1. Introduzione
Nel primo capitolo di Dopo la virtù1 Alasdair MacIntyre propone questo apologo: una certa società è stata vittima di una catastrofe di cui non si precisa la natura e si ritrova fra le mani libri strappati, pagine bruciacchiate, pezzi di strumenti, brandelli di teorie, residui e relitti di quello che in un tempo ormai passato e non più raggiungibile dalla memoria è stato un sapere vasto e organico. È un sapere che si riferisce — poniamo con MacIntyre — alle scienze sperimentali:
Tutti questi frammenti vengono nuovamente composti in un insieme di pratiche che vanno sotto i nomi riesumati di fisica, chimica e biologia. Gli adulti discutono fra loro sui meriti rispettivi della teoria della relatività, dell’evoluzione e del flogisto, pur avendo di ciascuno una conoscenza molto parziale. I bambini imparano a memoria le parti superstiti della tavola degli elementi e recitano come formule magiche alcuni teoremi di Euclide. Nessuno, o quasi nessuno, si rende conto che ciò che stanno facendo non è affatto scienza naturale in qualsiasi accezione legittima del termine. […] Possiamo definirlo un mondo in cui il linguaggio della scienza naturale, o almeno parte di esso, continua ad essere usato, ma è in un grave stato di disordine.
Formuliamo poi l’ipotesi — col nostro autore — che nel mondo occidentale a noi contemporaneo invece delle scienze naturali la catastrofe abbia colpito il linguaggio della morale. La connessioni fra i vari elementi, benché arbitraria, potrebbe essere sufficiente secondo MacIntyre a trarre in inganno adulti, bambini e accademici. Questi ultimi avrebbero poi nel frattempo abilmente intessuto con i frammenti rimasti un nuovo discorso, tale da rendere inutile ricorrere alla memoria di una passata catastrofe per rendere conto dello stato in cui versa il presente.
Questo quadro — che a seconda della posizione dei protagonisti sarà tragedia, farsa o dramma — a mio modo di vedere permette di cogliere intuitivamente la condizione culturale nella quale un nostro contemporaneo pensa se stesso in relazione al proprio agire e sviluppa una riflessione su cosa sia l’etica.
2. La catastrofe
L’ipotesi di MacIntyre è interessante prima di tutto perché il soggetto dell’interrogativo etico vi sorge da un’azione in pieno svolgimento. Chi formula l’ipotesi della catastrofe, sta infatti in mezzo al flusso di questo discorso, che riconosce inadeguato a portare il senso che pur gli si attribuisce, e noi che lo leggiamo pure. Il punto di origine della domanda è di assoluta importanza — sono io — ma non è affatto assoluto.
Inoltre porre questa domanda è una necessità, perché per il fatto che vive, l’uomo agisce, opera secondo un giudizio e una valutazione, anche se di norma sono impliciti. Tutti gli elementi in cui il problema si formula sono virtualmente presenti, ma, proprio perché il tessuto connettivo che li unisce è discutibile, non va affatto da sé il riconoscere a ciascuno il luogo che gli spetta all’interno di quel particolare spazio che è l’esperienza umana.
In una simile situazione, è inevitabile che tratti fondamentali del problema passino del tutto sotto silenzio, e non vengano neppure percepiti, proprio come se non ci fossero. Lo sforzo teorico di costruire un discorso che prescinda da quel che non si riesce a vedere li relega sempre più nell’ombra, oltre il cono luminoso della ragione. Eppure è veramente come se tutti i dati necessari a porre il problema etico in modo razionale siano presenti, siano dati, e che quello che difetta è uno sguardo capace di coglierne l’ordine.
Infine è da considerare la mossa dei protagonisti, quei pochi — «quasi nessuno» — che si rendono conto del fatto che qualcosa è accaduto e quei molti che invece non se ne accorgono. A questo riguardo la domanda che si pone è: cosa li distingue? E cosa li accomuna? Sicuramente hanno in comune uno stesso ambiente, il partecipare ad identici avvenimenti, avranno probabilmente usi e costumi simili e saranno in molte cose indistinguibili. Sono però diversamente soddisfatti da questo patrimonio comune, e portano sul presente stato di cose un giudizio di valore molto diverso.
Hanno cioè materialmente una stessa esperienza, ma il giudizio che la valuta è diversissimo.
Escludendo l’arbitrarietà, dal momento che la nostra domanda verte sulla ragionevolezza dell’etica, chiederemo: hanno criteri diversi? E quali? MacIntyre direbbe forse che a questa domanda può rispondere solo lo sviluppo narrativo delle loro storie: ciascun uomo può, raccontando la propria vicenda, mostrare incarnato il criterio a cui si rifà e ritrovarsi così fra i molti oppure fra i «quasi nessuno».
Questo però non significa che i criteri siano solo due. A prima vista sembrano invece essere legione, perché la preferenza data a ciascun frammento del relitto del sapere morale genera diverse posizioni, fra loro incommensurabili. Come chi si riferisse alla chiglia e chi al pennone sostenendo che quello basti per varcare gli oceani.
Si può invece supporre un criterio unico per quelli che cominciano a sospettare che sia successo qualcosa durante un ipotetico prima: è una mancanza, il fatto di percepire che qualcosa non va, è in fondo un criterio che evidenzia qualcosa di segno negativo, e che non mette per ciò stesso in possesso di una risposta, ma al massimo ne sollecita la ricerca. La caratteristica di questa posizione è una povertà abbastanza vertiginosa: quella di chi non può permettersi di mettere le mani su un particolare facendolo assurgere a dignità di soluzione.
2.1. I relitti
«La caratteristica più singolare dell’espressione morale contemporanea è che una parte così grande di essa è utilizzata per manifestare dissensi; e la caratteristica più singolare dei dibattiti in cui questi dissensi si manifestano è la loro interminabilità. Con ciò non intendo dire solamente che tali dibattiti si trascinino fino alla nausea (benché lo facciano), ma anche che non sembrano poter provare alcuna conclusione legittima. Pare che non vi siano mezzi razionali per garantire l’accordo morale nella nostra cultura», scrive MacIntyre all’inizio del secondo capitolo di Dopo la Virtù.
Io credo che lo scacco a cui sottostà l’etica contemporanea sia la maggior confutazione della bontà metodologica del cogito cartesiano.
La certezza non può essere infatti l’attributo di un contenuto di pensiero chiaro e distinto, perché queste sono qualità che tranquillamente si possono riconoscere a tesi derivanti da opzioni etiche fra loro inconciliabili. Chiarissimo A, chiarissimo B, perfettamente distinti, ma niente giustifica la certezza di chi vi aderisca.
La ricerca di una razionalità pura ha condotto alla stessa situazione di incertezza — o di certezza insoddisfacente — in cui Descartes ci testimonia di essersi dibattuto.
2.2. Dalla scena viene cacciato il protagonista
Certamente il cogito di Descartes costituisce un punto d’origine dal quale si dirama una divisione non più sanata nel pensiero occidentale: la res extensa e la res cogitans non sono categorie che consentano di cogliere un reale la cui unità sia sensibilmente percepita e intellettualmente fondata, ma dividono l’essere in regni fra loro non comunicanti.
Stretto dalla necessità di dover affrontare le sue proprie contraddizioni e quelle del tempo in cui vive, all’inizio della Guerra dei Trent’Anni, in un giorno di metà novembre del 1619 durante una tregua dei combattimenti, il soldato René Descartes si pone la domanda2 se sia possibile distinguere, fra le moltissime opinioni divergenti da cui è circondato, quella che sia vera, e alla quale perciò valga la pena di affidarsi. Più di dieci anni dopo racconta nel Discorso sul Metodo come poté rispondere a questa domanda. Descrive quello che esplicitamente non è altro che il suo personalissimo itinerario, e lo propone alla critica, ed eventualmente all’imitazione, di quanti pure se la ponessero. La sua questione verte sulla certezza. L’esperimento mentale del cogito permette al soldatino filosofo di investire in modo economicamente vantaggioso il suo capitale di certezza, a determinate condizioni di evidenza, chiarezza e distinzione.
Ma cosa accade? Questo fattuale cogito viene trasformato in bastione contro cui dovrebbe andare a infrangersi la marea montante della falsità. Viene astratto dalla viva ricchezza del suo essere ed è trasformato in strumento. Che sia da attribuire all’intenzione di Descartes stesso, o non piuttosto a un’interpretazione successiva di Leibniz o Spinoza che ne seguirono ammirati le tracce costruendo sul fondamento da lui indicato grandiosi castelli di pensiero, il soggetto trascendentale ha fatto così la sua entrata nella storia.
L’io come strumento opposto al falso è distinto e isolato rispetto all’io come soggetto della domanda di verità. Come strumento è possibile intrattenerlo in diversi modi, perché risulti il più puro possibile, e può per finire essere completamente separato dalla fastidiosa domanda di verità, rimanendo come puro creatore della realtà. L’ulteriore sviluppo del pensiero occidentale documenta questi passaggi in modo impressionante.
Chi compie tutte queste operazioni resta pur sempre il soggetto della domanda di verità. Il soggetto fattuale, quello che irriducibilmente agisce, pronuncia qualunque discorso, vero o falso che sia, manipola strumenti, incluso se stesso, o che almeno ci prova.
Descartes, nel sospettare una falsificazione, in realtà si sdoppia e crea il substrato di un discorso impossibile, quello che ha per protagonista un soggetto epurato da qualunque problematica morale, perché l’errore o il falso non sono opera sua, ma sono dovuti a una slealtà dell’essere. È molto illuminante a questo riguardo l’articolo di Antonio Livi Cartesio e il fideismo,3 che inscrive la problematica ricerca della certezza affrontata da Descartes all’interno delle vicende che travagliano il pensiero cristiano della sua epoca, in cui si succedono gli scismi luterano e anglicano e l’irrigidimento del Concilio di Trento in un contesto di continuo guerreggiare.
La quarta Meditazione dice: «E certo non c’è dubbio che Dio avrebbe potuto crearmi tale da non potermi mai sbagliare; è anche certo che Dio vuole sempre il meglio; ma allora è forse più vantaggioso che io fallisca piuttosto che il non fallire?»4 Il sillogismo è impietoso, e il fallimento dell’unità dei cristiani fa qui plasticamente da sfondo. L’excusatio non petita della quarta Meditazione, nella quale Descartes si fa avvocato della veridicità di Dio, è fortemente sospetta di voler dire l’esatto suo opposto, e l’argomento ontologico che mette in atto è lontanissimo da quello di Anselmo. Là dove Anselmo era preso da riverente stupore di fronte al Deus semper major, Descartes deve fare uno sforzo smisurato per salvarne la reputazione.
Da allora è il soggetto fattuale smarrito nell’incertezza a brandire la creazione del filosofo — il soggetto trascendentale — ma in questo modo non ha poi più la possibilità di considerare se stesso nella sua realtà, perché si confonde con la sua propria creazione.
2.3. La natura logica della catastrofe
Potrebbe darsi che la catastrofe immaginata da MacIntyre sia storicamente effettivamente avvenuta nel momento in cui è stato introdotta, come figura fondante il pensiero, una falsità possibile a prescindere da un soggetto mentitore, da un’intenzione di falsificazione e perciò da una ragione.
Se non può essere Dio, essere perfettissimo, l’origine di una situazione di così grande smarrimento, e dato che non viene preso minimamente in considerazione che il soggetto mentitore sia l’uomo, che testimonia per il dolore che ne prova di non partecipare a un’operazione così infame, non c’è più nessun soggetto della menzogna.
Al soggetto-strumento-di-conoscenza, creazione del soggetto fattuale alla ricerca di un inizio di conoscenza certa, corrisponde una precomprensione del mondo come luogo della falsità immotivata e cieca.
Perché questa mossa avrebbe dato origine a un discorso sull’etica sprovvisto di senso, o con un senso radicalmente diverso da tutto quello che l’ha preceduto? Perché ciò di cui si è andati in cerca non è più la verità oggetto della domanda originale, ma è qualcosa di funzionale ad altro. In particolare, funzionale a un sapere che consiste nell’utilizzo di strumenti, non ultimi gli strumenti di pensiero, e la certezza andrà valutata in base alla sua efficacia.5
Le soluzioni etiche proposte nella nostra contemporaneità, sarebbero così costruite come strumenti funzionali a uno scopo ultimamente non esplicitato. La loro inconsistenza e la virulenza con cui vengono affermate, fa sorgere l’idea che ci sia un’intenzione non espressa, e in fondo estranea alla valutazione da porre, a guidare la scelta che viene operata fra di esse.
Nel foro interno l’adesione a queste costruzioni posticce è accompagnata da un tremito irrefrenabile all’idea che proprio a quelle, di cui in realtà ben si conosce la natura, ci si debba affidare, mentre sulla scena pubblica, diventa di rigore l’ostinazione — quella violenta dei potenti e quella disperata degli impotenti — con la quale si supplisce alla mancanza di ragioni. La dirittura morale, non tematizzata come tale, viene a coincidere con il chiamarsi fuori rispetto alla situazione di imbarazzo che il sospetto di mancanza di senso getta come un’ombra sul mondo: è la pietra tombale che si depone con sussiego sui miseri resti dell’originaria domanda di verità, invece di esserne la drammatica ripresa.
La logica, che come argine costringe il pensiero in questa direzione, fa sì che il prezzo da pagare per poterci pensare come conoscenti perfetti sia quello di fare del mondo — e quindi del nostro muoverci in esso — qualcosa di in fondo inconoscibile.
La purezza della ragione è stata dunque intesa — da Descartes in poi — non più in termini morali, ma in termini strumentali. Attraverso i passaggi alchemici di illuminismo e idealismo ha visto svanire davanti a sé il proprio oggetto, che è svaporato nella sua unità, lasciando dietro di sé solo le sue parti, sempre più frammentate. Per finire viene definita razionale semplicemente la modalità con cui procede nell’assemblare le parti disperse chi ha il potere — violento — di affermare il suo parziale punto di vista.
Ci troviamo oggi nella stessa situazione di incertezza descritta da Descartes, senza che ci sia più concesso avere la fiducia che egli poteva ancora riporre in una razionalità ‘pura’.
3. La ricchezza della povertà
Se questa è la natura della situazione catastrofica in cui oggi l’uomo come agente morale versa, ci si può chiedere come si possa procedere, da dove ripartire, o su cosa puntare, su quale materiale lavorare.
Si dovrebbe, per poter abbordare il campo immenso di come gli uomini agiscono e giudicano il proprio agire, adottare un metodo che si fondi sul dato di fatto, come è un dato di fatto la forma di cui il senso si riveste diventando lingua. La lingua che in questo momento io parlo per esprimere le domande che mi stanno a cuore.6 In questa lingua la parola «etica» si riferisce a ciò che appartiene e identifica un uomo o una realtà umana, con un aspetto di riflessività cosciente: ciò che io so, e noi sappiamo, appartenerci, e che come tale ci identifica.
Il dato di fatto merita un’adorazione a cui nessuna idea potrebbe ambire, se non quando venisse essa stessa considerata un fatto. Solo nella fattualità io incontro l’essere, molto prima che nei dizionari filosofici, e in questi può morire o vivere a seconda che si incarni nuovamente in un pensiero, riprenda vita e diventi germe di realtà. Le domande che mi pongo sono un dato di fatto, e io stessa, la mia storia, lo sono.
La reverenza che tutto quel che io sono (ethos, che mi appartiene), mi ispira, non deriva innanzi tutto dal fatto che sia mio, perché lo è solo molto parzialmente, ma dal fatto che c’è, e che identifica la strada da percorrere, identifica un metodo. La strada poi è da percorrere perché per il fatto che ci sono pongo delle azioni, mi muovo rispetto a ciò in cui sono immersa, e anche le domande e il pensiero che mi suscita tutta questa ricchezza sono azioni e gesti che domandano di essere compiuti.
È possibile che nessuna domanda, se non quella, umanissima, che chiede aiuto nel percorso, sorga durante il cammino. Ma è anche possibile che si sviluppi l’esigenza di toccare con mano il «di cosa si tratta», e nasca la possibilità di aderire alla fattualità in un modo ulteriore, apparentemente meno produttivo, certamente più pericoloso, ma potenzialmente più gratuito dell’altro, sul quale comunque si fonda e del quale è un possibile modo. Questo modo si chiama, nella tradizione che mi è stata trasmessa, filosofico, perché si propone di conoscere gratuitamente; è uno sguardo che tende ad abbracciare ciò che c’è considerandolo senz’altro scopo che questo stesso abbraccio.
Il modo filosofico di considerare ciò che c’è non è la razionalità pura cui ha aspirato Descartes. È invece un’azione il cui scopo avrebbe potuto non essere mai posto, e di fatto fino al V sec a. C. non è stato posto. Sorge, guardando le cose, la domanda «che cos’è?». Inizialmente questa domanda si pone rispetto all’estraneo, allo straniero, che verrà afferrato in funzione della sua affinità con ciò che invece è familiare.
Ma se questa stessa domanda giunge a porsi rispetto alle cose che appartengono in proprio (ethos), di cui uno è costituito, si apre un mondo, una realtà precedentemente insospettata, e, finché non se ne sia colta la possibilità, insospettabile.
Non si può non restare impressionati dal fatto che questo stesso gesto può poi riflettere su se stesso con un «che cos’è?» completamente dimentico del «a cosa serve?». Quando questo accade, nasce la filosofia, che non serve infatti notoriamente a niente, anzi, serve quando non c’è, o quando tradisce la propria natura decomponendosi in ideologia.
Con uno sguardo di questa natura voglio ora considerare l’esperienza psicanalitica, perché per capire il «di cosa si tratta» di cui sto parlando mi pare non ci sia via migliore.
4. Il protagonista ritorna in scena, ma non sembra più lui
La brevità della vita degli uomini ha questo di buono, che la generazione successiva mette immancabilmente alla prova le soluzioni proposte dai sui padri, e trovandole mancanti, le modifica o le rigetta. Può emergere allora un’incongruenza con la realtà, che questa attiri lo sguardo su di sé, e riemergano all’attenzione aspetti fin lì ignorati.
Così un medico di fine Ottocento dalla mentalità risolutamente razionalistica si trova confrontato con fenomeni presenti da sempre, ma che fino ad allora ci si era limitati a classificare come sprovvisti di senso, o nel migliore dei casi in base alla loro apparenza, come il qualcosa di estraneo viene assimilato a caratteri considerati già noti, e ad essi in qualche modo ricondotto.
Freud presta orecchio alla voce del soggetto effettuale, che quello trascendentale aveva nascosto alla propria ombra, troppo luminosa.
E il soggetto che Freud in questo modo scopre è in polemica con l’autocoscienza illuminista, è in contraddizione con se stesso, la sua volontà non dà seguito a quel che afferma di volere, anzi emerge come una volontà estranea, che impedisce alla prima di agire a suo piacere ed invece afferma al suo posto una tutt’altra figura. È un soggetto malato.
Dalla malattia riemerge nel campo della scienza quello che Descartes ne aveva, per timore di essere ingannato, escluso: il soggetto morale.
La tesi di Foucoult nella sua Storia della follia nell’età classica è complementare a quella che propongo: dal pathos del suo testo emerge questo giudizio7: la strana confusione fra follia, delitto e peccato, che il Medioevo e il diritto canonico mai si erano sognati di fare, diventa nei Lumi un fatto con la segregazione di chi porta questi tratti. La Ragione espelle quel che non può riconoscere come suo proprio (ethos).
Il giudizio che Foucault porta invece su quel che segue la Rivoluzione andrebbe approfondito perché mi pare che idealizzi il Romanticismo senza tenere conto di un sostanziale fattore di continuità: la sragione e la follia, che nei Lumi erano una realtà finanche sociale distinta da quella che portava il giudizio su di essa, nel Romanticismo è sempre rigorosamente distinta dalla Ragione, ma si presenta nell’ambito d’esperienza del soggetto stesso, determinandone la contraddizione insolubile. Le Affinità Elettive di Goethe possono valere qui come esemplificazione, ma anche il suo Faust, o la tremenda avventura di Hölderlin, o anche le Eroiche di Beethoven, oppure, più tardi, sconfinando nell’orrore, i Demoni, gli Idioti e i Karamazov di Dostoevskij, o, con più pietà, i Miserabili di Victor Hugo e i Viandanti e le Incompiute di Schubert, per concludere con Nietzsche e l’impossibile Zarathustra: tutti documentano di stare albergando un estraneo sotto il loro stesso tetto.
Infatti nonostante sia stato gravato da un dubbio metodico, poi messo a tacere, poi segregato, poi completamente dimenticato, il soggetto morale ha continuato ad esserci e ad agire, cioè a testimoniare la verità. L’esito di questa testimonianza si trova scritto, non a parole, ma nel come il soggetto epurato è riuscito a realizzare le luminose aspirazioni che dichiarava di avere: dalla conoscenza certa fino all’armonia sociale universale, dai diritti umani alla libertà e alla felicità di diritto e per tutti. Qualcosa è stato realizzato, sì, qualcosa che però ha con le aspirazioni dichiarate in origine un rapporto come di immagine distorta, o per meglio dire, mostruosa. La distanza che separa l’originaria aspirazione dall’esito raggiunto è opera del soggetto silenziato, che documenta così la sua presenza.
5. Perché Freud andrebbe letto (con Lacan)
Se Freud non avesse riconosciuto l’intenzionalità del movimento con cui il soggetto si oppone alla propria coscienza, se non avesse appunto riconosciuto a questo estraneo la dignità di soggetto, non si sarebbe trattato di nessun genere di novità. A partire da questa primo assunto, il medico si mette ad ascoltare quel che chi gli sta di fronte abbia mai da dire su di sé.
La riconosciuta opposizione di due «volontà» fa poi porre la domanda che introduce la psicanalisi: cosa vuoi? Cioè: cosa desideri? Il desiderio sfugge alla signoria dispotica della razionalità trascendentale, perfettamente padrona di sé, e introduce il riferimento a un’origine e una destinazione che la precedono, con le quali essa deve suo malgrado confrontarsi. L’origine e la destinazione del soggetto a cui è stata ridata la parola sono definite, con grande stupore di tutto l’alto consesso filosofico, a partire dagli umilissimi punti d’origine e di dissolvimento del corpo: la generazione e la morte.
Questo «io» che ricomincia a parlare una lingua comune anche alla ragione trascendentale, perché finalmente di nuovo lo si ascolta, identifica la sua vicenda con quella del corpo in cui si trova documentato, là dove era proprio la rappresentazione corporea di sé che Descartes con il suo dubbio metodico aveva rigorosamente espunto come sorgente d’errore e d’illusione.
5.1. L’azione
L’esperienza psicanalitica mette in gioco due attori, fra i quali non si preoccupa di produrre però nessun genere di sintesi, nessuna ricreata autonomia del soggetto malato sulla base di uno più sano. Anzi, fa di un certo tipo di distanza che è al cuore del rapporto fra psicanalista e analizzato il perno intorno a cui ruota ogni ulteriore emergenza di senso.
Che questo momento da Freud in poi denominato transfert,8 sia fondamentale nella pratica analitica è universalmente riconosciuto, non ultimo da MacIntyre stesso, il quale, dopo mezzo secolo di riflessione e un cambiamento di segno nel giudizio che porta sulla psicanalisi, afferma che una valutazione oggettiva di questa pratica e delle teorie da essa originate deve anzitutto chiarire — diversamente da come lui stesso fece nel suo primo intervento su questo tema — che genere di fenomeno sia il transfert.9
La storia del transfert coincide con quella della psicanalisi, a cominciare dal caso clinico che la inaugurò, quello di Anna O., paziente di Joseph Breuer e inserito nell’opera a quattro mani con Freud Studien über Hysterie. Quel caso segnò anche l’inizio della fine dell’amicizia fra i due medici. Anni dopo Freud ascrisse10 al transfert di Anna la rottura fra lui e Breuer, perché questi sarebbe stato preso completamente di sorpresa dall’innamoramento della paziente, che avrebbe d’altra parte favorito con un’implicazione affettiva fortissima nella sua cura, non sarebbe stato in grado di riconoscere la natura del fenomeno e ne sarebbe fuggito invece di affrontarlo. Questa esperienza avrebbe poi ferito a tal punto Breuer da indurlo ad abbandonare progressivamente sia l’amico che le ricerche in questo campo.
Nel transfert il soggetto riemerge, ma riemerge in uno stato in cui è come spossessato delle proprie ragioni, il contenuto della parola ‘io’ gli fa grandemente problema: emerge da uno stato di malattia. Riemerge poi agli occhi di un altro, e solo grazie all’altro può nuovamente volgere gli occhi a se stesso e riconoscersi.
Quest’ultima notazione è vera alla lettera, e cercherò di descriverlo così: diversamente da qualunque altro genere di rapporto, non viene fissato nessun ruolo al paziente, e nessun contenuto al suo discorso. Non c’è un rapporto definito da ruoli diversi da quelli di un io e un tu.11 Ma l’io preme per essere riconosciuto. E lo dimostra espressivamente nella parola e nel gesto, al di là del significato che sa e può attribuire alle sue proprie parole e gesti, che sono invece motivo per lui molto spesso di sorpresa. L’ascoltatore e osservatore afferma con la sua stessa presenza e disponibilità all’ascolto che tutto ciò che sta svolgendosi sotto i suoi occhi è dotato di significato, e così glielo rende accessibile perché possa riconoscerlo. Per questo, secondo una bella espressione,12 deve presentargli la superficie levigata e tersa di uno specchio dove le immagini che via via sorgeranno possano tornare a chi le produce ed egli possa riconoscere in queste qualcosa che lo riguarda in modo del tutto preciso.
Il spazio del transfert, isolato artificialmente dal tessuto dell’esperienza, fa emergere alla coscienza un universo di ‘cose’ che, accettate con la stessa ingenuità con cui accettiamo le ‘cose’ del mondo reale, si strutturano in una figura e finiscono per raccontarci la storia altrimenti dimenticata degli amori cui dobbiamo la nostra origine e ci ripropongono la questione di come si formuli il nostro dirigerci alla fine.
5.2. Il materiale
La campana di vetro analitica non è infatti una tabula rasa: in essa viene alla luce la storia concreta dell’io, emerge la sua fisionomia, la sua immagine, per una volta oggetto gratuito di contemplazione e non mezzo a un qualsivoglia altro scopo. Raimondo da Capua racconta che Caterina da Siena gli disse un giorno:
Padre mio, se voi vedeste il fascino di un’anima ragionevole, non dubito punto che dareste cento volte la vita per la salute di quell’anima, perché in questo mondo non vi è nulla che si possa uguagliare a tanta bellezza.13
Questa affermazione la strappò a Caterina l’aver incontrato una certa Palmerina, inferma e di pessimo carattere, che per la malattia era per di più diventata cattiva, e non certo la frequentazione esclusiva di vergini sagge recanti lampade accese. La bellezza non consiste in un aplomb impeccabile, ma, come dice san Giovanni della Croce in «quel non so che trovato per caso».14
L’amore e l’odio che Freud scopre all’opera al di là della consapevolezza autocosciente del soggetto, sono le stesse forze, egli dice,15 che Empedocle chiamò philia e neikos, e il fatto che il medico viennese le scopra su un fondo biologico le fa essere meno distanti da quelle del sapiente greco per il fatto che quest’ultimo immaginava l’universo come corpo di un immenso essere vivente.
Sono tendenze sprovviste di un’intenzione intelligente, la prima delle quali tende ad unire, la seconda a dividere ciò di cui è composto il vivente. Queste tendenze hanno un destino — testualmente: Triebschicksal, di cui per tutta la vita Freud cercò di scoprire la logica — perché modellano il corpo come con unità portatrici di senso, un senso che va nella direzione di un rigetto oppure di un accoglimento. Di un rigetto fino alla distruzione, oppure di un accoglimento.
E io aggiungo che queste tendenze necessariamente saranno dissimmetriche: senza che ci sia cioè un limite all’accogliere, perché come il freddo non può andare oltre un punto assoluto, mentre il calore non conosce questa frontiera, così potrebbe essere in questo caso.
Ciò rispetto a cui si esercitano le tendenze inconsce è, per quel che riesco a capire, ciò che dell’esperienza può essere chiamato dipendenza, cioè il fatto che il soggetto è nativamente inserito in una trama che lo precede e definisce come lo scenario in cui dovrà trovare il suo luogo. Il suo «io» ha un contenuto determinato da «tu» particolarissimi che lo interpellano e a cui risponde assumendo una certa posizione rispetto ad essi. La cura psicanalitica ha lo scopo di rendere possibile e favorire la coscienza della propria dipendenza, a partire da come questa si è incarnata nei particolari della propria biografia fino a mostrare il punto dove essa si innesta negli atti dell’oggi.
Non è richiesto per questo nessuna dote particolare di autosservazione, o di acutezza introspettiva, ma solo il desiderio di essere riconosciuti nella propria verità. E la lealtà di seguire il proprio desiderio di essere riconosciuti, attraverso tutte le avventure di incontri anche strani — come quelli che fece Pinocchio — in cui si può incappare, fino a giungere ad assentire alla propria fisionomia particolare. È richiesto naturalmente anche che ci sia uno che si presti come partner in questa operazione e la diriga conservandola nell’ambito che la rende efficace, cioè lo psicanalista.
Ciò che può allora emergere è la posizione della persona rispetto al proprio concretissimo destino. Essa non avrebbe mai potuto disporre di tali contenuti se non le fossero ripresentati in modo che la sua attenzione possa volgersi ad essi, perché era invece tutta calamitata da una totalità impossibile, fittizia, irreale, che le nasconde la sua fattualità, in modo da rendere quest’ultima del tutto inconoscibile. Nella cura analitica non viene risolto un problema o ripristinata un’unità, ma è resa possibile un’attenzione che colga i fattori costitutivi della storia di una persona, perché un atto libero possa accoglierli, e diventino la fonte consapevole delle proprie azioni.
Il riconoscimento del proprio volto nella sua particolarissima conformazione ha come origine la moralità, il desiderio del vero; e come fine la moralità, la possibilità di assentire al proprio essere.
Nell’arco descritto da questi due poli si situa l’atto psicanalitico, come risposta alle esigenze che il reale mi pone insistentemente, in un’epoca figlia di tutti i possibili tentativi di negare lo specifico di quell’essere che è la persona: un soggetto e non un assoluto.
6. Cosa cavare da questa lettura per quanto riguarda l’etica
Nell’esperienza psicanalitica ci sono dunque sia una moralità in atto che una ricca messe di indicazioni per l’etica, nella misura in cui la psicanalisi stessa non decade in psicologia, cioè in fisiologia o patologia dell’anima o del comportamento. In questo secondo caso pretende infatti di essere una scienza naturale, o peggio, positiva, un tipo di sapere comunque che non prende in considerazione, proprio per metodo, il soggetto.
In questa prospettiva si evidenziano almeno due filoni che può essere interessante seguire. Direi che sono la singolarità e la dipendenza. La singolarità reale, ricca di tutte le sfumature che costituiscono l’identità di una persona, l’unicum umano. E la dipendenza come fattore distintivo e costitutivo di questa entità singolare, essa stessa essendo una relazione vivente, spazialmente e temporalmente determinata da particolari — come possono essere padre e madre, una certa costellazione familiare, un fatto accaduto, una sofferenza patita, una scelta, un incontro.
Nell’esperienza analitica entrambe queste direzioni sono valorizzate con grande naturalezza e senza che siano formalmente tematizzate: come tutte le strade portano a Roma, così in questo contesto tutto quel che vien detto interroga queste due dimensioni.
È possibile comprendere di che natura sia il gesto che ad esse si volge? E quale pretesa di conoscenza possa mai supportarlo ragionevolmente?
6.1. La scienza del singolare
Anch’io concordo con l’adagio scolastico secondo il quale del singolare non c’è scienza.
Ma se questo singolare è il soggetto della scienza, forse occorre trattarlo con maggior riguardo e considerarlo con maggiore attenzione. Inoltre la scienza non è l’unica forma di sapere che sia dato agli uomini. Se poi il Logos stesso ha voluto identificare Se stesso con un particolare, non vedo perché riconoscere che il soggetto umano della conoscenza vive della propria particolarità in tutta l’estensione delle sue capacità debba in qualche modo metterne in forse la razionalità.
Leggendo la trattazione tommasiana della prudenza,16 la phronesis, la virtù intellettuale volta all’azione, si giunge alla suddivisione delle parti potenziali di questa virtù cardinale: eubulia, sinesi e gnome.
A prescindere naturalmente dall’appello all’autorità di Aristotele, la vis sintetica di Tommaso trova un posto, all’interno del suo catalogo delle virtù, per tutti i cataloghi dell’antichità, come a dire che, da qualunque parte venga l’intelligenza dell’umano, qui può trovare un suo luogo, e arricchire il suo significato grazie alla connessione con le altre virtù. Esiste forse un principio non espresso che consiste nell’orrore della parzialità in materia di etica.
L’eubulia è il buon consiglio, la sinesi il buon giudizio, ma perché Tommaso aggiunge anche la gnome, come ulteriore virtù giudicativa dell’atto prudente? La sinesi, giudica «di tutte le cose che avvengono secondo le leggi ordinarie»17 la gnome giudica oltre — e in qualche modo contro — quella, perché «è necessario che si giudichino anche altre cose, al di là delle leggi ordinarie».18 Quali cose sono da giudicare al di là delle regole comuni?
Con il termine gnomica si è inteso dalla tarda antichità in poi la forma letteraria dei cataloghi di aforismi e di sentenze. Spesso questa forma d’espressione si serve di figure come il paradosso e nega un assunto del senso comune per percorrere un’altra prospettiva, che permetta di schiudere un aspetto della realtà a cui altrimenti non si sarebbe reso ragione.
Tommaso afferma che la gnome considera e giudica a partire da principi più alti della sinesi, il suo rapporto a quest’ultima è analogo a quello della sapienza rispetto alla scienza, solo trasposto dalla sfera speculativa a quella attiva.
Ciò il cui ordine prescinde da principi inferiori ubbidisce a principi superiori, e non è per nulla esente da legge, dice Tommaso — e tradotto in italiano significa: tutto ha un senso. — Se qualcosa sembra contraddire una regola è perché obbedisce a una legge più alta, ad esempio quella provvidenziale, e analizzando fin nel più infimo dettaglio le modalità e le cause del solo livello ordinario o comune nessuno riuscirà a scoprire le ragioni dello scostamento da esso. Per esempio: il parto mostruoso di un animale è ingiustificabile a partire dalle capacità generative del seme, e perciò cade sotto la legge di un più alto principio, quale può essere l’influsso dei corpi celesti, o ancora la divina provvidenza. L’altro esempio che Tommaso porta è quello della giustizia da rendere a chi rivendichi una proprietà (depositum) per impugnarla contro la patria. A questi non va reso il suo, benché la restituzione si dovuta in forza della giustizia, perché l’uso che vuole farne è contro la retta ragione e la giustizia stessa. Bisognerà quindi considerare una legge più alta
di quanto non siano le leggi ordinarie, secondo le quali giudica la sinesi. E all’ordine di questi principi più alti deve corrispondere una potenza di giudizio più alta, detta gnome, capace di una maggiore perspicacia del giudizio.19
Aristotele nel capitolo dell’Etica Nicomachea in cui tratta della gnome (VI, 1143 b), porta invece come esempio quello delle sentenze degli anziani: «Bisogna por mente alle asserzioni e opinioni non dimostrate degli uomini esperti e vecchi o saggi non meno che alle dimostrazioni; infatti essi avendo la vista esercitata, vedono rettamente». Un vedere per apprensione immediata (aisthesis), e ciò in forza dell’intelletto (nous), che coglie lo scopo (eschaton) così come il particolare (hekaston). L’intelletto che coglie queste singolarità è sia principio (arché) che fine (telos); sussiste al di là del campo della riflessione dimostrativa, del sillogismo, e lo determina; la conoscenza che ne viene è dell’ordine naturale (physeos aitias), e non invece acquisita, come invece è la costruzione di dimostrazioni (ton apodeixeon).
Tommaso legge questo passo di Aristotele come se l’esperienza degli anziani saggi (phronimon) permettesse loro di intravedere un altro ordine razionale, e discernere la legge e il senso in avvenimenti che da un altro punto di vista, forse più adolescenziale, o addirittura infantile, possono apparire invece come casuali e senza senso. Il significato del termine «provvidenza», che per essere letto nella realtà certamente esige la perspicacia del giudizio distintiva della gnome di Tommaso, è proprio questo richiamo a una legge, a un principio ulteriore (praeter), al di là di quello naturale o consueto.
Ora la gnome come parte costitutiva della prudenza, coglie la ragione di un particolare anche se si scosta da ogni possibile ragione comune, ma non produce questo particolare, che è invece determinato da tutte le leggi di cui possano dirsi i termini, fisici, genetici, fisiologici e psicologici inclusi. L’ultima singolarità, che non è più assoggettabile alle leggi «ordinarie» perché può anche contraddirle, è l’oggetto della gnome.
Proprio questo è lo statuto del destino, dell’origine e del «qui ed ora» di una persona. Possono essere descritte un’infinità di concause e di leggi che li determinino, ma quella che definisce il volto di questo singolare «io» è come un principio che le sovrasta tutte, e al quale tutte le altre si ordinano.
Esiste perciò un conoscere che ordini l’azione in modo adeguato, cioè razionale, a un singolare senza che questa conoscenza sia necessariamente dimostrativa, cioè scientifica. Anzi, da quanto detto risulta che la conoscenza scientifica che mancasse di un simile tipo di conoscenza pratica potrebbe cadere facilmente in errore.
6.2. La dipendenza
Il bellissimo titolo del libro di MacIntyre Dependent rational animal20 identifica quello che mi pare si possa cavare a proposito della dipendenza dal discorso fin qui fatto. Purtroppo, poco più del titolo, perché la dipendenza di cui egli tratta è solo uno stato da cui il «rational animal» emerge e in cui può ricadere, ma non mi pare che la consideri per il fenomeno umano in modo diverso da una condizione eventualmente inevitabile.
L’animalità da cui l’uomo è costituito determina la sua dipendenza attuale o potenziale, e la modalità con cui l’animale agisce la propria ragione per emergere dalla dipendenza ne qualifica il bene. Lo scopo è quindi sempre quello di essere «independent practical reasoners». La tesi dell’autore è di mostrare come l’etica non possa svilupparsi senza tenere conto della specifica animalità dell’uomo e della sua vulnerabilità, e questo in dialogo indiretto con gli assolutizzatori odierni di una discriminante dell’umano che non tenga conto di questo sua reale animalità e conseguente vulnerabilità — analitici, neo-kantiani e aristotelici di scuola non tomistica.
Molto giustamente MacIntyre sottolinea che nei manuali di morale si tratta di malati o bisognosi sopratutto negli esempi, dove questi entrano come oggetto dell’agire virtuoso dell’uomo, compaiono come «loro», e mai come «noi». Molto giustamente anche sottolinea la continuità nel regno animale fra le potenzialità e i comportamenti degli umani e quelli dei bruti, negando in tal modo la cesura radicale che i Lumi vi hanno introdotta quando hanno identificato l’umano alla ragione assoluta. L’animalità dell’uomo è animale in senso univoco, anzi, MacIntyre parla di «nostra identità animale».
Ma che questi aspetti costituiscano uno strato di dipendenza ineliminabile nell’uomo non hanno ancora detto nulla sulla dipendenza implicata dal suo essere persona. Anzi, scopo dell’agire virtuoso diventa l’indipendenza dell’attore razionale, ponendo una discontinuità fra animalità come fonte della dipendenza e razionalità indipendente.
MacIntyre dice nella quinta pagina del primo capitolo:
It will be a central thesis of this book that the virtues that we need, if we are to develop from our initial animal condition into that of independent rational agents, and the virtues that we need, if we are to confront and respond to vulnerability and disability both in ourselves and in others, belong to one and the same set of virutes, the distinctive virtues of dependent rational animals, whose dependence, rationality and animality have to be understood in relationship to each other.
Proprio questa correlazione fra dipendenza e razionalità, leggendo il suo libro, mi è mancata, perché la dipendenza di cui qui tratta è sempre accidentale.
Infatti risulta insufficiente, almeno ai miei occhi, la ragione che secondo MacIntyre consiglia di agire virtuosamente rispetto alla vulnerabilità altrui. È sempre e solo l’identificazione con il disabile, perché «anch’io potrei diventare come lui», o «non c’è ragione per cui sia capitato a lui e non a me». Questa interscambiabilità dei posti sarebbe sufficiente a rendere ragione della necessità di «prendersi cura» del prossimo. E questa possibilità di vulnerabilità sembra essere l’attributo universale che definisce l’animale razionale, togliendo ogni punta all’attuale e singolare dipendenza che invece a mio modo di vedere caratterizza la persona in quanto tale.
Anche se è significativo che la riflessione sulle virtù portata avanti da tanti anni da MacIntyre sfoci oggi nella valutazione del significato che per la riflessione morale hanno la malattia e la vulnerabilità, questo non mi pare assolutamente sufficiente. Una ragione ipotetica, congiuntiva, non sarà mai abbastanza forte da attuare un modo di essere nuovo, quale è quello virtuoso, ma sarà al massimo una buona base per il volontarismo, vizio tremendo che consiste nell’affermazione disordinata e parziale di sé.
La parabola del buon Samaritano usualmente viene interpretata come una sollecitazione da parte di Gesù a prendersi cura degli sfortunati, dei disabili, degli attualmente vulnerati. Ma al capitolo 11 del vangelo di Luca, l’unico che la riporti, essa è introdotta dalla domanda di un dottore della Legge: «cosa devo fare di buono per ottenere il regno dei cieli?» Gesù lo interroga, e gli fa citare la Legge stessa: «Amerai il tuo Dio con tutta la tua mente. . ., e il prossimo tuo come te stesso». Al legista non fa problema la prima parte del precetto, ma il secondo ha bisogno di chiarimenti. Luca dice che il dottore pose la seconda domanda «per giustificarsi». Era dunque un personaggio noto alla compagnia di Gesù, sia perché aveva bisogno di salvare la faccia, sia perché gli astanti ne colgono la motivazione. Ma Gesù, che risponde sempre alle domande che gli vengono poste, qualunque sia l’orizzonte da cui provengono e purché ci sia anche solo un briciolo di speranza che la sua risposta venga accolta, non si scompone, e racconta la storia del poveretto incappato nei briganti, a cui due istituzionalmente buoni non portano soccorso, mentre lo fa uno straniero. E pone alla fine a sua volta una domanda al discepolo: «Chi di questi tre — sacerdote, levita e samaritano — ti pare sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?»
Cioè Gesù ribalta la questione: tu, che mi chiedi di dirti chi è il tuo prossimo, sei quello che è incappato nei briganti e il tuo prossimo è chi non ti lascia morire per strada. Forse egli era a conoscenza di qualche episodio della vita del discepolo che giustificasse e rendesse ancora più pungente il riferimento. Comunque è inevitabile, se si prende sul serio la domanda conclusiva di Gesù, immaginare i ruoli invertirsi nuovamente, come se avesse voluto dire anche: se mezzo morto per strada ci fosse stato il samaritano, mai più tu, orgogliosamente versato nella legge d’Israele e adombrato nella parabola dai due legisti che non si fermano, mai più tu ti saresti fermato a dare aiuto a un disprezzato straniero. Invece proprio a te è successo di essere stato soccorso al di là di qualunque ragione tu possa immaginare. Questo che ti ha soccorso, tu amalo come te stesso.
Il prossimo indicato da Gesù è quello per cui ciascuno di noi ha un debito di gratitudine, non contraccambiabile. Qui si può poi raggiungere l’interpretazione corrente, perché l’imitazione di questo uno che mi ha ridato la vita è fondata sulla realissima gratitudine che ho nei suoi confronti. Il soccorso a chi è in «urgent need», come definisce MacIntyre la misericordia,21 non si fonda perciò su un qualunque genere di calcolo, di ipotesi di mia eventuale vulnerabilità passata o futura, di sillogismo o massima universale che avrebbe il potere di farmi passare l’abisso che si apre fra l’amore di me stesso e l’amore dell’altro. C’è l’amore che mi ha fattivamente testimoniato un terzo, precedente il rapporto mio con questo prossimo di seconda generazione, talmente sconvolgente che ha cambiato il mio essere. Io non sono più lo stesso, infatti senza di lui sarei morto. Sia che lo riconosca, sia che lo rinneghi, questo dato non potrà essere strappato dalla mia esperienza, e genererà, a seconda della mia risposta, vita o morte per me e tutti quelli che incontrerò.
Di questo tipo di dipendenza nel libro di MacIntyre sono descritte alcune conseguenze, ma non c’è nessuna traccia della loro origine. Anzi la sua descrizione delle virtù della razionalità animale dipendente sono un po’macchinose, come se si dovesse sempre ricapitolare la motivazione per l’azione ad ogni passo, e aggiungere virtù a virtù secondo tutte le sfaccettature, sempre cangianti, che la realtà presenta, mentre una delle caratteristiche dell’atto veramente virtuoso è proprio la sua semplicità, il suo immediato porsi adeguatamente.
Non è necessario che la gratitudine da cui si genera l’amore al prossimo sia originata da un’esperienza di grazia, di reale incontro con il samaritano che è Gesù, anche se questo facilita molto, perché la valorizzazione culturale della carità in ambito cristiano non ha rivali. No, perché le relazioni fra uomini si contraddistinguono per documentare sempre di nuovo una simile originaria gratuità, senza della quale nessun bambino potrebbe andare oltre le poche settimane di vita, nessun maestro potrebbe insegnare e nessun discepolo imparare, nessun lavoro potrebbe essere svolto, nessun ordinamento politico o sociale potrebbe mai reggersi.
Come Vassili Grossman fa dire a Ikonnikov in Vita e Destino22 — un romanzo che a mio giudizio potrebbe essere messo a chiave di volta del significato attribuibile al XX secolo — la storia del mondo non è la lotta titanica del bene che tenta di sconfiggere il male.
Essa è piuttosto lo sforzo destinato al fallimento di un male astuto, ricco e strumentato che tenta di distruggere un bene piccolo e indifeso. Questo qualcosa di fragilissimo che nessuno spiegamento di forze riesce a far tacere del tutto, è la gratuità che chiama alla gratitudine e determina la dipendenza che io speravo di trovare descritta nel libro di MacIntyre ma non ci ho trovato.
7. Per provvisoriamente concludere
A mio giudizio la psicanalisi — che nasce, si svolge e risponde ad un contesto culturale che ho descritto come catastrofico, riferendolo a un’eredità dovuta ad un’amputazione grave dell’umano — risponde alla mutazione antropologica databile dai Lumi, e questa cornice permette di renderne conto e valutarla con più realismo: è figlia del suo tempo, segnato dal razionalismo, ed ha allargato il catalogo dei fenomeni a un campo incolto da diversi secoli. Per queste due ragioni non è strano che l’opera di bonifica non sia delle più agevoli. Sicuramente però, se la mia interpretazione è corretta, si tratta di un campo di ricerca privilegiato perché qualcosa di veramente essenziale del reale, a cui altrove è formalmente impedito di emergere, qui viene invece interrogato direttamente.
Nonostante la teoria psicanalitica sia veramente poco accessibile e goda inoltre oggi di pessima stampa, c’è un testimone in suo favore: quando l’amputazione del soggetto si fa troppo lacerante, è troppo contraddittoria per la coscienza che ne deve assumere la responsabilità — responsabilità che sia Freud che Lacan hanno sottolineato con forza23 —, la cura psicanalitica costruisce un apparato che gli rimetta davanti agli occhi la sua realtà, ormai quasi inaccessibile per altra via. Inaccessibile perché l’immagine di uomo che domina la nostra epoca non è quella reale. Anche in questa direzione può chiarirsi il nesso fra moralità e malattia: un’immoralità culturale, una non verità costruita e sostenuta istituzionalmente, pedagogicamente, letterariamente, socialmente, economicamente, medicalmente diventa a lungo andare lesiva dell’integrità umana come tale, che, finché può, risponde come può, ma che a un certo punto può semplicemente rifiutarsi di funzionare rispetto a quella costruzione.
In contesti culturali diversi da quello occidentale, sempre gli uomini hanno ritrovato intorno a sé l’immagine riflessa che invece noi abbiamo voluto, con gran perseveranza nel corso di quasi cinque secoli, dimenticare. La negazione teorica fondata nel rifiuto di una verità troppo inquietante ha compiuto qualcosa come una trasmutazione della natura umana. Allora, come insegna l’antica storia di Giobbe, ha trovato rifugio nella malattia, l’ultima parola che la verità può dire per chiedere di essere riconosciuta.
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Alasdair MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Feltrinelli 1988. ↩︎
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Discours de la méthode, II parte: «Je ne pouvais choisir personne dont les opinions me semblassent devoir être préférées à celles des autres, et je me trouvai comme contraint d’entreprendre moi-même de me conduire» ↩︎
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Pubblicato in Nuntium, rivista della Pontificia Università Lateranense, Roma, novembre 2002. ↩︎
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Méditations Métaphysiques, 4, 5: «Et certes il n’y a point de doute que Dieu n’ait pu me créer tel, que je ne pusse jamais me tromper; il est certain aussi qu’il veut toujours le meilleur; mais est-il donc plus avantageux de faillir, que de ne point faillir?» ↩︎
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Così la scienza si dissolve in tecnologia. Indico qui gli sprazzi di quello che potrebbe essere un bell’itinerario di ricerca: la causa efficiente viene promossa dal meccanicismo a unica esplicazione scientifica della realtà, mentre contemporaneamente Hume le nega ogni fondamento conoscitivo. Kant tenta di rispondere all’obiezione di Hume, ma in realtà ne assume e assolutizza il pensiero, cercando con le categorie a priori di spazio e tempo di salvare la razionalità del conoscere, e finendo col distinguere fra fenomeno (contemporaneità ripetuta di due eventi) e noumeno informato da tali categorie (rapporto necessario fra causa ed effetto). Questa divisione resta a tutt’oggi irrisolta, e anche, direi, poco esplorata. Il concetto di causa ha una valenza non piccola in psicanalisi, a partire dalla pretesa di spiegare scoprendone le cause l’inspiegabile, l’assurdo per definizione: sintomi, lapsus e sogni. Massicciamente questo concetto svolge un ruolo nell’insegnamento di Lacan, dove come ‘petit a’ è ciò che causa il desiderio. Se posso osare una sintesi: per Lacan la causa entra in gioco là dove c’è un problema, uno iato di senso, e permette di valicarlo in un modo che sta fra il mitico e l’intuitivo, con un richiamo al fatto d’esperienza che io sono causato, o mosso, da ciò che causa il mio desiderio. L’etimologia di ’causa’ nelle lingue indœuropee ha una parentela discendente con ’cosa’ (oltre che la quasi totale consonanza fra le due parole italiane, si può citare p. es. Sache e Ursache in tedesco) e ascendente con ’causa giuridica’ , nella latinità anzitutto, ma anche nel tedesco e l’inglese Ding e thing, perché proprio con questi termini nei popoli germanici venivano denominate le assemblea aventi l’autorità necessaria a dirimere i litigi. Se all’etimologia si volesse attribuire un senso, bisognerebbe riconoscere che la logica soggiacente è questa: da una situazione con un duplice esito possibile (il giudizio del tribunale popolare) viene stabilito un fatto che imprime direzione alla vita e la struttura: si genera una ’cosa’. Questo sarebbe dunque il substrato di significato del molto problematico e bistrattato termine ’causa’. Infine, se il meccanicismo è il quadro concettuale in cui la causalità si pone come problema alla razionalità, noto per inciso che ancora una volta, e con ciò gli rendo onore, Descartes è all ‘origine dell’aporia. ↩︎
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Etica deriva dall’estensione della radice indœuropea s(w)e-, pronome riflessivo della terza persona, in swedh-, (ciò che appartiene a sé stessi), da cui derivano anche il latino sodalis (compagno) e il greco ethnos (popolo o nazione), mentre con l’aggiunta di un suffisso (swed-yo) si ha l’origine di idioma, idiota, che derivano dal greco idios, (privato, proprio di se stessi), fino a swe-tos (da se stesso). Questa ricca messe si trova nell’Appendix I Indo-european roots dell’American Heritage Dictionary of the English Language, consultabile anche in rete: http://www.bartleby.com/61/IEroots.html. ↩︎
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Michel Foucault, Storia della follia, Rizzoli, Milano 1963. A pagina 177 si legge ad esempio: «Ora ciò che caratterizza il XVII secolo non è il fatto di aver progredito, più o meno in fretta, sulla strada che conduce al riconoscimento del folle, e, attraverso esso, alla conoscenza scientifica che se ne può ricavare; ma di avere al contrario cominciato a distinguerlo con minore chiarezza; in un certo senso l’ha riassorbito in una massa indifferenziata. Esso ha confuso i tratti di un volto che si era già individualizzato da diversi secoli. In confronto ai folli dei Narrtürmer e dei primi asili in Spagna, il folle dell’età classica, richiuso coi sifilitici, i dissoluti, i libertini, gli omosessuali, ha perduto l’impronta della sua individualità; egli si dissolve in una comprensione generica della sragione. La prospettiva diventa uniforme. Si direbbe che in mezzo agli asili del XVII secolo il folle si perda come in una penombra, tanto è difficile seguirne le tracce fino al movimento di riforma che precede di poco la Rivoluzione». ↩︎
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In tedesco Übertragung, un termine che al di fuori del suo uso tecnico in psicanalisi può significare anche trasferimento, trascrizione, traduzione, conferimento. ↩︎
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Alasdair MacIntyre, The Unconscious, a conceptual analysis — revised edition, Routledge, Londra 2004, p. 6: «I was still, without realizing it, far too much in the grips of positivistic conceptions of observability and verifiability when I wrote The Unconscious. And had I spelled out the relationship of the concept of repression to those of resistance and transference I might not have made the mistake that I did. […] my fault was in not taking my own central project far enough by recognizing that the ascription of an unconscious refusal to acknowledge a memory is best interpreted by beginning from what it is consciously to refuse to acknowledge something and then in that light considering the differences between conscious and unconscious refusals […]». ↩︎
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Sigmund Freud, Selbstdarstellung, II parte, in Gesammelte Werke, vol. XIV, p. 51, S. Fischer Verlag, Freiburg 1999. ↩︎
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Madeleine Chapsal intervistò per L’Express Jacques Lacan nel maggio 1957: «Je ne me demande pas «qui parle», j’essaye de poser les questions autrement, d’une façon plus formulable, je me demande «d’où ça parle». En d’autres termes, si j’ai essayé d’élaborer quelque chose ce n’est pas une métaphysique mais une théorie de l’intersubjectivité. Depuis Freud, le centre de l’homme n’est plus là où on le croyait, il faut rebâtir là-dessus». ↩︎
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Jacques Lacan ha fatto dell’immagine riflessa uno snodo fondamentale del suo pensiero, a partire dallo ‘stadio dello specchio’, ma essa è originariamente di Sigmund Freud: Ratschläge für den Artz bei der psychoanalytischen Behandlung, in Gesammelte Werke vol. VIII, p. 384: «Der Arzt soll undurchsichtig für den Analysierten sein und wie eine Spiegelplatte nichts anderes zeigen, als was ihm gezeigt wird». ↩︎
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Raimondo da Capua, Vita di Santa Caterina, Cap. IV, pp. 147-151. ↩︎
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«Por toda la hermosura / nunca yo me perderé, / sino por un non sé qué / que se alcanza por ventura», in Opere, edite dalla Postulazione generale dei Carmelitani Scalzi, Roma, 1985, p. 1060. ↩︎
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Sigmund Freud, Die endliche und die unendliche Analyse, cap. VI, in Gesammelte Werke vol. XVI, p. 92. ↩︎
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Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIa IIae, quaestio 51. ↩︎
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«De omnibus quae secundum communes regulas fiunt». ↩︎
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«Praeter communes regulas sunt quaedam alia diiudicanda». ↩︎
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«quam sint regulae communes, secundum quas iudicat synesis. Et secundum illa altiora principia exigitur altior virtus iudicativa, quae vocatur gnome, quae importat quandam perspicacitatem iudicii». ↩︎
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Alasdair MacIntyre, Dependent Rational Animal, Duckworth, Londra 1999. ↩︎
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Alasdair MacIntyre, Ivi, p. 124. ↩︎
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Vassili Grossman, Vie et destin, L’Âge d’Homme 1980, parte II, cap. 15. Alla fine dello scritto di Ikonnikov che il vecchio bolscevico Mostovskoï si è visto restituire dall’Obersturmbannführer SS Liss, si trova questa conclusione: «L’histoire des hommes n’est pas le combat du bien cherchant à vaincre le mal. L’histoire de l’homme c’est le combat du mal cherchant à écraser la minuscule graine de l’humanité. Mais si même maintenant l’homme n’a pas été tué en l’homme, alors jamais le mal ne vaincra». ↩︎
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Freud interpreta come un tentativo di assumere la responsabilità dei propri gesti la confabulazione che consegue all’esecuzione di comandi ricevuti sotto suggestione ipnotica: un soggetto ipnotizzato a cui venga ordinato di compiere al suo risveglio una determinata azione, la eseguirà e, se richiesto di giustificarla, cercherà di addurre ragioni di varia qualità, continuando ad ignorare completamente il fatto che all’origine ci fosse il comando dell’ipnotizzatore. Inversamente, dice sempre Freud, neppure con l’ipnosi sarà possibile far compiere ad un soggetto un’azione che sia radicalmente contraria a un suo atteggiamento fondamentale. Cfr. Psychische Behandlung in Gesammelte Werke V, p. 308 e 313. Quanto a Lacan, che afferma di non parlare mai della libertà (come dice in una battuta durante un’intervista concessa a Louvain nel 1972, http://parolesdesjours.free.fr/lacan.htm), in realtà non fa che parlarne, in termini, se mi si passa l’espressione, post-volontaristici o anarbitrari, in un modo cioè che fa dell’aspetto di indeducibilità che gli atti liberi implicano l’indice di una strutturale divisione del soggetto, come una vertiginosa faglia malissimo sopportata che esiga di essere colmata. Lacan cerca in tutta la sua circonvoluta opera di determinare quali siano le vie e le condizioni, gli spazi e le forme, le misure e le impasses nell’esercizio di questa libertà mascherata di necessità: «Quittons d’un dernier regard Alceste qui n’a pas fait d’autre victime que lui-même et souhaitons-lui de trouver ce qu’il cherche, à savoir: sur la terre, un endroit écarté, où d’être homme d’honneur, on ait la liberté, pour retenir ce dernier mot. Car ce n’est pas seulement par dérision quel’impeccable rigueur de la comédie classique le fait surgir ici. La portée du drame qu’elle exprime en effet, ne se mesure pas à l’étroitesse de l’action où elle se noue, et tout comme l’altière démarche de Descartes dans la Note secrète où il s’annonce sur le point de monter sur la scène du monde, elle»s’avance masquée». […] Car le risque de la folie se mesure à l’attrait même des identifications, où l’homme engage à la fois sa vérité et son être. Loin donc que la folie soit le fait contingent des fragilités de son organisme, elle est la virtualité permanente d’une faille ouverte dans son essence. Loin qu’elle soit pour la liberté «une insulte», elle est sa plus fidèle compagne, elle suit son mouvement comme une ombre. Et l’être de l’homme, non seulement ne peut être compris sans la folie, mais il ne serait pas l’être de l’homme s’il ne portait en lui la folie comme la limite de sa liberté. Et pour rompre ce propos sévère par l’humour de notre jeunesse, il est bien vrai que, comme nous l’avions écrit en une formule lapidaire au mur de notre salle de garde: «Ne devient pas fou qui veut». In Ecrits I, Propos sur la causalité psychique, Le Seuil Points, Paris 1966, pp. 174-175. ↩︎