Recensione a Mirko Di Bernardo, Che cos’è la vita? Indagini epistemologiche ed implicazioni etiche

Mirko Di Bernardo, Che cos’è la vita? Indagini epistemologiche ed implicazioni etiche, Collana Miniere, Gemma Edizioni, Ceccano 2021, 336 pp.

Ci troviamo oggi nelle condizioni storico-culturali che conferiscono sensatezza all’interrogativo profondo sul senso della vita? Nel secolo dello strapotere scientifico e della iper-razionalizzazione post-positivista c’è forse ancora bisogno di una riflessione filosofica che s’arrovelli su domande apparentemente contradditorie? L’opera di Di Bernardo sostiene non solo la plausibilità di un simile approccio, ma ribadisce con convinzione e coraggio l’esigenza radicale di un ripensamento collettivo del concetto di conoscenza, e dunque di verità scientifica, alla luce di una sempre più evidente irriducibilità del reale ai singoli livelli di descrizione delle varie scienze fisiche. Il fallimento dell’ideale verificazionista ha lasciato dietro di sé un abisso di incertezze e dubbi, dando adito ad una serie di incomprensioni che alimentano tutt’oggi il dibattito pubblico e scientifico. Il grande assente del paradigma positivista, afferma Di Bernardo, è l’uomo, escluso aprioristicamente dall’ordine della natura ed innalzato ad osservatore disinteressato e ininfluente.

Il primo capitolo dell’opera, dedicato proprio al dibattito gnoseologico, restituisce il quadro di una ricerca in atto che muove dalle intuizioni kantiane dell’origine relazionale del significato per passare poi alle re-interpretazioni moderne in chiave epistemologica di Kuhn, Popper, Lakatos, approdando infine alle ipotesi suggestive dell’ultimo Kauffman. La rivoluzione kantiana ci obbliga a «pensare qualcosa in funzione di qualcos’altro […] L’uomo non conosce la regola a priori, ma conosce le sue modalità di darsi, le deduce attraverso l’esperienza del linguaggio» (p. 51); intendere il reale senza passare per il filtro delle categorie di pensiero attraverso cui l’indaghiamo è il sogno di un’umanità emancipata dai limiti e dai vincoli della sua storia, è l’aspirazione di un pensiero che non ha ancora riflettuto sulle sue condizioni di possibilità. Kant ci restituisce tuttavia un’immagine dell’uomo ancora imbevuta di quel presupposto antropocentrico-dualista che associa le leggi della logica a quelle del reale e che intende dunque il trascendentale in termini nomotetici e statici. Ma la logica è essa stessa prodotto contingente di una storicità in atto. La sua comparsa non è la misura dell’origine ma la manifestazione di una creatività semantica che, secondo le intuizioni dell’autore, sarebbe inscritta nelle leggi stesse della natura. Le strutture cognitive co-evolvono con il mondo che le ospita nella misura in cui l’uomo è esso stesso «natura naturante», «forma formans» che persegue un fine interno e adattivo. Compiuto dunque il salto concettuale oltre l’idealismo e il realismo ingenui l’autore pone i presupposti per una filosofia della forma che sia in grado di tenere assieme Parmenide ed Eraclito in un’ontologia del processo. Ecco allora che, calcata l’asimmetria popperiana tra i concetti di vero e falso nelle scienze, Di Bernardo riscopre nella verisimilitudine l’unico strumento epistemologico che, «facendo dell’errore un motore di ricerca» (p. 54), alimenta la possibilità di una conoscenza razionale che tenga conto del rapporto co-evolutivo che l’uomo instaura con il mondo. «La verisimilitudine, che non sarà mai la verità dei neopositivisti, è una similitudine, una somiglianza, un processo infinito di approssimazione che non pretende un esito, ma che consente l’esperienza di un inveramento infinito» (p. 45). Un nuovo realismo, inteso dall’autore come interno o funzionale, si lascia alle spalle l’assunto ingenuo di una realtà noumenica sostanziale (in sé e per sé) per rivolgersi ad una dinamicità originaria che genera ordine sull’orlo del caos. Variazione, selezione, emergenza ed autoorganizzazione divengono dunque i capisaldi di una rinnovata filosofia della natura che, recuperando le intuizioni di Bergson e confrontandosi con la matematica del caos, intende il significato e l’informazione come prodotti di una autoorganizzazione interna alla natura che genera pattern di attività coerenti e funzionali come parte di una temporalità che è durata. L’informazione non è allora la controparte materiale di uno scambio di dati tra sistemi fisici (come voleva Shannon), ma una grandezza relazionale e semantica che non è riducibile all’entropia che produce. L’algoritmo viene sostituito dall’interpretazione di una soggettività intenzionale che proietta le proprie categorie semantiche su un mondo che co-evolve con esso. Ecco che il significato diviene relazione, che il dato prende forma solo se al di là dell’evidenza causale se ne indaga la genesi profonda, se ne ricostruisce archeologicamente la storia interrogandone le modalità di darsi.

Lo sguardo dell’autore a questo punto si sdoppia per ritornare, nel secondo capitolo, alla domanda iniziale: che cos’è, dunque, la vita? Qual è il posto dell’uomo nel mondo? La biologia e le scienze cognitive fanno la loro comparsa in queste pagine come interlocutori privilegiati di una rinnovata filosofia della natura che offre «la piattaforma epistemologica su cui fondare modelli e teorie interpretative dei dati sperimentali» (p. 14). La teoria dell’evoluzione diviene allora il supporto sperimentale e teorico per pensare adeguatamente la naturalizzazione dell’uomo, ma evidentemente ci mette dinanzi ai suoi limiti quando viene posta la domanda cruciale sull’emergenza dell’ordine e dunque della vita. La proposta di Darwin trova il suo inveramento, secondo l’autore, nelle ricerche condotte dagli studiosi della complessità sul concetto di autoorganizzazione ed autopoiesi. In particolare, Kauffman, andando oltre Monod, rifiuta l’idea di un ancoraggio riduzionista sull’idea di caso e rintraccia nell’autocatalisi una spiegazione plausibile per l’origine dell’ordine che osserviamo in natura. Ripercorrendo la storia dell’evoluzione biologica da una parte e della sperimentazione tecnologica dall’altra, Di Bernardo approda ad una definizione del vivente come «unità funzionale capace di compiere almeno un ciclo di lavoro termodinamico» (p. 146) abbinando una chiusura omeostatica ad un’apertura ecologica. Il vivente, come voleva Oyama, è un sistema di sviluppo irriducibile ai singoli livelli di organizzazione, esso è un intero in cui le parti esistono per e in virtù del tutto. Non è pensabile una pre-cedenza ontologico-trascendentale di una componente rispetto all’altra: Dna-Rna-proteine partecipano del medesimo ordine che è unità e auto-organizzazione. Così la vita evolve da quando fece la sua comparsa sulla terra miliardi di anni fa, e la stessa spinta interna, teleonomica, che spinge il batterio a muoversi contro gradiente di glucosio dirige il comportamento delle forme di vita complesse come l’uomo. Il significato è relazione e compare come correlato di una semantica che è dapprima una semantica molecolare. L’autore allora ci accompagna alla scoperta di una filosofia della biologia che sia metabiologia, che a partire dallo studio dei bioi indaghi la vita che li trascende, che sia in grado di riscoprire quell’attività produttrice di forme che solo in parte può essere ridotta alla combinatoria molecolare. Una riduzione che sia apertura alla complessità, strumento metodologico che anticipi un ritorno olistico di ricomposizione critica ed unitaria. Re-inserire l’uomo nella natura significa allora comprendere che l’attività intenzionale attraverso cui apprendiamo il mondo non compare dal nulla come facoltà razionale compiuta, ma rappresenta piuttosto il prodotto di una autoorganizzazione che è dapprima organismica. Pensare è agire, è ordinare, è perseguire un fine, ma quale fine? L’uomo è soggetto di un agency intenzionale che è dapprincipio organizzazione delle proprie componenti in risposta ad una pressione che è sia interna che esterna, produzione costante di novità semantiche all’interno di quei vincoli che sono sia evolutivi che dello sviluppo. Questi svolgono una funzione fondamentale in quanto forniscono le basi teoriche necessarie per formulare un’epistemologia, e dunque un’ontologia, che naturalizzi l’uomo senza ricadere in un bruto relativismo. La continuità con la natura garantisce, allora «un ancoraggio, seppure minimo con il reale e con la possibilità di cogliere porzioni di verità in funzione della nostra capacità di co-evolvere i nostri stessi strumenti o schemi concettuali con cui interroghiamo la natura» (pp. 153-154).

Nel terzo capitolo l’autore, riscoprendo le intuizioni della fenomenologia, mette in evidenza il ruolo che il Corpo, inteso come vitalità in atto, e il linguaggio, come superiore forma di mediazione, svolgono come inter-attori dinamici di una relazione che è costitutiva tra io e mondo. Il Leib costituisce la forma più prossima di mediazione, esso è un «centro di prospettiva», un punto di vista sul mondo ancorato al «qui ed ora» del soggetto esperiente. Esso è la fonte di ogni «io posso» che si traduce in un «io voglio» sulla spinta della intenzionalità agente. Le coordinate corporee rappresentano una ap-partecipazione originaria dell’individuo a se stesso, esse divengono per così dire l’estensione di una cognizione che si estrinseca come relazione tra i vari livelli di organizzazione interna. La cognizione è allora motricità ed enazione, intenzionalità incarnata in uno schema corporeo capace di dar-si dei fini sulla base degli input ambientali. «Schema corporeo, intenzionalità e Leib rappresentano la triade concettuale di base» (p. 161) su cui fondare una fenomenologia del vivente che sia una metabiologia e dunque una filosofia. Nessun vivente esiste a prescindere dell’ambiente in cui si trova a vivere, esso esiste e sussiste proprio perché intrattiene uno scambio di materia, energia ed informazione con l’esterno. La fenomenologia del vivente è già di per sé una fenomenologia dell’intersoggettività, uno sguardo aperto all’alterità intesa come momento costitutivo, assieme significante e significato.

La scoperta dei neuroni specchio fornisce all’autore il sostegno sperimentale necessario per passare da una fenomenologia dell’intersoggettività ad una biologia dell’intersoggettività. Le scoperte rivoluzionarie condotte dal gruppo di ricercatori di Parma giustificano la possibilità di pensare una rete di relazioni ed esperienze situate ad un livello totalmente pre-linguistico e pre-riflessivo e che tuttavia sarebbero piene di significato. La relazione inter-soggettiva è da intendersi dunque come una relazione costitutiva e costituente l’io e la sua individualità, essa si rivela come la modalità di essere di un’intenzionalità originaria da cui ragione ed intelletto fioriscono solo come tappe successive. Il soggetto autocosciente, razionale, capace di pensiero simbolico si ri-scopre come il precipitato ontologico di una inter-azione che attualizza un nuovo livello di realtà a partire da quello che era un fascio celato di capacità. Non v’è nulla di necessario nelle sublimi capacità razionali dell’uomo, esso è il prodotto di una compenetrazione di leggi profonde che spingono la materia a prendere forma e ad evolvere sulla spinta dell’interazione e dello scambio.

L’esperienza del Noi è per così dire intrinseca non tanto all’uomo, quanto alla vita stessa, e perciò chiede di venire salvaguardata. L’autore giunge allora all’apice della sua riflessione filosofica e nell’ultimo capitolo traccia le conclusioni di un percorso intellettuale arduo e faticoso. Le ultime pagine condensano lo sforzo titanico di una ragione che, uscendo da se stessa, cerca di afferrare il tutto senza dimenticare la sua origine umana e terrena. Il testo ci ha finora restituito l’immagine di un mondo in cui l’uomo si trova ad abitare come creatura tra le creature, soggetto alle medesime leggi, al divenire sovrano che non conosce fermate o ripensamenti. Eppure, l’uomo non è solo natura: esso è anche trascendenza, superamento e inveramento della natura in una seconda natura. Con l’avvento del linguaggio e del pensiero simbolico l’uomo si libera dai vincoli della pressione presente e apre le porte della coscienza alla diacronicità del passato e del futuro. Esso diviene pensiero di pensiero, riflessività, auto-consapevolezza e dunque libertà. Tuttavia, la libertà dell’uomo non è, come ribadisce con forza Di Bernardo, quella libertà di tanto paventata dai fautori di un ingenuo trans-umanesimo, ma una libertà da quei vincoli che incatenano gli altri animali all’immanenza del presente. La teleonomia diviene nell’uomo non solo genesi interna di fini, ma istituzione duratura e significativa di nuovi valori e leggi. La cultura non abita per così dire l’altro mondo delle idee, ma si aggiunge alla prima natura come inveramento; realizza quelle capacità contenute nell’apparato biologico-chimico e si inscrive, durante lo sviluppo, nella corporeità materiale. Ma allora come immaginare questo inveramento?

La grande tentazione suggerisce di intendere tale creazione di valori come fine in sé stessa, assolutamente trascendente rispetto ai piani che la generano e dunque al di là di qualsiasi vincolo o limite biologico. Essa paventa la fine di ogni etica come deontologia e l’esclusione dell’uomo dall’ordine della natura. La cultura come al di là, come frattura insanabile. Ma quale futuro attende un uomo siffatto? L’etica del superuomo è, per l’autore, assenza, vuoto, distruzione, impoverimento. Confrontandosi con gli studi di Jonas e di Ricoeur egli approda, in definitiva, ad una concezione etica che, facendo della storia il luogo della ricerca, intende l’atto di estromissione e superamento, compiuti all’interno di una cornice razionale auto-consapevole, come tappe di un’attività che è multidimensionale e prospettica. Ripensare una fenomenologia del vivente che sia un’ermeneutica significa fare del biologico un meta-livello e, adottando un approccio che sia evolutivo, multidimensionale e autopoietico, volgere gli occhi della mente a «questa struttura che è qualcosa e non un niente, ovvero un principio di logos naturale e sensibile che può essere ritrovato fenomenicamente solo in superficie» (p. 215). Allora non s’afferma più ingenuamente che la natura possegga già in sé, a prescindere dall’uomo, dei valori: questi compaiono come correlato di un pensiero simbolico eidetico e ideante che, uscendo dalla prima natura dell’immanenza, vi fa ritorno come mosso dal più profondo senso d’appartenenza. Ecco allora che il sentire morale kantiano si ricongiunge all’emotivo legame con l’Altro e risveglia quel sentimento di responsabilità che è la risposta ad una fragilità che chiede di essere salvaguardata. Che vi sia un mondo, che vi sia una natura, che vi sia un uomo, ecco il nuovo imperativo morale che, a partire dal livello biologico e ascendendo fino alla seconda natura dell’uomo, riconosce nella possibilità di una libertà il valore sommo. «Nella capacità di avere scopi in generale possiamo scorgere un bene-in-sé, la cui infinita superiorità rispetto a ogni assenza di scopo dell’essere è intuitivamente certa» (p. 220). Ecco allora che l’uomo riscopre il profondo legame che lo ricongiunge alla Natura come alla sua casa, il luogo del suo inveramento e della sua sopravvivenza. Non può darsi una cultura che non sia, dapprima e al tempo stesso, natura; non v’è un uomo senza di essa, non v’è vita senza relazione, co-costruzione, eteropoiesi. Pensare la multidimensionalità di questo processo interno di morfogenesi in atto è la sfida del nostro tempo che questo libro abbraccia con coraggio e forza, che apre una strada, che traccia un percorso.