Søren Kierkegaard: Don Giovanni

1. Che cos’è il medio?

Che cos’è l’innocenza? Che cos’è il peccato? Entrambi, presi ognuno per sé, sono immediati. L’immediato è il tolto non appena posto. Ogniqualvolta il pensiero tenta di porlo ed effettivamente lo pone, questo si volatilizza; l’unità di coscienza non riesce a comprenderlo: qui «comprenderlo» va inteso nel suo duplice significato, e cioè come «prenderlo-con», cioè intuirlo, farlo proprio in quanto contenuto; e come contenuto proprio dell’unità di coscienza e nel significato di contenerlo: la coscienza risulta perciò un contenitore astratto che si assume il proprio contenuto. Sia nel primo caso che nel secondo caso abbiamo due colpi che vanno a vuoto. L’immediato più lo si pensa, più lo si pone, più lo si astrae da se stesso e non in direzione del medio, più lo si pone come un nulla vuoto.

Che cos’è l’innocenza? Che cos’è il peccato? Entrambi, presi ognuno per sé, sono i tolti non appena posti: lo stesso lo si potrebbe dire dell’immediato «soggetto»: un soggetto che non ha predicato è privo di se stesso.

Kierkegaard scrive: «L’immediato è, cioè, l’indefinibile, e perciò il linguaggio non lo può interpretare; ma il fatto che sia l’indefinibile non è la sua perfezione, ma una deficienza». Una deficienza è una mancanza. La perfezione è ciò che non manca di nulla; nemmeno il nulla ha fuori di sé. Parlare dunque di «un fuori» alla perfezione è scorretto. L’immediato, cioè l’indefinibile, è quindi mancante, mancante di qualcosa. Manca di qualcosa per poter essere definito, quindi compreso. L’immediato è il posto che in quanto tale, proprio perché posto e non tolto in quanto posto, abbisogna del medio, abbisogna della mediazione che media ponendolo. Che cos’è l’innocenza? Che cos’è il peccato? Entrambi, presi non ognuno per sé, ma l’uno in riferimento all’altro sono ora medi ora mediati. L’innocenza senza il medio del peccato non risulterebbe comprensibile, di fatti ogni qual volta la pensiamo, se vogliamo comprenderla non possiamo fare a meno di pensare la sua opposizione: il peccato. Cosa significa essere innocenti? Essere innocenti significa non essere peccatori. Ma per poter dire di non esserlo bisogna tener ben fermo cosa è peccato. Peccare significa l’aver smarrito l’innocenza, l’aver subito il traviamento del peccato, essere cioè andati oltre l’innocenza, oltre quello stato misto di pace, quiete, angoscia. Innocenza e peccato si richiamano a vicenda.

Ma siamo ancora in superficie, l’esteriorità è il dramma di una ragione che non riesce a sondare in profondità. Siamo ancora ad un piano troppo esteriore rispetto al nucleo, siamo ancora ad un piano toccato ma non ancora scalfito: la ragione deve penetrarlo, martellarlo per giungere al di là. Mantenersi in superficie significa essere approdati con la leggerezza di un uccello a passo di danza: con ciò non otteniamo né più né meno che un circolo vizioso. Prendere la forma, viziarla, accarezzarla per poi tradirla; con il martello. Portare a galla il contenuto che gelosamente cela.

Ora, il vizio sta nel riferimento reciproco «Innocenza-Peccato», esso è vizio ma pur sempre esprime qualcosa: Innocente è chi non ha peccato, chi ha peccato è chi ha smarrito l’innocenza. Che significa abbandonare la forma pur tenendola di fronte, pur riferendosi ad essa? Significa «indicare» ciò che essa stessa riflette pur nascondendolo, significa «additare» il contenuto taciuto che in essa stessa si riflette pur venendo meno.

Rispondiamo alla domanda: «Chi è colui che non pecca?». Colui che non pecca è colui che non viene meno, colui che non viene meno alla Legge, colui che non trasgredisce il divieto, la pressante oggettività del divieto. Colui che pecca agisce contro. «Agere contra» non è un mero negare il limite come se questo non ci fosse, è un meno (in quanto non distrugge) che è un più: significa assumere su di sé il limite per superarlo, porlo per superarlo per poi stare a guardare dietro di sé, con occhi attenti «sulla schiena» il limite che è posto e superato, mantenuto e superato. Come in una gara ad ostacoli, evitando l’ostacolo o più semplicemente buttandolo giù prima del salto, si arriverebbe ugualmente, con minor fatica e forse in minor tempo alla fine del percorso. Si sarebbe superato il limite? No, lo si sarebbe meramente evitato. Adamo non voleva evitare, voleva superare, superare l’oggettività per rendersi soggettività che tutto in sé dissolve, che il limite dell’oggetto, il limite del divieto dissolve. Ma ciò che è dissolto, è dissolto perché superato, ciò che è superato, è superato perché mantenuto. Se non si mantiene non si supera, se non si supera non si mantiene. Chi non supera evita. Adamo è prometeico, è l’ostinazione della ripetizione: «Così, soltanto col cristianesimo, col rifiuto del paradosso essenziale dell’uomo-Dio, l’uomo tocca l’abisso della disperazione e diventa preda del demoniaco nella sua forma più acuta ch’è l’ostinazione (Trods): il satanismo non può sorgere che all’interno del cristianesimo stesso per via di un agere contra o, come dice Kierkegaard, di un «modo ponendo». Ostinato è il ripetersi che non vuol venir meno alla categoria della ripetizione. Ostinato è ciò che non sopporta la compiutezza. Ciò che è compiuto è l’eterno: esso «è». Ciò che è «e» non ha da essere, non vive la possibilità sempre nuova di un «così e così», di un «altrimenti mi maschero da Pulcinella», di un «non so proprio render conto del perché faccio questo o quello, così o così, lo faccio a orecchio». È lo schema abituale dell’infinito quello di non avere schemi — perché solo ciò che è finito o eterno può essere subordinato allo schema in quanto sistema; è il prevedibile che si lascia spiegare e dispiegare nella Fenomenologia di Hegel (da grandi cause derivano grandi effetti, ogni cangiamento ha la sua causa e così via) — in cui lasciarsi andare o, meglio, lasciarsi per così dire «acciuffare» alla stregua di una fitta totalità di serie causali subordinata ad un fine, che è il mantenimento del Tutto, quel Tutto che è la totalità di serie causali e che poi viene identificato da Hegel con il Soggetto Assoluto.

Il satanismo ha come oggetto Satana, Satana subisce il fascino della compiutezza ma non ne sopporta il peso; per questo è ostinato. Satana subisce il fascino di Dio ma non ne sopporta il peso: la sua è la dialettica dell’infinito che si oppone a quella dell’eterno; essa si svolge nel finito e non potrebbe altrimenti in quanto dialettica dell’infinito e non dell’eterno. Satana tenta ogni volta la propria possibilità, ma ciò che «acciuffa» è un nulla, il movimento è circolare, è sempre quello della Soggettività Assoluta, della Libertà; ciò che viene ripetuto all’infinito è lo stesso medesimo movimento: Una Libertà astratta vuole farsi concreta, giunge presso se stessa attraverso l’oggettività del divieto, ciò che trova non è se stessa ma un nulla; tolta non appena posta: ciò è la figura del serpente, la figura del Tritone, la figura del Don Giovanni, la figura di Kierkegaard.

Kierkegaard subisce il fascino di Dio ma non ne sopporta il peso: Abramo è la figura che più di tutte lo ossessiona. Satana, come Kierkegaard, aspira a Dio, aspira a Dio tanto quanto ne è ispirato: Satana, come Kierkegaard, è ispirato e ossessionato da Dio e non potrebbe essere altrimenti, essendo Satana un angelo caduto. Quella di Satana è immediatezza pura, immediatezza cioè che non giunge a compromessi, Satana, anche se non vuole, ha il suo ruolo da giocare nel teatro del mondo, ha una continuità da preservare a discapito di una continuità nell’identità che viene meno: il medio media e così è anche per Satana, il medio dell’oggettività media. L’immediato è mediato dal medio, da immediato si fa mediato e già non è più quell’indefinibile immediato: Il Soggetto attraverso lo smarrimento oggettivo racconta a se stesso chi è; così non è per Satana. Satana attraverso lo smarrimento oggettivo tenta la sua possibilità cogliendo un nulla: perdita di identità. La mancanza di identità fa l’identità. Satana seduce; lo fa attraverso il serpente, attraverso il Tritone, il Don Giovanni, il Kierkegaard dell’estetica: Satana ora è il serpente, ora il Tritone, ora il Don Giovanni, ora è il Kierkegaard dell’estetica, ora è qualcun altro. Satana è tutti e nessuno in particolare, tuttavia è se stesso: l’esteta.

2. Il sensuale come ciò che deve essere negato

Il sensuale è immediatezza, è ciò che seduce, è la figura del Don Giovanni: Satana che si esprime in musica. In quanto immediatezza, e più precisamente, in quanto immediatezza che non si lascia mediare, esso è l’escluso. Nel linguaggio vi è la riflessione, il linguaggio media il pensiero e ne dà la sua oggettivazione, che il pensiero rimanga un segreto indecifrabile e che con il medium del linguaggio perda la sua propria costituzione o essenza di indicibile; su questo non ci addentriamo, diciamo soltanto che il pensiero si lascia mediare, la riflessione si lascia mediare dal linguaggio, il pensiero è portato in questo mondo grazie al linguaggio.

La dialettica del cristianesimo è dialettica dell’eterno e non dell’infinito; la dialettica dell’infinito appartiene al demoniaco, si svolge nel finito: la dialettica del cristianesimo è dialettica dell’eterno in quanto pone per escludere attraverso un doppio movimento, che definisce il primo movimento del porre per escludere determinandolo, ponendolo cioè una seconda volta (la ripetizione dell’eterno). Lo Spirito, attraverso un doppio movimento, pone il sensuale o principio della sensualità come l’immediato da escludere. Lo Spirito esclude da sé il sensuale come ciò che non riesce a mediare, come ciò che non riesce a definire, come ciò che non riesce a determinare diversamente da quello che è: l’indefinibile. Nell’escludere la sensualità o il sensuale o il principio della sensualità, o «il ciò che seduce» ad un tempo lo pone; lo pone per escluderlo.

Lo Spirito è posto; è posto una prima volta, perché non potrebbe essere altrimenti, ma con ciò non penetriamo in superficie, non aggiungiamo niente alla vuota forma della parola «Spirito», per questo la prima posizione «Spirito» non ci dice alcunché. Lo spirito per dirsi posizione deve porre per escludere; deve cioè trovare in ciò che esclude, in ciò che gli si oppone, il positivo opposto, ossia quel negativo nel quale si riflette per dirsi positivo, senza il quale non potrebbe darsi positività alcuna: senza Male non può darsi Bene e viceversa. Lo Spirito per porre ciò che esclude deve essere posto: questa è la prima posizione. Ma con ciò non arriviamo ad una definizione di ciò che è Spirito; esso deve porre la sensualità per escluderla, da qui otteniamo che lo Spirito è «ciò che esclude l’immediatezza che non si lascia mediare». Lo Spirito si pone, perché solo ciò che è posto può porre a sua volta, ponendo a sua volta, ossia escludendo, pone per togliere, pone per porre: è lo Spirito che si pone come ciò che esclude. Da una parte lo Spirito, dall’altra la sensualità: la sensualità viene introdotta dal cristianesimo nel mondo per la prima volta.

3. La leggenda: il musicale equivale al demoniaco

L’immediato sensuale rifiuta qualsiasi cenno anche minimo di mediazione; a rigore di logica «non è». «Non è» significa che nel mondo non ha trovato posto alcuno e quindi chiamarlo in causa con il linguaggio dicendo che «rifiuta qualsiasi cenno anche minimo di mediazione» dà luogo ad un non senso; ma la sensualità è di questo mondo. Il cristianesimo, e qui sta il paradosso, escludendolo l’ha posto: l’immediato sensuale nel rifiutare la mediazione, quindi in quanto escluso, è mediato, riceve cioè una prima mediazione dallo Spirito come ciò che non può essere mediato e quindi è da escludere. Come può essere «espresso» ciò che non può essere mediato? C’è una bella differenza tra esprimere e oggettivare, perché mediare significa «portare ad oggetto», esprimere è già un’altra cosa, molto più originaria. Con l’esprimere si porta alla luce un «che» di inoggettivabile che con l’esprimere viene alla luce, o meglio, si dà, eppure non è; a tal proposito Kierkegaard afferma della musica:

La musica non esiste se non nell’istante in cui è eseguita, persino se si potessero leggere le note abbastanza bene e si avesse una forza d’immaginazione abbastanza viva, non si potrà tuttavia negare che è solo in senso improprio che essa è nel momento in cui la si legge. Propriamente esiste solo mentre la si esegue. Ciò potrebbe parere un’imperfezione per quest’arte a confronto con le altre arti, le cui creazioni continuamente sussistono, perché hanno la loro sussistenza nel sensuale. Eppure non è così. Ciò è per l’appunto una prova che è un’arte più elevata, più spirituale.

La musica ha per oggetto la genialità sensuale e Kierkegaard dice che, in quanto non sussiste continuamente (a differenza delle altre arti che trovano continuità perché hanno la loro sussistenza nel sensibile), è l’arte più elevata, più spirituale. Cosa significa? La «genialità» di «genialità sensuale» Kierkegaard la prende da ingenium, ingegno, disposizione creativa, disposizione che solo le anime che hanno chiuso con lo Spirito aprendogli un portone hanno. Ma se si chiude non si apre, e se si apre non si chiude: a rigore di logica. Ma nell’esistenza è tutto un paradosso e una contraddizione.

Satana teme Dio tanto quanto ne è affascinato; vale per Satana ciò che Kierkegaard fa valere per l’angoscia, la dialettica è la stessa: «fuggire l’angoscia non può, perché l’ama; amarla propriamente non può, perché la fugge». Satana fugge Dio tanto quanto ne è affascinato: il fuggire da «qualcosa», in questo caso Dio, è sempre un presupporre, un presupporre la relazione alla fuga; di fatti tenendosi in fuga e non risultando mai un fuggito, Satana è da sempre in relazione con Dio. Ogni qual volta Esso fugge, e ciò risiede nella continuità col suo carattere demoniaco, Esso riafferma la relazione che alla fuga deve essere presupposta: un «elemento» è in fuga da un altro solo se prima vi è in relazione. Così, nella disposizione creativa sensuale, l’artista guarda alla sensualità come principio motore del suo creare, non come a un qualcosa di «oggettivo», ma come a un qualcosa «da esprimere», questo qualcosa «da esprimere», immediatezza che rifiuta ogni cenno di mediazione, in realtà riceve dalla dialettica dell’eterno, dallo Spirito ponentesi che pone, una prima mediazione che non solo determina l’indeterminabile come l’indeterminabile, come l’escluso, ma fa di questa unica determinazione la definizione che definisce lo Spirito come ciò che esclude da sé. Quindi se in un primo momento Spirito e sensualità sembrano non essere in relazione, ciò risulterà ad uno sguardo poco attento che conosce assai bene la superficialità trascurando la profondità del legame; in verità quello tra Spirito e sensualità risulta essere un legame dove l’uno, lo Spirito, esclude ponendola la sensualità e l’altra, la sensualità, posta in quanto tolta, definisce lo Spirito: possiamo a ragione affermare che lo Spirito determinando l’immediato sensuale come l’indeterminabile, pone attraverso questo «che» di inoggettivo se stesso come ciò che esclude. L’escluso sta quindi sotto il riguardo dello Spirito, è nel riguardo dello Spirito. Ecco perché Kierkegaard afferma che tra le arti, la musica è la più spirituale: è l’unica arte «che riceve in dote» un immediato che subisce un cenno di mediazione — il quale cenno non snatura portandolo a galla il segreto che l’immediato custodisce ma lo mantiene tale escludendolo — e allo stesso tempo «lo svolge» non mediandolo ma esprimendolo e ciò tenendo ben presente che in quanto determinato come escluso dallo Spirito determina lo Spirito in quanto l’escludente; l’arte è insomma la più spirituale perché fa di un escluso dallo Spirito — un escluso che determinando lo Spirito sta sotto il riguardo dello Spirito — non l’oggetto ma l’espresso.

4. Don Giovanni

Don Giovanni è la sensualità che si fa musica; la sensualità espressa in musica. Il cristianesimo non pone la sensualità per poi escluderla come se questa alla stregua di un oggetto dovesse essere sistemata ora qui ora là senza trovare collocazione alcuna perché il piano troppo solido o alquanto traballante dove viene riposta la lascia scivolare giù: il cristianesimo escludendo la sensualità inevitabilmente la pone, così stanno le cose. Ciò che nella dialettica dell’eterno definiva lo Spirito determinandolo come l’escludente, ora, nello Spirito del tempo, dove lo Spirito riceve oggettivazione collocandosi in quanto momento della storia, deve arrendersi al riduzionismo rappresentativo medioevale: Il Medioevo rappresenta la totalità dell’ente da un lato, attraverso un singolo individuo, e la totalità dell’ente dall’altro lato, il lato adombrato, l’oscurità della carne, attraverso un secondo individuo. La dialettica della vita è rappresentata da individui contrapposti:

Il Medioevo è insomma il tempo della rappresentazione, in parte cosciente, in parte incosciente; il totale è rappresentato in un singolo individuo, ma in modo da definire come totalità solo un singolo lato che appare in un singolo individuo, che perciò è di più e di meno di un individuo. A lato di questo individuo starà allora un altro individuo che altrettanto totalmente rappresenterà un altro lato del contenuto della vita, sicché ecco il cavaliere e lo scolastico, l’ecclesiastico e il laico.

Da una parte troviamo il Don Giovanni, la carne, dall’altra lo Spirito.

Nel modello rappresentativo medioevale l’escluso, il Don Giovanni, non permane semplicemente come l’escluso, ma come l’escluso da escludere: nella dialettica dell’eterno ciò che dallo Spirito non poteva essere mediato veniva escluso, è il caso appunto della sensualità, dell’immediatezza, del Don Giovanni; questa esclusione portava però l’escluso a cadere sotto il riguardo dello Spirito come ciò che lo definiva e lo poneva nel secondo movimento, quello che dal negativo torna presso il positivo. Nel Medioevo la sanità della teoresi è persa; la dialettica dell’eterno è consumata dall’Eterno stesso, esso è senza causa: non la vuole.

Il Don Giovanni non è l’escluso che cade sotto lo Spirito definendolo ma è l’escluso da escludere. Ma ciò che è da escludere, il Medioevo sa bene che non si può distruggere e che è «l’originario-dimorante-nello-Spirito». Bisogna confinarlo. Il Medioevo si inventa il Venusberg:

Il Medioevo parla molto di un monte che non è rintracciabile su alcuna carta e che si chiama monte di Venere. Qua la sensualità ha la sua dimora, qua ha le sue selvatiche felicità, dato che è un regno, uno stato. In questo regno non ha dimora il linguaggio, né la prudenza del pensiero, né l’acquisire faticoso della riflessione, qua suona solo l’intonazione elementare della passione, il gioco delle voglie, il fracasso selvaggio dell’ebbrezza, qua si gode solo in un eterno tumulto. Di questo regno il primogenito è Don Giovanni.

Don Giovanni è l’escluso da escludere: solo una volta che l’Eterno lo fissa come l’indifferente estetico, come il peccatore che nella sua dialettica dell’infinito pone se stesso per togliere se stesso — ora seduce l’una, ora l’altra, cambiandosi di maschera; è l’esteta — l’Eterno ne fa l’escluso da escludere posto nella riflessione: «ma allora Don Giovanni è stato ucciso, allora ammutolisce la musica, allora si vede solo la disperata ostinazione che impotente si sgola, ma che non può trovare alcuna consistenza, nemmeno nelle note». Altrimenti, «solo quando la sensualità si mostra come ciò che deve essere escluso, come ciò con cui lo spirito non vuol avere a che fare, senza che questo ancora l’abbia condannata o dannata, allora la sensualità accetta questa figurazione, è il demoniaco nell’indifferenza estetica». La potenza oggettivante dell’intelletto è potenza estraniante: estranea le cose da se stesse. Don Giovanni da escluso diventa — per volontà dell’Eterno — escluso da escludere: esso cade a termine del discorso. L’Eterno lo vuol porre nella riflessione, lo Spirito ne vuol fare il contenuto su cui riflettere; ma la musica parlata, scritta, mescolata alla riflessione già non è più musica, è l’inoggettivabile oggettivato a suon di botte. La musica cela con sé, attraverso sé, il segreto più alto, il segreto più grande, quel segreto che è l’immediatezza. Essa rifiuta la mediazione: cade per ciò nell’indifferenza estetica. Ma c’è indifferenza e indifferenza. L’indifferenza che condanna è l’indifferenza del pensiero che oggettiva, ci dice che le cose stanno «così e così». La genialità sensuale e la musica che la genialità sensuale esprime sono poste dal pensiero in una sorta di indifferenza negativa: l’indifferenza per cui la sensualità o il sensuale, insomma l’immediatezza, non cade più sotto lo Spirito, non è più meramente esclusa, ma è l’esclusa da escludere e per questo oggettivata come dannata. Non si astrae più, non si tenta di scacciare dal mondo, ma si colloca nel mondo sotto un determinato tipo di riguardo: la dannazione.

Lungi dall’essere scacciata dal mondo, la sensualità, ricollocata dalla riflessione, entra in questo mondo. È lo Spirito ad assumere una collocazione diversa. Lo Spirito così come voluto dall’Eterno scaccia la sensualità facendola entrare in questo mondo e si colloca nelle regioni più elevate, non vuol saperne di condividere la vita con la sensualità facendo della vita stessa una dialettica: se lo Spirito non occupasse le regioni più elevate la vita oscillerebbe allora tra la figura del casto e del debosciato; lo Spirito rifiuta ogni dialettica, sia quella dell’eterno che quella dell’infinito, e lascia la vita in preda alla sensualità, nasce così la figura del negatore della vita, la figura dell’asceta, la figura di colui che nulla vuole di fenomenico, di colui che mette i freni al desiderio fino ad annientarlo, la figura di colui la cui volontà è pura.

Diversamente è l’accadere del mondo, di quel mondo che è «tutto ciò che accade», se della sensualità non se ne fa l’oggetto dannato, ma la si lascia fluire come l’esclusa dallo Spirito che fa dello Spirito l’escludente. Allora sì che l’indifferenza è positiva, e il Don Giovanni diventa l’elevato spiritualmente, il demoniaco si trasforma nell’altra faccia dello Spirito. Ma il Don Giovanni è qualcosa di diverso da un individuo, l’individuo è dissidio tra la carne e lo Spirito, il Don Giovanni è principio motore della vita, è sensualità che non ha niente di spirituale pur cadendo sotto lo Spirito. Il Don Giovanni non è — se prendiamo l’altro estremo, l’altro opposto del dissidio — carne. Parlare di carne per la sensualità sarebbe di nuovo porsi dal punto di vista dell’Eterno, di quell’Eterno che vuol fare del Don Giovanni l’escluso da escludere oggettivandolo come carne da condannare. Don Giovanni è sensualità espressa in musica, inoggettivabile, qualcosa di meno di un individuo perché manca dell’ambiguità del dissidio, qualcosa in più di un individuo perché è immediatezza che può essere espressa ma non «acciuffata». Kierkegaard scrive:

Quando il mare è mosso, allora le onde formano in questa agitazione spumeggiante delle immagini, quasi equivalenti a degli esseri, ed è come se fossero questi esseri a mettere in movimento le onde, eppure è, all’inverso, l’azione delle onde che li forma. Sicché Don Giovanni è un’immagine che appare continuamente, ma non acquista figura e consistenza, un individuo che è formato continuamente, ma non viene completato, della cui storia non si ha altra sensazione che quella che si avrebbe ad ascoltare il fragore delle onde.

Don Giovanni è immediatezza sensuale, immediatezza che è la più elevata spiritualmente, immediatezza fondativa dello Spirito. È il grande escluso: ma proprio per questo «nelle grazie dello Spirito».

È scorretto dire che Don Giovanni gode dell’istante, Don Giovanni è l’istante. Don Giovanni è momento che una volta posto è tolto. Di momento in momento egli corre rapido. Don Giovanni è la dialettica dell’infinito: immediatezza sensuale che da sempre e per sempre ripete: ora l’una, ora l’altra, senza mai dar spazio al fissarsi dello psichico.

Anche Giove, come Don Giovanni, amava, ma la sua figura presenta alcune differenze: l’uno è individuo, fissato nello psichico, l’altro è principio sempre avanti a sé. Giove gode dell’attimo, anche se ne ama parecchie, ed è fissato nell’attimo. Ciò sta a significare lo psichico, e tutti noi comuni mortali che di tanto in tanto ci sentiamo Don Giovanni pur senza esserlo. Quando si gode di una fanciulla, l’attenzione è focalizzata sull’oggetto del nostro godimento; in più c’è la riflessività: godendo dell’oggetto del nostro godimento — qui cadiamo sotto la categoria dell’interessante che non interessa Don Giovanni — sentiamo noi stessi attraverso l’altro; è tutto un incendiarsi di zone che sembravano incerte all’esistenza e che ora sono, come voleva Foucault. Tutto ciò è un fissarsi, nell’attimo, dell’attimo del godimento: è una successione di attimi dove noi siamo alle prese con l’altra e attraverso l’altra con noi stessi, niente più. Questa successione di attimi è confinata, significa ricolma dell’altra e di noi, solo dell’altra e di noi. Gli attimi passano e vanno, illusoriamente parliamo di fissazione di attimi, ma questi è come se fossero fissati perché ricolmi delle due solite figure: l’altra e noi stessi. Siamo fedeli. Difatti,

quando, cioè, si pensa all’amore greco, esso è, conformemente al suo concetto, essenzialmente fedele, appunto perché è psichico, ed è casuale in un singolo individuo che ne ami parecchie, e in relazione alle parecchie che ama è ancora casuale che ogni volta ne ami una nuova; mentre egli ne ama una, non pensa alla prossima.

All’opposto vi è la dialettica dell’infinito, vi è Don Giovanni: «Don Giovanni è invece fondamentalmente un seduttore. Il suo amore non è psichico ma sensuale, e l’amore sensuale, secondo il suo concetto, non è fedele, ma assolutamente infedele, esso ama non una, ma tutte, vuol dire che seduce tutte. Esso è, cioè, solo nel momento, ma il momento è concettualmente pensato quale somma dei momenti, ed è così che abbiamo il seduttore». Egli gode dell’attimo chi nell’attimo è dislocato: colui che nel tempo — e quindi nell’attimo che nel tempo si dà ma è mancanza di tempo; l’inquantificabile attimo — intenziona l’oggetto. Don Giovanni è lo scorrere senza sosta del tempo, se del tempo facciamo una successione di «ora», di attimi. In quanto scorrere del tempo, è uno scorrere di attimi, di momenti, per cui il momento presente è dato dallo svanire dei momenti passati — uno dopo l’altro, inesorabilmente questi svaniscono — e il momento presente stesso è un nulla; se accostato ad un battito di ciglia è un meno, ma già così, già accostandolo ad «un di più» ne facciamo un meno irrisorio, «un meno» quantificato, un meno che ha il carattere dell’ente: di ciò che per la scienza può essere quantificato. Il momento non ha scheletro quantitativo, il momento è pura qualità, qualità al cui interno si dà lo stato, come appunto può essere lo stato dell’angoscia. La pura qualità non è mai un «qualsivoglia» della scienza, la scienza non sa che farsene della qualità, la scienza quantifica.

Il peccato è salto qualitativo: è affare di un momento. La Libertà non è forse quell’astratto che giunge presso se stesso concretizzandosi nel tempo di un momento? Ha significato parlare di un momento avente tempo? O forse non è più logico lasciare spazio alla contraddizione, lasciarla per così dire galleggiare dalle profondità fin su in superficie ammettendo che l’«è» della scienza non inquadra il momento, non è la quadratura del cerchio che così tanto si addice al momento facendone il contraddittorio? Che il momento si rivolga a noi nel tempo di un istante che non ha tempo non è forse la più bizzarra delle fantasie? Che il passaggio dalla quiete al movimento o viceversa sia istante di passaggio non è forse vero? Non è forse ancora più vero che quel momento di passaggio, quel tramite tra quiete da una parte e movimento dall’altra, tra movimento da una parte e quiete dall’altra, si prende la propria vittoria sul tempo perché fuori del tempo e quindi inattingibile da questo? Ma non è il tempo fatto da una successione di «ora», da una successione di momenti che se presi ognuno per sé sostano fuori del tempo, se presi ognuno per l’altro ne rappresentano lo scorrere?

Se Giove è sussistenza nel tempo — in quanto l’altro sussiste e noi assieme all’altro — Don Giovanni è lo svanire del tempo: Don Giovanni è lo scorrere del tempo in quanto svanire del tempo; il tempo come successione non è un succedersi di oggetti, dove il desiderio nel desiderare l’oggetto ha uno «stante fronte» e quindi riposa in se stesso sicuro del suo desiderio perché altrettanto sicuro dello «stante fronte» che desidera; dove c’è oggetto di fatti c’è desiderio e dove c’è desiderio c’è oggetto. Il tempo non ha oggetti che si succedono, gli oggetti, diversamente, si succedono nel tempo ma il tempo non è da pensare come un contenitore ideale dove ogni momento della propria linea o del proprio cerchio è occupato da un «qualcosa». Il tempo è un costante svanire fatto di momenti.

Il problema della questione esistenziale non ha come oggetto il succedersi «nel» tempo, ma ha come oggetto il succedersi «del» tempo. Lì, dove la distinzione originaria tra «nel» e «del» non è posta, cioè nella metafisica invalsa fino ad oggi, qui nell’esistenzialismo deve di necessità essere posta se nelle spire del tempo vogliamo mantenerci; è impensabile, per un corretto guardare all’esistenzialismo, guardare al tempo sempre ed esclusivamente come a un qualcosa di oggettivo dove per di più — cioè al suo interno — le cose passano, quasi fosse una galleria più o meno lunga attraversata da una moltitudine di veicoli disparati. La verità è che parlare di tempo equivale a parlare del Don Giovanni, equivale a parlare di quella immediatezza sensuale che uscendone cade sotto la definizione dello Spirito. Questo non perché sia sbagliato definire quella dello Spirito una caduta nel tempo, in fin dei conti di caduta si tratta — lo Spirito può ben rivendicare il suo ruolo di autonomia rispetto al tempo, rispetto al principio della sensualità, all’immediatezza sensuale, vuoi però per la contraddizione del pensiero nell’«acciuffare» il tempo e lo Spirito come uno il conseguente dell’altro e viceversa, lo stesso principio che lo Spirito escludendolo pone non definendolo è lo stesso principio che definisce lo Spirito come l’escludente; e parlare di esistenzialismo significa incorrere in una contraddizione dietro l’altra —, ma perché così il pensiero non fa che mantenersi in una sorta di superficialità metafisica facendone la profondità massima e dell’esistenza non ne resta traccia. Ciò che nell’esistenza si muove con soluzione di continuità ma non come se fosse un’identità è il Don Giovanni, è quel «del» proprio del tempo con il quale la metafisica non ha voluto mai fare i conti. E ciò che più conta non è partire dall’assunzione vera per cui se c’è un Io questo è dislocato nel tempo, anzi ciò che più conta è partire da questo dato di fatto, che non esiste Io senza tempo, andando però oltre; affermando cioè che se si vuole parlare di esistenza non si può prescindere dall’estetica, non si può prescindere dal Don Giovanni, da quel Don Giovanni che nessuno di noi è, e «nel quale» ognuno di noi è. C’è una bella differenza. È di nuovo ammettere che non può darsi Spirito senza tempo, tempo senza Spirito, Io senza Don Giovanni. Se lo Spirito come ammette Kierkegaard è la sintesi — e qui Kierkegaard è profondamente idealista — tra anima e corpo per cui l’Io non può riconoscersi come tale se non calato in un corpo, non può che riflettersi in ogni azione del proprio corpo come «quel prodotto» dall’Io stesso prodotto, non può fare tutto questo se non ad una condizione, quella del Don Giovanni, quella del tempo. E di nuovo, lo Spirito esclude ponendolo il tempo, il tempo da escluso definisce lo Spirito. È una bella illusione quella del cristianesimo, per cui il Don Giovanni è l’escluso da escludere. Che ne sarebbe dell’esistenza senza la sua condizione esistenziale? Ma il cristianesimo ha ben ragione di scagliarsi contro l’esistenza, è nella logica dell’Eterno, è l’ascesi dell’asceta: è tutto uno scagliarsi contro il «del» del tempo «nel» tempo; l’Eterno è, non ammette dialettiche, né dell’Eterno, né dell’infinito.

Chi invece dell’esistenza non si cruccia è chi vuol vivere non «nella contraddizione» — chi vive «nella contraddizione» è tentato a dissiparla — ma «della contraddizione» e «per-la-contraddizione». Chi vive «della contraddizione» e «per-la-contraddizione» vive nella dialettica dell’infinito per cui si sussiste nel tempo, si è amore psichico, ma questo sussistere non può essere dato se non «ci si appiglia» all’amore sensuale, il Don Giovanni, l’immediatezza sensuale, il tempo. E non è che si è liberi di scegliere: si viene al mondo nel tempo. La contraddizione dell’esistente e insieme tutta la sua tentazione è data dal fatto che si sussiste, sì, nel tempo ma appigliandosi a ciò che il tempo è: semplice insussistenza, che nella sua insussistenza trova la sua continuità priva di identità, di ciò che cioè sussiste. Il tempo è via, via la sua scomparsa. Don Giovanni è via, via il suo svanire: «Che vederla e amarla è uno, questo è in un momento, nel medesimo momento tutto è finito, e la stessa cosa si ripeterà all’infinito». Quando infatti nel linguaggio comune ci appelliamo al momento diciamo: «ora». L’«ora» però è già passato. Il momento è il posto-tolto. Diciamo anche che la decisione di baciarla «è stata presa in un momento»; cioè c’era solo un momento che separava il pensiero dall’azione, la rappresentazione dell’azione dalla sua effettiva sussistenza nel tempo. Ma quando il passaggio all’azione? Nel momento. Ma il momento è già passato: «la seduzione del Don Giovanni musicale è un batter d’occhio, l’affare di un istante, più rapidamente fatto che detto». Il tempo svanisce, ma ciò vuol dire che il suo svanire è svanire infinito: qui vi è la dialettica dell’infinito. Essa è il tempo, essa è il Don Giovanni. Solo all’interno del tempo possiamo permetterci affermazioni del tipo: «da sempre le cose vanno così, per sempre andranno così». Il passato e il futuro, l’«è» è già svanito, inattingibile. E non è solo un modo di dire, anticipato da un modo di pensare: ossia è un modo di dire che riveste la nostra esistenza, in quanto la riveste è più di un modo di dire. Non si vuole tanto riaffermare il pensiero nietzscheano dell’eterno ritorno dell’uguale, si vuole affermare l’esistenza, e la condizione ineludibile di questa è il tempo, il Don Giovanni, il succedersi dello svanire dei momenti, succedersi che è perenne, perché da sempre e per sempre è. Ma il tempo non è finito? O forse è infinito? È una linea o un circolo? Se pensiamo al tempo cristianamente inteso facciamo del tempo un soggiacente a… , un «sotteso» che trova nella cosmogonia cristiana — la cosmogonia per cui il tempo non inizia che con il mondo e con il mondo finisce — quel modello rappresentativo della linea che da A va a B che lo riveste, occultandone la sua dimensione originaria, la sua dimensione estetica che è dimensione esistenziale. Se pensiamo al tempo come circolo, ci rifacciamo a un modello rappresentativo geometrico greco che poi in Nietzsche, nell’eterno ritorno dell’uguale, trova nuova ipostatizzazione. Anche rifacendoci a Nietzsche o ai greci, ci ritroviamo sempre di fronte ad un ennesimo rivestimento del tempo, rivestimento che ne fa un collocato tra collocati in un sistema e che riceve il suo tessuto dal sistema stesso. Il tempo perde nuovamente la sua originarietà estetico-esistenzialistica e da Don Giovanni qual è diventa un qualcos’altro. In entrambi i casi il tempo è idealizzato, rappresentato in virtù di un sistema che lo contiene. Noi dobbiamo attestarci all’esistenza. Kierkegaard per primo si attesta all’esistenza.

L’esistenza reclama se stessa e lo fa attraverso il pensiero. La scorretta idealizzazione, lo scorretto svolgersi del pensiero risiedono là dove si fa del pensiero la trascendenza ultima: vedi per esempio Hegel. Ciò a cui la sussistenza delle cose si aggrappa, l’appiglio sicuro al cui interno le cose sussistono è il «del» del tempo: il tempo non ha oggetti che si succedono, ma gli oggetti si succedono nel tempo. Il tempo è la trascendenza ultima. Il tempo è quella stranezza, condizione dell’esistenza — per cui essendone la condizione non può essere esistenza stessa — per cui le cose si danno, per cui la stessa «cosa» Io si dà: non può esservi Io se non dislocato nel tempo. Il tempo non può essere definito altrimenti se non come successione di momenti, successione di istanti; resta il fatto che se ne vogliamo cogliere un momento cogliamo un nulla. Il solo attestarci al riempitivo empirico del tempo ci porta ad un nulla di fatto: «ancora un momento e sono lì da te»; il momento è passato e noi restiamo appresso alla scrivania convinti che forse ancora due, tre momenti passeranno… Se avessimo colto il momento saremmo fulminei come una saetta presso la nostra amata; ma l’empirico è sempre in ritardo sul momento. Urlare a squarciagola che «il momento è arrivato» non serve a granché, il momento arrivato è già passato. L’esistenza giunge presso se stessa attraverso il pensiero. Il giungere presso se stessa dell’esistenza è un giungere che parimenti è un allontanarsi; ciò non sta a significare che il giungere dà luogo ad un secondo movimento per cui prima si giunge e poi ci si allontana. Ciò sta a significare che nel medesimo istante in cui si giunge ci si allontana. Quando siamo dispersi nella quotidianità non badiamo all’esistenza, non badiamo a quell’esistenza che è via via la nostra. Solo attraverso la riflessione facciamo l’esistenza propria e le consentiamo di vivere una seconda vita. Nella riflessione l’esistenza si racconta, e si racconta a se stessa. Nella riflessione l’esistenzialismo può ben dire di avere come oggetto l’esistenza: ogni qual volta l’esistenza si pensa si dà come oggetto all’interno di un più ampio orizzonte di riflessioni che è l’esistenzialismo. Ciò è sicuramente un rappresentare: il rappresentare ha però come difetto l’oggettivare. Ciò che dall’esistenza è pensato come esistenza non è più l’esistenza stessa ma l’oggettivazione di questa. L’esistenza pensando a se stessa giunge presso se stessa e non giunge presso se stessa. È la contraddizione che non si risolve, che alimenta i dubbi e dissolve le certezze, è la contraddizione che accarezza la possibilità di una sua risoluzione ma che non ammette risoluzione; verrebbe meno alla propria continuità sorvolando le terre assai vicine del pensiero, le terre dell’idealismo, quelle terre viste da lontano sulle quali gli uomini sono una moltitudine di puntini neri indefiniti, puntini neri che formano ora questo ora quell’aggregato dove la sostanza rimane sempre la stessa, è la forma a cambiare; ma l’idealismo ha il suo interesse nella forma, poco bada alla sostanza. Idealismo ed esistenzialismo hanno in comune il pensiero, quel pensiero che è il filosofare. Entrambi, come pensiero — e non come «idealismo» ed «esistenzialismo» — hanno come oggetto l’«oggetto» del proprio pensiero: l’idealismo dissipa l’oggetto, l’esistenzialismo lo mantiene vivo. Mantenersi nell’oggettività significa mantenersi nella contraddizione di un pensiero, quello esistenzialistico, dove l’esistenza che ci si racconta è inevitabilmente un prodotto del pensiero.

Ciò che produce l’esistenzialismo è l’esistenza come oggetto. L’esistenza come oggetto, come poi l’oggetto di ogni pensiero, anche di quello scientifico, non esaurisce l’esistenza ma rimanda di fatto ad un residuo metafisico: il fatto che l’esistenza sia è fuor di dubbio, il che cosa l’esistenza sia non sapremo mai spiegarcelo. L’esistenza può essere ciò che ci raccontiamo — è una possibilità dell’esistenza quella di essere costantemente oggettivata — ma non deve essere ciò che continuamente ci raccontiamo. Ciò significa che in ultima istanza l’esistenza non può essere ciò che costantemente ci raccontiamo. Come stanno allora le cose? Il peccato è presupposto solo una volta posto e così qualunque altra «cosa» del mondo. Di nuovo tutto è più oscuro, la vacua solidità delle certezze crollata e noi ci sentiamo spaesati. Sta di fatto che l’esistenzialismo esiste e con esso l’oggetto dell’esistenza. L’esistenza è un prodotto del pensiero e non rispecchia l’esistenza o, meglio, dubitiamo che la rispecchi. L’esistenzialismo vive del dubbio, come d’altronde la filosofia. Anche del fatto che viva del dubbio possiamo largamente dubitare. Abbiamo comunque intrapreso un viaggio, l’acquisire faticoso della riflessione ci ha portato fino a qui, dobbiamo ora portare a compimento il viaggio, estirpare la radice che ha fatto crescere quest’albero così solidamente ancorato alla terra.

Esistere significa che si è. Il brutale fatto che siamo, diversamente da come vorrebbero la tradizione cristiana e la metafisica che nel solco della tradizione si muove, non raccoglie attorno a sé la dipendenza da un’origine e la finalità per cui noi poniamo dei fini, degli obiettivi. Tutto nell’esistenza si manifesta come legato a un qualcosa di ineludibile, ma l’attribuzione di senso che avrebbe la pretesa di rendere l’uomo perspicuo a se stesso in realtà innalza modi o modalità di un’esistenza sovrasensibile la cui condizione di possibilità non risiede nel tempo ma è altresì assente: ciò che condiziona è ciò che tiene sotto il giogo proprio come ad ammettere che se c’è un condizionante c’è un condizionato e viceversa; l’ammissione della manifestatività di un condizionato punta il dito, indicando, non solo alla «presenza» di un condizionante ma alla differenza ontologica sottesa alla scissione condizionante/condizionato: il condizionante non è della stessa «natura» del condizionato, altrimenti non si distinguerebbe chi-condiziona-chi da chi è condizionato. Nell’esistenza, l’esistenza reclama se stessa e lo fa attraverso il pensiero, tuttavia l’esistenza ha la sua possibilità di pensiero nel pensare se stessa nel tempo. Al di fuori di esso, non abbiamo almeno fino ad ora esperienza di un’esistenza che pensa se stessa perché non abbiamo esperienza di un’esistenza. Pensare l’esistenza fuori del tempo non è possibile: nell’esistenza è implicito il tempo. Sarebbe come dire di pensare «l’esistenza con il tempo» fuori del tempo. La contraddizione si rende palese come «peso metafisico»; il peso del tempo. Di fatti, se il tempo è la condizione di possibilità dell’esistenza, ciò che l’esistenza possibilita, il tempo non è esistenza, cade al di fuori di questa. Eppure, tuttavia, non appena chiamiamo in causa l’esistenza il tempo si rende «esplicito» come un «che» di implicito all’esistenza stessa. Ogni qual volta chiamiamo in causa l’esistenza chiamiamo in causa la contraddizione nella quale questa inevitabilmente riposa. La contraddizione è un «fatto» che si palesa non appena l’un elemento che dovrebbe escludere l’altro non lo fa; la contraddizione presta altresì il fianco, dà cioè la sua «disponibilità», al contraddittorio rispondendo alla domanda: «Se il tempo cade al di fuori dell’esistenza, essendo questo condizione di possibilità dell’esistenza stessa e quindi non-esistenza come può essere implicito nell’esistenza?». Quindi o il tempo non è condizione di possibilità dell’esistenza, ma è esistenza stessa — quindi l’esistenza avrebbe come «oggetto» tra gli oggetti il tempo; ma il tempo non si dà nell’esistenza, è questa a darsi nel tempo: non c’è nell’esistenza un «oggetto» tempo da intenzionare alla maniera di un «oggetto» tavolo, ogni qual volta intenzioniamo troviamo questo e quell’altro ma mai tuttavia il tempo (il tempo scientifico al massimo si misura ma mai si intenziona) e di nuovo se il tempo non si dà nell’esistenza ma è l’esistenza a darsi nel tempo, ci troviamo alle prese con una esistenza che non si dà perché manca della condizione per la quale si dà, ossia il tempo — o l’esistenza esiste al di fuori del tempo, ma così non si ovvierebbe al problema, si prescinderebbe dall’esistenza, perché si prescinderebbe dall’esperienza che dell’esistenza abbiamo, che è esperienza all’interno del tempo. Dunque la contraddizione presta altresì il fianco, da cioè la sua «disponibilità» al contraddittorio ma non risponde alla domanda. C’è la contraddizione in quanto c’è l’esistenza.

Il tempo è «da sempre e per sempre»; il Don Giovanni è «da sempre e per sempre» il succedersi degli «ora», succedersi che è svanire continuo. Quella tra immediatezza sensuale e Spirito è una discrepanza che suscita sgomento. C’è discrepanza dove c’è divisione: la divisione è tra due del medesimo rango. Lo Spirito esclude ponendola l’immediatezza sensuale; l’immediatezza sensuale definisce lo Spirito. L’immediatezza sensuale seppur esclusa è posta dallo Spirito e sotto lo Spirito cade in quanto lo definisce: il rapporto è tra fondamento e fondato. Questo ben lungi dall’essere il classico del rapporto metafisico fondamento/fondato è invece lo strano del rapporto metafisico; è un rapporto che muove dalla metafisica — essendo le categorie prese in prestito dalla metafisica — ma che fa muovere il pensiero in un circolo: lo Spirito esclude ponendola l’immediatezza; l’immediatezza da posta pone lo Spirito; il fondamento fonda il fondato che il fondamento fonda. Tutto ciò suscita sgomento, il pensiero dal fondamento si ritrova al fondato che al fondamento lo riporta; il pensiero non trova riposo. La divisione c’è ma non è una semplice divisione, è una discrepanza. I due del medesimo rango sono il fondamento e il fondato, il rango è quello metafisico, lo sgomento «non è» da dove il pensiero muove, fin qui siamo nella metafisica — potrebbe essere la metafisica dello Hegel —, ma nel successivo muoversi del pensiero che è muoversi in un circolo. Lo Spirito oscilla tra fondamento e fondato, tra fondato e fondamento pur non trovando una base solida nella quale ancorarsi; lo Spirito oscilla ma ciò che acciuffa in ogni sua oscillazione non è né fondamento né fondato, bensì ogni volta il fondamento insieme al fondato, ogni volta il fondato insieme al fondamento. Non c’è «un cristallizzarsi nel…». Quando il pensiero è nel fondamento è parimenti nel fondato che il fondamento fonda; quando il pensiero è nel fondato è parimenti nel fondamento che dal fondato è fondato e che il fondato fonda. È tutta una gran confusione: ciò che di certo «vi è» è lo sgomento. Ma nella gran confusione del pensiero e nello sgomento errabondo dello stato d’animo dell’angoscia vi è un’ammissione; lo Spirito soggiace al Don Giovanni: perché il Don Giovanni lo definisce e definendolo di conseguenza lo determina come l’escludente; e ogni qual volta lo Spirito esclude, ogni qual volta lo Spirito pone, esso è posto in quanto l’escludente, e il pensiero che muove dalla metafisica, per introdurre ma «solo per introdurre» le categorie di fondamento e fondato, non può che muoversi senza sosta ora presso lo Spirito per trovare anche l’immediato, ora presso l’immediato per trovare anche lo Spirito, ma ciò che trova è un nulla: da una parte e dall’altra. Il nulla dell’angoscia, il nulla che suscita sgomento:

Se è vero che in Don Giovanni la seduzione nasce dal desiderio, è altrettanto vero che il desiderio affonda le sue radici nell’angoscia, anzi è proprio questa angoscia sensuale che preme la vita in un continuo desiderare, nel tentativo di colmare il vuoto che l’angoscia stessa spalanca dinanzi al desiderio dell’uomo condannato al concitato ripetersi di momenti destinati a perire. Questa ripetitività e questa impossibilità di un arresto sono la vera angoscia dell’estetico».

Lo Spirito che vorrebbe fare dell’immediato sensuale, del Don Giovanni «l’escluso da escludere» deve, fatto un passo in avanti — concependo il Don Giovanni come dannazione — farne due indietro, ritornare cioè sui propri passi. Lo Spirito non può che attestarsi all’esperienza, e attestarsi all’esperienza significa ammettere che si è in un certo qual senso confinati. Se lo Spirito è sintesi di anima e corpo, la sintesi che esso è, non avviene a discapito del corpo, ma in virtù del corpo, in virtù di quel contenitore dove lo Spirito è dislocato, in virtù di quel contenitore che soggiace al tempo e che essendo contenitore dello Spirito non può che fare dello Spirito stesso un soggiacente al tempo. Lo Spirito è sintesi di anima e corpo, ma l’esistenza non si riduce allo Spirito: esistere non significa essere la stessa cosa dello Spirito; esistere, essere cioè un’esistenza, significa saltare qualitativamente lo Spirito per inglobare lo Spirito stesso, essere cioè «alle dipendenze» del Don Giovanni; sussistere nel tempo. Che lo Spirito poi si angosci, non è un difetto dell’esistenza, ma la grandezza di questa. Lo Spirito dichiara guerra al Don Giovanni, dichiara guerra all’esistenza, ma l’esistenza divampa, lo ingloba, lo Spirito vorrebbe essere qualcosa di più dell’esistenza, si dà però come qualcosa in meno: Lo Spirito che è il pensiero si riflette in ogni cosa del mondo, vede se stesso come su uno specchio, salta via anche il corpo, ma è illusione, è appunto uno specchio che gli rimanda se stesso, uno specchio e niente più; deve fare i conti con il tempo, con il Don Giovanni che ha l’ultima parola su tutto, Spirito compreso. Lo Spirito che è il pensiero allora vaga in cerca del proprio «cristallizzarsi», esclude il tempo, ma escludendolo lo pone; il tempo a sua volta non può che definirlo, è il Don Giovanni che cade sotto lo Spirito ma che fa cadere lo Spirito sotto sé definendolo, determinandolo con un ultimo, repentino secondo movimento. Lo Spirito che è il pensiero vorrebbe fare dell’escluso posto l’escluso da escludere, non ci riesce ma non può che percorrere all’infinito il circolo «da sempre e per sempre» solcato dove non c’è un inizio, dove non c’è una fine, dove lo Spirito che è il pensiero si affligge perché vorrebbe trovare nel fondato, cioè nel tempo che è Don Giovanni, un fondato, ma vi trova anche il fondamento e trovare nel fondamento, un fondamento, ma vi trova anche il fondato: trova due nulla, e il ciò è contraddittorio, distinti — come è possibile trovare due nulla? Vi è un solo nulla, come un solo infinito —, uno da una parte, lo Spirito, l’altro dall’altra, l’immediato sensuale. Due nulla, anziché uno, perché sono due i luoghi della discrepanza che suscita sgomento: un’unica, raddoppiata immensa angoscia, quella di Adamo.

5. Un nuovo «modello» di tempo, la vita e la morte

Il Don Giovanni è «da sempre e per sempre», non ci stancheremo mai di dirlo. Se il Don Giovanni è «da sempre e per sempre» l’imperituro succedersi di momenti non è l’idealizzazione di una dimensione temporale che deve la sua rappresentazione a un sistema, ma l’idealizzazione di un modello rappresentativo geometrico che taglia i ponti sia con il modello del tempo come circolo sia con il modello del tempo come linea. In poche parole ci troviamo alla mano un «modello» che modello non è, eppure esiste tagliato fuori dal sistema. Il passato ci presenta la metafisica di un mondo greco per la quale si «è da sempre» e la metafisica della cosmogonia cristiana per cui si è solo di passaggio. Entrambi i sistemi forniscono indicazioni su come il tempo deve essere pensato: il tempo come oggetto del pensiero deve la sua riuscita al sistema. Il sistema deve la sua riuscita al tempo. Sono visioni ad ampio respiro, di un respiro che raccoglie un succedersi talmente vasto di generazioni dove l’esistenza scompare: ciò che conta non è il singolo e nemmeno la generazione, ciò che conta è il passaggio di generazione in generazione. Il passaggio rende il sistema un unitario organismo vivente, provoca movimento, porta al fine. L’esistenza invece se si guarda dal di dentro e non all’interno di un processo storico è priva di storia: c’è storia solo laddove c’è un inizio e una fine che è il dispiegarsi e il togliersi del fine. Ma l’esistenza è priva della sua dipendenza da un’origine, è priva di una finalità per la quale si pongono dei fini. Dire che si inizia l’esistenza è fare metafisica: ci si ritrova ad esistere, ci si ritrova ad essere «così o così», e ciò senza averlo voluto, senza avere un perché. Da dove si proviene? E posto che ci fosse un origine: perché questa origine e non un’altra? Perché il provenire? Quale il senso del provenire? Sono tutte domande senza risposta. Si potrebbe obiettare che ciò non spazza via l’inizio dell’esistenza, eppure l’inizio non c’è anche se c’è, o meglio, l’inizio non c’è proprio perché c’è: si nasce ma questo non vale per l’esistenza, vale per le esistenze che tutte attorno hanno occhi incuriositi. Vale per quelle esistenze che hanno presenziato. Il presenziare degli altri ci ha offerto un oggetto, la nostra nascita, un oggetto che tuttavia racconta di noi ma che non siamo noi stessi: la nascita di noi stessi e poi noi stessi; in mezzo c’è un abisso. Tutto a un tratto il bambino che siamo apre gli occhi e ci ritroviamo ad esistere: ma allora c’è un inizio! No, questo non è l’inizio, è il proseguimento di ciò che avevamo alle spalle: è un mandare avanti il passato. L’inizio è un oggetto che ripete noi stessi e che non è noi stessi. Sappiamo di nascere: è solo un sapere per interposto oggetto. Esistiamo ma ciò non è l’inizio. L’inizio sta dietro di noi e tuttavia gli voltiamo le spalle, perché gliele abbiamo voltate all’inizio.

Dire che la morte divampa, dire che la fine è sempre dietro l’angolo, affermare che si muore: è tutto un fare metafisica. È tutto un andare oltre, un oltrepassare l’esistenza. Si esiste e ciò deve bastare, se si è esteti, se si è esistenzialisti, la morte è niente più che una possibilità come voleva Heidegger: anticiparla, lungi dall’essere pessimisti, significa fare un pieno di vita. Si muore: tutto ciò è senza senso. La morte è effettualità, ma per chi? Non per chi la vive, perché non può viverla. Essa è possibilità autentica, la più certa sì, perché possibilità che rimane tale. La morte è più simile a un sogno, tant’è che si rappresenta la morte, paradossalmente, con ciò che alla morte resiste, con l’avversario che rende testimonianza della morte e che allo stesso tempo testimonia che la morte è solo un sogno: lo scheletro. Tutta la passione del gotico per la morte è passione estetica per la vita. Chi non patisce l’esistenza — il che vuol dire: chi non è appassionato all’esistenza — rimane come un bimbo senza età fermo alle suddette considerazioni. Chi fa dell’esistenzialismo l’oggetto della propria vita e attraverso questo, cioè attraverso l’esistenzialismo, fa dell’esistenza l’oggetto della propria vita compie due movimenti; il secondo conseguente all’altro: l’uno cioè in direzione della morte, in un angosciarsi aperto alla morte, alla sua possibilità, l’altro in direzione della vita. Questo è un movimento dialettico. La dialettica dell’esistenza impone così i suoi piaceri. La morte è quella possibilità insuperabile, non perché come a interpretazione di molti non si può non morire ma proprio perché non si muore, che rimane tale. Guardare alla morte significa guardare alla vita che nella morte è riflessa. Significa palesare la contraddizione che si è eternamente finiti. La mera ammissione che si è significa appunto questo: il Don Giovanni non ce lo lasciamo alle spalle, l’inquietudine e il piacere che dal piacere dell’angoscia si lasciano prendere, non sottraggono il Don Giovanni ma lo lasciano libero di essere. Il Don Giovanni attesta che c’è più di una motivazione di morire — in primis il Don Giovanni stesso — ma che non c’è la morte. La morte è tematizzabile solo come possibile, ma mai l’esistenza è rivestita dalla morte; come se la morte dovesse ad un certo punto relazionarsi con l’esistenza e farla propria: tutto questo non accade, tutto questo è metafisica, e lo scheletro che nel gotico fa la storia del gotico è a testimonianza della vita. Lo scheletro che è a rappresentazione della morte ma che morte non è, è più di un mero simbolo di vita, è simbolo dell’imperituro contenere del Don Giovanni, contenere che tiene-con sé l’esistenza e non la lascia andare via: gli altri muoiono ma noi siamo. Siamo nelle spire del Don Giovanni, nelle spire del tempo, via via noi stessi: siamo «così e così» ma mai, tuttavia, morti. Il tempo non ci appartiene ma noi apparteniamo al tempo, nel tempo dislocati, ma ciò di cui facciamo esperienza non è la morte o almeno, prescindendo dagli altri, la morte di noi stessi, di quella non abbiamo esperienza alcuna e non ne avremo, perché mai la morte si è relazionata, ha avuto per così dire il piacere di stringere la mano all’esistenza. La morte rimane possibilità ricca di vita e l’esistenza percorrendone la via prende consapevolezza del Don Giovanni che passa e ci ricorda che il suo è passaggio di un momento ma il suo passare non si riduce al passaggio di un momento; è passare imperituro. La successione dello svanire dei momenti che il Don Giovanni è non è successione che passa a sua volta; nel senso che lascia il passo al passaggio nel vuoto — il vuoto inteso come assenza di «qualcosa», in questo caso come assenza del Don Giovanni — o nel Niente, il Niente che sovrasta la totalità dell’ente e l’eternità, richiamandole da fuori. Il Don Giovanni è lo scheletro, qualcosa in meno della vita, qualcosa in più della morte. Qualcosa in meno della vita perché rifiuta la fissazione dello psichico: l’amore psichico è l’amore di Giove, l’amore terreno, l’amore che ha come oggetto la propria amata. E non importa che Giove ne ami cento oppure una; importa che nell’amare ha un oggetto, l’oggetto del proprio amore. Questo è posto. Sia che la ami o non la ami più, o nel passaggio da una all’altra, cioè nel passaggio da un amore ormai finito al successivo nuovo amore, l’amore di Giove ha un oggetto ben fissato nella sua coscienza. Le amanti amate non sono meramente superate ma superate e mantenute; Giove può fare sfoggio della sua virilità perché di tutte non solo ne ha fatta una per una l’oggetto del proprio amore ma le ha conservate nella memoria di un Dio e un Dio non è mai soggetto alla dimenticanza. Non a caso Don Giovanni non fissa nella coscienza — posto che ne abbia una — ma si serve di una lista per ricordarsi di tanto in tanto dell’immediato sensuale che è.

Qualcosa in più della morte perché è imperituro darsi e togliersi di momenti, si dà tanto quanto si toglie, si toglie tanto quanto si dà: è una linea che cerca la possibilità del circolo, ma ogni qual volta la chiusura verso il sé avviene, ossia l’estroflessione del sé porta all’introflessione del dato empirico; cioè all’oggetto del proprio amore nel quale Don Giovanni vorrebbe riflettersi per dirsi chi è, il cerchio si rompe non appena le due estremità di una linea ormai curva si toccano. Il Don Giovanni è già al momento successivo, il Don Giovanni è perso. Eppure il tempo è il darsi e togliersi dei momenti, è il succedersi dello svanire dei momenti che «da sempre e per sempre è». L’esistenza che nel tempo e solo nel tempo può darsi non può che concepire il tempo al di fuori di ogni sistema, al di fuori di ogni modello rappresentativo geometrico, perché l’esistenza è brutalità. Si ha un solo dato di fatto: che si è, e si è nel tempo. Per questo il tempo, il Don Giovanni non può distendersi in una mera linea o farsi cerchio aggiogato al giogo del sistema: affermiamo che siamo e siamo nel tempo. Il tempo è «da sempre e per sempre»; non la linea, non il cerchio ma «da sempre e per sempre» fuori del sistema.