Sofferenza e identità personale. Riflessioni fenomenologiche alla luce della fenomenologia della vita di Michel Henry

1. Introduzione

Il carattere distintivo della razionalità filosofica, che contribuisce allo sforzo dell’uomo per capire se stesso, è l’affidarsi, per la giustificazione ultima delle ipotesi e proposizioni scientifiche, all’esperienza, nel senso più largo del termine. Questa premessa non s’intende, certo, nel senso empiristico, troppo ristretto da una determinazione pregiudiziale dell’origine dei dati primari — cioè, limitato al mondo in quanto realtà sensibile; ma nel senso in cui l’unico criterio fondamentale, universalmente accettabile, per validare una qualsiasi proposta teorica è l’accertamento diretto ed intuitivo. Questo richiamo al constatare diretto, personalmente operato dalla coscienza individuale stessa, è il cuore della nostra eredità socratico-platonica, ed il principio della vigilanza critica che caratterizza il concetto e l’ideale di razionalità comune a tutti i filosofi inquanto tali.

Così intesa, l’esperienza è il modo fondamentale in cui sono originalmente dati, tanto gli oggetti elementari che entrano nella definizione d’un problema scientifico, quanto i significati o le relazioni ideali che consentono di dimostrarne la possibile soluzione. In effetti, il ragionamento logico-formale stesso non può pretendere al rango di criterio ultimo di razionalità, perché è dipendente anche lui dall’esperienza soggettiva (critica) dell’evidenza intellettuale. Nessuna relazione d’inferenza oggettiva, anche elementare, può valere come concludente e valida, se non con riferimento implicito all’esperienza vissuta dell’intuizione in cui è giunta alla chiarezza e certitudine dell’evidenza; e alla possibilità permanente, per ognuno, di vivere di nuovo tale esperienza. In quanto manifestazione intuitiva degli oggetti e delle relazioni stesse, l’esperienza si oppone per sè a ogni forma di cultura conformistica e passiva, di credenza cieca, e di superstizione irrazionale.

Così la filosofia offre un terreno prezioso all’espressione dei problemi comuni a tutti gli uomini, di qualsiasi cultura e tradizione spirituale, in quanto condividono la stessa condizione di uomini; e procura le condizioni pratiche, i concetti gli strumenti metodici d’un incontro interculturale autentico, ove tutti stanno alla pari davanti agli stessi enigmi.

2. Husserl: primo allargamento fenomenologico del campo dell’esperienza

A questo scopo di mediazione e d’integrazione, la fenomenologia di Husserl ha recato, tramite un possente allargamento dei confini dell’esperienza, un contributo essenziale, storicamente decisivo. Mostrando che ogni tipo di oggetto, reale o ideale, naturale o artificiale, inanimato o vivente, trae la sua oggettività, e quindi il suo essere, dall’effettività degli atti intenzionali della coscienza dalla quale è intento, Husserl ha aperto l’accesso allo strato ontologico fondamentale che è l’esperienza originaria di ogni ente, e di ogni effettività qualsiasi. Questa esperienza originaria viene restituita, e diventa accessibile, tramite la riduzione fenomenologica trascendentale, e può così apparire nella luce dello sguardo riflessivo, quale oggetto di una descrizione. L’esperienza originaria è, in questo contesto problematico, il flusso del vissuto soggettivo della coscienza, che coinvolge tutti gli eventi della vita soggettiva, così come è effettivamente vissuta dalla coscienza. Così Husserl individuava un suolo di dati originari assolutamente primari, anteriori comunque alla cesura naturale fra realtà mondana e soggetto psicologico, fra vita psichica fisiologicamente condizionata e natura fisica «esterna». Fu la sua scoperta capitale avvertire che questa anteriorità traduceva la dipendenza di queste opposizioni tra regioni d’oggetti dalla presupposizione dell’attività della coscienza pura in quanto vita trascendentale. Mettendo così in luce — nella piena luce dell’oggettivazione di «essenze» a priori eidetiche — tutti gli atti intenzionali e i dati impressionali iletici che costituiscono l’intero flusso concreto della vita egologica, e mostrando che in loro si trova la sorgente di ogni possibilità d’esperienza delle cose quali oggetti veri e verificabili, Husserl ha compiuto in modo decisivo uno sconvolgente allargamento, non soltanto del campo dell’esperienza scientificamente determinabile, ma soprattutto dei limiti della razionalità: Infatti, la vita della coscienza intenzionale, individuata e descritta da vicino dall’analisi riflessiva del flusso temporale originario, si rivela come vita costitutiva, cioè generativa. Il campo così scoperto dell’esperienza trascendentale non è solo un dominio di «oggetti interni» predonati, di cosiddetti «dati immediati della coscienza» secondo la parola famosa di Bergson, perché questi dati non sono appunto «immediati»: sono prodotti da una vita autenticamente vivente, cioè spontanea, dinamica e drammatica, la genesi trascendentale dei processi noetici latenti, che a loro volta operano l’identificazione sintetica dei correlati oggettivi.

Nell’aprire così un accesso intuitivo alle segrete operazioni sintetiche della coscienza, Husserl ha messo alla luce del giorno l’autentica sorgente della ragione umana, il principio di razionalità di ogni ragione oggettiva, presa alla sua radice primaria.

Da Kant già sappiamo che il criterio di un’esperienza autentica è il fatto che sia conforme a certe leggi, e che manifesti una struttura legale. Questa caratteristica essenziale di ogni razionalità, Husserl l’ha verificata anche nell’indagine sulle strutture trascendentali della vita noetica originaria. Nelle Meditazioni cartesiane in particolare, ha dimostrato l’esitenza di un a priori noetico, il sistema delle leggi a priori della motivazione soggettiva, che regge e ordina tutte le relazioni di anticipazione d’orizzonte, e di associazione sintetica primaria, da cui risulta la costituzione intenzionale di ogni oggetto di coscenza, immanente o trascendente, e dunque l’apparire della realtà.

Proporrei di ritenere questo, quale «teorema» filosofico generale, che ogni allargamento del campo dell’esperienza implica la scoperta e la definizione di una nuova legalità strutturale, cioè, un allargamento dei limiti della razionalità, la determinazione di un nuovo tipo di razionalità; il che significa, invece, che l’allargamento degli orizzonti della razionalità già conquistata viene motivato e sostenuto dalla scoperta e messa in luce d’un nuovo campo d’esperienza.

3. Alla scoperta delle diverse componenti dell’uomo concreto, in quanto essenza antropologica: verso un’ontologia regionale della persona umana

3.1. Il problema dell’identità personale

È stato appunto questo doppio aspetto dell’allargamento fenomenologico dell’esperienza soggettiva, a porre a Husserl, tra l’altro, un problema nuovo e particolarmente difficile: quello dell’identità del «Io», dell’«ego», più precisamente del suo statuto ontologico. Partendo, nelle Ricerche Logiche di 1901, da una comprenzione psicologico-descrittiva della coscienza e dei suoi atti intenzionali, aveva dapprima pensato che l’«Io» si potesse identificare con la persona empirica, e che, in conseguenza, bastasse determinare il flusso degli atti vissuti dalla coscienza come un «fascio» [ein Bündel] di fenomeni soggettivi, divieto di ogni principio interno d’unità, se non meramente formale e sintetico.

Ma questa soluzione si rivelò poi insostenibile. In effetti, il carattere intersoggettivo della costituzione del reale imponeva di riconoscere, all’interno di ogni atto intenzionale e di ogni fenomeno puro vissuto, un riferimento strutturale all’«ego ipse» che effettuava l’atto (nel modo della sintesi attiva), o che provava l’affezione (nel modo passivo della «sintesi passiva»). Da lì sorse insieme un nuovo problema radicale, e la possibilità di nuove scoperte antropologiche.

Cominciamo da queste ultime. Da una parte, si apriva la via ad una teoria della genesi trascendentale delle diverse istanze che compongono l’essere umano, in quanto essenza antropologica: anima, corpo animato [Leibkörper], corpo proprio vissuto [Leib], persona, personalità psicologica, persona sociale, persona spirituale (culturale e storica) — tutte queste dimensioni della persona umana potevano, non solo essere chiarite dal punto di vista eidetico, ma soprattutto ritrovare il loro fondamento onto-metafisico nel collegamento con l’esperienza immediata dell’Io, in cui è dato a se stesso, coll’evidenza originaria dell’«ego puro». Non si doveva più temere di affermarlo: prima di esistere in quanto anima di un corpo, in quanto unità psicofisica, io esisto in quanto me stesso, originariamente presente a me stesso, prima di esserlo nel mondo.

3.2. L’auto-costituzione dell’ego

Ma, dall’altra parte, questa nuova base fenomenologica dell’antropologia filosofica conduceva verso una nuova difficoltà: perché l’ego, sebbene un momento necessario interno della struttura di ogni atto intenzionale, è preso anche lui nel flusso originario del vivere della coscienza; cioè, nel fluire originario della temporalità pura. Se l’ego puro, coscienza immediata di se, dell’Io che sono, veniva fenomenologicamente ammesso in quanto presente nel «presente vivente» dell’«impressione originaria» [Urimpression], questo «Io» si trovava perciò sommesso alla legge inesorabile del fluire del tempo, e quindi non poteva essere l’Io di tutto il flusso di coscienza, se non attraversando la serie continua delle impressioni successive diventate contenuti ritenzionali, con un’identità transtemporale che rimaneva allora da determinare. Husserl si trovò così costretto a formare l’ipotesi di un’auto-costituzione dell’ego — la quale si rivelò poco a poco una costituzione a due livelli:

  • Primo, si doveva analizzare il processo dell’acquisizione ritenzionale di nuove abilità noetiche e delle unità noematiche corrispondenti — la celebre «istituzione originaria» [Urstiftung] delle «abitualità» intenzionali [Habitualitäten].
  • Ma, secondo, si doveva sempre distinguere, da questo «Io» in quanto relazione possibile col mondo e con situazioni, l’ego che acquistava queste abitualità, e che era l’ego originario continuamente copresente alla propria vita, alla propria nuova «impressione originaria». È questo il vero Io, presente a se stesso. L’auto-costituzione dell’ego doveva dunque comportare anche questo livello ultimo e radicale, ed essere descritta come auto-costituzione dell’ego puro stesso.

Husserl scrive, nella quarta Meditazione cartesiana (§31):

L’ego stesso è, per se stesso, esistente in modo continuamente evidente, e in conseguenza, costituendo se stesso continuamente come esistente. […] L’ego non avverte se stesso come una semplice vita fluente, ma in quanto «Io», l’«Io» che vive questo o quello, l’«Io» che, rimanendo lo stesso, percorre, vivendolo, tale o tale cogito.

È vero che, nell’esperienza del vivere puro, l’Io non vive la sua presenza, attiva o passiva, come semplice avvenimento d’una vita fluente, bensì, come presenza a questa vita, e quindi nella piena distinzione e dualità fenomenale del contenuto dell’impressione, e dell’Io a cui e per cui questo contenuto appare, e si trasforma. Sono coinvolto nella mia vita trascendentale, ma sempre distinto da essa. Tuttavia, se la permanenza transtemporale dell’ego identico è un fatto innegabile da un punto di vista descrittivo, non è certo che se ne possa render conto in modo soddisfacente nei termini di un’auto-costituzione.

3.3. Una mancanza di presenza…

Perché il concetto stesso di costituzione significa che l’ego è determinato come risultato, o prodotto, del processo di costituzione. Se l’identità dell’«Io» è un carattere che gli avviene, per la grazia di una «costituzione», sarà quindi sempre dipendente di un’operazione d’identificazione. Il fatto che questa identificazione sia «passiva», come aggiunge Husserl, non ci cambia niente: se l’«Io» è un «me stesso» perché lo è diventato, tramite un’identificazione, la sua identità è solo un’identità intenzionale, posta e riconosciuta, e non è ipseità originaria.

Peraltro, la teoria husserliana dell’ego in quanto costituito implica che l’ego sia sempre in ritardo sull’avvenimento originario dell’impressione originaria, e del «presente vivente»: è sempre un «Io» già avvenuto, cioè passato, che riceve la sua esistenza dall’attualità di una prima ritenzione — la quale ritenzione non è allora atto di nessuno. Per così dire, non c’è nessuno per accogliere presentemente, in modo attuale e vivente, l’affetto originario dell’impressione: lo schema intenzionale della «costituzione», valido per gli oggetti, dimostra la sua impotenza teorica davanti al problema dell’identità originaria dell’Io vivente. Il motivo profondo di questo fallimento giace nel fatto che ogni costituzione (altrettanto «passiva» quanto «attiva») è sintesi, e dunque si produce come processo noetico, che implica a sua volta uno scarto, una distanza tra operazione e operato, come tra noesi e noema. Anche la sintesi passiva riproduce, a modo suo, la struttura duplice e distesa dell’atto intenzionale di oggettivazione.

3.4. L’impossibile auto-fondazione della vita noetica originaria

Ora, ricorrere a questa struttura implicava la questione del substrato fenomenologico dell’essere della noesi stessa — cioè, in termini fenomenologici, il suo modo proprio di fenomenalizzarsi. Se l’Io deve il suo essere ad una costituzione, la noesi costitutiva — l’auto-identificazione passiva originaria — non può essere vissuta dall’ego, che, in quanto costituito, è piuttosto concepito come risultato di questa noesi originaria. Così che la permanenza transtemporale dell’«Io», pur essendo un tratto fondamentale della nostra esperienza, finisce col venir interpretata come un’illusione intenzionale: la teoria husserliana dell’autocostituzione dell’ego non riesce quindi, davvero, a rendere conto dello stato d’affari descrittivo che Husserl stesso notava, nel passo già citato.

Quel fallimento testimonia di una certa insufficenza della problematica husserliana della soggettività: l’impossibile auto-fondazione della vita noetica originaria. Infatti, se la vita noetica fosse la forma radicale ultima dell’attività della coscienza, ogni noesi dovrebbe, perché sia assicurato il fondamento del suo essere, riceverlo dal suo apparire intenzionale in un’altra noesi posteriore: ci vorrebbe dunque ancora un’altra sintesi noetica di cui la prima sarebbbe il correlato, … e così in infinitum! Si vede così bene che il concetto intenzionale di noesi è, per se, inadatto alla determinazione della fenomenalità originaria, che è proprio quella della soggettività trascendentale, e dell’Io che la vive.

4. Michel Henry: la radicalizzazione dell’esperienza fenomenologica trascendentale

Quest’impossibilità dell’auto-fondazione fenomenologica dell’intenzionalità è stata percepita e tematizzata esplicitamente, per primo, da Michel Henry in L’Essence de la manifestation. Dalla sua diagnosi dell’inadeguatezza dello schema di correlazione noetico-noematica è stato condotto a mettere in luce un’altra forma di fenomenalità, un apparire più originario e fondamentale di quello della coscienza costituente: la fenomenalità radicale della vita, come prova di se stessa, come il sentirsi vivere che sostiene ogni esperienza vissuta di qualcos’altro.

Però, mostrando che tutta l’attività trascendentale di costituzione riposa sull’evento non intenzionale e radicalmente immanente di quest’affettività originaria che è il vivere stesso, Henry ha radicalizzato l’esperienza fenomenologica dell’ego, e, nella stessa mossa, ha spostato l’intera sfera dei dati originari, ontologicamente fondamentali, verso l’affettività trascendentale. Ha scoperto così un livello più profondo dell’esperienza soggettiva, e ne risulta un nuovo allargamento dell’esperienza fenomenologica. Cosicché, ancora una volta, si verifica qui il nostro «teorema»: l’allargamento del campo dell’esperienza viene accompagnato dalla definizione di nuove leggi dell’apparire, e di un nuovo tipo di razionalità.

4.1. Ego e ipseità: il problema dell’identità dell’ego nel tempo

Entriamo dunque nella struttura di questa nuova legalità fenomenale. La vita originaria, immanente, si definisce come auto-affezione, identità dell’affettante e di ciò che è affetto. Henry scrive, nell introduzione a Incarnazione:

Vivere significa provare se stessi. L’essenza della vita consiste in questo mero fatto di provare se stessi, da cui è invece divieto tutto ciò che è legato alla materia, e più generalmente al mondo.1

E precisa anche, in Io sono la verità:

La vita stringe se stessa, prova se stessa senza distanza, senza differenza. A questa condizione sola può provare se stessa, essere ella stessa quello che sta provando — essa stessa dunque ciò che prova e ciò che viene provato.2

Perciò, l’auto-affezione della vita è la fenomenalità radicale, assolutamente originaria, essenza e principio di ogni manifestazione: è auto-rivelazione, e rivelazione originaria di tutto ciò che può apparire.

Nell’auto-rivelazione della vita nasce la realtà, ogni realtà possibile.3

Se l’essenza della vita soggettiva è l’evento originario dell’auto-esperienza affettiva che la vita fa di se stessa, non può non avere un rapporto molto stretto con l’identità dell’ego, con la sua ipseità. E infatti, Michel Henry stabilisce, tra il sorgere continuo della vita come auto-affezione e l’ipseità o condizione del «Se» originario, una relazione d’identità sostanziale:

Questa identità del termine provante e del provato è l’essenza originale dell’Ipseità. […] L’Ipseità non è una semplice condizione del processo di autogenerazione della vita: gli è interiore, come il modo stesso in cui questo processo si compie.4

Se dunque l’essere se stesso per se stesso, la coincidenza immediata del soggetto cosciente con sé, o l’identità soggettiva, è la forma concreta sotto la quale si compie il processo della vita trascendentale, il problema della mancanza di essere che caratterizza la concezione husserliana dell’ego può sembrare risolto. Eppure rimane una difficoltà capitale: il processo originario e assoluto della vita auto-affettiva è determinato da Henry come identico al processo dell’immanente sentirsi vivere della carne. Henry pone questo assioma fenomenologico:

La carne è precisamente il modo in cui la vita si fa vita. Nessuna vita senza una carne, però nessuna carne senza vita.5

La carne sensibile, la carne nel senso fenomenologico radicale di Henry, è la dimensione concretamente vissuta nella quale si compie il processo della «venuta in se stessa» della vita in quanto auto-affezione. E quindi, è anche il modo concreto di realizzazione dell’ipseità del «se stesso». Scoppia allora la difficoltà: cioè, il carattere temporale di questa «venuta in se» della vita. Vale a dire, la forma necessariamente temporale del processo di auto-affezione, che è, allo stesso momento, la nascita del «Se», dell’ipseità, la generazione del Se nella generazione della carne. Henry scrive per esempio in Incarnazione:

La vita rivela la carne generandola, come ciò che nasce da essa, formandosi ed edificandosi in essa, traendo la sua sostanza fenomenologica pura dalla sostanza stessa della vita.6

Dunque, se l’Io che sono può solo ricevere la sua ipseità dal processo originario di un’auto-affezione carnale che si svolge attraverso la durata del tempo originario, l’essere dell’ego rimane nella dipendenza permanente di un evento temporale altrettanto contingente quanto era il sorgere del nuovo «presente vivente» da Husserl. E così l’identità dell’Io non pare assicurata dall’auto-affezione henriana più di quanto lo era dalla «sintesi passiva» husserliana…

4.2. L’ego davanti alla morte come evento concreto

La radicalizzazione della fenomenalità operata da Henry ci consente allora di porre il problema dell’identità dell’uomo in modo radicale: lasciamo i livelli superiori della persona umana, e concentriamoci sulla sua identità problematica, ridotta così all’eventuale nucleo di essere dell’ego puro, come risalta nel nostro rapporto con la caducità del tempo, e con la propria morte. La morte propria, personale, in quanto evento concreto, appare all’ego vivente quale orizzonte di possibilità. Tale orizzonte segna e significa appunto la stessa dipendenza radicale dal dono contingente della vita. La contingenza ontologica di tale dono — dell’evento effettivo dell’auto-affezione — è interpretata da Henry come passività assoluta, passività radicale dell’Io nei confronti della vita assoluta che lo porta e lo suscita dall’interno. La stessa contingenza radicale del sorgere della vita immanente si manifesta, peraltro, sotto la forma della coscienza del tempo. È già infatti esperienza della finitezza del soggetto la coscienza del tempo: «Je suis, j’existe», diceva Cartesio nella seconda meditazione, ma subito aggiunge: «Ma quanto tempo?» E rispondeva: «Tanto a lungo, quanto penso» — «à savoir, autant de temps que je pense»; e precisa persino: «Perché forse potrebbe darsi che, se cessassi di pensare, cesserei allo stesso tempo di essere o di esistere» — «car peut-être se pourrait-il faire que si je cessais de penser, je cesserais en même temps d’être ou d’exister». Se mettiamo a profitto l’interpretazione profonda, elaborata da Henry, della cogitatio cartesiana come fenomeno auto-affettivo, possiamo addirittura giungere ad una formulazione molto chiara del nostro problema: Io sono — cioè, ho la consistenza ontologica e l’identità con me stesso che intendiamo con la parola «Io», tanto tempo quanto mi viene dato l’affetto originario dell’auto-affezione della vita.

Si giunge così al punto dove non si può più trattenere la domanda essenziale dell’uomo, di ogni uomo davanti a quella finitezza: sarei dunque io un semplice effetto fenomenale temporale? Nel mio esistere attuale, e nella sua mera fenomenalità, sono io dipendente da un processo anonimo, contingente ed imprevedibile, che mi può ad ogni istante lasciar cadere nel nulla?

4.3. Lo statuto esistenziale particolare dell’esperienza della sofferenza

Per affrontare questa questione dell’essere dell’ego, è necessaria un’analisi fenomenologica precisa della ricezione originaria della vita, nel momento in cui si riceve; in termini henriani, della nascita trascendentale del «me stesso» nella vita. Questa è una ricezione assolutamente passiva, la cui struttura è la passio stessa, l’essenza del «páthos», o piuttosto del «páschein» in atto, il subire radicale nel quale provo in me il nuovo slancio della nuova momentanea auto-affezione. L’esperienza propria ove si manifesta la passività radicale dell’ego nei confronti della vita è dunque la sofferenza. Per questo motivo Henry sceglie, in Incarnazione, il fenomeno della sofferenza come paradigma fenomenologico per determinare l’essenza dell’impressione originaria.Scrive in particolare:

La passione della sofferenza è il suo sorgere dentro di sé, il suo essere-preso-da-sé, la sua aderenza a se stessa, la forza con la quale aderisce a sé e, nella forza invincibile di questa coesione, di questa identità assoluta con sé nella quale si prova e si rivela a se stessa, la sua rivelazione, la sua Parusia. […] L’impressione, il dolore nel suo soffrire si prova come passivo al più profondo di sé, per quanto è venuto in sé senza esserci per niente, nell’impotenza che segna col ferro ogni impressione […].

In ché consiste questa venuta in sé, che precede dentro di lei ogni impressione concepibile?

È la venuta in sé della vita. Perché la vita non è altro che quello che prova se stesso senza differire da sé, dimodoché questa prova è una prova di sé e non d’altra cosa, una auto-rivelazione in un senso radicale. […] La vita prova se stessa in un pathos; è un’affettività originaria e pura, un’affettività che chiamiamo trascendentale […].

[…] In questa affettività e come affettività si compie l’auto-rivelazione della vita. L’affettività originaria è la materia fenomenologica dell’auto-rivelazione che costituisce l’essenza della vita. […] Questa auto-impressionalità vivente è una carne».7

4.4. Sofferenza ed auto-affezione

Da questo carattere carnale e passivo della nascita impressionale nella vita, si muoverebbe volentieri a concludere col carattere meramente momentaneo e temporale dell’essere dell’Io. E infatti Henry esamina, subito dopo, la possibilità di quella interpretazione. Eppure la respinge, al motivo che la venuta-in-se della vita sia incessante processo di continua auto-affezione. Alla pagina successiva precisa:

Chiedevamo, per sostenere la tesi di Husserl: "Non è vero che ogni impressione, subito dopo esser venuta, scompare? […] Eppure, non viviamo in un perpetuo presente? Saremmo mai usciti da quel presente? Come lo saremmo, se siamo dei viventi, invincibilmente giunti a se stessi nella Vita che non cessa mai di giungersi con sé — di provare se stessa nel gioire del suo vivere, nella carne instrappabile della sua Affettività originaria — tessendo inesorabilmente la trama continua di un presente eterno?8

4.5. Le tesi fondamentali della fenomenologia materiale: verso un’antropologia trascendentale assoluta

Da questi passi risaltano molto chiaramente le tesi essenziali di Henry sul problema dell’essere dell’Io:

  1. L’ego non è originario. Ricevo, in una passività assoluta che è l’essenza dell’affettività trascendentale, la vita che mi dà a me stesso, e che fa — cioè suscita dinamicamente — il mio essere. Sono un vivente, in quanto nasco ad ogni presente istante dall’evento autonomo dell’auto-sorgere della vita assoluta.
  2. La vita esiste nell’unico presente, è un «presente perpetuo», che ci premunisce definitivamente contro l’annientamento dello svanire husserliano dell’impressione originaria.

Quelle tesi determinano direttamente due conseguenze importantissime per l’antropologia filosofica d’oggi:

  • Il modo più originario dell’ego trascendentale non è ciò che viene chiamato «Io», bensì quello che si designa con la parola «Me» — in lingua francese, «le Moi»: Prima di essere in grado di pormi davanti a me stesso, e agli altri, in quanto «Io», devo essere stato generato dall’affezione primaria che mi suscita — quindi all’accusativo, quale passivamente affetto, in quanto «me».

    In contrasto con quel primo statuto fenomenologico, Henry concepisce l’«Io» — o l’ego — come a sua volta derivato, un derivato di terzo grado dunque: perché soltanto quando è stato messo in possesso dei suoi poteri di coscienza e di azione, dal sentirsi stesso dell’affettività originaria, può impadronirsi il «me» originario di quei poteri ricevuti, affettivamente e immanentemente, dalla vita, come se fossero i suoi, come se se li fosse dati lui stesso. Allora solo può giungere a dire e pensare «Io» — il che significa sempre «io posso».

  • La seconda conseguenza è ancora più decisiva: è la distinzione tra ipseità ed egoità.

    Infatti, secondo Henry l’ipseità non è altro che la struttura stessa dell’auto-affezione della vita, la sua forma concreta. Perciò precede ogni «me», ed ogni «ego» derivato da lui, perché è l’ipseità originaria della vita a fondare la possibilità di entrambi. Henry ha dato un’espressione formalmente cristiana a questo suo assioma ontologico: Tutti i soggetti umani finiti, tutti i numerosi «ego» generati nello stringere se stessa della Vita, sono «figli nel Figlio», in quanto ricevono la loro ipseità dall’Ipseità originaria ed unica di Cristo, Figlio unico della Vita, identificata da Henry a Dio Padre. Il movimento generativo originario della Vita, che secondo Henry è Dio, si realizza necessariamente sotto la forma concreta — incarnata — di una Ipseità fondamentale e primaria, il Primo Vivente. Nella carne del Primo Vivente prendono forma ipseitaria tutte le carni finite, noi stessi, in quanto individui soggettivamente viventi. Per quanto riguarda l’ego singolare, vuol dire che non può avere nessuna consistenza ontologica propria, se non come ipseità secondaria, derivata, come fenomenalizzazione parziale e particolare dell’unica carne originariamente egologica, quella del Primo Vivente, che è l’Ipse della Vita assoluta.

5. La questione decisiva: Il problema dell’identità dell’ego personale nel flusso della vita affettiva originaria

A questo grandioso approfondimento della fenomenalità della vita, possiamo adesso porre la nostra domanda: riesce fondata da questo processo l’identità dell’ego che sono — e di cui ho un’innegabile esperienza pura?

Mi pare che purtroppo, non sia così. Si propongono da sé diverse obiezioni.

La prima è, che non si può validamente sostenere — dal punto di vista fenomenologico — la tesi del carattere «eterno» del presente vivente. Perché, anche se è vero che viviamo sempre e solo sul modo del presente, dell’attualità dell’essere-affetto, è precisamente il carattere (e l’enigma) proprio della struttura della temporalità il fatto che trapassi questo stesso contenuto attuale — con la sua attualità! La struttura completa della temporalità non è sia l’immobilità d’un «presente perpetuo», sia lo sfuggire vertiginoso d’istanti inarrestabili, ma appunto la sintesi e la connessione attuale ed effettiva di quei due aspetti, nella loro opposizione fenomenale.

Del resto, l’espressione henriana di «éternelle venue en soi de la vie» — «eterna venuta in se stessa della vita» — implica una contraddizione: se la vita «viene», avviene, se ha la forma di un’evento, non può essere «eterna». Il fenomeno descritto da Michel Henry giustifica forse l’aggettivo «perpetuo», nel senso preciso di «continuamente ripetuto». Ma nessuna ripetizione può assicurare a priori il suo mantenimento nel futuro; proprio al contrario, la necessità per un permanente di mantenere il suo essere sotto forma della ripetizione attesta la sua incapacità a durare per sé, il suo insuperabile bisogno di rincominciare nuovamente, per riuscire ad esistere a lungo. Se la vita ha effettivamente la struttura originaria d’un’affezione ripetuta, continuata, questa continuazione rimane irriducibilmente temporale, ed è la prova innegabile della sua essenziale caducità. La vita dunque, anche come auto-affezione originaria, conserva il carattere d’un evento immanente temporale. Non si è mai sicuri che il processo attuale dell’auto-affezione si ripete ancora. L’identità del «me» vivente rimane quindi sempre sotto la minaccia permanente dello svanire.

Ma peraltro, c’è qualcosa di più grave. La vita henriana non viene proprio in me, ma in sé stessa, sotto la forma concreta di un’Ipseità originaria che non sono Io, e di cui posso valere soltanto come partecipe. L’identità ipseitaria dell’ego che sono, quale ego umano, non è dunque fondata nel suo essere proprio. È solo ricondotta ad un fondamento estraneo. Cosicché la mia identità, in quanto derivata, è originariamente priva di ogni autonomia ontologica, e quindi solo apparente, fenomenale.

Eppure, anche se la concezione henriana dell’origine trascendentale dell’ego è in parte falsificante di fronte al dato fenomenologico, non cancella certo questa parziale falsificazione il valore dell’intuizione fondamentale di Michel Henry, secondo cui il nostro essere è essenzialmente affettivo, e fondato sull’auto-affezione della vita. Se si deve dunque conservare intatto questa base fondamentale della fenomenologia materiale, bisogna proporre un’altra descrizione, più fedele e rigorosa, del rapporto dell’ego con l’auto-affezione originaria nella propria vita.

Occorre quindi tornare all’analisi della sofferenza, perché è l’esperienza eminente della passività originaria dell’ego nei confronti dell’auto-affezione. Esaminiamo dunque la descrizione fenomenologica del soffrire, così come la propone Henry, in quanto manifestazione esemplare del pathos essenziale della vita:

Il dolore puro è una sofferenza pura, è l’immanenza in sé di questa sofferenza, una sofferenza senza orizzonte, senza speranza, tutta occupata da sé, perché occupa tutto lo spazio, dimodoché non c’è per lei altro spazio che quello che sta occupando. Impossibile per lei di uscire da sé, di scappare da sé. […] Dacché la sofferenza è lì, sta lì tutta intera infatti, come una specie d’assoluto. Per colui che soffre, niente colpisce la sua sofferenza. La sofferenza non ha porte né finestre, nessuno spazio fuori da sé o dentro di sé, ove poter sfuggire. […] Tra la sofferenza e la sofferenza, non c’è niente. Per colui che soffre, per quanto dura il suo soffrire, il tempo non esiste. […]

La sofferenza è inchiodata a se stessa. […] Non è affetta da altra cosa, ma da sé stessa, è un’auto-affezione in questo senso radicale che è lei ad essere affetta, ma anche da lei affetta. È allo stesso tempo il termine affettante e il termine affetto, ciò che fa soffrire e ciò che soffre indistintamente. È la sofferenza a soffrire. […] La sofferenza non sente altro che se stessa».9

In questa analisi descrittiva, Henry accentua la forma di auto-affezione della sofferenza con due affermazioni caratteristiche:

Per colui che soffre, per quanto dura il suo soffrire, il tempo non esiste.

È la sofferenza a soffrire.

Con queste espressioni, Michel Henry intende innanzitutto sottolineare il significato negativo del prefisso «auto-» nell’espressione «auto-affezione»: vuol dire che la sofferenza non è vissuta come legata ad alcuna fonte esteriore, all’intervento di un qualsiasi potere estrinseco al soggetto: non si presenta come etero-affezione, bensì come fenomenalizzazione autonoma, che sorge da se stessa, e si impone con la propria dinamica, e spontaneità.

Eppure, queste due affermazioni, se le si intende letteralmente, sono smentite dall’esperienza fenomenologica:

  1. Non è vero che, per colui che soffre, il tempo non esista più. È appunto il contrario: nel soffrire in atto, i minuti si fanno interminabili — o piuttosto, non sono più minuti, cioè durate che si potrebbero percorrere, ma un rinnovamento interminabile di nuovi istanti puntuali di rinnovato dolore. La sofferenza impone una scansione drammatica del tempo: lo fa risaltare in modo particolarmente possente. La sofferenza agisce quale rivelatore dell’imminenza del nuovo istante presente, ed accentua l’attesa del futuro.
  2. Ma soprattuto, non è vero che sia la sofferenza a soffrire. Bensì, quando la sofferenza c’è, sono sempre io a soffrire! La sofferenza è l’esperienza più intensa dell’essere me stesso, non solo in quanto affetto da una «impressione», ma in quanto aggredito da una qualità nemica, ostile, avversa e insopportabile.

Bisogna quì sottolineare due aspetti fenomenologici principali del soffrire: la sofferenza ha la struttura di un’agressione, e implica un conflitto immanente. Sentendomi aggredito, reagisco per mantenere la mia identità affettiva, la costanza di un rapporto affettivo positivo con me stesso. Anche se non posso far niente che subire il dolore, questo subire stesso ha sempre la struttura di uno sforzo immanente, di una tensione affettiva diretta a mantenere la propria autonomia: il sofferente si oppone, internamente e invisibilmente, alla sua sofferenza — ossia la porta, ciò che è lo stesso.

D’altra parte la sofferenza, pur occupando tutto lo spazio della coscienza in quanto potere di sentire — come nota Henry — non invade l’ego che soffre. Infatti, se l’ego sofferente scompare (in caso di perdita di coscienza, o di coma per esempio), non c’è più neanche la sofferenza. Dunque l’apparire della sofferenza implica la presenza permanente dell’ego sofferente. Ma questa permanenza non è neanche un’assistere indifferente; poiché radicalmente affetto, e quindi modificato dal sorgere rinnovato del dolore, l’ego non può essere distaccato, cancellato dall’affezione dolorosa: toccato da essa, ne è allo stesso tempo essenzialmente alterato e distinto. Il soffrire perciò necessita, e comporta sempre uno spazio immanente di non-coincidenza coll’affetto: spazio di negatività, che è allo stesso tempo possibilità trascendentale del giudizio, e di una scelta libera. A questo scarto di libertà interiore, l’uomo deve poter assumere un attegiamento nei confronti della propria sofferenza: accettare, o rifiutare. La possibilità anche dell’offerta della propria sofferenza è fondata su questa caratteristica trascendentale.

Quelle troppo brevi osservazioni sulla struttura fenomenologica e la temporalità del soffrire danno testimonianza di due fatti importanti:

  • Primo, l’esistenza immanente trascendentale dell’ego non è un prodotto dell’evento dell’auto-affezione. Sarebbe addirittura possibile dimostrare che non può esserlo. Ma per adesso, basta notare che l’esistenza di un centro egoico che possa essere affetto, cioè aggredito dalla sofferenza (ossia dal piacere, o da ogni forma del vivere affettivo), è una condizione necessaria dell’affezione stessa.
  • Secondo, la persistenza transtemporale dell’ego, la sua capacità di attraversare una serie di presenti affettivi e originari, e quindi di provare la temporalità come finitezza, nel fenomeno dell’attesa sempre aggiornata di un «ancora di più…», non può essere fondata né dalla teoria intenzionale dell’auto-costituzione, né dalla concezione di un’affettività originaria perpetua.

Perché questa doppia impotenza teorica, di Husserl e di Henry?

Secondo me, questa notevole impotenza risulta proprio dai presupposti radicali del metodo fenomenologico adottato da loro. Al livello di estrema radicalità ove è giunta oggi, grazie alle indagini sistematiche di quei due autori, la problematica fenomenologica dell’essere dell’uomo, sarebbe tempo di esaminare infine, seriamente, la possibilità che l’Io sia un dato irriducibile alle condizioni usuali d’oggettivazione della fenomenalità — cioè, ultimamente da Henry, alle condizioni del sentirsi auto-affettivo. In effetti, l’esistenza d’un nucleo egoico di ricezione potenziale dell’affetto è addirittura una condizione trascendentale di possibilità dell’impressione originaria, e dell’affetto formale del nuovo presente. E se, poi, tutta la temporalità deriva dal fenomeno-sorgente di questa «Urimpression», come meravigliarsi dal fatto che l’Io attraversi il tempo? Il fenomeno della transtemporalità dell’ego — che pare enigmatico nel quadro della fenomenalità riduttiva usuale — significa semplicemente che il suo essere è anteriore alla temporalità stessa — anteriore, dunque, sul modo di un’aprioricità che richiede, per essere pensata, la dissociazione preliminare dell’essere e dell’apparire.

L’Io si rivela allora una trascendenza immanente originaria, che non dovrebbe il suo essere né alla temporalità di qualsiasi apparire, né al sorgere della vita carnale.


  1. M. Henry, Incarnation. Une philosophie de la chair, Seuil, Paris 2000, p. 29 [trad. it., Incarnazione. Una filosofia della carne, Sei, Torino 2001, p. 21]. ↩︎

  2. M. Henry, C’est moi la verité. Pour une philosophie du christianisme, Seuil, Paris 1996, p. 43 [trad. it., Io sono la verità. Per una filosofia del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1997, p. 50]. ↩︎

  3. Ibid. ↩︎

  4. Ivi, p. 75 [trad. it., Io sono la verità. Per una filosofia del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1997, p. 78]. ↩︎

  5. M. Henry, Incarnation, op. cit., § 23, p. 174 [trad. it., Incarnazione. Una filosofia della carne, Sei, Torino 2001, p. 140]. ↩︎

  6. Ibid. ↩︎

  7. Ivi, § 10, pp. 89-90 [trad. it., Incarnazione. Una filosofia della carne, Sei, Torino 2001, p. 70]. ↩︎

  8. Ivi, p. 91 [trad. it., Incarnazione. Una filosofia della carne, Sei, Torino 2001, pp. 71-72]. ↩︎

  9. Ivi, p. 84-85 [trad. it., Incarnazione. Una filosofia della carne, Sei, Torino 2001, p. 67]. ↩︎