1. C’è un significato fisico nelle proposizioni euclidee?
Nei banchi di scuola abbiamo appreso che le proposizioni euclidee sono vere. La nostra apprensione sulla verità delle proposizioni euclidee è risultata da sempre essere immediata. Il che significa che non era possibile attenersi all’esperienza in materia di rette e punti. L’esperienza non forniva, al pari di proposizioni quali possono essere «Luca ha trent’anni» o «Luca ha tre figli», mediazione alcuna. Come non era possibile trovare ai tempi nella proposizione euclidea lo specchio fedele della realtà, non è possibile adesso trovare nella proposizione euclidea un unico, atomico frammento di realtà. Ma è proprio vero? Non è che forse tutti si sono dimenticati, o forse meglio, hanno semplicemente ignorato il fondamento fisico della geometria euclidea?
La geometria euclidea parte da un assioma — da ciò che è autoevidente e indimostrabile — e da lì trae tutte quelle proposizioni che con l’assioma, per essere vere, dovranno essere in linea. Come in un sillogismo, dove, dalle premesse «Tutti gli uomini sono mortali» e «Socrate è uomo», traiamo le conclusioni «Socrate è mortale», così succede per la geometria euclidea. La verità è che il sillogismo, al pari del costrutto geometrico euclideo, non ha presa sulla realtà, avremmo potuto benissimo usare le premesse «Tutte le bugie hanno le gambe corte» — il che non significa alcunché -, aggiungere «Paolo ha le gambe corte», per ottenere «Paolo è una bugia». Siamo nel teatro dell’assurdo, eppure quest’assurdo è logico, e si potrebbe continuare all’infinito.
Sarà vero che per due punti passa soltanto un’unica retta? Einstein ci dice:
Non possiamo chiedere se sia vero che per due punti passa soltanto un’unica retta. Possiamo solamente dire che la geometria euclidea tratta di oggetti da essa chiamati «rette», attribuendo a ciascuna di queste rette la proprietà di essere univocamente determinata da due suoi punti. Il concetto di «vero» non si addice alle asserzioni della geometria pura, perché con la parola «vero» noi abbiamo in definitiva l’abitudine di designare sempre la corrispondenza con un oggetto «reale»; la geometria, invece, non si occupa della relazione fra i concetti da essa presi in esame e gli oggetti dell’esperienza, ma soltanto dalla connessione logica di tali concetti l’uno con l’altro.1
Allora come possiamo dire che la geometria euclidea sia vera? Einstein ribalta la situazione sostenendo che:
Ai concetti geometrici corrispondono più o meno esattamente degli oggetti in natura, e questi ultimi costituiscono senza dubbio la causa esclusiva della genesi di quei concetti. La geometria può prescindere da ciò, al fine di dare al proprio edificio la maggiore unità logica possibile; ma la consuetudine, ad esempio, di vedere in un «intervallo» due posizioni segnate sopra un corpo praticamente rigido, è qualcosa di profondamente radicato nel nostro modo di pensare. Siamo inoltre abituati a considerare tre punti come situati su una retta, se, osservandoli con un solo occhio, possiamo far coincidere le loro posizioni apparenti, previa un’adeguata scelta del nostro posto di osservazione. Se, proseguendo nel modo abituale di pensare, noi aggiungiamo ora alle proposizioni della geometria euclidea l’unica proposizione che a due punti su un corpo praticamente rigido corrisponde sempre la stessa distanza (intervallo), indipendentemente dai mutamenti di posizione che possiamo imprimere al corpo, allora dalle proposizioni della geometria euclidea traggono origine proposizioni sulla posizione relativa possibile di corpi praticamente rigidi.2
Euclide non ha intuito che per due punti passa una sola retta, Euclide ha agito prima da fisico, osservando che tra due punti A e B su un corpo rigido, passa una retta. Noi, in realtà, quella retta che congiunge i punti A e B non la vediamo, ma, non possiamo fare a meno di pensarla, come, parimenti, non possiamo fare a meno di pensare che spostando l’oggetto rigido su cui i due punti A e B stanno, la retta che congiunge i due punti, solo pensata, rimarrà la stessa. È il principio sul quale si basa l’utilizzo del regolo, il regolo non è altro che un intervallo AB, intervallo AB che pur spostandosi nello spazio e nel tempo rimane invariato.
2. Linea retta o arco di parabola?
Il fine della meccanica classica è quello di descrivere il movimento di un corpo in un dato tempo t o intervallo di tempo t1-t2 e in un dato spazio s. Aristotele aveva un concetto di movimento assoluto. Con la nascita della fisica, prima, galileiana, e dopo, newtoniana il movimento diventa relativo al sistema di riferimento. Se osservo cadere una pietra da un vagone in corsa sulla banchina, vedrò discendere la pietra in linea retta, un osservatore esterno, che guarda non dall’interno del treno in corsa (moto rettilineo uniforme) ma dal punto di riferimento della banchina, vedrà la pietra muoversi descrivendo un arco di parabola:
La pietra percorre una linea retta relativamente a un sistema di coordinate rigidamente collegato al vagone; essa descrive però una parabola relativamente a un sistema di coordinate rigidamente collegato al terreno (banchina). Da quest’esempio si vede chiaramente che non esiste una traiettoria in sé, ma soltanto una traiettoria relativa ad un particolare corpo di riferimento.3
Ora, se tutto in fisica sembra andare bene, in filosofia nascono i primi problemi. La fisica ci presenta i due sistemi di coordinate, vagone e banchina, come due sistemi solidi, chiusi e indipendenti, la filosofia li vede sfumare l’uno nell’altro e, volendo cogliere il tutto delle cose, non ammette punti vuoti. Per la fisica i due sistemi sono giustapposti, per la filosofia sfumano e si confondono. La domanda è: c’è un punto nell’esperienza dei due sistemi che fa da nesso o dobbiamo avere fede nel salto? Perché di salto per la fisica si tratta. Se noi ammettessimo un terzo osservatore in movimento, un osservatore agitato, che in continuazione passa — ovviamente è un esempio paradossale — dal treno in corsa uniformemente rettilineo alla banchina, troveremmo «tra» i due sistemi una continuità oppure una rottura? Nel momento di passaggio dal vagone alla banchina il moto della pietra descriverà una linea retta oppure un arco di parabola? Dovremmo rispondere, se fossimo coerentemente logici, che non descrive né una linea retta, né un arco di parabola. Se descrivesse una linea retta saremmo fermi al sistema vagone, se descrivesse un arco di parabola saremmo fermi al sistema banchina. Se però, come vuole Bergson, non bisogna ammettere punti vuoti, bisogna andare oltre. O ammettiamo tra i due sistemi, vagone e banchina un nulla vuoto, come se l’universo con i tre osservatori, il treno, il vagone e la banchina scomparisse o il venir meno, non meno assurdo, del principio di non contraddizione, per cui l’osservatore si troverebbe in un mondo di mezzo dove la linea retta descritta dalla pietra è allo stesso tempo un arco di parabola. Queste sono le nostre due uniche possibilità, se propendessimo per la prima, non ci sarebbe soluzione di continuità, ma una brusca intermittenza che soffocherebbe ogni esperienza e ci trascinerebbe direttamente, come per salto, nel sistema banchina, se propendessimo per la seconda, ci troveremmo nell’esperienza assurda di una soluzione di continuità che non può ammettere la sola linea retta, altrimenti ci troveremmo ancora nel sistema vagone, né il solo arco di parabola, altrimenti ci troveremmo nel sistema banchina, ma deve ammettere che ciò che il terzo osservatore vede è una linea retta che è anche un arco di parabola. La relatività ci porta nell’assurdità di un mondo fantastico.
3. La fallacia della simultaneità?
Può un fulmine cadere nel medesimo istante in due punti distanti A e B? A prima vista non c’è niente di più ovvio della simultaneità. Riflettendoci meglio però le cose non sembrano essere così a posto. Poniamo, riprendendo l’esempio che fa Einstein,4 un intervallo di due punti A e B su di una rotaia. Un osservatore sta nel punto di mezzo (M) della banchina ed, effettivamente percepisce i due bagliori del fulmine nel medesimo istante. L’esperienza ci dice che i due bagliori sono simultanei. Possiamo, per rigore scientifico, meglio dire, che la luce viaggia lungo l’intervallo A-M con la stessa velocità con cui viaggia lungo l’intervallo B-M. Ma questo come al solito vale per il riferimento inerziale dell’osservatore che sta in M, alla metà esatta della rotaia, e se l’osservatore fosse in un sistema diverso? Se l’osservatore facesse parte del treno in movimento, come starebbero le cose?
I due punti distanti dove i colpi di fulmine cadono permangono gli stessi, chi si sposta è l’osservatore. L’osservatore sarà al centro del treno in una posizione M1 che coincide con la vecchia posizione inerziale di prima M. I colpi di fulmine cadono, il punto M1 coincide per un attimo con la posizione della banchina M, nel frattempo però esso, ossia il punto M1 si sposta verso destra con la velocità v del treno. L’osservatore, quindi, nel momento in cui i bagliori si presentano si sposta verso il raggio di luce che proviene da B, lasciandosi alle spalle il raggio di luce che proviene da A, proprio per questo motivo l’osservatore vedrà prima il bagliore che proviene da B e leggermente dopo quello proveniente da A, perché va incontro a B, è in movimento verso B. Se prima dell’avvento della relatività si era pensato che il tempo avesse un valore assoluto, indipendentemente dal movimento, ora Einstein sostiene che la stessa simultaneità è relativa, relativa sempre al proprio corpo di riferimento: quello che era valido, ossia simultaneo per M, non è più valido, ossia non è più simultaneo per M1.
Proviamo a fare uso della potenza euclidea, facciamo cioè uso del sillogismo: se p allora q, p allora q, se piove prendo l’ombrello, piove, quindi prendo l’ombrello. Se Dio è, è un tutto di possibilità, Dio è, quindi è un tutto di possibilità. Se sul piano ontologico il mondo dopo la relatività non mantiene alcuna identità con se stesso, ma è allo stesso tempo l’Uno e il suo Contrario, Bene e Male, non contrapposti, ma entrambi per lo stesso, sul piano ideale si mantiene in coerenza logica, tanto da ricordare la sostanza spinoziana. Infatti quale Dio o mondo o sostanza per essere tale dovrebbe abbracciare la possibilità e il suo contrario? In effetti Einstein, se da fisico fa cadere la simultaneità assoluta, da filosofo la mantiene come relativa assolutizzandola nuovamente, il passaggio è doppio: da assoluta diventa relativa, da relativa, proprio in quanto relativa diventa assoluta. E ciò non dal punto di vista di un osservatore Einstein che prende parte al mondo, ma dallo stesso punto di vista del mondo o sostanza o Dio.
Facciamo un esempio per rendere più chiaro quello che sembra essere un discorso assurdo, ma in realtà è solo mostruoso. Chiamiamo in causa Hegel. E questa volta, per semplificare, non nei termini di soggetto e oggetto, A e B, ma nei termini di sì e no. Il sì nell’oggettivarsi è no. Il no è un no relativo al sì? Una riflessione superficiale darebbe assenso, una riflessione profonda arriverebbe a una logica dell’assurdo, ma tutta quanta coerente, internamente coerente. Se il no fosse relativo si originerebbe un no relativo al sì e avremmo quindi un insieme contro un’unità. Il SÌ-NO diverrebbe un SÌ — (NO-SÌ). Proprio per questo se si vuole essere logici fino all’assurdo dobbiamo ammettere che il no per essere relativo al sì, deve essere un no naturale, ossia assoluto. E cosa c’entra Einstein con tutto questo? Einstein da buon fisico, il genio della fisica, ha relativizzato il concetto di simultaneità facendoci, in un primo momento, comprendere che è solo un concetto, e in quanto tale relativo al sistema di riferimento, ma nel fare questo, se sul piano ontologico ha spazzato via la simultaneità in quanto assoluta, relativizzandola, sul piano ideale, l’ha ribadita come assoluta attraverso quel no tanto caro a Hegel che negava il sì e lo faceva essere tale. Attenzione!!! Einstein non ci dice che non si dà simultaneità, ci dice, altresì, che si dà simultaneità relativa. Ma dal punto di vista della sostanza, e qui chiamiamo in causa Spinoza, ciò che è relativo è assoluto. Spiegandoci meglio: se omnideterminatio est negatio, la possibilità della simultaneità per spingersi fino in fondo e quindi ottenersi come un tutto di possibilità (la sostanza o Dio è unica e in ogni dove) deve ammettere anche la possibilità del proprio suicidio: non esiste Dio potente che non si neghi; solo così la sostanza non ha limiti, ma nonostante tutto è finita.
Einstein se si mantiene a un livello fisico come genio, a un livello metafisico si dimostra mostruoso, facendo del relativo l’assoluto, cogliendo la tragedia massima di una vita in colpi di fulmine che se vogliono dirsi assoluti devono abbracciare la propria relatività.
4. La transcronotopia
Detta in maniera differente l’omogeneità di spazio e di tempo. Se non si presupponesse l’omogeneità di spazio e di tempo ad ogni esperimento, la scienza moderna, ossia la scienza galileiana-newtoniana non sarebbe possibile. Va salvaguardata la simmetria nella traslazione spazio-temporale. Se l’esperimento, a patto di avere gli stessi oggetti e le medesime condizioni, lo faccio là anziché qui, i risultati rimarranno invariati. Ciò è lo stesso per la ripetibilità dell’esperimento. Se lo ripeto domani, mantenendo gli oggetti e le condizioni, o addirittura tra un anno o cento anni, l’esperimento darà i medesimi risultati. La transcronotopia, ossia la simmetricità nella traslazione spazio-temporale è a fondamento della scienza moderna. Dimentichiamo tutto e torniamo ad Einstein.
5. Ma lo spazio esiste?
Ciò che condusse Descartes alla sua ipotesi notevolmente attraente fu certo la sensazione che, senza una necessità assoluta, non si dovrebbe attribuire realtà ad un oggetto come lo spazio, che non è suscettibile di essere «direttamente sperimentato». L’origine psicologica del concetto di spazio, o della necessità di esso, è lungi dall’essere così ovvia come potrebbe apparire in base al nostro abituale modo di pensare. Gli antichi geometri trattano di oggetti mentali (retta, punto, superficie), ma non propriamente dello spazio in quanto tale, come più tardi è stato fatto dalla geometria analitica. Il concetto di spazio, tuttavia, è suggerito da certe esperienze primitive. Supponiamo che si sia costruita una scatola. Vi si possono disporre in un certo ordine degli oggetti, in modo che essa risulti piena. La possibilità di queste disposizioni è una proprietà dell’oggetto materiale «scatola», qualcosa che è dato con la scatola, lo «spazio racchiuso» dalla scatola. Questo è qualcosa di differente per le varie scatole, qualcosa che in modo del tutto naturale viene pensato come indipendente dal fatto che vi siano o no, in generale, degli oggetti nella scatola, Quando non vi sono oggetti nella scatola, il suo spazio appare «vuoto». Fin qui, il nostro concetto di spazio è stato associato alla scatola. Ci si accorge però che le possibilità di disposizione che formano lo spazio-scatola sono indipendenti dallo spessore delle pareti della scatola. Non sarebbe possibile ridurre a zero tale spessore, senza che si abbia per risultato la perdita dello «spazio»? La naturalezza di tale passaggio al limite è ovvia, e ora rimane al nostro pensiero lo spazio senza scatola, una cosa autonoma, che tuttavia appare così irreale se dimentichiamo l’origine di tale concetto. Si può capire che ripugnasse a Descartes il considerare lo spazio come indipendente da oggetti corporei, capace di esistere senza materia.5
Lo stesso spazio che ripugnava Descartes ripugna Einstein, e Einstein va avanti con il suo esperimento mentale. Se si parla di spazio, si parla di spazio infinito, e per Einstein non fa problema utilizzare ancora scatole per aumentare lo spazio:
Quando una scatola più piccola s è situata, in quiete relativa, dentro lo spazio cavo di una scatola più grande S, allora lo spazio cavo di s è una parte dello spazio di S, e lo stesso «spazio» che le contiene entrambe appartiene a ciascuna delle due. Quando invece s è in moto rispetto a S, il concetto risulta meno semplice. In tal caso si è inclini a pensare che s racchiuda sempre lo stesso spazio, che è però una parte variabile dello spazio S. Diviene allora necessario far corrispondere a ciascuna scatola il suo particolare spazio, non pensato come limitato, e supporre che questi due spazi siano in moto l’uno rispetto all’altro. Prima che ci si renda conto di questa complicazione, lo spazio appare come un mezzo limitato, o recipiente, nel quale nuotano gli oggetti materiali. Ora invece occorre tener presente che esiste un numero infinito di spazi, i quali sono in moto gli uni rispetto agli altri. Il concetto di spazio come qualcosa che esiste oggettivamente ed è indipendente dalle cose appartiene già al pensiero prescientifico, non così però l’idea dell’esistenza di un numero infinito di spazi in moto gli uni rispetto agli altri. Quest’ultima idea è senza dubbio inevitabile da un punto di vista logico, ma per lungo tempo non svolge una parte importante nemmeno nel pensiero scientifico.6
La scatola s all’interno della scatola S si muove, ma si muove anche S rispetto a s. Essendo in continuo movimento, le due scatole, vanno via via creando una moltitudine di spazi. Il movimento sembra essere il luogo fondativo dello spazio, ma Einstein non vuole suggerirci questo, vuole suggerirci che uno spazio oggettivo non esiste, ma è una semplice illuminazione dell’intelletto. E ciò, anche perché, se lo spazio fosse un oggetto tra gli oggetti e si muovesse esso stesso alla velocità di 300000 m/s, magari riempito con qualche pupazzetto rosa, accorcerebbe le proprie dimensioni, e a quel punto, dato che non sarebbero gli oggetti a muoversi a 300000 m/s, ma lo spazio che li contiene, si arriverebbe ad ammettere uno spazio troppo piccolo per gli oggetti che contiene, e quale fine farebbero i pupazzetti rosa? Metà nel nulla e metà nello spazio?
6. Ma il tempo esiste?
C’è una casa che abito durante il fine settimana. Il resto della settimana si chiude su se stessa, e non me ne interesso. Mi chiedo molte volte che cosa ne resti del tempo della casa. Il tempo della casa, è questa la mia ossessione. Si dilata, si restringe, è immobile, è inesistente. Che fine fa il tempo della casa? Lascio la casa che abito durante il fine settimana alle 18, e la ritrovo qualche giorno dopo alle 20 di sera, in realtà sono passati giorni, l’orologio però mi attesta che sono passate soltanto due ore. Esco dal sistema casa ed entro nel sistema universitario; nel sistema universitario il tempo scorre costantemente: mi alzo alle 7, 00, sono in università alle 8. In biblioteca controllo di tanto in tanto l’orologio, ora sono le 9, ora le 10, percepisco visivamente le lancette dell’orologio muoversi, ma c’è anche qualcosa di diverso. Ora, io passo da un sistema di riferimento all’altro, un sistema in cui il tempo si muove costantemente (sistema universitario), un sistema in cui del tempo vengono mantenuti solo gli estremi dell’intervallo, un intervallo 18-20 (sistema casa). Ora è vero che nel sistema universitario i giorni scorrono, quindi per forza di cose, i giorni dovranno scorrere anche nel sistema casa, il problema è che il sistema universitario e il sistema casa possono essere soltanto giustapposti, senza soluzione di continuità; è ipotizzabile che nel sistema casa i giorni siano passati e che quindi la lancetta dell’orologio del sistema casa abbia fatto più giri completi, ma resta il fatto che è niente più di un’ipotesi. L’osservatore che gran parte del tempo vive il sistema universitario, non vive allo stesso tempo il sistema casa, sa soltanto che lascia il sistema casa alle 18 di sera, per poi ritrovarlo alle 20 di qualche giorno dopo. Cosa ci fa dire che il sistema casa abbia avuto una vita di parecchi giorni e non sia semplicemente scomparso? È ovvio, ce lo dice il sistema universitario, ma il sistema universitario può rispondere solo di se stesso, non si confonde con il sistema casa; i due sistemi sono ognuno per sé. Potrei in virtù di questo ragionamento fare la domanda contraria: Cosa ci fa dire che il sistema casa non abbia avuto un intervallo di due ore, del quale solo gli estremi dell’intervallo conosciamo, non conoscendo l’intervallo? Può darsi benissimo, che per come ragiona la scienza, nel vivere giorni e giorni del sistema universitario, il sistema casa abbia vissuto soltanto per due ore, e, per il resto del tempo sia scomparso. Non posso, in questo caso, fare ipotesi che eccedano l’intervallo di due ore del sistema casa. Non c’è infatti, dal di dentro, qualcuno che mi dica che nel sistema casa le lancette dell’orologio fanno più giri completi, e che in realtà non siano passate solo due ore. Se così fosse, non avrei problemi ad ammettere l’oggettività del tempo, l’oggettività di un tempo che scorre per il sistema universitario così come per il sistema casa. A questo punto potrei comodamente rifarmi alla simultaneità di due orologi, in due sistemi diversi, che si muovono all’unisono; ma può darsi simultaneità di due orologi in due sistemi diversi? Come abbiamo già visto, la simultaneità è relativa, e là, dove due sistemi (sistema universitario e sistema casa) sono divisi da un osservatore, la simultaneità non potrebbe nemmeno essere ipotizzata, perché non potremmo osservare, non trovandoci nei due sistemi contemporaneamente, l’andamento delle lancette dei due orologi.
Introduciamo un ulteriore fattore, poniamo l’osservazione di uno stesso esperimento7 sia nel sistema universitario, sia nel sistema casa: a parità di risultati, che potremmo ipotizzare siano gli stessi, non risulta una parità di condizioni, e quindi bisognerebbe fare come il tacchino induttivista, avere fede cioè nell’induzione, e quindi essere indotti dai risultati dell’esperimento ad ammettere che, sì, il tempo scorso del sistema universitario era lo stesso del tempo scorso del sistema casa, incorreremmo però in una banale supposizione teorica data da un qualcosa (esperienza dei risultati) che può solo indurci a pensare le condizioni (tempo oggettivo, sia per il sistema universitario, sia per il sistema casa). La verità è che mentre l’esperimento del sistema universitario è durato un qualche giorno, lo stesso esperimento del sistema casa non è durato nemmeno l’intervallo di due ore, ma è durato come gli estremi di questo intervallo, dell’intervallo cioè 18-20. Gli estremi di ogni intervallo sono però inquantificabili, di fatto lo scienziato, ossia l’osservatore ci dice che l’intervallo è ciò che si prende ad esame, sul foglio di carta, però, continuano ad esserci scritti i due estremi 18-20. Noi sappiamo che alle ore 18 l’oggetto si è comportato così, mentre alle ore 20 si è comportato così, e ciò che accade nel mezzo? Che fine fa?
L’intervallo viene assunto come il confluire, il convergere delle due opposte osservazioni che otteniamo per il tempo t1=18 e il tempo t2=20. Il problema è che l’intervallo non è né t1=18, né t2=20, né la compresenza dei due, né la sintesi, e ciò perché:
1) Se fosse t1=18 significherebbe che non ci saremmo spostati dall’estremo sinistro dell’intervallo (t1=18). Se fosse t2=20 significherebbe che avremmo saltato l’intervallo per ritrovarci nell’estremo destro dell’intervallo, cioè per ritrovarci in t2=20.
2) Se ci fosse la compresenza dei due (t1, t2) verrebbe meno il principio di non contraddizione e, ci ritroveremmo con t1=18 che è anche t2=20 e t2=20 che è anche t1=18. Il confine con una supposta sintesi non è netto, ma labile, non possiamo però parlare di sintesi. I due numeri, infatti, non sarebbero relazionati tra di loro, come vorrebbe la sintesi 18=20, ma sarebbero relazionati «ognuno-per-sé-con l’altro», dove all’estremo sinistro troveremmo l’insieme (18-20) e all’estremo destro l’insieme (20-18); infatti ripetendo con parole del linguaggio ordinario: dove c’è 18 c’è anche 20 e quindi l’insieme (18-20), dove c’è 20 c’è anche 18 e quindi l’insieme (20-18); otterremo non una sintesi=equivalenza, ma una relazionalità della compresenza che si traduce nei termini (t1=18-20) - (t2=20-18). Ciò sta a significare che i termini stanno ognuno-per-sé-con-l’altro. Ma il problema è che ciò darebbe luogo ad una progressione all’infinito dove per ogni 18 ci sarebbe un 20 e per ogni 20 un 18. Ammettendo, cioè, la relazionalità della compresenza, ammetto l’infinito ripetersi dei numeri 18-20, ossia, se per t1=18 avrò t1= 20 e quindi l’insieme (18-20) dovrei di nuovo ammettere per il numero 18 dell’insieme (18-20) un altro 20, ritrovandomi con (18=18-20) - (20=20-18) che all’infinito prosegue con [18=18-20= (18-20) - (20-18)] - [20= 20-18= (20-18) - (18-20)] e non ha mai termine, potremmo aggiungere una graffa alle parentesi quadra e tonda, ma dovremmo aggiungere nuove parentesi via via all’infinito. Il formalismo matematico non ci basterebbe più, arriveremmo al paradosso di non avere più forme matematiche che possano contenere il ripetersi infinito dei numeri 18-20.
3) Se ci fosse la sintesi dei due, avremmo (t1=18=t2=20), ci troveremmo tra le mani l’assoluto hegeliano A=B che si traduce nell’assoluto numerico 18=20 o se si preferisce t1=t2. Ma la sintesi elimina la contraddizione o deve essere la contraddizione per non eliminarsi? Deve essere la contraddizione per non eliminarsi. Ciò che è mantenuto di 18, ossia 20, è allo stesso tempo superato in direzione del 18, ciò che è mantenuto di 20, ossia 18, è superato in direzione del 20. Detto in altri termini: Ciò che è mantenuto del soggetto, ossia l’oggetto, è allo stesso tempo superato in direzione del soggetto. Ciò che è mantenuto dell’oggetto, ossia il soggetto, è allo stesso tempo superato in direzione dell’oggetto.
La famosa barzelletta di Hegel che entra in una gelateria e prende un gelato alla stracciatella riassume in pieno il concetto di Assoluto A=B che è l’assoluto stesso. Il problema è che in scienza siamo alle prese con due grandezze t1=18 e t2=20 che costituiscono un intervallo che, al limite di 18, ovvero al 19 ha il suo inizio e, al limite di 20, ovvero al 19 ha la sua fine. L’intervallo si situa tra 18 e 20 ed è 19, e nell’essere 19 comprende sia l’inizio dell’intervallo, sia la fine: l’intervallo è di grandezza 1. Sembrerebbe esserci un’equivalenza con Hegel, allora. Il fatto è che lontano dall’essere un’equivalenza con il pensato di Hegel, l’intervallo di grandezza 1, è semplicemente una grandezza che ha come inizio se stessa e come fine se stessa, coincide con se stessa. E non a differenza di Hegel: coincide con se stessa coincidendo con altro. Quindi non può esservi sintesi perché siamo giunti a dimostrare che l’intervallo di grandezza t3=1 è identico a se stesso A=A e non A=B.
Se l’intervallo non è né t1=18, né t2=20, né la compresenza dei due, né la sintesi, ci resta da chiederci: Cosa è l’intervallo che sta nel mezzo? O meglio, cosa è l’intervallo che è il mezzo?8
Se scartiamo le tre precedenti ipotesi, scartiamo di fatto che l’intervallo sia della stessa sostanza degli estremi. Gli estremi non sono l’intervallo, questo non è una sintesi tra i due. Siamo però arrivati alla conclusione che l’intervallo è del rango A=A; è soggiacente cioè al principio di non contraddizione. Ma è anche vero che un cavallo volante come Pegaso è soggiacente al principio di non contraddizione. Quindi potrebbe benissimo darsi che tra t1=18 e t2=20 ci sia, perché scelto o costruito arbitrariamente dall’immaginazione, Pegaso, il cavallo alato. Ora però se vogliamo essere onestamente intellettuali, non possiamo ammettere un qualcosa del genere e arrivati a questo punto dobbiamo chiamare in causa Wittgenstein per poi lasciarlo andare e fare i conti con Frege.
Wittgenstein sostiene che il linguaggio è la «rappresentazione logica della realtà». Ora, Pegaso, nella realtà non esiste, o almeno possiamo ipotizzarlo per induzione: non abbiamo mai visto Pegaso girare a spasso per il centro. Se non esiste, la proposizione «Pegaso, il cavallo alato, è l’intervallo tra t1=18 e t2=20» è un non-sense, non privo di umorismo, non-sense al quale però ci ha portato il ragionamento. La proposizione, non è semplicemente falsa, sarebbe erroneo dire che questa proposizione è falsa, e qui entra in ballo Frege. Per avere valore di verità (per essere cioè vera o falsa), la proposizione metascientifica «Pegaso, il cavallo alato, è l’intervallo tra t1=18 e t2=20», dovrebbe presupporre l’esistenza di Pegaso, il cavallo alato, almeno in uno stato possibile di cose, per poter successivamente dire che nello stato effettivo di cose, Pegaso, il cavallo alato non è presente; ma, per induzione, è ipotizzabile che Pegaso, il cavallo alato non faccia parte nemmeno del mondo delle possibilità,9 quindi ascoltando Frege, la proposizione non ha valore di verità e non ce l’ha nemmeno il suo contrario — Pegaso, il cavallo alato non esiste — perché soggiace alla stessa legge logico-linguistica. Quindi siamo giunti ad ammettere, sempre seguendo il filo del ragionamento che ci ha portato fin qua, che l’intervallo tra t1=18 e t2= 20 è un non-sense. Ma con ciò cadrebbe la scienza e con ciò la nostra ragione non è ancora soddisfatta.
Bisogna quindi semplicemente abbonarsi al buon senso e, anche se Wittgenstein lo negherebbe (Frege non lo so), ammettere che al centro dei due estremi (t1=18, t2=20) può esservi solo il divenire e non un oggetto di questo,10 il divenire e basta.
7. Universo finito e «non limitato»
In primo luogo, immaginiamo un’esistenza in uno spazio a due dimensioni. Esseri piatti dotati di strumenti piatti, e in particolare di regoli-campione rigidi e piatti, si possono muovere liberamente in un piano. Per essi non esiste nulla al difuori di questo piano, ma quanto avviene su di esso, osservato su di loro stessi e sui loro piatti «oggetti», è causalmente conchiuso.11
Cosa vuole dirci Einstein quando afferma il causalmente conchiuso di ogni azione che avviene sul piano? Se si è piatti, innanzitutto possiamo dire, che si coincide con il piano: ogni essere che su questo piano agisce, non è semplicemente coincidente con il piano, ma è il piano stesso. Infatti, ogni coincidenza di una cosa con un’altra cosa, presuppone l’eccedenza, l’eccedenza di questa cosa con quest’altra cosa alla quale è coincidente. Se questi esseri piatti, bidimensionali, fossero soltanto coincidenti con il piano, comunque lo eccederebbero. Sosterebbero o si muoverebbero su questa superficie, non essendo un tutt’uno, ma coincidendoci. L’equivalenza A=B porta questo eccesso, nell’uguaglianza, all’esterno. A non è B, tant’è che A sta a sinistra di B, eppure questa equivalenza ci dice che A e B coincidono; A però continua ad essere A e B continua ad essere alla destra dell’equivalenza, ovvero continua ad essere se stesso. L’equivalenza mostra uno scarto, uno scarto che c’è tra A e B, questo scarto è assimilabile ad una discrepanza, se intendiamo con discrepanza la differenza che abbiamo tra due del medesimo rango, possiamo affermare che l’uguale (=) di A con B è una discrepanza.
A eccede B significa dire che è all’esterno di B; B eccede A significa dire che B è all’esterno di A. A e B sono uno all’esterno dell’altro eppure coincidono, si equivalgono. Ciò però non vuol dire che non siano esterni l’uno all’altro, ma semplicemente che questa eguaglianza è una discrepanza. A è A, e non è esterno ad A. B è B, e non è esterno a B. A e B sono però esterni l’uno all’altro. Ciò non avviene per gli esseri del piano. Se gli esseri del piano fossero meramente equivalenti al piano, si accomoderebbero sulla superficie di questo, come una stoffa elastica, ma avrebbero quell’eccesso in più che farebbe la differenza tra loro (stoffa) e il piano. Qui giungiamo ad un paradosso, gli esseri che sono il piano e che non coincidono con questo (la differenza tra il coincidere con il piano e l’essere il piano è liminale), non possono muoversi, il movimento di due esseri X e Y, l’uno verso l’altro, verrebbe annullato, in quanto presupporrebbe l’oggettività, l’eccedenza di X e Y rispetto ad A, il piano. Il piano inoltre non può venire assunto come infinito, in quanto se X si movesse verso Y, non sarebbe X a muoversi verso Y (che Y vada verso X o che X vada verso Y è indifferente), ma il piano a restringersi o dilatarsi, a seconda che X si muova verso Y, che sta fermo, o prenda le distanze da Y, sempre fermo. L’infinito non si espande né si contrae, l’infinito è. Quindi ci troviamo su un piano finito che si espande o si contrae. Qui il linguaggio non ci viene in aiuto, abbiamo ripetuto più e più volte che X si muove e che Y sta fermo; X si muove verso Y. In verità X non fa movimento alcuno, lo farebbe se fosse oggettivo rispetto al piano, ma oggettivo non lo è, non lo eccede, quindi chi si muove è il piano, se X fosse eccedente A, in direzione di Y, A, il piano, sarebbe fermo, X però è A e quindi X sta fermo e il piano si dilata o si contrae. Ci rendiamo conto che il nostro pensiero è erroneo, dobbiamo correggere l’angolatura. A questo punto infatti avremmo un paradosso nel paradosso: abbiamo appena detto che X essendo non eccedente, non oggettivo rispetto ad A, va in direzione di Y, ma X è fermo, è il piano a dilatarsi o a restringersi rispetto a Y che sta fermo; siamo giunti a non avere più punti di riferimento per dire se è X a muoversi verso Y o il piano a restringersi verso Y. Pensiamo meglio: un punto di riferimento in realtà ce l’abbiamo ed è presupposto a tutta l’intera faccenda: X e Y non sono oggettivi, non sono eccedenti rispetto A, X e Y non solo annullano il movimento ma, vengono meno, X e Y non esistono, non sono mai esistiti. Il piano dunque si muove, restringendosi o dilatandosi.
Questa è la prima conclusione, tuttavia abbiamo pensato soltanto a metà, ci manca l’altra seconda parte del pensiero. Se ammettessimo un piano A che si dilata o si restringe dovremmo per forza di cose ammettere un secondo piano B infinito che lo ospita, questo sarebbe l’oceano infinito dello spazio. Lo spazio è però qualcosa di soggettivo, è niente più di un concetto, insegna Einstein, indi per cui: questa conclusione non può soddisfarci.
Poniamo invece di un piano finito, una sfera. La sfera la chiamiamo B, X e Y sono gli esseri che la abitano. In questo caso B sarà (come è logico pensarlo) tridimensionale, mentre, la modalità di attaccamento a B di X e Y sarà bidimensionale; Einstein chiaramente ci dice: «Gli esseri piatti con i loro regoli e gli altri oggetti aderiscono esattamente a questa superficie e non sono in grado di lasciarla».[^12] A differenza di prima, gli esseri continuano ad essere bidimensionali, coincidono con B, ma non sono B, vige l’equivalenza A=B. Proprio perché B è tridimensionale e gli esseri bidimensionali, viene mantenuto quello scarto esatto o discrepanza che è l’equivalenza, che ci permette di dire che ora, sì, abbiamo trovato la quadratura del cerchio. X e Y esistono, hanno una propria oggettività e quindi, pur coincidendo con la sfera, la eccedono, possono liberamente muoversi sulla superficie piatta della sfera. Le loro azioni, non sono come prima, ovvero, non sono causalmente conchiuse, ma aperte ai più svariati movimenti (in realtà due) seppur bidimensionali. Ciò che però viene negato a questi esserini è la linea retta, infatti aderendo alla superficie sferica tridimensionale, gli esserini ogni qual volta tenteranno la costruzione di una linea retta, si troveranno la costruzione di un cerchio. Il loro non sarà un universo euclideo, ma saranno destinati alla rottura, all’interno di uno spazio bidimensionale e non continuo, del cerchio.
Per loro non avrà senso di porsi il problema della costruzione di segmenti con un inizio e una fine, costruiranno sempre e solo cerchi, perché appunto adeguati sulla superficie sferica. Qui vengono risolti due problemi:
1) Il problema di un universo finito ma senza limiti.
2) Il problema di un universo finito che non occupa alcuno spazio.
Il problema di un universo finito ma senza limiti si risolve quasi subito. Non potendo costruire rette, non potranno mai giungere al segmento, ma la loro figura sarà quella del cerchio. Un cerchio è una figura finita, ha un’area ben stabilita, ciononostante non ha né un inizioné una fine: come non pensare all’eterno ritorno nietzschiano? La geometria sarà una geometria discontinua, di tipo non euclideo, geometria del cerchio. Questa geometria non conoscerà mai un inizio e una fine e verrà ottenuta con un fondamento-presupposto fisico: gli esseri X e Y sono bidimensionali, figurine aderenti alla sfera, nei loro percorsi, come nei loro movimenti, nei loro gesti, non ci sarà un inizio e una fine. Ciò sta a significare che se la geometria è discontinua o discreta anche la realtà che ne è a fondamento sarà una realtà bidimensionale discontinua o discreta ma soprattutto finita e senza limiti.
Il problema di un universo finito che non occupa alcuno spazio si risolve poco dopo. La sfera, a differenza del piano, non si muove, sono gli esserini a muoversi su di essa. Lo spazio è quindi racchiuso, assimilato dall’estensione dell’universo sferico. Spazio ed estensione sono la stessa cosa. L’universo è una sfera piena che non dà adito a dubbi sulla non esistenza di uno spazio vuoto.
- Ibidem.
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A. Einstein, Relatività - Esposizione divulgativa, trad. it. Virginia Geymonat, Bollati Boringhieri, Torino, 2015, pag. 20. ↩︎
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Op. cit., pag. 21. ↩︎
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Op. cit., pag. 27. ↩︎
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Op. cit., pag. 39. ↩︎
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Op. cit., pp. 161-162. ↩︎
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Op. cit., pp. 163-164. ↩︎
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Nel senso che l’esperimento viene ripetuto da sistema a sistema. ↩︎
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Mezzo inteso sia «come stante nel mezzo», sia come medium, come strumento che unisce i due. ↩︎
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Di fatti, per la scienza esiste possibilità solo se si presuppone effettualità. La possibilità è un qualcosa che viene dopo. Dove non esiste effettualità, non può darsi possibilità. Il bosone di Higgs è possibile solo perché effettuale: se non fosse stato scoperto, non ci si sarebbe indirizzati verso di esso, se è stato scoperto significa che ci si è indirizzati verso qualcosa la cui esistenza era presupposta alla sua possibilità. La sua effettualità era presupposta alla sua possibilità. ↩︎
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Può l’intervallo essere una casa o un semplice cavallo? La supposizione sarebbe logica ma non ontologica, quindi: no! Casa e cavallo soggiacciono al divenire, e come vorrebbe uno Hume, o anche un Nietzsche, non sono soggetti al principiumindividuationis. Ma, sono, altresì, soggetti al principio del divenire. Il principio del divenire, è l’unica generalità o universale che non diviene, non è soggetto a se stesso: se il divenire divenisse, diverrebbe «non-divenire», negherebbe se stesso, e qui non portiamo in fondo la possibilità, come vorrebbe Spinoza per esaurirla, ma diciamo, che, da semplici osservatori, ci manteniamo nella realtà e osserviamo una cosa semplice: il divenire non nega se stesso in quanto tutte le cose di questo mondo divengono. ↩︎
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A. Einstein, Relatività - Esposizione divulgativa, cit., pag. 126. ↩︎