Fenomenologia della manifestazione. All’origine del pensiero di Michel Henry

1. La questione della fenomenologia: la manifestazione

Nel quadro delle correnti filosofiche novecentesche, la fenomenologia husserliana rappresenta forse l’ultimo grande tentativo di fondare attraverso la riflessione filosofica un sapere che si presenti a pieno titolo come sophía; una conoscenza rigorosa e valida in grado di costituire una risorsa essenziale per qualsiasi scienza che si preoccupi di investigare e ricercare il fondamento epistemico dell’essenza attraverso l’impiego di una metodologia adatta a conferire quel grado di intelligibilità necessario a strutturare una ricerca che pretende di valere sub specie aeternitatis. La fenomenologia di Husserl vuole essere un sapere ultimo e fondativo che si dipana a partire dal modo in cui lo stesso concepisce la razionalità: secondo Husserl è possibile fondare una scienza ultima sulla pienezza e sull’autenticità della ragione, depurata da quegli elementi irrazionali o dalle esasperazioni metafisiche che precludono al sapere filosofico una legittimazione universale, e che, nel corso soprattutto del novecento, hanno portato sempre di più la speculazione filosofica verso prospettive scettiche. Questa esigenza di fondo che anima l’essenza stessa della ricerca husserliana per certi versi trova una larga corrispondenza anche nella fenomenologia contemporanea, nello specifico la «questione» focalizzata e metodologizzata dalla fenomenologia resta il punto di partenza anche per Michel Henry.1

Il merito assoluto di Husserl è stato quello di aver teorizzato un metodo e soprattutto nell’aver individuato una questione che si configura come la questione essenziale della filosofia: l’apparire, il modo in cui si donano i fenomeni. Emerge tuttavia dall’analisi fenomenologica di Henry una duplice esigenza che investe l’intera corrente fenomenologica: il rinnovamento di cui necessita la fenomenologia, possibile solo a condizione «che la questione che determina interamente (la fenomenologia — l’apparire), e che è la ragion d’essere della filosofia, sia essa stessa rinnovata».2 Il secondo aspetto invece interessa la radicalità della riduzione fenomenologica. Radicalizzare la questione della fenomenologia non significa solamente mirare alla fenomenalità pura, significa in un senso più profondo interrogare la modalità attraverso cui la fenomenalità stessa si fenomenalizza originariamente, individuare la sostanza, la stoffa, la materia fenomenologica di cui essa è fatta: la sua materialità fenomenologica pura.3

Gli elementi essenziali all’edificazione di una fenomenologia materiale vengono trattati e delucidati da Henry nell’Essence de la manifestation che risale al 1963. In questo lavoro viene operato un vero e proprio rovesciamento fenomenologico,4 che rimette in discussione gli aspetti «classici» della fenomenologia husserliana (intenzionalità, riduzione, trascendenza, rappresentazione) che hanno determinato a pieno una specifica modalità di guardare ai fenomeni, caratterizzata da una esigenza speculativa del fuori, da intendersi come una forma di conoscenza configurantesi come un «portarsi verso» i fenomeni, aprire un orizzonte di visibilità attraverso il quale è resa possibile ogni forma di conoscenza razionale. Ad essere riconsiderato è il rapporto, già appartenente alla filosofia classica, tra il vedere e il conoscere: «è questo il tema che mantiene sempre aperta la domanda tra idea e realtà, tra pensiero ed essere, in un’implicazione continuamente ribaltata di immanenza e trascendenza, visibilità e invisibilità, materia e spirito».5

Henry partendo dal concetto di verità così come è stato suffragato dalla «verità greca», legata ad un orizzonte di visibilità e categorizzante una manifestazione da intendere come «puro vedere», apre ad altre strade che portano ad una concettualizzazione del tutto originale della verità ma soprattutto della manifestazione. Da un punto di vista fenomenologico la fenomenologia materiale di Henry considera la manifestazione colta nella sua purezza fenomenologica come l’essenza della verità: il fenomeno infatti non raggiunge quel grado di assolutezza necessario o preteso dall’autore necessario a garantire la resistenza e la coerenza di qualsivoglia fondamento fenomenologico. Fondare la fenomenologia sul solo fenomeno significa per Henry assegnare alla verità lo statuto fenomenologico dell’evidenza mondana, dal momento che nel mondo ci si dà in un altrove (orizzonte di visibilità); si può di re che la luce rischiaratrice appartenente al mondo è in grado di rappresentare il vero ma non è la verità, quest’ultima si rintraccia nell’ambito specifico della vita che non differisce in nulla da ciò che rende vero. Ne consegue che la materia fenomenologica della verità, la sua essenza, risiede nella manifestazione stessa. Ciò lascia intendere come Henry critichi in modo acceso l’ambiguità che si è celata dietro tale concetto (vedere), già a partire dall’influenza platonica. È presente in Platone una duplicità rispetto al concetto di verità: da un lato c’è l’evidenza (svelarsi) e dall’altra la correttezza del guardare da parte del soggetto. In Platone è presente l’ambiguità che investe il visibile, sensibile da un lato e intelligibile dall’altro, generando un dualismo sostanziale tra anima e corpo in cui ad avere la meglio è sempre la prima. La portata ontologica di un tale slittamento di significato del termine vedere ha generato l’identificazione nel soggetto di attività e contenuto, ciò significa che è il soggetto che vede; in altri termini la verità diventa non più ciò che si svela come altro dal pensiero, ma il pensiero stesso nella sua correttezza. L’ambiguità in cui permane il vedere inteso come ciò che è visibile nell’ambito della speculazione filosofica occidentale, trova una netta contrapposizione nell’articolazione filosofica di Henry per il quale in prima istanza occorre ri-comprendere il significato autentico del termine, che preso nel solo ambito di visibilità o manifestatività mondana resta sin dall’inizio limitato alla sfera formale del visibile: il vedere inteso come esteriorità del mondo reifica, diventa oggetto tra gli oggetti e perde la propria valenza fenomenologica essenziale. Henry vuole recuperare e per certi versi rielaborare il concetto originario di manifestazione, il manifestar-si considerato nella sua propria originarietà, nella propria possibilità manifestativi che si configura come un’auto-manifestazione.

È necessaria una chiarificazione sul significato corretto da attribuire all’apparire e distinguerlo necessariamente dal fenomeno. Come afferma lo stesso Heidegger si riesce a delucidare il concetto di fenomeno solo nel momento in cui si considera il fenomeno stesso come ciò-che-si-manifesta in se stesso, altrimenti parlare del fenomenotale concetto gravita esclusivamente in una concettualizzazione formale. È chiaro che dopo tale affermazione si riesce a comprendere più agevolmente cosa sia da intendere quando si parla dell’«apparire» dei fenomeni: il vero oggetto della fenomenologia non risultano essere i singoli fenomeni ma l’atto stesso d’apparire e ciò che lo rende possibile, cioè la possibilità stessa dell’apparire di auto-apparire. L’indagine compiuta da Henry vuole spingersi fino agli strati ultimi dell’apparire, determinare che cosa sia la fenomenalità, quale sia la sua struttura trascendentale. Quindi la domanda che si pone Henry nel testo del 1963 sull’essenza della fenomenalità, presuppone una modalità diversa d’interrogarsi sulla natura ultima della manifestazione, ricercandone di nuovo — radicalmente — l’essenza, finalità esplicitata già nel titolo dell’opera.

2. Monismo ontologico. Dall’unilateralità alla duplicità dell’apparire

La questione afferente al problema della manifestazione esige un ulteriore approfondimento che prenda in considerazione due aspetti estremamente importanti e tra loro legati: la categorizzazione dei principi fenomenologici elaborata da Husserl che poggia su una specifica «omissione" o scelta fenomenologica che ne determina la sostanziale instabilità e la modalità attraverso cui ci si accosta alla fenomenicità pura, ciò che Henry definisce appunto monisme ontologique.6

Per quanto riguarda la fenomenologia husserliana il suo intento originario è di esibire un dato assoluto in possesso della «realtà effettiva». La sfera in cui è verificabile un tale dato risulta essere quella della cogitatio, ciò che Descartes affermava con il dubbio, Husserl lo afferma di ogni cogitatio: la fenomenologia di Husserl è la scienza delle cogitationes, di cio che appare, dove apparire lo sottolineamo ancora una volta significa essere realmente, ciò che possiede i caratteri di un «dato reale». Entrando ancor più nello specifico nel § 85 di Ideen I Husserl definisce cosa intende con fenomenologia iletica: è da questa definizione che viene messa in gioco la stabilità delle tesi essenziali della fenomenologia. All’interno della coscienza vengono separati momenti reali e ir-reali, gli ultimi appartengono al noema. Nella soggettività stessa vengono separati ulteriormente i momenti iletici (materiali) e i momenti intenzionali. I secondi animano i primi e donano loro un senso. Tuttavia seppure Husserl abbia distinto rigorosamente tra i caratteri nomatici e i puri vissuti sensuali, lo stesso poi determina l’essenza della hyle in modo duplice: positivamente per la sua appartenenza alla realtà stessa della soggettività assoluta; negativamente per l’esclusione in lei di ogni intenzionalità. Tale duplicità genera problemi abissali, riconducibili a questa seplice considerazione: se due essenze differiscono assolutamente, risulta problematico il fatto che entrambe promuovano insieme l’omogeneità in cui ogni realtà attinge la sua possibilità principale. Forse tra le due è sotteso un legame di fondazione, ma quale tra fenomenologia hyletica e fenomenologia della coscienza intenzionale è da considerare la disciplina suprema? Questa la domanda che si pone Henry e che in un certo senso si è posto anche Husserl, lasciando però il problema in sospeso. Questa indecisione di Husserl riguarda la struttura interna dell’Archi-fondamento.7 La separazione tra hyle e morphé, sempre rimandata, si spiega con uno slittamento inavvertito dell’analisi di materia, il cui senso originario viene sostituito con un altro che trasporta la fenomenologia iletica fuori dal proprio dominio proiettandola all’interno di una fenomenologia intenzionale e come tale costitutiva. Il senso originario di materia si può riferire all’impressione di cui la materia è fatta, la sensazione, ne consegue che i momenti iletici del vissuto si ricollegano al «colore sensuale», al puro dolore, alla gioia pura quindi a quell’ambito impressionale che per principio è non intenzionale. La materia si trova sovra-determinata dalla funzione che assolve nella totalità del vissuto noetico, diventa materia per le operazioni impressionali: ob-jectum. I colori iletici diventano degli adombramenti attraverso i quali l’intenzionalità scandaglia le qualità sensibili: la materia non è la materia dell’impressione, l’impressionale e l’impressionalità come tali, essa è la materia dell’atto che la informa, una materia per questa forma. Nemmeno il darsi di questa materia le appartiene: «non è la materia stessa che dà, che si dà essa stessa in virtù di ciò che è […]. Essa si dà alla forma, vale a dire mediante la forma. Si dà alla forma per essere in-formata, costituita, appresa da essa. […] Ma costituire, […] vuol dire far vedere, vuol dire dare».8 Le apparizioni sensibili sono fenomeni solo se animate da una noesi intenzionale e portate attraverso essa all’apparenza. Una relazione nel reale del vissuto di questo tipo crea una dissimmetria radicale tra la componente iletica e la componente intenzionale della soggettività assoluta, mentre la prima fornisce all’esperienza il suo contenuto, la seconda lo propone come contenuto nella luce da lei stessa prodotta: «l’intenzionalità […] equivale ad un medium universale, che in conclusione porta con sé tutti i vissuti, anche quelli che non sono caratterizzati come intenzionali».9 Questa frase attesta già una e-iezione nella trascendenza ontologica della morphè, ossia una de-iezione della hyle nell’ontico. I vissuti intenzionali o contenuti primari, perdono il loro quid impressionale, legato alla sfera affettiva e volitiva per essere ricompresi da Husserl nei data impressionali, rendendo manifesto che l’affettività e la pulsionalità sono in se stesse intenzionali; l’elemento impressionale non ne costituisce l’essenza ma funge da data sensibili che svolgono il ruolo di materia per fornire un contenuto all’atto intenzionale che li scaraventerà fuori da se stessi nella verità dell’oggetto. La materia non è l’impressionalità dell’impressione, ma è materia di un atto e ha la funzione di fornire a questo atto il contenuto a partire dal quale l’atto compie la propria funzione di mostrare l’oltrepassamento intenzionale in cui si dispiega la luce dove questo contenuto sarà un dato. Il problema che si nasconde in questa analisi riguarda la rivelazione originale, croce secondo Henry della fenomenologia husserliana. Tale difficoltà viene aggirata facendo ricorso a una tematica noematica: è l’analisi del noema che permette di definire la natura delle noesi che lo costituiscono. Il problema diventa non aggirabile nel momento in cui non c’è più noema, cosa che avviene appunto per la hyle, quando un correlato noematico corrisponde all’impressione. Ciò avviene per esempio con la sfera dei vissuti affettivi, pulsionali e volitivi. La fenomenologia husserliana interpreta sempre questo potere di rivelazione dell’affettivo come carattere formante esclusivo di ogni intenzionalità, anzi costituita proprio da quest’ultima. L’affettività considerata come rivelante, non è più sé, ma partecipa all’essenza generale della coscienza in quanto è intenzionale. Per Husserl il sentimento è un atto e i predicati del sentimento sono predicati determinanti oggettivi che rinviano ad una affettività fondatrice descritta dallo stesso come l’attività intenzionale costitutiva dei predicati assiologici.

Il carattere affettivo dell’atto stesso è già perso. Un’intenzionalità precede il vissuto sentimentale. Il Wertnehmen è l’analogon nella sfera del sentimento della Wahrnehnung.10 Dall’analisi di Henry emergono due fenomenologie distinte e separate: una fenomenologia iletica vertente sul materiale e una fenomenologia noetica che si rapporta ai momenti noetici. Tra le due la fenomenologia iletica sta sotto, dato che l’instaurazione e la promozione della fenomenologia pura intesa come coscienza di qualcosa, in quanto intenzionalità, è ciò che viene considerato e avvalorato dalla fenomenologia noetica, per cui essa è in senso proprio fenomenologica: il suo oggetto è la donazione come tale, l’apparire di tutto ciò che appare. Poiché questo apparire si radica nell’intenzionalità e si esaurisce in essa, tutto ciò che non è intenzionalità si trova spossessato: la materia (non-intenzionale) è lasciata «nella notte abissale dell’ente».11 La fenomenologia iletica risulterebbe una filosofia pre-critica. Se è possibile definire ogni fenomenologia trascendentale in quanto prende nel suo sguardo la donazione, la riduzione trascendentale fa emergere che l’apparire che consiste nell’intenzionalità ha bisogno di un contenuto, una materia, con cui intrecciarsi. La fenomenologia intenzionale è la fenomenologia trascendentale, ma sottolinea Henry che il trascendentale ridotto alla noesi intenzionale non è veramente un trascendentale, una condizione a priori, se questa esige tutt’altro da sé, qualcosa che è innanzitutto: l’impressione. La duplicità delle fenomenologie si collega alla duplicità del dato. Tutto ciò che è dato ci è dato in qualche modo due volte: la prima donazione è misteriosa, è l’Empfindung. Essa è una certa donazione e un certo dato, […] il modo di donazione è esso stesso il dato: l’affettività è identicamente il modo di donazione dell’impressione e il suo contenuto impressionale, il trascendentale in un senso radicale e autonomo. E poi questo primo dato, […] è dato una seconda volta, nell’intenzionalità e attraverso essa, come una cosa trascendente e irreale, come il suo faccia a faccia.12 L’intenzionalità piuttosto che adoperarsi come libero principio per l’esibizione dell’oggetto, attinge al contrario da esso, dalla sua materia, rivelando la priorità della hyle sulla morphè, mentre nella fenomenologia dell’intuizione l’impressione è concepita come un datum privo di alcun significato, il suo significato lo riceverà dalla coscienza.

Il problema essenziale a cui rimanda l’intera questione, il problema della fenomenologia stessa, è il modo in cui la materia si da a se stessa, la sua auto-donazione, se effettivamente l’impressione si auto-rivela o magari è legata indissolubilmente alla manifestazione estatica aperta dall’intuizione. L’errore o meglio l’illusione del positivismo fenomenologico si rivela nel momento in cui la riflessione non riesce a cogliere l’essenza del fenomeno13 e trova nella semplice apparenza il suo carattere assoluto, rendendo l’assoluto qualcosa di rappresentabile.

Questo aspetto è stato sempre affrontato fin dai greci con un sostanziale unilateralismo speculativo, ereditati anche da Husserl, che Henry definisce come un «monismo ontologico», tale limitazione investe a pieno la condizione della fenomenalità indagata sempre ed esclusivamente in una sola direzione cioè attraverso il dispiegarsi di un orizzonte di visibilità che implica la creazione di una distanza, il manifestarsi di un Fuori che significa ricercare la fenomenicità attraverso la messa a distanza di un soggetto coscienziale che attraverso il medium della differenza (rappresentazione) rende visibile in-un-mondo l’essenzialità della manifestazione: cercando si svelare (concettualizzare) il principio stesso dello svelamento perde ogni immediazione con l’essenziale.

L’essenza del fenomeno non si trova all’esterno rispetto al fenomeno stesso, anzi gli è così interna da fondarlo, è grazie a ciò che trova il suo «principio»,14 la stessa risulta dunque essere autonoma, è la Selbständigkeit della conoscenza ontologica. La Selbständigkeit significa che il divenire fenomenale è immanente all’essenza originaria e pura della fenomenalità.

Da quanto affermato in precedenza risulta evidente come Henry prospetti un ritorno radicale alla fenomenicità pura, alla manifestazione che perde quel suo carattere monistico sul piano ontologico per riappropriarsi della sua essenziale duplicità: esistono due diverse modalità dell’apprire dei fenomeni, esistono due realtà eterogenee di manifestazione dei fenomeni che ricalcano e si rapportano alla condizione ampiamente affrontata da Herny rispetto al rapporto fondativo intercorrente tra l’immanenza e la trascendenza. Così come a detta di Herny l’immanenza è la sola in grado di fondare la trascendenza15 è la possibilità di principio della trascendenza, allo stesso modo il visibile fenomenico che si manifesta nel mondo affonda la propria possibilità d’esistenza ontologica nell’invisibile, nell’immanenza patica della vita che nella fenomenologia di Henry assume un valore paradigmatico.16

3. Descartes e il Videre Videor: il problema della rappresentazione come medium fenomenologico

Risalire alla radice dello slittamento del significato attribuito alla manifestazione significa riconsiderare radicalmente il Cominciamento proposto da Descartes e il ruolo che da questo momento in poi assume il concetto di rappresentazione. Le domande condivise da Descartes e Henry sono le seguenti: che cosa comincia in un senso radicale e in cosa consiste l’inizialità di questo Cominciamento.

L’essere sicuramente ha questa senso di radicalità: è ciò che da sempre dispiega la sua propria essenza. Per quanto riguarda la seconda questione, se si cerca ciò che è già dato prima di ogni cosa, nel momento in cui appare inizialmente, ci si accorge che la ricerca porta all’apparire stesso (apparaître), in quanto appare sin da principio se stesso e in se stesso;17 quell’apparire come tale che Descartes chiama «pensiero». Quello che appare in quanto forma (paraître) della cosa è da considerare ancora il cominciamento dell’ente. Attraverso cinque osservazioni Henry approfondisce il discorso sul cogito: nella prima si contesta la non radicalità del cogito, poiché presuppone qualcosa prima di esso, una pre-comprensione ontologica almeno implicita che riguarda l’essere. Tale premessa non è nient’altro che l’apparire che Descartes chiama «pensiero». Per cui l’affermazione «io penso dunque io sono», indica una definizione fenomenologica dell’essere attraverso l’effettività di questa rivelazione dell’apparire in se stesso e come tale. La seconda osservazione inerisce all’abbozzo di una ontologia fenomenologica che ha le sue radici proprio in Descartes. Dunque si tenta di risalire dal pensiero all’essere, non in modo da lasciare il suo concetto vago o indeterminato, al contrario vuole far cenno in direzione della sua essenza. Il nome che viene attribuito all’essere è quello di sostanza o cosa. Infatti cosa, nell’espressione «cosa che pensa», in questa fase del cartesianesimo del cominciamento, non indica niente che sia al di là dell’apparire nell’attualità della sua effettuazione, e focalizza l’attenzione su ciò che si mostra nel mostrarsi stesso: quel qualcosa della sostanza non è altro che l’apparizione dell’apparire nella sua folgorazione o nella sua Parousia. Questo significa inizialmente l’idea di res cogitans, una cosa la cui essenza consiste interamente nel pensare, la cui sostanzialità e materialità sono la sostanzialità e la materialità della fenomenalità pura come tale, e nient’altro. Inizialmente Descartes fu capace di considerare il pensiero in se stesso, come pura apparenza,18 ma dopo questo riconoscimento del Cominciamento nella sua inizialità, Henry illustra nel terzo punto una caduta fatale di Descartes: il pensiero diventa l’attributo principale di una sostanza che rimane al di là di esso, così che il concetto adeguato di sostanza viene riservato a Dio mentre il pensiero stesso non è più che una sostanza creata. Il quarto momento prende in considerazione l’istituzione all’interno del Cominciamento cartesiano di una differenza essenziale tra l’anima e il corpo: l’anima deriva la propria essenza dall’apparire e lo designa specificatamente, mentre il corpo per principio è sprovvisto del potere manifestativo. «È l’anima che vede, e non l’occhio».19 Il lavoro di riduzione fenomenologica operato dal cogito attua una separazione tra l’apparire dell’apparire (l’apparaître de l’apparaître) e ciò che in esso si manifesta (paraît), favorendo l’apparire rispetto a ciò che appare, ovvero l’anima piuttosto che il corpo. L’ultima annotazione di Henry riguarda l’applicazione al cominciamento cartesiano delle categorie metafisiche di essenza ed esistenza inteso come un videre videor. Tale passaggio è essenziale, e ci permette di arrivare con maggiore consapevolezza nei pressi dell’oggetto della nostra ricerca: la radice ontologica del concetto di rappresentazione.

La questione dell’essenza dell’apparire porta nel cuore stesso del cartesianesimo, infatti come accennato prima, il cogito trova la sua formulazione più estrema nella proposizione videre videor20 presente nella Seconda Meditazione. Il videre videor rappresenta l’epoché radicale del cartesianesimo; tutto è messo in dubbio, ciò che resta è questa visione, la pura visione considerata in se stessa come «fenomeno». Ciò che in essa è visto viene messo in crisi fino a rendere il contenuto stesso della visione del tutto inconsistente. Il dubbio iperbolico pone in discussione anche la visione formale, criticando l’ambito di visibilità entro cui i contenuti essenziali sono visibili. Alla fine, questo ambito di visibilità e i contenuti stessi del vedere, perdono il loro potere di manifestazione, dato che le forme «reali» che credo di vedere potrebbero appartenere come supposto da Descartes all’universo del sogno, dove nulla è reale. Alla domanda che cos’è vedere, dopo che l’occhio è stato impedito dalla riduzione e riconosciuto incapace di compiere la visione, questa è restituita al puro fatto di vedere. Descartes ci dice che il puro fatto di vedere presuppone un orizzonte di visibilità, una luce trascendentale che rischiara le essenze (matematiche) immerse in questa luce. Motivo per cui, vedere significa guardare verso e raggiungere ciò che si tiene davanti allo sguardo: è attraverso l’«ob-iezione» di ciò che è gettato e posto che questo si trova ad un tempo e allo stesso modo visto e guardato. Ma cosa si intende con ob-iezione?

Per Henry l’ob-iezione coincide con l’e-stasi, l’essere-posto-davanti come tale, è l’apertura dell’aperto come differenza ontologica sulla quale si fonda ogni presenza ontica. L’e-stasi è la condizione di possibilità del videre e di ogni vedere in generale.21 Questa affermazione è centrale all’interno dell’economia del pensiero henriniano, sancendo una direttrice che l’intera fenomenologia materiale manterrà come riferimento: l’ambito estatico che sempre presuppone un proiettare qualcosa al di fuori per poter essere vista perde in questa operazione l’originarietà dell’essenziale, o meglio, si perde l’originarietà che nella sua essenza è priva di differenza. Questo risulta dall’analisi del Cominciamento cartesiano secondo la categoria dell’essenza. At certe videre videor: almeno mi sembra di vedere.22 Descartes stabilisce che questa visione, seppur fallace, almeno esiste.

Ma che cosa significa esistere? Secondo i presupposti del cartesianesimo esistere vuol dire apparire, manifestar-si. Videor non designa altro che la capacità originaria di apparire e di darsi, in virtù della quale la visione si manifesta e si dà originariamente a noi.

La questione posta da Henry è cruciale: l’essenza originaria della rivelazione è riducibile all’e-stasi della differenza ontologica? In nessun modo. Questa è la risposta. L’argomentazione parte dal senso della duplicazione del videre nel videre videor: dato che l’essenza presente nel videre non corrisponde a quella presente nel videor dato che è stato appurato che producendosi nell’e-stasi il videre non è in grado di auto-leggittimarsi, altrimenti non si spiegherebbe il senso di qualsiasi duplicazione. Il principio distrutto dall’epoché non può più salvare se stesso: il vedere non avendo più alcuna validità per fondare una qualunque cosa, non è in grado di assolvere il compito preliminare dell’auto-fondazione. Dunque l’apparenza primitiva che attraversa il videre è strutturalmente eterogenea rispetto a quell’apparenza che è il vedere stesso nell’e-stasi. Quando Descartes dice «almeno mi sembra di vedere» non vuol dire «penso di vedere» ma come ha giustamente osservato Ferdinand Alquié: il senso proprio dell’affermazione constata non la coscienza riflessa del vedere, piuttosto l’impressione immediata di vedere. Il che significa che Descartes decifra l’essenza originaria dell’apparire espressa nel videor come un «sentire»: io sento che penso, dunque sono.23 Il pensare di vedere significa sentire che si vede, il videor designa questo sentire immanente al vedere che fa di esso un vedere effettivo.

Siamo arrivati in maniera più consapevole al concetto di rappresentazione, ora è utile rilevarne le innumerevoli implicazioni nell’ambito della fenomenologia e non solo: nel momento in cui l’interiorità è ridotta a un vedere, a condizione dell’oggettività, la rappresentazione diventa la struttura fondamentale di questa deriva dei significati originari della fenomenologia. Henry rileva nelle parole di Malebranche una sintesi precisa al problema di fondo del cogito il quale non significa una sola cosa, ma due, non soltanto diverse, addirittura opposte, al punto che la loro co-appartenenza all’origine è uno dei problemi principali della filosofia: il cogito non è una evidenza ma come lo interpreta il nostro autore «un abisso di oscurità“.24 Questa affermazione inverte il rapporto instaurato da Descartes tra conoscenza dell’anima e conoscenza del corpo: è solo quest’ultimo ad essere in grado di acquisire un sapere. Tuttavia avendolo annientato con la riduzione, Descartes apre ad una visione del Cominciamento di tipo intellettualistico-conoscitivo, seppure è da riconoscergli la critica svolta contro la rappresentazione, a proposito dell’esperienza sensibile, mostrando come l’idea delle sensazioni sia in un certo senso innata e sciolta dall’ente. Ciò significa che alcune idee non hanno bisogno di uno statuto rappresentazionale, esplicatesi e sussistente nella rappresentazione. Allo stesso tempo però, Descartes fornisce due nature al concetto di idea: una formale e l’altra oggettiva, una immanente e l’altra rappresentativa. L’errore di Descartes, sottolineato da Henry, è stato quello di privilegiare arbitrariamente la realtà oggettiva legata alla rappresentazione. Questo snaturamento del cogito porterà Heidegger a dire che l’io penso equivale all’io mi rappresento. L’importanza del concetto di rappresentazione in Heidegger diventa straordinaria e porterà ad una vera e propria modificazione della concezione di «essenza dell’essere» stesso. L’ego cogito si inserisce all’interno della metafisica moderna come il fondamentum inconcussum veritatis, l’uomo è diventato il fondamento della verità usurpando quelle prerogative che originariamente spettavano all’essere. L’elemento che garantisce l’evidenza necessaria ad una tale operazione è propriamente la rappresentazione: «ogni ego cogito è cogito me cogitare; ogni ‘io mi/rappresento/io pongo davanti a me qualcosa’ è nello stesso tempo un ‘mi’ rappresento/ mi pongo davanti a me/, a me che mi rappresento qualcosa/. Ogni rappresentare umano è, secondo un modo di parlare che si presta facilmente al malinteso, un rappresentar-’si’ davanti a sé”.25

Da questa affermazione si potrebbe asserire che l’ipseità dell’ego deriva dalla struttura della rappresentazione ed è comprensibile a partire da questa. Naturalmente viene riaffermato più volte da Henry l’ambiguità in cui è incappata la filosofia occidentale, conferendo alla rappresentazione il compito di svelare l’originario, l’ipseità stessa dell’ego, quel qualcosa che vive nell’essenzialità della vita e al di fuori della mutevolezza «chiara» del mondo: si chiede alla rappresentazione di portar-ci dinanzi a noi stessi prima ancora dell’immediatezza stessa della vita che scopre sé in noi nel pathos originario di ciò che da sempre è presente in sé. Questa separazione tra l’immanenza e l’esteriorità rappresentata nell’intelletto è difficile da mantenere, Henry auspica che la sua fenomenologia materiale possa riportare un equilibrio e una luce interiore che sveli in silenzio la distinzione radicale tra ciò che è morto e ciò che è vivo. La rappresentazione può rappresentare solo un Sé che porta già il Sé al suo interno, visto che quest’ultimo non è implicato nella rappresentazione come suo sub-jectum se non perché vi è pre-supposto. È necessario un rovesciamento, un capovolgimento degli assunti filosofici che pongono il proprio fondamento nell’orizzonte estatico della rappresentazione, è questo il lavoro che muove all’interno della riflessione di Michel Henry26 ed è questa la denuncia lanciata sull’ambiguità che si cela all’interno del concetto stesso di rappresentazione.

4. Sapere come sentire: l’auto-manifestazione della Vita

Ora, dobbiamo chiarire il significato che è associato al sentire. Lapidariamente Henry afferma che Descartes per quanto riguarda il sentire sottoscriverebbe la tesi heideggeriana per cui vista e udito sono possibili solo sul fondo del Dasein che allontana, dunque è presupposta una visione trascendentale, il che ridurrebbe il videor al videre, il sentire immanente al pensiero, ovvero un sentire e-statico. Tale riduzione non è possibile per tre ragioni:

  1. la certezza del cominciamento non risiede nel vedere che può essere fallace;
  2. l’anima non può essere sentita perché non si tratta della semplice sensorialità del sentire: «col nome di pensiero comprendo tutto quello che è in noi in modo che ne siamo immediatamente consapevoli (ut eius immediate conscii sumus)";27
  3. la problematica radicale istituita dal cartesianesimo del cominciamento si muove interamente all’interno di un atteggiamento di riduzione che ne determina la radicalità, motivo per cui l’apparire nella sua rivelazione originaria a se stesso ignora l’e-stasi.

In pratica è a questo pensiero di vedere e di toccare, in quanto recante in sé l’e-stasi del sentire, che si sottrae il manifestarsi originario, in cui il pensiero sente immediatamente se stesso e si prova nel videor che gli è consustanziale. Il sentire è investito da una duplicità, uno sdoppiamento essenziale che all’interno dell’orizzonte del monismo ontologico non era possibile rilevare: esiste un sentire che potremmo definire sensibile che regna nell’ambito del videre, un sentire trascendentale che trova la sua essenza nell’e-stasi a cui si oppone radicalmente un sentire primitivo del pensiero, il sentire se stesso che consegna originariamente il pensiero a sé e ne fa ciò che è: l’originario apparire a sé dell’apparire. Nel suo apparire inaugurale, il pensiero si ritira dal mondo ed è irriducibile al vedere; non è il vedere a costituire l’effettività prima della fenomenalità e il suo sorgere, al contrario, il videre può vedere ciò che è visto solo se è in primo luogo possibile come vedere, cioè scorto in se stesso. Il sentire-se-stesso in cui risiede l’essenza del pensiero è diverso dal sentire che riposa sull’e-stasi, la quale fonda l’esteriorità, che può essere considerata come il suo svolgersi. Il pensiero, nel suo sentire se stesso esclude l’e-stasi, e dispiega la propria essenza come un’interiorità radicale, tanto che è questo modo di essere in noi a costituire propriamente l’essenza prima della coscienza, la rivelazione nella sua forma originaria, ciò che Descartes chiama Spirito, è quest’ultimo a costituire l’effettività prima della fenomenalità. Secondo Henry, solo all’interno di una fenomenologia materiale il concetto di interiorità può ricevere una legittimazione definitiva, senza essere relegata con il titolo di semplice concetto, come l’anti-essenza formale dell’e-stasi. Descartes compie una riflessione simile analizzando le passioni dell’anima: dal piano del pensiero si passa a quello delle passioni che resistono alla riduzione, dal momento che anche quando dormiamo possiamo ingannarci su tutto, tranne sul fatto di «sentire»28 la tristezza o la commozione, passioni che a differenza delle percezioni sono così vicine e interne da non generare dubbi di autenticità o irrealtà. Ne consegue che il fondamento materiale di quell’interiorità risiede proprio nell’affettività del pensiero, nella sua solitudine, che si dispiega a partire da sé, ciò significa che deve essere compresa come «questa essenza» e come la sua possibilità più intima, cioè come auto-affezione. Descartes non fa dipendere la passione dal corpo, ma erroneamente eguaglia l’attività percettiva a quella volitiva: le passioni diventano delle «azioni». Questo passaggio denota e ravvisa il ritrarsi di Descartes davanti alla sua scoperta essenziale. Alla fine della Seconda Meditazione verrà introdotta una nuova definizione di pensiero mai formulata fino a quel momento: «io non sono dunque […] che una cosa che pensa, cioè uno spirito, un intelletto, una ragione […]».29 Dunque si è passati dall’auto-affezione dell’apparire alla sua condizione trascendentale, al lume naturale o meglio al lume della ragione. Non è l’essenza, non è l’ente ad essere finito, ma il luogo in cui appaiono, l’orizzonte di visibilità che non consente all’auto-manifestazione «infinita» della Vita di rivelarsi.

Il merito più importante della riduzione cartesiana è stato quello di aver provocato una frattura in cui è possibile una dimensione invisibile: la soggettività nella sua immanenza radicale identica alla vita. Descartes non ha concepito l’affettività come la sostanza fenomenologica dell’auto-affezione, a cui ha fatto seguito una deviazione istoriale della filosofia moderna che perde l’essenza della vita divenendo una storia del pensiero. Si produce addirittura un ribaltamento per cui l’e-stasi prende il posto dell’affettività, la ratio domina l’essenziale, il cogito non è più la vita ma è diventato la conoscenza. Si passa dal cogito al cogitatum, dal videor al videre, dalla aperceptio alla perceptio e il cogito cartesiano è già un cogito kantiano.30

5. Possibilità di una fenomenologia non intenzionale

La fenomenologia husserliana è caratterizzata dal concetto di intenzionalità. Pensare alla fenomenologia in altro modo sembra estremamente difficile. Ammettendo la complessità del proposito, Henry cerca di fondare non solo una fenomenologia non focalizzata sull’intenzionalità, quindi non intenzionale, ma sostiene che sia la seconda a fondare l’intenzionalità stessa e a garantirle la propria possibilità. A suo avviso attraverso il ricorso alla non intenzionalità è possibile eliminare le indeterminazioni presenti nei principi fenomenologici e nel concetto stesso di intenzionalità. Tutto il plesso problematico della fenomenologia per trovare dei chiarimenti deve per forza confrontarsi con la modalità secondo cui l’apparire si manifesta, l’essenza della fenomenalità, l’oggetto stesso di questo articolo. Prima di tutto va messa da parte la definizione di fenomenologia come metodo, perché in questa luce la fenomenologia si trova ad essere soltanto un processo delucidativo al cui fondo risiede comunque l’apparire ed è questo soltanto che rende possibile un qualsivoglia metodo fenomenologico. Dunque tale metodo altro non è che la messa in opera sistematica di un processo intenzionale che cerca di tematizzare quelle scoperte che essa stessa costituisce attraverso i suoi presupposti; a ciò si aggiunge che l’apparire a cui fa riferimento l’intenzionalità è l’orizzonte estatico di visibilità (mondo). Riprendendo Husserl, Henry punta l’attenzione sul come di ogni manifestazione, il Gegenskunde im Wie, anche se la definizione fornita resta gravata da un pericoloso equivoco: oggetto del come è per Husserl l’analisi del flusso dei vissuti della coscienza interna del tempo, dominato dal triplice modo di sintesi originaria dell’intenzionalità attraverso cui si costituisce il tempo immanente da cui si aprono nella coscienza le forme del presente, del passato e del futuro. È quindi l’intenzionalità originaria a creare il tempo che dona i vissuti immanenti, l’intenzionalità accompagna la donazione universale: è il Comment di tale donazione, o meglio, la donazione è affidata all’intenzionalità. Rileva Henry: chi adempie alla donazione è differente da ciò che dona, l’apparire differisce da ciò che appare, la fenomenalità diversa dal fenomeno, da una parte risiede la coscienza e dall’altra l’ente. Dunque ci si ritrova inseriti per mezzo dell’atto intenzionale in una dimensione rappresentativa, in cui l’essenziale è cercato esternamente, l’auto-apparire dell’apparire come sottolinea Henry è già perduto. Il risultato di una fenomenologia intenzionale comporta difficoltà ontologiche che mettono in crisi la sua stessa metodologia e che si sono estese anche ai suoi continuatori, non a caso Eugen Fink dice che «bisogna guardare», è sufficiente solo guardare: il vedere per conoscere. Secondo Henry una donazione che non sia auto-donazione, in grado quindi di auto-fondarsi, resta imprigionata nell’ambito dell’ente mondano, e trasforma la fenomenologia in una scienza dell’essere-vero dell’ente. In questo paradigma fenomenologico accettato, Henry critica l’incapacità di prendere atto dell’inconsistenza dei propri principi che determinano un vero e proprio sovvertimento del senso stesso della fenomenologia: il concetto di auto-donazione è capovolto, non mira più alla possibilità interna ultima della donazione stessa ma alla semplice manifestazione dell’ente. La questione è precisamente quella di stabilire fino a che punto l’apparire originario che assicura il suo stesso apparire sia omogeneo al far vedere, attraverso cui l’intenzionalità mostra i suoi oggetti. Rispondere significa operare una riduzione diversa da quella husserliana, una riduzione radicalizzata, il solo modo teorizzato da Henry per mettere fuori gioco l’intenzionalità e permettere all’auto-apparire di apparire in sé, il che trova fondamento nel richiamo della vita. È la vita a garantire ogni fenomenalità in un senso originale e fondatore, dato che è la sola che è in grado di auto-sperimentarsi. La fenomenologia di Husserl non ignora la non intenzionalità, basti pensare al ruolo della hyle, la materia sostanziale della coscienza, defraudata della propria possibilità dal Fuori dell’intenzionalità. Lo spazio fenomenologico aperto da Henry è quello di una fenomenologia della vita che va intesa come una contro-riduzione rispetto alla riduzione galileiana e husserliana; tale riduzione è radicale per la sua attinenza alla fenomenalità intesa come pathos in-estatico della vita e non più come entificazione della realtà intesa come reificazione della vita nell’orizzonte di un mondo. Henry auspica un ritorno all’originarietà della vita, ciò non significa assolutamente una qualche forma di misticismo in cui la soggettività debba dissolversi, al contrario, ci si vuole donare la possibilità di a-prirsi veramente al mondo, secondo le modalità della vita, per il semplice fatto che ogni possibilità riconduce ineffabilmente ad essa. Riconoscere la fenomenalità propria della vita, la sua auto-affezione patica, nella sua eterogeneità radicale al vedere intenzionale è il compito proprio di una fenomenologia non intenzionale, che oltre ad aprire un’intelligibilità del mondo riconosce il proprio dominio nella vita di cui secondo Henry a tutt’oggi non abbiamo che esempi frammentari nell’arte o nella spiritualità, più che nella filosofia stessa.

6. La Vita come essenza fenomenologica della manifestazione

La vita che ogni vivente detiene in sé, risulta estremamente lontana dall’essere definita in modo chiaro. Ora, quasi per una necessità implicita in qualsiasi ricerca, non possiamo lasciare un’interpretazione così dubbia della vita, allo stesso tempo non possiamo confonderla con determinati fenomeni come fanno la scienza o la mistica, che presuppongono la vita senza renderne conto. A tale quesito Henry risponde in modo diretto ed esplicito: «Vivre signifie être. […] Ce que nous avons à comprendre, c’est que veut nous dire Kafka quand il écrit: “Avec chaque bouchée du visible, une invisible bouchée nous est tendue, avec chaque vêtement visible un invisible vêtement”».31 La vita, il vivere, significa essere. Ma l’essere dovrà comprendersi in modo tale da essere identico alla vita. Nel momento in cui, come sottolinea l’autore, la filosofia occidentale pensa un concetto d’essere che rifulge e non è in grado di accogliere in sé l’essenza della vita, diviene evidente perché il concetto di vita resta come un qualcosa di sospetto agli «occhi» dei filosofi, non per un’incertezza intrinseca alla vita, tutt’altro, ma semplicemente perché la filosofia non è in grado di compiere sulla vita una riflessione senza allontanarsene o allontanandola da sé. Ciò che caratterizza l’essere occidentale è l’esteriorità, un essere la cui essenza è definita mediante la sua apparizione concreta in un orizzonte di visibilità mondano. Questo intendimento dell’essere ha reso il soggetto indistinguibile dall’oggetto, ha portato a definire la fenomenalità dell’oggetto, la sua rappresentazione, ossia la sua oggettività stessa: «la subjectivité du sujet n’est en Occident que l’objectivité de l’objet».32

La filosofia occidentale secondo Henry ha creato rispetto alla vita delle forme vuote, dei contenuti morti, l’essenza della vita risulta disabitata, spezzata nel momento in cui esiste solo fuori di sé sottoforma di una immagine: la vita è alienata da sé. Per cercare di riafferrare il concetto originario di vita è necessario un cambiamento radicale nel modo di pensare alla vita, ripartendo dal fatto che la vita dimora in sé non si allontana mai, è, per forzare un po’ i toni, prigioniera di sé. La vita è invisibile, nessuno ha mai visto la vita e nessuno la vedrà mai, è però giusto precisare che l’invisibile non va inteso come ciò che si oppone al visibile, altrimenti rientra nel sistema della coscienza; l’invisibile di cui parla Henry è auto-affezione di sé, è l’originario della vita. Infatti la vita nella sua affezione primaria, non è affettata da null’altro che sé, costituisce essa stessa il suo proprio contenuto, ciò che riceve e che l’affetta. Questo non significa che la vita sia una auto-posizione, non si pone davanti a sé, tipo una manifestazione di sé oggettiva, la vita si sperimenta senza ricorrere ad alcuno spazio estatico: è auto-affezione radicale. L’essere che si cerca non può essere costruito logicamente o dialetticamente, non va ricercata secondo Henry una via riflessiva all’interno della vita. L’affettività permette alla vita di auto-sentirsi in modo assolutamente primitivo, è per questo, che l’invisibile non è una categoria da contrapporre alle altre scaturite da meccanismi rappresentativi. Un altro elemento essenziale che ci permette di sperimentare la vita è il se souffrir soi-même, l’impossibilità cioè per la vita di sfuggire da sé, ma allo stesso tempo sperimentarsi nella propria passività originaria, caratterizzante la vita come un soffrire. Nella sofferenza la vita fa la prova di sé, ma dalla sofferenza nasce contemporaneamente la gioia di pervenire in sé. La sofferenza e la gioia, nella loro dialetticità immanente, costituiscono le tonalità fondamentali della vita. Questi passaggi dall’uno all’altro non si realizzano nel medium di una temporalità finita, anzi per sua propria essenza la temporalità che si lega all’assoluta passività della vita che viene in sé può essere solo infinita. La domanda non molto problematizzata dall’epistemologia è come mai la vita si assenti dal campo della biologia e più in generale dal campo di ogni indagine scientifica. La risposta ci riporta al divario tra la Lebenswelt e il mondo reale legato indissolubilmente alla res extensa. La verità della vita è irriducibile al mondo, tanto che in esso non si mostra: è l’esclusione reciproca tra la verità della Vita e la verità del mondo. La differenza esiste ma non è semplice accoglierla, nel senso che, ogni essere vivente vive, lo vediamo, ma non vediamo mai la sua vita, percepiamo il corpo oggettivo che ci illude di avere afferrato la vita stessa, non è così semplice pensare alla vita, senza restare vittime di uno schematismo trascendentale. I significati che appartengono alla vita, non possono ricevere una loro intuizione piena, ogni intuizione della vita è uno svuotamento della stessa. La vita assoluta è stata dissimulata attraverso categorizzazioni errate che hanno come conseguenza più desolante il fatto di concepire in modo unilaterale la rivelazione, il fenomenizzarsi dei fenomeni nella luce brillante del mondo. Ciò che è avvenuto nella filosofia occidentale è stata una sostituzione operata tra la Vita e l’essere vivente; l’esempio più eclatante è il Dasein heideggeriano, in cui l’essenza dell’uomo risiede nella sua apertura al mondo e la vita diventa accessibile solo attraverso il Dasein: la vita è accessibile solo nella verità del mondo, nell’essere che è al mondo, In-der-Welt-sein. Tuttavia da quanto emerge dall’analisi delle posizioni di Henry, la Verità della vita non si rintraccia propriamente nel mondo, per il semplice fatto che il mondo sta sempre dopo la Vita stessa.


  1. Cfr. M. Henry, Phénoménologie matérielle, Puf, Paris 1990 [trad. it., Fenomenologia materiale, Guerini e Associati, Milano 2001], pp. 61-66. ↩︎

  2. Cit., Ibid., p. 61. ↩︎

  3. L’esigenza rinnovativa proposta da Herny parte da questo ripensamento radicale dell’apparire, o meglio, della modalità che permette all’apparire stesso di portar-si a manifestazione. Questo approfondimento investigativo è il compito specifico della fenomenologia materiale: “a essa è dato di scoprire che, prima dell’essere-al-di-fuori, dove tutto è posto propriamente fuori di sé, dove ogni realtà si trova a priori svuotata e spossessata di se stessa e così a essere il suo contrario, un’irrealtà si principio […] regna una fenomenalità che si edifica in modo così stupefacente che il pensiero (pensiero del mondo) non vi pensa in effetti mai”. Ibid., p. 62. ↩︎

  4. Cfr. Carla Canullo, La fenomenologia rovesciata. Percorsi in Jean-Luc Marion, Michel Henry e Jean-Louis Chrétien, Rosemberg & Sellier, Torino 2004. ↩︎

  5. Cit., Anna Pia Viola, Dal corpo alla carne, Sciascia, Caltanissetta-Roma 2005, p. 14. ↩︎

  6. Cfr. M. Herny, L’Essence de la manifestation, en un volume, Puf, Paris 1963 [II ed., 1990], pp. 59-160. ↩︎

  7. Cfr. M. Henry, Phénoménologie matérielle, Puf, Paris 1990 [trad. it., Fenomenologia materiale, Guerini e Associati, Milano 2001], pp. 68-69. ↩︎

  8. Cit., Ibid., pp. 70-71. ↩︎

  9. Ibid., p. 72. ↩︎

  10. Cfr. M. Henry, Phénoménologie matérielle, Puf, Paris 1990 [trad. it., Fenomenologia materiale, Guerini e Associati, Milano 2001], p. 75. ↩︎

  11. Cit., M. Henry, L’Essence de la manifestation, en un volume, Puf, Paris 1963 [II ed., 1990], p. 347. ↩︎

  12. Ibid., p. 78. ↩︎

  13. “La critique du positivisme signifie que la phénoménologie ne saurait se confondre avec une description d’ordre ontique. […] La phénoménologie est la science des phénomènes dans leur réalité. Son objet n’est pas l’ensemble des phénomènes, avec leur structures et, par suite, leurs domaines spécifique, mais l’essence du phénomène comme tel. […] La réalité qu’elle dégage comme un fondement irréductible, n’est pas un phénomène privilégie, c’est l’essence omni-présent et universelle de tout phénomène comme tel. […] la réduction phénoménologique est une avec la réduction eidétique comprise en un sens ultime. La réduction est la libération de l’essence qui ne saurait être réduite et qui subsiste seule, a titre de condition”. Ibid., pp. 64-65. ↩︎

  14. Questa riflessione è legata al concetto di fenomenologia prima (mira all’essere nella sua totalità) che Henry tematizza contrapponendola a una fenomenologia seconda (rivolta a chiarire il senso dell’essere all’interno delle sue varie regioni). Cfr. M. Henry, L’Essence de la manifestation, en un volume, Puf, Paris 1963 [II ed., 1990], pp. 69-72. ↩︎

  15. L’immanenza è l’essenza della trascendenza. Questo il punto d’arrivo per Henry: è l’immanenza che rivela la trascendenza, e la trascendenza diventa una rivelazione immanente che non ha più nulla a che fare con la trascendenza intesa come una forma di rappresentazione. Tra l’immanenza e la trascendenza si stabilisce in definitiva un rapporto di tipo fondativo, grazie al quale è possibile spiegare la possibilità interna del rapporto trascendentale dell’essere-al-mondo, inteso come “atto di rapportarsi a”, diventa un rapportare se stessi a qualcosa, senza mai uscire da sé, senza mai trascendere la propria realtà immanente, la sola in grado di costituire la struttura ontologica formale dell’atto della trascendenza. ↩︎

  16. Sul rapporto tra immanenza e trascendenza si veda anche G. Dufur-Kowalska, Michel Henry, passion et magnificence de la vie, Beauchesne, Paris 2003, pp. 43-61. ↩︎

  17. Cfr. M. Henry, Généalogie de la psychanalyse. Le Commencement perdu, Puf, Paris 1985 [trad. it., Genealogia della psicoanalisi. Il cominciamento perduto, Ponte delle grazie, Firenze 1990], p. 23. ↩︎

  18. Riguardo l’apparenza Henry chiarisce così: “è l’effettività fenomenologica dell’apparire nella sua capacità di costituire di per sé un’apparenza, è questa pura apparenza come tale a costituire l’essere. È questo il cominciamento, non il primo giorno, ma l’assolutamente primo”. Cit., M. Herny, Généalogie de la psychanalyse. Le Commencement perdu, Puf, Paris 1985 [trad. it., Genealogia della psicoanalisi. Il cominciamento perduto, Ponte delle grazie, Firenze 1990], p. 23. ↩︎

  19. Descartes, Risposte alle settime obiezioni, in Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 593. ↩︎

  20. “At certe videre videor, audire, calescere”: “Sia pure, tuttavia è certo almeno che mi sembra di vedere, di udire, di scaldarmi”, R. Descartes, Seconda Meditazione, in Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 456. ↩︎

  21. Cfr., M. Henry, Généalogie de la psychanalyse. Le Commencement perdu, Puf, Paris 1985 [trad. it., Genealogia della psicoanalisi. Il cominciamento perduto, Ponte delle grazie, Firenze 1990], p. 29. ↩︎

  22. Ibid., p. 29. ↩︎

  23. Ibid. p. 31. ↩︎

  24. Ibid., p. 71. ↩︎

  25. Cit., M. Heidegger, Nietzsche, [III ed.,] Adelphi, Milano 1994, p. 124. ↩︎

  26. Per un maggiore approfondimento delle questioni riguardanti il ripensamento del cogito e la rappresentazione cfr. i primi tre capitoli di Généalogie de la psychanalyse. Le Commencement perdu, Puf, Paris 1985 [trad. it., Genealogia della psicoanalisi. Il cominciamento perduto, Ponte delle grazie, Firenze 1990], il § 18 di L’Essence de la manifestation, en un volume, Puf, Paris 1963 [II ed., 1990], e il V capitolo di Phénoménologie de la vie. De la subjectivité, Puf, Paris 2003, II vol. ↩︎

  27. Cit., R. Descartes, Risposte alle Seconde Obiezioni, in Opere filosofoche, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 311. ↩︎

  28. Il termine “sentire” rimanda a tutta una serie di altri concetti intimamente legati ad esso come pathos, vita, affettività, immanenza↩︎

  29. Cit., R. Descartes, Seconda Meditazione, in Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 206. ↩︎

  30. Cfr. M. Henry, Généalogie de la psychanalyse. Le Commencement perdu, Puf, Paris 1985 [trad. it., Genealogia della psicoanalisi. Il cominciamento perduto, Ponte delle grazie, Firenze 1990], p. 54. ↩︎

  31. Cit., M. Henry, Phénoménologie de la vie. De la subjectivité, Puf, Paris 2003, II vol., p. 40. ↩︎

  32. Ibid., p. 43. ↩︎