Dietrich Bonhoeffer: la forza dell’immanenza lungo le vie della trascendenza

1. Introduzione

Un legame positivo tra trascendenza divina e immanenza terrena da realizzare attraverso l’agire umano secondo i dettami della fede. Questo l’obiettivo teorico che Dietrich Bonhoeffer cercò di raggiungere lungo tutto il suo itinerario filosofico-teologico. Per capire se tale obiettivo sia stato raggiunto bisogna passare necessariamente per le due opere più importanti del pensatore tedesco: Etica e Resistenza e Resa. Si tratta di scritti frammentari, incompiuti, ma dirompenti, elaborati mentre il nemico era alle porte, mentre la furia nazista dilagava. L’Etica, autentica summa del pensiero bonhoefferiano, iniziata nel monastero benedettino di Ettal nel 1940, interrotta per le urgenze della lotta al regime, non ebbe mai una revisione definitiva da parte dell’autore. Resistenza e resa è una raccolta, organizzata da Eberhard Bethge, di ampi brani delle lettere che Bonhoeffer scrisse durante il periodo di prigionia che precedette la condanna a morte. Affronteremo i passaggi nodali di questi testi cercando di capire se e come Bonhoeffer riuscì a corrispondere alle finalità più profonde della sua speculazione.

2. Fariseismo e coscienza

L’Etica si apre con il saggio L’amore di Dio e lo sfacelo del mondo, che ospita le famose pagine sul fariseismo. Al centro di tale trattazione c’è, ancora una volta, il problema della conoscenza etica.

Bonhoeffer accusa l’uomo di volersi rendere simile a Dio attraverso il discernimento del bene e del male:

L’uomo è diventato origine del bene e del male. Egli non nega il male che è in lui, ma con la voce della coscienza, rivolge a se stesso, divenuto malvagio, un appello a tornare al proprio io più autentico e migliore, a tornare al bene. E questo bene, consistente nell’unità dell’uomo con se stesso, dovrebbe essere ormai l’origine di tutto ciò che è bene. È il bene di Dio, è il bene per il prossimo. Avendo in sé la conoscenza del bene e del male l’uomo è diventato giudice di Dio e degli uomini, così come è giudice di se stesso.1

Emerge in termini netti la condanna dell’ubris umana, della folle pretesa di possedere una coscienza attiva, in grado di discernere e distinguere attraverso i valori morali. L’uomo, secondo Bonhoeffer, percepisce l’avvenuta rottura del rapporto con Dio, attraverso il sentimento della vergogna:

La vergogna ricorda all’uomo la sua separazione da Dio e dagli altri uomini, la coscienza invece è il segno della sua divisione interiore. La coscienza è più lontana dall’origine di quanto non lo sia la vergogna: essa presuppone come già avvenuta la separazione da Dio e dagli uomini, e non fa che segnalare la divisione interiore dell’uomo separato dall’origine. È la voce della vita che si è ribellata e che vuole conservare almeno la sua propria unità. È un appello all’unità dell’uomo con se stesso.2

Dopo tale distinzione tra vergogna e coscienza, Bonhoeffer entra nel vivo dell’analisi dedicata al fariseismo. Il fariseo è l’uomo che considera veramente importante solo la distinzione tra bene e male, rendendosi giudice di se stesso e del prossimo, trasformando la propria vita in un incubo fatto di cose da osservare e valutare.

Il vero cristiano deve liberarsi di tali attitudini. Come? Il primo passo investe la prassi e sta in un radicale “non giudicare” inteso non come atto benevolo d’indulgenza verso chi ha mancato, ma come rinuncia a sottoporre gli altri ad una misura che non si possiede, la misura della dottrina del bene e del male. Non giudicare: non già applicazione benevola della legge ma riconoscimento che non esiste alcuna legge, alcuna norma. Solo così il fariseismo è colpito al cuore".3 Come agire senza giudicare il bene e il male? Bonhoeffer risponde con una completa rivendicazione della priorità dell’agire rispetto ad ogni conoscenza teorica:

La conoscenza di Gesù si risolve totalmente nell’azione, senza preoccuparsi affatto di sé. L’uomo ormai non vede più il bene che fa. Non solo non è più obbligato a essere giudice del bene che compie ma non deve volerlo conoscere, anzi, non gli è lecito conoscerlo, non lo conosce più affatto. La sua azione è divenuta talmente indiscutibile, egli ne è talmente assorbito, occupato, essa ha cessato a tal punto di essere una tra le molte possibilità per divenire l’unica cosa importante, ossia la volontà di Dio, che la conoscenza non può interferire e creare impedimenti, ed è ormai letteralmente impossibile perder tempo ritardando l’azione, interrogandosi a suo riguardo o fermandosi a giudicarla. Il giudizio rimane nascosto non solo dinanzi agli altri uomini, ma anche davanti al tribunale della conoscenza di sé. La situazione è chiara: l’uomo che conosce Gesù non può più conoscere le proprie buone opere, e viceversa chi conosce le proprie opere buone non conosce Gesù.4

Siamo di fronte all’assoluta incompatibilità tra conoscenza teorica e attività pratica. L’uomo che conosce il senso etico del proprio agire rischia di violarlo in modo irreversibile. La prassi assume una priorità assoluta. Tutto ciò che il cristiano deve conoscere è il comandamento e l’esempio di Cristo, ma si tratta di un conoscere caratterizzato dal suo “coestendersi con l’azione, dal rifuggire la teorizzazione previa […] l’azione è un primum assoluto, non dipende da alcuna conoscenza, legato solo alla Nachfolge di Gesù”.5

3. La responsabilità etica: il bene

Il tema della responsabilità viene trattato diffusamente nell’Etica, in particolare nel saggio La storia e il bene, però non si può dimenticare che costituisce un filo conduttore, che lega tra loro saldamente le opere e la vita di Bonhoeffer e che nell’ultima fase emerge in maniera più coerente . In La storia e il bene viene analizzata la struttura della vita responsabile, a partire dal problema del bene. Da subito Bonhoeffer rivendica la necessaria concretezza con cui si deve trattare tali problemi:

Quello che ci interessa non è di sapere che cosa sarebbe il bene se noi non vivessimo, ossia in condizioni ipotetiche (e in quanto esseri viventi non possiamo neppure chiedercelo seriamente), infatti possiamo pensare alla vita in astratto solo in quanto esseri legati a questa vita, e quindi non in condizioni di libertà. Non ci chiediamo dunque che cosa sia bene in sé, ma che cosa sia bene nella vita così com’è per noi che viviamo. Noi dunque ci interroghiamo riguardo al bene non già facendo astrazione dalla vita, ma impegnandoci in essa. La domanda stessa fa parte della nostra vita, così come la nostra vita fa parte della ricerca del bene. La questione del bene si pone e si decide in ogni situazione determinata eppure incompiuta, unica eppure già transeunte della nostra vita, in ogni complesso di rapporti viventi, che ci uniscono ad uomini, cose, istituzioni e potenze.6

Il bene non è una realtà astratta che piomba sulla vita costringendola a conformarvisi. Bensì, bene e vita sono due realtà concrete, ed un’eccessiva difesa della radicalità e immodificabilità dell’uno a beneficio dell’altra o viceversa determinerebbe l’annullamento di uno dei due termini.

Solo Cristo può rappresentare la giusta mediazione tra essi, poichè incarna il bene ed è la vita, Cristo è “un sì pronunciato sulla creazione, sul divenire, sulla crescita, la fioritura, i frutti, sulla salute e la felicità, sulla capacità, il lavoro, il valore, il successo, la grandezza e l’onore, in una parola sullo sviluppo delle forze della vita”.7 Nell’Etica spicca l’importanza della figura di Cristo quale unico tramite in grado di creare il passaggio necessario da un’etica dei principi ad un’etica concreta e determinata, fondata sul giusto rapporto tra bene e vita.

Bonhoeffer pensa che la differenza fondamentale tra l’etica cristiana e le altre etiche, sia da ricercarsi proprio nel fondamento cristologico. Infatti per l’etica cristiana, a differenza che per il razionalismo etico, il bene non è la concordanza tra un criterio messo a nostra disposizione, dalla natura o dalla grazia, e l’esistente da me indicato come realtà, bensì è la volontà di Dio che si dà nella rivelazione di Cristo, la quale ha indubbiamente una maggiore vicinanza alla realtà di ogni idea o ideale, poiché non è un’astrazione, ma il fondamento della realtà stessa. Su questa base si fondano le critiche agli altri modi di concepire l’etica, il rifiuto del formalismo dell’etica dei principi, il cui prototipo è rintracciato nella figura di Don Chisciotte, così come l’avversione nei confronti del vitalismo e della morale del compromesso, che vengono a suo avviso sanciti dal nichilismo. Entrambe queste posizioni sarebbero generate dall’errore di considerare la realtà come staccata da Dio: la prima perché vede nella realtà solo il male da combattere in nome del principio divino, la seconda perché considera impossibile la realizzazione dell’ordine divino e si adegua a questa condizione. In entrambi i casi si finisce inevitabilmente per cadere nella contrapposizione tra il bene e la vita reale.

Dopo aver sviluppato il confronto tra l’etica cristiana e le altre prospettive filosofiche, ed aver definito i caratteri della nozione di bene, Bonhoeffer affronta in modo più diretto la definizione delle strutture della vita responsabile.

La struttura della vita responsabile è determinata da due fattori fondamentali: da un lato il doppio vincolo della vita con l’uomo e con Dio, d’altro lato la libertà della vita personale. Questi fattori sono legati in modo radicale, per cui, è il legame con l’uomo e con Dio a consentire la libertà dell’individuo.

Quali caratteri deve assumere il vincolo nei confronti del prossimo? Il vincolo assume la forma della sostituzione vicaria. laddove per sostituzione vicaria Bonhoeffer intende l’assunzione della responsabilità dell’azione in luogo di un altro. Allora

sostituzione e quindi responsabilità sono possibili soltanto mediante il dono totale della propria vita al prossimo. Soltanto chi non pensa a sé vive responsabilmente, ossia vive […] il disinteresse dell’uomo responsabile è talmente assoluto che richiama alla mente il detto di Goethe sull’uomo d’azione che è sempre incosciente.8

L’esempio del padre, dell’uomo di Stato o del dirigente, mostra come la responsabilità si radichi nella sostituzione vicaria. Appare chiaro anche nell’Etica che il soggetto dell’agire etico non è l’uomo isolato, auto-referenziale, ma l’uomo in relazione con l’altro. La sostituzione vicaria tra gli uomini è immagine dell’essere di Cristo, che si può definire il responsabile per eccellenza, per aver assunto e portato in sé l’io di tutti gli uomini.

Bonhoeffer nel definire la sostituzione vicaria s’è spinto a considerare l’oblio di sé come fattore decisivo per l’attivazione della responsabilità. Siamo perciò di fronte all’affermarsi della priorità dell’azione, come Mancini sembra notare chiaramente:

Bonhoeffer spinge l’incoscienza etica fino ad un grado supremo, immanente all’azione stessa, l’oblio di sé, e richiama Goethe. L’azione responsabile non è mai del tutto cosciente, non solo perché mancano predeterminazioni teoriche che esprimano fino in fondo la complessità del reale, ma anche perché va accompagnata da una derelizione di sé e della propria integrità di coscienza ai fini di attuare pienamente l’esser per l’altro.9

Mancini coglie perfettamente il senso del pensiero bonhoefferiano. Infatti, l’oblio di sé in favore dell’esser per l’altro, nell’ambito della vita responsabile, implica la fine di ogni residua autoconsapevolezza, generando il darsi per il prossimo che è allo stesso tempo ebbrezza dell’annullarsi nell’azione responsabile e inconsapevole.

4. La conformità alla realtà

Bonhoeffer continua la trattazione della vita responsabile sostenendo che per operare la sostituzione vicaria è necessario agire in conformità alla realtà. L’agire dell’uomo deve maturare in modo adeguato alla realtà. Il reale deve essere oggetto di condanna e giustificazione allo stesso tempo. Va accettato perché altrimenti non si potrebbe avere alcun rapporto con esso, ma va condannato perché in caso contrario non sarebbe possibile mutarlo. Bonhoeffer cerca, in tal modo, di far convivere dialetticamente il necessario rapporto con il mondo con il rifiuto delle sue storture, il tutto in nome della concretezza dell’agire:

colui che è responsabile si dirigerà verso il prossimo concreto nelle sue concrete possibilità; il suo comportamento non è fissato una volta per sempre, come fosse un principio, ma sarà dettato da una situazione concreta. Egli non ha alcun principio assolutamente valido, da applicare fanaticamente contro la resistenza della realtà, ma vedrà di comprendere, in una data situazione ciò che è necessario, ciò che è comandato, e agirà di conseguenza. La situazione data non è per l’uomo responsabile una materia, alla quale egli voglia imporre, applicare la sua idea, il suo programma, ma essa si trova compresa nell’azione, contribuisce a modellarla. Non si tratta di realizzare un bene assoluto; colui che agisce da responsabile si contenterà umilmente di preferire un meglio relativo ad un peggio relativo; il bene assoluto potrebbe risultare giustamente il peggio. L’uomo responsabile non imporrà alla realtà una legge estranea.10

Questo passo dell’Etica mostra in maniera chiara le difficoltà i cui si dibatte il pensiero bonhoefferiano. La conformità al reale è misura necessaria ed indispensabile per determinare i caratteri dell’agire umano e della responsabilità etica, infatti, senza aderenza alle cose del mondo svanirebbero tutti i presupposti legati al rapporto dialettico Cristo-mondo, trascendenza-immanenza. Tuttavia Bonhoeffer non è in grado di andare oltre il rifiuto di ogni legge ideale e precostituita, e questo, perché ha stabilito la priorità dell’azione inconsapevole, che ci conduce a tale domanda: come agire nelle situazioni concrete senza una coscienza in grado di valutarle? Posto che non esista una legge o paradigma ideale, può bastare affidarsi ad un non meglio definito criterio di conformità al reale che poi risulta di fatto inattingibile nella sua concreta esistenza? Non è allora un caso che Bonhoeffer, parlando della conformità al reale, concluda dicendo: “l’azione conforme a Cristo è anche conforme alla realtà”.11 Cristo è, dunque, l’unica unità di misura possibile, ma Cristo non può sostituire in toto l’attingimento della realtà, senza rischiare l’annullamento di quest’ultima verso astrattezze etiche, paradossali per un pensatore della concretezza come Bonhoeffer.

5. La responsabilità etica: la Libertà

Dal momento che il mondo, in Cristo, non viene divinizzato, ma viene lasciato essere mondo con i suoi limiti, e quindi con la sua colpa, la struttura dell’azione responsabile comporta la disponibilità a prendere su di sé la colpa, come ha fatto Cristo, il quale diventa colpevole come colui che agisce responsabilmente nell’esistenza storica dell’uomo. L’assunzione di colpa è la forma più eclatante di sostituzione vicaria e al tempo stesso comporta una forma di libertà che va al di là della libertà formale della coscienza, capace di scegliere tra il bene e il male.

Nella visione bonhoefferiana responsabilità e libertà sono concetti correlativi. La responsabilità presuppone oggettivamente — non cronologicamente — la libertà, così come la libertà non può sussistere se non nella responsabilità. La responsabilità è la libertà dell’uomo data solo nel legame con Dio e con il prossimo. L’uomo, però, può agire liberamente solo se non conosce il bene. Per questo essa sfocia paradossalmente in un atto di obbedienza e di affidamento a Dio: il bene come azione responsabile viene compiuto nella non-conoscenza del bene, affidando l’azione divenuta necessaria e tuttavia (e proprio per questo) libera a Dio. Proprio colui che agisce nella libertà della più piena responsabilità personale vede il proprio agire sfociare nella guida di Dio. L’azione libera si riconosce alla fine come azione di Dio.

Bonhoeffer, attraverso il concetto di responsabilità fondato sulla sostituzione, attiva il rapporto tra libertà e obbedienza, giungendo ancora una volta a confermare il totale abbandono dell’uomo all’acoscienzialità dell’azione. Infatti, l’uomo deve essere come Gesù che:

Si pone dinanzi a Dio come essere obbediente e libero. In quanto figlio obbediente egli adempie la volontà del padre seguendo ciecamente la legge che gli è imposta; in quanto essere libero aderisce a quella volontà per intima convinzione, in piena consapevolezza e con animo lieto: egli, per cosi dire la ri-crea in se stesso. L’obbedienza senza libertà è schiavitù, la libertà senza senza obbedienza è arbitrio. L’obbedienza vincola la libertà e questa nobilita quella. L’obbedienza vincola la creatura al Creatore, la libertà la pone di fronte a colui che l’ha creata a propria immagine e somiglianza. L’obbedienza insegna all’uomo che egli deve lasciarsi dire che cosa è buono e che cosa Dio richiede da lui; la libertà permette all’uomo di creare egli stesso il bene. L’obbedienza sa che cosa è buono e lo fa, la libertà osa agire e lascia a Dio il giudizio sul bene e sul male […] l’uomo responsabile si trova tra l’obbligo e la libertà, deve osare agire in libertà pur essendo vincolato, e non trova la propria giustificazione né nell’obbedienza né nella libertà […] l’uomo responsabile affida a Dio se stesso e le proprie azioni.12

Il rapporto tra libertà e obbedienza solleva molte perplessità, ma prima di valutarle vediamo quali importanti implicazioni ne siano alla base.

Alla base del rapporto tra libertà e obbedienza c’è il rapporto tra trascendenza e immanenza. Per chiarire tale tema è utile vedere come Bonhoeffer consideri la dialettica ultimo-penultimo. Con questi due termini Bonhoeffer esprime l’irriducibile alterità e nello stesso tempo la presenza immanente del principio di trascendenza nei confronti della realtà. L’ultimo si presenta sempre come contraccolpo rispetto al penultimo, non come il risultato di un percorso, cioè come qualcosa che può essere preparato: l’ultimo è l’Altro che viene, quando meno lo si aspetta. Ma l’ultimo al tempo stesso può essere ultimo solo in rapporto ad un penultimo, benché sia radicalmente differente da questo, anzi si ponga come contestazione rispetto ad esso. L’ultimo e il penultimo, l’eterno e la storia, la grazia e la legge, permangono, quindi, nella tensione dialettica, una dialettica, però, il cui punto originante è il termine ultimo.

Considerata in tal modo la coppia ultimo-penultimo si rivela più adatta ad esprimere il rapporto immanenza-trascendenza di altre coppie concettuali, come ad esempio sacro-profano.

La dialettica ultimo-penultimo, si sottrae alla tentazione idealistica se l’uomo si riconosce appartenente al penultimo e accetta, quindi, di essere giudicato dall’ultimo, in altri termini accetta che l’ultimo non gli sia disponibile, ma rimanga “ciò-che-deve-venire” oppure ciò in base al quale la realtà penultima sussiste. Siamo cioè di fronte ad un tentativo di formulare l’esigenza che è alla base del pensiero bonhoefferiano: conciliare l’amore per il mondo con l’amore per Dio, senza determinare la negazione di nessuno dei due termini. Perciò, responsabilità e libertà, ultimo e penultimo, rispondono all’esigenza di esprimere la reciproca implicazione da parte di trascendenza e immanenza.

Tuttavia, il tentativo bonhoefferiano non pare giungere a una soluzione positiva. Infatti, pare complesso distinguere obbedienza e libertà nella prospettiva di Bonhoeffer. Se l’obbedienza serve per un’adesione ai precetti divini, la libertà dispiega se stessa a un doppio livello: da un lato serve per scegliere di aderire alla volontà divina, d’altro lato serve ad innescare l’agire ad essa conforme. Tuttavia, se la libertà fosse realmente tale, dovrebbe consentire anche una scelta opposta a quella in favore di Cristo, ma se così fosse, alla base dovrebbe esserci un’istanza valutativa in grado di optare. Ma Bonhoeffer esclude tale possibilità, nel momento in cui rifiuta all’uomo ogni capacità coscienziale di valutare. Allora, la libertà si trasforma in necessità e quindi in obbedienza ai precetti.

In secondo luogo, la libertà concepita come capace d’innescare l’azione, o ha in sé una riserva d’autonomia sulla scelta di agire o non agire, ovvero sul come agire, oppure è semplice ubbidienza. Tuttavia l’uomo bonhoefferiano non può decidere se e come agire, poiché deve agire secondo dettami ferrei che escludono ogni variante. Facile capire, allora, che la libertà si risolve ancora una volta in obbedienza. Tale ambiguità si rispecchia in una delle pagine più note dell’Etica, che riportiamo per intero in virtù della sua esemplarità:

Colui che è responsabile agisce nella libertà della sua persona, senza mettersi al riparo dei suoi simili, delle circostanze o di certi principi, ma tenendo conto di tutte le circostanze di carattere umano e ambientale e delle considerazioni di principio. Il fatto che nulla lo può difendere, che non può scaricarsi se non sui suoi atti e su se stesso, è la prova della sua libertà. Egli stesso deve osservare, giudicare, pesare, decidere, agire; lui solo dovrà esaminare i motivi, le possibilità di riuscita, il valore e il senso della sua azione. Ma né la purezza della motivazione né le condizioni favorevoli, né il valore, né la scelta giudiziosa dell’azione progettata potrà diventare la regola, dietro la quale trincerarsi o dalla quale possa essere giustificato e assolto. Altrimenti non sarebbe più realmente libero. L’azione dell’uomo responsabile si compie interamente nel campo del relativo, nella penombra ambigua che la situazione storica spande intorno al bene e al male; avviene nella molteplicità degli aspetti sotto cui appaiono tutti i fenomeni. Non c’è soltanto da decidere tra il diritto e l’ingiustizia, tra il bene e il male, ma anche tra un diritto e l’altro, fra un’ingiustizia e l’altra. “il diritto lotta contro il diritto” diceva Eschilo. Appunto perciò l’azione responsabile è un rischio liberamente assunto, che nessuna legge giustifica, che si compie rinunciando a qualsiasi valida auto-giustificazione, e rinunciando pertanto a qualsiasi pretesa di avere la suprema conoscenza del bene e del male. Il bene, in quanto azione responsabile, avviene nella non conoscenza, avviene affidando a dio (che conosce i cuori, valuta le opere e dirige la Storia) l’atto che è diventato necessario e nonostante ciò, o forse appunto per ciò, è libero.13

Nel passo citato, Bonhoeffer delinea l’agire umano responsabile in termini di assoluta autonomia. Un’agire che si trova sospeso nell’incertezza delle situazioni senza alcun riferimento fisso e stabile, ma orientato dalla non conoscenza, che diventa libertà da ogni vincolo assoluto. Tuttavia alla fine della pagina la non conoscenza da fonte di libertà si trasforma in necessità, in vincolo assoluto al volere di Dio. Tale cambiamento esprime in modo netto le grandi difficoltà che percorrono il pensiero di Bonhoeffer, e hanno a che vedere con le fibre più intime del suo filosofare.

Alla base di tutte le difficoltà riscontrate, c’è la mancata soluzione del rapporto tra trascendenza e immanenza. Infatti, Bonhoeffer considera indispensabile la coesistenza dei diritti di entrambe, ma non riesce a garantire il Penultimo rispetto allo strapotere dell’Ultimo. Il suo pensiero vorrebbe tendere ad una mediazione tra istanze opposte, libertà-obbedienza, Penultimo-Ultimo, trascendenza-immanenza, tuttavia rifiuta l’unico termine che consentirebbe la mediazione medesima: la coscienza. Infatti, il totale annullamento della realtà coscienziale fa sì che il darsi del trascendente nell’immanente si traduca in un mero rispecchiarsi del primo nel secondo, senza alcun passaggio dialettico, alcuna mediazione, ma solo identificazione. Solo la coscienza umana potrebbe garantire il buon fine della mediazione, ma Bonhoeffer teme che dalla mediazione coscienziale venga fuori una deformazione delle istanze dell’Ultimo.

Alla luce delle conclusioni raggiunte, possiamo parlare dell’ultimo elemento della visione bonhoefferiana così come emerge dall’Etica: la Storia. Dobbiamo valutare in che termini il pensatore tedesco configuri il rapporto trascendenza-immanenza in relazione ad una dimensione, quella storica, che potrebbe configurarsi come il valido elemento di mediazione che fino a ora è mancato. Infatti, l’essere immerso nel flusso della Storia potrebbe consentire all’uomo una maggiore identità e quindi una maggiore capacità di svolgere un ruolo attivo nella ricezione del messaggio di Dio.

6. Etica e Storia

Bonhoeffer è perfettamente consapevole di rivolgersi a uomini che oscillano tra l’illusione antropocentrica idealista, e il nichilismo più radicale. Il pensatore tedesco scrive in anni percorsi dall’idea totalitaria e dalla sua pretesa di annullare le continuità storiche, per far posto ad un nuovo inizio, attraverso la violenza che recide ogni rapporto con il passato. La volontà superomistica di “fare epoca”, sta sconvolgendo il mondo, trascinandolo nella folle fuga verso il nulla. Quale risposta può offrire il cristianesimo? La soluzione prospettata dal cristianesimo è per Bonhoeffer nel miracolo di Dio che esiste nella Storia, cioè in Gesù Cristo, colui nel quale Dio e la realtà del mondo hanno trovato una riconciliazione. Sulla base del fondamento cristologico, dunque, l’etica diviene per i cristiani realtà processuale, percorso volto verso la conformazione alla figura di Cristo. Ma per l’uomo divenire come Cristo non significa trasformarsi in qualcosa d’altro da sé, non significa assumere una forma ideale. In questo caso si cadrebbe in una palese contraddizione, laddove la concretezza umana verrebbe coartata in direzioni ideali e perciò astratte, secondo un percorso simile a quello kantiano.

Infatti, se la natura divina di Cristo ha carattere sovrastorico, è anche vero che il Redentore è giunto a noi calandosi nelle trame della Storia, e il suo essere storico è inscindibile dal carattere sovrastorico, così come la natura divina è inscindibile da quella umana. Allora, dalla valorizzazione della dimensione storica in cui il cristiano è calato, può emergere la possibilità di attingere la concretezza fino a questo momento assente nello sviluppo dell’etica bonhoefferiana.

Bonhoeffer attiva nell’Etica un complesso sistema di mosse teoriche. Partendo dall’idea che ogni individuo debba considerarsi al centro del rapporto trascendenza-immanenza istituito dalla venuta di Cristo, pensa che si debba evidenziare come la medesima dialettica trascendenza-immanenza, esista per l’uomo nel rapporto con la Storia. Infatti, l’uomo è nella Storia ma al contempo la Storia lo trascende e costituisce per lui un limite. Bonhoeffer capisce con grande lucidità che la dimensione storica, con il suo forte carattere sovraindividuale, può costituire un limite primario in grado di frenare le tendenze antropocentriche dell’uomo, e può essere utile a mediare il rapporto con la trascendenza più autentica, quella divina.

Vediamo, dunque, in che modo Bonhoeffer analizzi il mondo contemporaneo, in relazione al problema della Storia e della memoria.

Le pagine più chiare si trovano in Eredità e decadenza, scritto dell’Etica che segue immediatamente Etica come conformazione. Secondo Bonhoeffer la perdita dell’eredità storica rappresenta non solo lo smarrimento del passato, ma anche la perdita della capacità di progettare il futuro e di fare scelte responsabili nel presente. Ciò porta all’annullamento della realtà storica dell’uomo, e alla sua caduta nell’abisso del nulla. Di fronte a tale abisso scompare la questione dell’eredità storica. Non esiste né futuro né passato. Le cose di ieri cadono nell’oblio e quelle di domani sono troppo lontane per coinvolgere il presente. Nulla lascia un’impronta, nulla crea un obbligo. Eventi d’importanza storica mondiale e crimini inauditi non lasciano traccia. La perdita del passato e del futuro fa oscillare la vita tra il più brutale godimento e l’avventato gioco d’azzardo. Quando non c’è nulla che duri, crolla la base della vita storica, e con essa la fiducia nella verità, che viene sostituita dalla propaganda.

Se la memoria viene meno, e con essa il senso della verità e della giustizia, l’unico punto di riferimento è la volontà abbandonata a se stessa. Allora il passo verso forme di autoritarismo è breve. È facile anche perdere ogni rapporto con la trascendenza, laddove il mondo appaia esclusivamente in una prospettiva orizzontale, svincolata da ogni valore. È necessario che ciascuno sviluppi il proprio essere nella Storia, attraverso l’appartenenza ad una memoria collettiva che si presenta come garanzia della continuità dell’essere storico. Nessuna autenticità esistenziale è possibile, se non si riesce a riconoscere se stessi nelle trame del divenire storico temporale. Bonhoeffer, in sostanza, pare riconoscere alla Storia il ruolo di grande matrice identitaria. Tuttavia si tratta di un’analisi molto pessimistica rispetto alla possibilità che la Storia possa donare senso agli uomini, infatti, nella sua visione l’uomo occidentale sta perdendo ogni rapporto con l’eredità storica. Tale accusa coinvolge vari ambiti del vivere, dell’uomo occidentale:

Qualsiasi processo di sviluppo interiore o di lenta maturazione nella sfera personale o professionale è bruscamente interrotto. Non esiste un destino personale, e perciò neppure una dignità personale. Non si sopportano le tensioni serie né le paure interiormente necessarie. Lo si vede nel campo del lavoro come in quello dell’erotismo. Si teme il dolore lento più che la morte. Si disconosce o addirittura si disprezza il valore formativo della sofferenza che, con la minaccia della morte, costruisce la vita. L’alternativa è tra la salute e la morte. Non si sopportano le vere tensioni. Ciò che è silenzioso, durevole, essenziale, viene lasciato da parte come irrilevante. Invece di attenersi alle “grandi convinzioni” e di cercare una propria vita personale, si segue con leggerezza la corrente. In campo politico il profittare senza scrupoli del momento presente è detto machiavellismo, e il giocare d’azzardo è chiamato eroismo e azione libera. Ciò che non è né machiavellico né eroico non può essere considerato altrimenti che come ipocrisia, perché non si è più in grado di comprendere la lotta lenta e faticosa tra la consapevolezza di ciò che è giusto e le esigenze del momento, ossia quella politica autenticamente occidentale fatta di rinunce e di libera responsabilità. Si scambia quindi pericolosamente la forza per debolezza, e la continuità storica per decadenza. Non essendovi nulla di durevole, viene meno il fondamento della vita storica cioè la fiducia, in tutte le sue forme.14

In questo lungo passo Bonhoeffer manifesta, a ragione, tutto il suo pessimismo rispetto alla condizione dell’uomo, orfano della Storia e in balia delle correnti del Nulla. Quale soluzione allora? Come riaffermare il valore della Storia in un’ottica cristiana, alla luce però dell’epoca di decadenza in cui l’umanità sembra entrata? Bisogna risolversi a pensare che ormai l’uomo ha reciso definitivamente il rapporto con le correnti della Storia?

La risposta di Bonhoeffer denuncia la resa di fronte ad un mondo immedicabile. Infatti, il pensatore tedesco sostiene che solo “il miracolo di un nuovo risveglio della fede […] l’atto salvifico di Dio che interviene dall’alto, da oltre i limiti di ciò che è storicamente concepibile”15 può salvare l’umanità.

L’imporsi sovrastorico dell’atto divino, nega chiaramente ogni possibilità di cambiare il corso della Storia e priva quest’ultima di ogni dignità in quanto luogo del farsi del destino umano.

È, però, ancora più rilevante notare che in tal modo fallisce l’unico possibile tentativo di risolvere le difficoltà d’impostazione del rapporto tra trascendenza e immanenza. Infatti, la Storia poteva costituire il luogo di maturazione di un’identità umana in grado di metabolizzare il comandamento divino senza però annullarne il potenziale di senso. Il pessimismo radicale di Bonhoeffer non permette alcuna mediazione, l’uomo è assolutamente solo di fronte al Nulla che ha creato e a Dio che lo ha creato.

7. Resistenza e resa

Abbiamo visto che l’Etica rappresenta il punto più alto di un percorso speculativo che porta Bonhoeffer a sviluppare una visione della realtà che ha al centro Dio e i suoi precetti etici, che devono trovare immediato accoglimento da parte umana, oltre qualsiasi espressione coscienziale.

Resistenza e Resa è, in quanto ultima espressione teorica, la tappa finale del tragitto bonhoefferiano e rappresenta l’ultima possibilità di realizzare le istanze presenti sin dalle prime opere. Bonhoeffer sviluppa nelle sue lettere dal carcere l’idea che il mondo sia divenuto adulto, cioè sia giunto al culmine di un processo di emancipazione, attraverso il quale Dio è stato espulso da ogni campo del sapere. Tutto funziona alla perfezione anche senza Dio come ipotesi di lavoro. La morale, la politica, la conoscenza scientifica non hanno bisogno di collocare ricerche e riflessioni, in un contesto dominato da Dio.

Bonhoeffer giunge, quindi, a prendere atto della realtà di fatto che ha di fronte. Cioè si rende conto che il processo di secolarizzazione avviato in età moderna, ha cambiato i connotati dell’uomo in maniera profonda. L’uomo contemporaneo non concepisce più Dio come realtà trascendente a cui essere vincolato in un rapporto di dipendenza. Non ha più senso un modo religioso di concepire il cristianesimo. Un modo, cioè, fondato sull’idea di Dio come deus ex machina, che ha il suo spazio solo quando le forze umane vengono meno e c’è bisogno di un aiuto, di un sostegno, di una soluzione. Per il pensatore tedesco:

il tempo in cui si poteva dir tutto agli uomini, con parole teologiche o pie, è passato, come è passato il tempo della interiorità e della coscienza, ossia il tempo della religione in generale. Andiamo incontro ad un’epoca totalmente irreligiosa; così come sono, gli uomini non possono più essere religiosi, come lo erano una volta; anche coloro che si dichiarano onestamente religiosi non praticano in alcun modo la loro religione; dunque essi intendono questo termine in maniera del tutto differente. Tutta la nostra predicazione e tutta la nostra teologia cristiana, vecchie di millenovecento anni, poggiano sull’apriori religioso degli uomini. Il cristianesimo è stato sempre una forma di religione (forse la vera). Ma se un giorno si scopre che questo apriori non esiste, in quanto fu una forma di espressione dipendente dalla Storia e peritura; se dunque gli uomini diventano radicalmente irreligiosi — ed io credo che, più o meno, sia questo il nostro caso — (perché infatti questa guerra, contrariamente a tutte le altre, non provoca reazione religiosa?) — che significa allora questa situazione per il cristianesimo? Una volta tolto il fondamento di quello che fu il nostro cristianesimo fin qui, la nostra religione non può più toccare terra che presso alcuni “ultimi paladini” e presso un pugno di uomini intellettualmente sleali.16

Bonhoeffer constata, dunque, i cambiamenti a cui il mondo contemporaneo è andato incontro. Non si scandalizza:

non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo — etsi deus non daretur. E appunto questo riconosciamo — davanti a Dio! Dio stesso ci obbliga a questo riconoscimento. Così il nostro diventare adulti ci conduce a riconoscere in modo più veritiero la nostra condizione davanti a Dio. Dio ci dà a conoscere che dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona! Il Dio che ci fa vivere nel mondo senza l’ipotesi di lavoro Dio è il Dio davanti al quale permanentemente stiamo.17

Se Dio non ha più il compito di tappare buchi, colmare le deficienze umane, in un mondo che può fare a meno di lui, siamo alla fine del cristianesimo o si può formulare in modo diverso il rapporto con Dio? È fondamentale per il cristiano ricercare Dio non nella maestà celeste che lo ha sempre contraddistinto, ma nella sofferenza testimoniata dalla morte del figlio. Cristo non è la morte di Dio, ma è Dio che sta accanto all’umanità sofferente. Il Dio bonhoefferiano attraverso la sua opera redentiva e sofferente, occupa il centro dell’esistenza umana, non in quanto onnipotente, non in quanto possibile soluzione ai problemi umani, ma proprio perché sofferente e vicino alla sofferenza umana. La croce di Cristo simboleggia la morte del Dio sommo e maestoso, che provvede per l’uomo e lo deresponsabilizza. La croce dà all’uomo la libertà, che è responsabilità nei confronti del prossimo e di Dio.

Solo facendo esperienza dell’essere per gli altri, come Cristo è stato per noi nella croce, ci si avvicina ad un modo nuovo di concepire Dio. L’uomo di prima della svolta chiede aiuto a Dio, il vero cristiano dà a Dio ciò che può, condividendo le sofferenze di Dio, attraverso l’essere per il prossimo come Cristo fece con gli uomini:

L’esserci per gli altri di Gesù è l’esperienza della trascendenza! Solo dalla libertà da se stessi, solo dall’esserci per gli altri fino alla morte nasce l’onnipotenza, l’onniscenza, l’onnipresenza. Fede è partecipare a questo essere di Gesù. (Incarnazione, croce, resurrezione). Il nostro rapporto con Dio non è un rapporto religioso con un essere, il più alto, il più potente, il migliore che si possa pensare — questa non è autentica trascendenza — bensì una nuova vita nell’“esserci per gli altri”, nel partecipare all’essere di Gesù. Il trascendente non è l’impegno infinito, irraggiungibile, ma il prossimo che è dato di volta in volta, che è raggiungibile. Dio in forma umana! […] l’“uomo per altri”!, e perciò il crocifisso.18

In questa prospettiva, l’uomo può diventare ànthropos tèleios, cioè ricomposizione di ogni lacerazione tra uomo e cristiano, ma anche tra interiorità ed esteriorità. Nell’esser per il prossimo ogni cristiano trova il senso vero del proprio esistere e un rapporto nuovo con la trascendenza.

Resistenza e Resa costituisce una svolta importante nel pensiero di Bonhoeffer, per più motivi. È di rilevanza assoluta il nuovo modo di concepire Dio e la sua trascendenza. Nelle opere precedenti il pensatore tedesco configurava il rapporto con Dio in termini completamente diversi. La regola divina assumeva caratteri di assolutezza e radicalità, propri di una visione religiosa del rapporto con la trascendenza. La distanza tra gli uomini e Dio doveva essere colmata dalla mediazione di Cristo, ma, come abbiamo visto, tutto ciò non accadeva, perché nel rifiuto di ogni libertà coscienziale si rifletteva la trascendenza assoluta di Dio, che rendeva impossibile una reale mediazione. La dimensione umana appariva assolutamente modellata secondo la volontà divina e ciò impediva il concreto rapporto tra trascendenza e immanenza, essendo presenti solo i diritti della prima. Perciò all’etica della concretezza s’era sostituita un’etica che si imponeva astrattamente all’uomo e alla realtà

In Resistenza e resa i cambiamenti sono notevoli. Bonhoeffer mostra una diversa capacità di valutare la condizione umana. Finisce ogni prospettiva ottimistica circa l’imporsi del vivere cristiano in un mondo adulto, largamente dimentico di Dio. Essere cristiani, allora, significa praticare la trascendenza, nell’essere per gli altri. Tuttavia, il compito umano non si esaurisce una volta per tutte, ma è infinito, sempre rinnovante-si, perché la vita si rinnova in continuazione.

L’ultimo Bonhoeffer opera una doppia accettazione del reale: da un lato parla esplicitamente di un mondo lontano da Dio, dall’altro accetta il fatto che misura dell’agire umano sia anche la realtà concreta nel suo farsi e nel suo mutare. Finalmente il rapporto con la realtà che, nelle opere precedenti, era rimasto un obiettivo mai raggiunto concretamente, adesso viene colto in tutta la sua pienezza, perché Bonhoeffer è riuscito a liberarsi del Dio maestoso e sovrano protagonista delle sue opere fino all’Etica. Se prima il mondo e l’uomo erano teatro del darsi di Dio attraverso Cristo, adesso la pratica umana, l’azione per il prossimo, consente il rapporto con la trascendenza, consente a Dio d’esistere concretamente. Nell’Etica era ancora presente la “vertigine” della trascendenza, nonostante il tentativo di valorizzare Cristo e la sua venuta tra gli uomini, e la pratica assumeva i tratti dell’ossequio alla regola. In Resistenza e resa, la pratica è sempre prioritaria e l’uomo agisce oltre ogni dato coscienziale, tuttavia la realtà concreta del prossimo diventa misura, orientamento concreto, fonte di senso e non è più sacrificata in nome di regole che cadono in modo astratto sugli individui.

Al termine di questa analisi, possiamo dire che Bonhoeffer ha trovato nell’ultima parte del proprio percorso, il modo adeguato per realizzare l’intento che ha mosso il suo pensiero sin dall’inizio: arrivare a concepire la fede e il rapporto con Dio in un modo rinnovato, capace di conciliare le ragioni della trascendenza con quelle dell’immanenza, evitando ascetismo e disincanto, attraverso una fede basata sull’agire per il prossimo, secondo l’esempio di Cristo.

8. Conclusione

Nell’Etica è maturato il tentativo del pensatore tedesco di conciliare l’irrinunciabile, corporea, appartenenza dell’uomo alla terra, con la partecipazione alla trascendenza divina. Tale conciliazione sarebbe dovuta maturare sul terreno della pratica orientata in senso etico, secondo l’esempio di Cristo. L’uomo pensato da Bonhoeffer avrebbe dovuto privilegiare l’azione secondo i dettami di Cristo, rinunciando ad ogni conoscenza morale che orientasse l’agire, a favore di una pratica immediatamente cristiana.

È però emerso subito il paradosso di un uomo chiamato a costruire il proprio rapporto con Dio senza rinunciare alla concreta appartenenza al mondo, dovendo però abbandonare ogni possibilità di conoscere la realtà attraverso la coscienza morale, in virtù dell’imporsi “verticale” della legge di Dio.

Nell’Etica è dunque emersa l’incapacità di Bonhoeffer di comporre la mediazione di trascendenza e immanenza, proprio a causa della rinuncia alla coscienza morale umana. Solo quest’ultima, infatti, avrebbe potuto fare da tramite tra istanze altrimenti incompatibili. L’annullamento di ogni ruolo per la coscienza determina l’annichilimento di ogni spazio per l’uomo, che diventa specchio di Dio, con la conseguente negazione dei diritti dell’immanenza.

Solo in Resistenza e resa Bonhoeffer asseconda le esigenze profonde del suo pensiero. Nelle lettere dalla prigionia se trova conferma la priorità dell’azione su ogni forma di conoscenza, tale azione non è più sottoposta all’astratto imporsi di una legge imperscrutabile, ma è l’azione stessa ad essere tramite concreto con il trascendente, attraverso l’offrirsi del cristiano al rapporto con il prossimo. Un capovolgimento di prospettiva all’insegna dei diritti del mondo.

Bonhoeffer più di ogni altro teologo del suo tempo ha saputo capire che l’epoca della conoscenza, della mediazione, della riflessione, andava estinguendosi, ed è giunto in Resistenza e resa a una formulazione capace di affrontare con successo le difficoltà del mondo contemporaneo. Aver compreso le dinamiche della contemporaneità è un privilegio che Bonhoeffer condivide con pochi pensatori del Novecento. Tuttavia, tale capacità d’analisi assume un valore inestimabile, se si considera che il pensatore tedesco è riuscito a conciliare una simile prospettiva con la contemporanea proclamazione del messaggio etico cristiano, senza accettare, quindi, che il primato dell’azione si risolvesse in un anarchismo caotico o in una militanza per la ragione strumentale.

Di fronte all’attuale crisi spirituale lamentata da molti rappresentanti del cristianesimo, possiamo dire che Bonhoeffer capì perfettamente quanto fosse importante il corpo, la carne, l’azione, per il destino del cristiano in un mondo secolarizzato. Per questo motivo, il pensiero del grande teologo, strappato alla vita nel 1945, occupa saldamente il presente e il futuro.


  1. Cit., Dietrich Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano 1969, p. 20. ↩︎

  2. Ibid., p. 19. ↩︎

  3. Cit., Italo Mancini, Bonhoeffer, Morcelliana, Milano 1995, p. 188. ↩︎

  4. Cit., Dietrich Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano 1969, pp. 27-28. ↩︎

  5. Italo Mancini, Bonhoeffer, Morcelliana, Milano 1995, p. 189. ↩︎

  6. Cit., Dietrich Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano 1969, p. 181. ↩︎

  7. Ibid., p. 18. ↩︎

  8. Ibid., p. 190. ↩︎

  9. Cit., Italo Mancini, Bonhoeffer, Morcelliana, Milano 1995, p. 231. ↩︎

  10. Cit., Dietrich Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano 1969, p. 242. ↩︎

  11. Ibid., p. 244. ↩︎

  12. Ibid., p. 212. ↩︎

  13. Ibid., p. 263. ↩︎

  14. Ibid., p. 90-91. ↩︎

  15. Ibid., p. 91. ↩︎

  16. Cit., Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa, San Paolo, Milano 1988, p. 270. ↩︎

  17. Ibid., p. 440. ↩︎

  18. Ibid., p. 462. ↩︎