattutto, che accetta la pluralità e l’inter-indipendenza del Reale può essere feconda interlocutrice, una volta presentata nella sua interezza, per chi vuole affrontare questa sfida.


  1. SP, p. 29; L. Marcato, Le radici filosofico-teologiche della proposta di dialogo dialogale di Raimon Panikkar, Tesi di dottorato, Università Ca’ Foscari di Venezia, marzo 2016, pp. 34-41. ↩︎

  2. «La parola, vale a dire la parola parlata, viva, è essenzialmente simbolo (di chi parla) prima che segno (di ciò che viene detto)», in RPOO IX/1, p. 78; per un maggior approfondimento della filosofia del linguaggio panikkariana cfr. Harold Coward, Panikkar’s Philosophy of Language , in J. Prabhu, a cura di, The Intercultural Challenge of Raimon Panikkar, Orbis Books, Maryknoll (New York) 1996, pp. 58-70. ↩︎

  3. L.V. Tarca, Il linguaggio sub specie aeterni. La filosofia di Ludwig Wittgenstein come attività razionale ed esperienza mistica, Francisci, Abano (PD) 1986, pp. 246-253. ↩︎

  4. «Utilizzando la geometria di Riemann, il <-1>, i numeri immaginari e via dicendo, noi pensiamo, e con il nostro pensiero costruiamo grattacieli, ponti… ed essi stanno effettivamente in piedi.», RPOO I/2, p. 270; cfr. anche PSC, p. 36 e Paolo Calabrò, Le cose si toccano. Raimon Panikkar e le scienze moderne, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 2011. ↩︎

  5. PSC, pp. 189-192. ↩︎

  6. PSC, p. 193. ↩︎

  7. PSC, pp. 31-32. ↩︎

  8. « Nel momento in cui la ragione è eletta arbitro supremo, le distinzioni razionali tendono a diventare separazioni ontologiche», in RPOO X/1, pp. 238-239. ↩︎

  9. Che è ben diversa dalla parascienza di cui parla Panikkar (PSC, pp. 213-217). ↩︎

  10. Per un approfondimento sui rapporti tra Panikkar e Parmenide cfr. Leonardo Marcato, Ritorno o Fondamento? Tracce per un’analisi dell’interpretazione panikkariana di Parmenide a partire dal dialogo tra Raimon Panikkar ed Emanuele Severino. Filosofia e nuovi sentieri/ISSN 2282-5711, 3 maggio 2015 (parte prima, http://goo.gl/vr32oz - 16/08/2015) e 10 maggio 2015 (parte seconda, http://goo.gl/Mp7DMD - 16/08/2015). ↩︎

  11. Francis Fukuyama, Our Posthuman Future, Picador Publishing, New York 2003. ↩︎

  12. Nick Bostrom, Transhumanist Ethics, http://goo.gl/EKQlPK (28/10/2015). ↩︎

  13. Katherine Hayes, How We Became Posthuman: Virtual Bodies in Cybernetics, Literature and Informatics, University of Chicago Press, Chicago 1999; My mother was a computer, Mimesis, Milano-Udine 2014. ↩︎

  14. Rosi Braidotti, Il Postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi, Roma 2013. ↩︎

  15. Ivi, p. 131. ↩︎

  16. Sulla differenza tra guarigione e cura nella percezione della sanità da parte del senso comune e la pressione cui la classe medica è sottoposta, cfr. Chiara Fornasiero e Leonardo Marcato, Professione medica e pratica filosofica. L’esperienza dei Mercoledì Filosofici dell’Ordine in L. Candiotto, L.V. Tarca, a cura di, Le radici della scelta. La vocazione nella professione medica, Mimesis, Milano-Udine 2015, pp. 111-132 ↩︎

  17. EST, p. 13. ↩︎

  18. RPOO I/1, pp. 28 ss. ↩︎

  19. RPOO X/1, pp. 357-372; cfr. anche Michiko Yusa, “An Advaitic Matter: Pebbles Speak”. CIRPIT Review, 3 (2012) (edizione kindle) ↩︎

  20. RPOO I/1, pp. 66-68. ↩︎

  21. Mt 6, 25-34. ↩︎

  22. RPOO VIII, pp. 159-161. ↩︎

  23. Gabriel Marcel, Homo Viator, Borla Editore, Roma 1980, p. 111. ↩︎

  24. Ivi, p. 169. ↩︎

  25. Martin Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2009, pp. 233-239. ↩︎

  26. Una su tutte l’omogeneizzazione dei tratti somatici su un modello ibrido: dato sufficiente tempo, non è difficile immaginare come i fenotipi dell’Umano rimasti separati per migliaia di anni grazie ai collegamenti molto più veloci e capillari si mescoleranno in un melting-pot di elevatissima ricchezza genetica ma aspetto simile. Sempre che l’Umano sopravviva abbastanza per vedere un simile definitivo abbattimento di ogni forma di razzismo, s’intende. Profondamente interessanti su questo tema le riflessioni di Teilhard de Chardin, in Pierre Teilhard de Chardin, The Future of Man, Harper and Row, New York 1964, pp. 283-294. ↩︎

  27. PSC, pp. 187-201. ↩︎

  28. RPOO IX/1, pp. 385-391 e PSC, pp. 224-226; cfr. anche Raimon Panikkar, “Le temps circulaire. Temporlisation et Temporalité”, in E. Castelli, a cura di, Temporalité et alienation: actes du colloque, Aubier, Paris 1975, 207-246; p. 237. ↩︎

  29. Zettler, E. R., Mincer, T. J., Amaral-Zettler, L., “The unnatural history of the ‘Plastisphere’: Microbes on plastic marine debris.” Accepted: Environmental Science and Technology, 47 (2013): 7137-7146; Kara Lavender Law et alii, “Plastic Accumulation in the North Atlantic Subtropical Gyre”, Science, 329 (2010), pp. 1185-1188. ↩︎

  30. Paolo Benanti, The Cyborg: corpo e corporeità nell’epoca del post.umano, Cittadella Editrice, Assisi 2012, p. 442. ↩︎

  31. Cfr. nota 6; in questo senso, cioè riconoscendo la dimensione spirituale della techné e la sua apertura al Mistero, Panikkar si discosta radicalmente da chi, come Benanti, limita il discorso di tecnica e tecnologia alla questione degli strumenti (P. Benanti, op. cit., pp. 342ss). ↩︎

  32. Panikkar tratta ampiamente del tema in RPOO VIII. ↩︎

  33. P. Teilhard de Chardin, The Future of Man, cit., pp. 145-153. ↩︎

  34. RPOO I/1, pp. 376-388; PSC, pp. 218-228. ↩︎

  35. Ervin Laszlo, Stanislav Grof, Peter Russel, La rivoluzione della coscienza. Dialogo transatlantico, Edizioni Spazio Interiore, Roma 2015, pp. 105-108. ↩︎

  36. Edward Tenner, Perché le cose si ribellano. Le conseguenze inattese (e spiacevoli) della tecnologia, Rizzoli, Milano 2001, pp. 405-406. ↩︎

  37. Raimon Panikkar, “Religione, filosofia e cultura”. Simplegadi. Rivista di filosofia interculturale, 6 (1998) 45-75; p. 47. ↩︎

  38. Leonardo Marcato, Digital physis: contemporary challenges for a definition of the Human, intervento al XI International Ontology Congress, San Sebastian - Donostia, Spagna, 1-4 Ottobre 2014. ↩︎