Recensione ad Anna Pia Viola, Dal corpo alla carne

Anna Pia Viola, Dal corpo alla carne, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2005.

Il lavoro di Anna Pia Viola si focalizza su una questione molto importante nell’ambito della riflessione fenomenologica di Michel Henry: il problema del passaggio dal corpo soggettivo alla carne impressionale. L’argomento si colloca nella seconda parte della sfera speculativa indagata da Henry, il quale a seguito dell’edificazione di una nuova ontologia fenomenologica universale, riprende e approfondisce il discorso legato al corpo i cui spunti principali, lo stesso Henry, li trae sia dal pensiero mistico di Eckhart sia dall’elegante analisi di Main de Biran vertente sulle prospettive ontologiche essenziali della corporeità. Naturalmente a questa analisi si arriva in un secondo momento nel testo: è possibile infatti rintracciare due parti costitutive dell’opera: il «rovesciamento fenomenologico» operato dall’autore dell’Essence de la manifestation (1963) e una seconda parte che riprende la questione, già affrontata da Henry in Philosophie et phénoménologie du corps, e approfondita negli utimi scritti (trittico cristiano), in particolare in Incarnation dove si delinea una fenomenologia dell’Incarnazione che in questo testo trova un interessante confronto con le proposte di autori quali Merleau-Ponty e Sartre.

Tra gli aspetti analizzati dall’autrice per quanto riguarda la questione fenomenologica aperta da Henry spiccano l’originale confronto tra la fenomenicità così come è intesa da Herny nella sua originarietà non riconducibile alla manifestazione mondana e il riferimento alla tradizione filosofica che ha strutturato con Platone una certa concezione del vedere e della valenza gnoseologica di tale atto. Un altro aspetto molto ben articolato è la trattazione del problema del linguaggio, posto da Henry in termini fenomenologici e non molto approfondito dalla critica filosofica che si interessa della sua proposta; questo aspetto si lega a una questione essenziale per l’autrice che è quella dell’ulteriorità: «un tale rovesciamento porterebbe lo stesso percorso fenomenologico oltre se stesso, ad un vero rovescio dunque, verso l’ulteriorità del dato, verso quell’apertura che consentirebbe non solo di andare verso le cose stesse, ma di rintracciare il loro percorso inverso» (p. 34). Nella stessa parte trovano spazio anche approfondimenti precisi sul concetto husserliano di intenzionalità, impressione, passività.

Impossibile non ripartire dal pensiero di Descartes: in particolare si fa riferimento al suo cogito e alla contrapposizione che si viene a creare tra anima e corpo. Un confronto è operato anche sull’interpretazione husserliana del cogito cartesiano, sia dalla prospettiva della fenomenologia classica sia dal punto di vista della fenomenologia materiale di Henry. La conclusione della prima sezione dell’opera si conclude con un approfondimento del concetto di auto-affezione da intendere in relazione alla vita, la sola in grado di manifestar-si senza dover ricorrere a mediazioni o esteriorizzazioni estatiche: «l’uomo, per Henry non è altro che una carne vivente, una carne invisibile, intelligibile nell’invisibilità della vita e solo a partire da essa» (p. 70).

Non si arriva all’essenza immanente della vita attraverso uno sguardo che si configura come «coscienza di» intenzionale, rivolta alla manifestatività degli oggetti propriamente mondani. L’autrice propone alla fine della prima parte del testo una critica già formulata tra l’altro da Xavier Tillette in cui si prospetta il rischio che la fenomenologia rovesciata di Henry, affondando nella sola ontologia della vita potrebbe configurarsi come una nuova monadologia «in cui tutto è fatto di un’unica sostanza fenomenologica […] la Vita e la prova che essa stessa fa di sé» (p. 84).

Nella seconda parte l’argomentazione si concentra sulla questione specifica del corpo, viene ripercorsa per certi versi l’articolazione di Incarnazione testo in cui lo stesso Henry amplia il discorso concernente la fenomenologia della carne. L’autrice segue la proposta henriniana sulla donazione, intesa come Vita che si dona nell’immanenza inestatica, come puro pathos. La donazione fornisce al fenomeno materia e forma senza che intervenga null’altro, pertanto il fenomeno si legge nella donazione stessa. Questi gli intenti e i presupposti individuati dall’autrice nella fenomenologia di Henry; tuttavia la questione sollevata da Anna Pia Viola riguarda la percorribilità di tale fenomenologia materiale. La sua analisi parte dalla questione del mondo, il concetto di «mondo visibile», per poi risalire attraverso la questione della riduzione cartesiana, della contro-riduzione husserliana per poi concretizzarsi in una consistente focalizzazione dei termini propri della fenomenologia della carne di Henry: il corpo, la distinzione tra sensibile e affettivo, la contestualizzazione del discorso rispetto alla riflessione di Merleau-Ponty e dello stesso Husserl. Nella parte finale si dà spazio anche alle considerazioni svolte da Henry sul Prologo di Giovanni e più in generale sulla concezione cristiana della vita, del Verbo e della carne. Tuttavia l’autrice nella chiosa conclusiva sembra non condividere la proposta henriniana. A suo modo di vedere Henry non pratica un vero e proprio rovesciamento della fenomenologia per due ragioni: da un lato sostituisce il principio epistemologico dell’intenzionalità con la Vita trascendentale immanente a sé. Inoltre secondo l’autrice, il superamento del corpo operato da Henry in favore della carne lede il valore della singolarità che reclama la sua propria dignità: «in altri termini, riteniamo che il corpo sia luogo di esperienza di sé essendo quella condizione di possibilità che ne costituisce la trascendenza». Il secondo aspetto rinvia alla fenomenicità così come la intende Henry, la cui essenza non riceve una intelligibilità all’interno dell’orizzonte mondano di manifestazione; ciò significa che la cosalità del fenomeno non viene considerata da Henry, il quale fonda la materialità del fenomeno sulla «condizione di possibilità» della realtà e non sulla realtà stessa nella sua propria effettività. Così facendo, a detta dell’autrice, Henry non riesce a fornire una lettura reale della carne singolare di ogni individualità: «se il principio di intelligibilità della carne è posto in un a priori trascendentale, allora non siamo solo fuori dalla carne, dalla concretezza dell’essere carne, ma è esclusa anche la novità del dato che un a priori non può dare» (pp. 236-237).

Pertanto i fenomeni risulterebbero una manifestazione della Vita che è già sempre uguale a sé e non ha nulla da acquisire. Questa critica apre alcuni quesiti sul procedere fenomenologico di Henry che radicalizza una concezione fenomenologica non-intenzionale, prospettiva osteggiata dalla stessa autrice che riconosce una valenza alla stessa intenzionalità, e più in generale si vuole andare oltre la condizione di possibilità dei fenomeni: «una presa meta-fisica che dica del fenomeno la sua ulteriorità» (p. 239). Tuttavia resta aperto il problema fondativo legato alla coscienza intenzionale che rimanda sempre a qualcosa di più originario, questione che mette in seria difficoltà le basi stesse della fenomenologia.