1. Introduzione
Non ci interessa qui, e neanche è possibile, evidenziare le differenze e le particolari sfumature, alle volte chiaramente distinte, di Nietzsche e Heidegger in riferimento alla religione. Per il presente proposito, sarà sufficiente all’inizio considerare qualche confluenza che ci permette di riflettere sul tema in Nietzsche e Heidegger senza la perplessità dei parallelismi o l’ingenuità di vicendevoli sottomissioni. Per accomunarli, ugualmente in modo generale, assumiamo la prospettiva secondo la quale Nietzsche e Heidegger si intrecciano nell’inversione procedurale dei loro progetti filosofici: il primo problematizza il telos; il secondo, l’arché. Tutti e due si danno, come progetto filosofico, l’incarico di affrontare e mettere in discussione delle determinazioni razionali, supposte aeternae veritates, stabilite per organizzare, dirigere e dominare la vita. Dalla nostra tesi di dottorato, del 2004, con il titolo Arché e telos. Niilismo filosófico e crise da linguagem em Nietzsche Heidegger,1 sosteniamo ancora questo stile di convergenza tra questi due filosofi. Addesso lo facciamo però in torno al tema della regiosità.
Secondo la nostra interpretazione, la confluenza tra loro si evidenzia nella dissoluzione dell’arché e del telos a favore della vita. Una tale dissoluzione ha inizio nella tensione di problematizzare le determinazioni della ratio. In Nietzsche, dalla problematizzazione del telos e la sua consequente dissoluzione si arriva ipso facto alla dissoluzione dell’arché; inversamente, Heidegger procedendo dalla problemazzazione dell’arché, raggiunge alla dissoluzione di essa e arriva ipso facto alla dissoluzione del telos. Questa confluenza incrociata, permessa dalle procedure invertite, provoca quel che abbiamo chiamato nella nostra tesi apertura della dissoluzione arché-teleologica propria della vita; ci sarà allora un altro modo di pensare, oltre il registro autopoietico e logico della ragione; un pensare come costante esercizio di oscillazione. Un pensare altrimenti come un costante «andare e venire»; non più nella dimensione della ratio calcolatrice che «fa i conti» attraverso presupposti arché-teleologici, ma sul piano vitale dell’oscillazione, dell’andirivieni costanti di pericoli e rischi, dove, come dice Heidegger, «ogni creare dovrà prendere un altro inizio».2 In questo andirivieni non si raccoglie più arché e telos per fare il totale del compito razionale e per circoscrivere e organizzare così il mondo, l’uomo, la vita. Il registro di una tale immensa apertura non è la folgore della ratio, ma quello della sollecitudine dell’abbandono, del rifiuto, del ritegno (Verhaltenheit).
Così tutti i due, Nietzsche e Heidegger, sono senza patria; degli espatriati che cercano il senso della vita che di sicuro non si trova nelle circoscrizioni della ragione, la quale stabilisce arché e telos e li ritiene, lei stessa, come origini ultime, come possibilità universale per tutto l’essere. Ecco la macchinazione della ragione affrontata tanto da Nietzsche quanto da Heidegger, lo stesso con diverse sfumature: l’essere, il primo, perde il suo posto originario di principiare e diventa strumento arché-teleologico della ragione per creare ideali, dèi, delle verità. Così come dirà Nietzsche, l’ideale ha «dominato» tutte le filosofie, «perché la verità è stata posta come essere, come Dio, come la stessa somma istanza»;3 o come parla Heidegger, il dominio si realizza perché l’essenza della verità è posta come essere sommo, come realtà effettiva (causa efficiente): il veramente reale è Dio, «la causalità somma è l’actus purus come summum bonum che, in quanto scopo finale (finis) che tutto predetermina e così tutto eleva nella sua vera stabilità, fissa tutta la realtà del reale nella causa originaria prima (Ur-sache)».4 L’essere diviene cosa, e cosa suprema, fuori dal mondo, transcendente, arché e telos. In questa vertigine dell’oscillazione della possibilità di un pensiero senza arché e telos, il presente testo cercherà la possibilità di affrontare il problema della religione in Nietzsche e Heidegger. In primo luogo, si preciserà il concetto di religione. Dopo si deve esaminare in che senso una tale religione si vedere nelle prospettive di Nietzsche e Heidegger cioè nella dissoluzione arché-teleologica. Si vedrà, alla fine, che le loro prospettive potranno arrivare a un modo di pensare altrimenti cioè senza le strutture arché-teleologiche del calcolo della ragione; qui si troverà l’orizzonte senza luogo del divinare.
2. Concezioni su religione
Le questioni di stampo religioso sono presenti in qualche modo nei testi di Nietzsche e Heidegger però come espressioni di decadenza, di domínio della ratio, di malattia o come aeternae veritates. In senso negativo, la «morte di Dio» rappresenta la liberazione della trappola della ragione; è la morte del supremo elemento della strategia arché-teleologica della ratio che, secondo Heidegger, in La parola di Nietzsche «Dio è morto», «nomina il destino di due millenni di storia occidentale», e rappresenta la fine della metafisica, perché adesso «il soprasensibile diviene un prodotto inconsistente del sensibile»; «il mondo soprasensibile è senza forza efficiente».5 Heidegger, nel testo appena citato, accenna alla possibilità del divino solo a patto che si consideri sul serio certe differenze, per esempio, tra «cristianismo» e «cristianità», tra «fede» e «teologia», tra «autorità di Dio» e «autorità del magistero della Chiesa». Secondo Heidegger «anche una vita non cristiana può aderire al cristianesimo e utilizzarlo come fattore di potenza; così come per converso, una vita cristiana non abbisogna necessariamente del cristianesimo». Ancora «una critica della teologia non è già di per sé una critica della fede di cui la teologia dovrebbe essere l’interpretazione».6 Nel senso in cui sia possibile stabilire la differenza tra un fenomeno storico e politico-secolare, istituzionale, e quello di una fede genuina, come possibile apertura al sacro, al mistero, si potrebbe parlare allora di certa religiosità.
Nella Visione dionisiaca del mondo, si può dire che Nietzsche si sofferma sulla distinzione tra religione della morale, da un lato, come religione prodotta dalla necessità e dal bisogno – è inventata «da un animo scosso dall’angoscia», del dovere o dell’ascetismo o della spiritualità; da un’altro lato, la religione della vita che riguarda gli dèi dell’Olimpo ed esprime il trionfo dell’esistenza: «un rigoglioso sentimento di vita accompagna il loro culto». Questi dèi non sono stati «prodotti della necessità e dal bisogno», non sono stati inventati da un animo scosso dall’angoscia».7 Allora se si prende su serio le differenze suddette si potrebbe parlare di una certa religiosità in Nietzsche e Heidegger; in fondo, a quanto pare, succedde lo stesso se restiamo nel terreno della distinzione di due significati della parola «religione» comune nella tradizione latina di Cicerone, come conferma Paul Gilbert,
Da una parte, la religione «rilegge» i codici liturgici, li studia cioè per metterli scrupolosamente in pratica. Le culture religiose impongono infatti delle forme di visibilità che hanno la pretensione di assicurare la pace di tutti. Queste culture, che potrebbero identificarsi con i costumi di un gruppo sociale più o meno esteso, esigono una obbedienza cieca ai precetti di una pratica comune […]. Da un’altra parte, la religione «rilega» al divino, vale a dire a un mistero che, trascendente, sovrasta la vita umana.8
Si potrebbe chiarire questa distinzione tra religione nel senso di «rileggere» e nel senso di «rilegare», per esempio, nella proposta di Nietzsche che distingue tra religone della morale e religione della vita, ancora più chiaro se si assume la parola «morale» con tutto il peso che ne conferisce Nietzsche in cui tutte le determinazioni anche quelle scientifiche o metafisiche appartengono alla morale, perché sono forme per conferire valori razionali alle cose, alla vita, all’esistenza; concetti inventati dalla ragione autopoietica per regolare il tutto. In questo caso, il senso del «rileggere» apparirebbe come religione della morale; «rilegare» come religione della vita. A sua volta, in Heidegger, il primo senso è quello della teologia, dell’autorità del magistero; il secondo, la religione nel senso di «rilegare», viene capito come l’orizzonte del divinare, del Dio senza essere; un «rilegare» che sarà più un ascolto, un cogliere di quello che, per prima, viene di sé all’uomo.
3. Nietzsche: religione della vita
In Nietzsche non sono in gioco soltanto le proposizioni assiologiche o relative ai comportamenti umani. Ogni formulazione della ragione si iscrive nel registro della morale, sia nell’ordine scientifico che teoretico, sia nell’ordine pratico o poietico. Qui il proprio logos è già da sempre constitutivamente moralizzante e, pertanto, non regge piú la distinzione aristotélica tra campo della morale e della poiesis, da un lato, e dall’altro la scienza teoretica. Le prime secondo Aristotele si riferiscono a «ciò che può essere diverso da come è» (Eth. Nicom., VI, 4 1140a); l’oggetto della scienza, a sua volta, «esiste di necessità»: «ciò che non può essere diversamente da quello che è» (Eth. Nicom., VI, 3 1139b). Nella concezione nietzschiana, anche le proposizioni scientifiche ricevono espressioni grazie a imperativi morali assunti come «cose in sè», aeternae veritates, e predeterminano quel che merita di essere conosciuto, che è degno di ricerca, il megliore.9 Così afferma Nietzsche in Al di là del bene e del male: «“la conoscenza per amore della conoscenza” – è questo l’ultimo tranello che ci tende la morale: è così che ancora una volta ci si coinvolge completamente in lei».10
Dunque, la lettura nietzschiana sul problema delle religioni con fisionomia sociale, istituzionale, si realizza sul questo ampio terreno della morale. Queste religioni non operano altro che controlo normativo dell’esistere umano attraverso il soprasensibile che, assunto in forma di concetto, comunica un preciso telos alla vita. Si può dire che nel suo progetto genealogico, Nietzsche trova il limite teleologico, stabilito e organizzato dalla ragione e da essa stessa amesso e comunicato come aeterna veritas, divenuta vera arché. Allora quel che si chiamerebbe fenomeno religioso, per Nietzsche non sarebbe che controllo razionale, appunto morale, che trova nella teleologia una bella spiegazione del soprasensibile. Un tale controllo è sempre concettuale; qui i concetti, passando di generazione in generazione, si cristallizzano pian piano nell’incoscio dell’uomo e delle comunità linguistiche e si trasformano in aeternae veritates i cui limiti concettuali circoscrivono un recinto vitale da impedire qualche tentativo di affrontare le loro vere origini; il gregge si trova così come in un «incanto invisibile», creato e stabilito dall’«atavismo» linguistico e grammaticale.11 La religione della morale, lo stesso se incosciamente, non è dissociabile dalla direzione e gerarchizzazione della vita: una religione così è da sempre una morale. L’invenzione di supposti fenomeni extra mundi, eterni e immutabili, grazie al supporto del linguaggio, diventa terreno propizio per il dominio. Nietzsche individua le sottili strategie della ragione e di suoi concettti autopoietici nelle religioni della morale e conferma: «temo che non ci libereremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica…».12 Si capisce così quello che scrive il teologo Guardini:
Da Nietzsche in poi non possiamo più chiudere gli occhi dinanzi al fatto, che le proposizioni del pensiero, apparentemente del tutto oggettive, sono, nello stesso tempo, vive prese di posizione, decisioni della volontà, orientamenti critici, misure per il giudizio sul valore e sulla gerarchia delle cose. I concetti sono, nello stesso tempo, elementi strategici della guerra della vita.13
Come si può vedere, la tensione permane. Si può dunque domandare: ci sarà qualche spazio per il sacro, per il religioso, in una parola, per la trascendenza nella dissoluzione della religione morale? Come si potrebbe giustificare la prospettiva secondo la quale il Zaratustra è «il più devoto di coloro che non credono in Dio»? Come mai credere in un senza Dio, un devoto, in colui che porta dentro di sè un qualche dio che lo convertì al suo ateismo?14.
4. Religione e il «più di potenza»
Se si mette in luce la differenza tra religione della morale, in quanto volontà di verità da un lato, e dell’altro la religione della vita, in quanto volontà di potenza, si potrebbe arrivare a una concezione di religiosità, a un certo orizzonte del sacro in Nietzsche. La prima, la volontà di verità, ha paura delle domande, di essere in questione, non vuole neanche assumere la minima possibilità di non essere vera. Ma non si blocca per sempre una tale menzogna; prima o poi la verità prenderà conscienza-di-sé e, dirá Nietzsche, «grazie a questo prendere coscienza-di-sé della volontà di verità, la morale – non v’è alcun dubbio – finirà per andare progressivamente “in rovina”».15 La seconda, la volontà di potenza, a sua volta non teme la superazione di sé, anzi si vuole piena di rischi, di autosuperazione; è la forza dell’autodeterminazione, una libertà dello spirito: «uno stato in cui uno spirito desse congedo ad ogni fede, ad ogni desiderio di certeza, essendo esercitato a tenersi su corde leggere e su leggere possibilità e a danzare anche sull’orlo di abissi».16
Giorgio Penzo intravede una simile distinzione. Per lui, il filosofare di Nietzsche «si muove nell’orizzonte del sacro»: da un lato «un orizzonte di divino inautentico, caratteristico della volontà di nulla», dall’altro, «un orizzonte di divino autentico, caratteristico della volontà di potenza».17 Una tale polarità peró si dispiega in quanto «dialettica esistenziale» in cui la trascendenza si realizza nell’atto umano di passare da un polo (l’uomo inautentico) all’altro (super-uomo). Arriviamo allora sul terreno del «più di potenza», un dinamismo esistenziale di decisione, l’attimo in cui l’uomo ha coscienza di essere super-uomo. Così «il decidersi per il superamento è già un atto in cui l’uomo si apre all’orizzonte del divino».18 In questo senso si dice che il divino, in quanto dipende da una continua conquista da parte dell’uomo, è un atto di «violenza», lotta di forze. Il divino è l’orizzonte del pericolo e diventa per l’uomo un «tenersi su corde leggere e su leggere possibilità», un «danzare anche sull’orlo di abissi», un «essere-aperto-al-divino». Allora la decisione dell’uomo per il continuo passare-al-di-là è la verità più profonda del super-uomo, il Dio come momento culminante in cui «morti sono tutti gli dèi: ora vogliamo che il superuomo viva».19
5. L’accennare del discorso che si dona
Allora questo orizzonte del pericolo può essere denominato religione della vita in cui la trascendeza del «più di potenza» ci rinvia alla propria vita che è sempre un tramonto, grazie all’apertura della inesistenza di telos e conseguentemente di arché. La vita «esagera, distorce, lascia lacune».20 In questo costante tramontare non è mai strano dire che «anche gli Dei si putrefanno».21 Così si capisce quello che dice Zarathustra: «potrei credere solo a un dio che sapesse danzare: adesso sono lieve, adesso io volo, adesso vedo al di sotto di me, adesso è un dio a danzare, se io danzo».22 Si troverebbe così una religione della vita la cui liturgia celebra il senza fine, il senza telos e senza arché, il caos. Dirà Nietzsche, «bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante. Io vi dico: voi avete ancora del caos dentro di voi».23 Vuol dire che una tale religione è caotica, senza arrivo, senza regole, soltanto vitale; è patetica, piena di páthos. Qui non ci sono dottrine, solo discorso che si dona: Zarathustra reca «agli uomini un dono», un discorso che non cerca delle dimostrazioni scientifiche e razionali; non si occupa delle strutture logiche del ragionamento come modo di vincere l’interlocutore attaverso aeternae veritates le quale sono segni di degenerazione (Entartung) dove non si vede l’anima che dona, ma solo religione della morale che legifera soltanto.24
Invece il discorso della religione della vita non ha la pretesa di «fare il totale» del compito mediante leggi, perché egli è sempre simbolico e i simboli «non dichiarano, essi accennano (winken) solamente».25 Allora un discorso che accenna (winken) e che chiama con cenni è sempre patetico, si esercita nell’apertura del páthos; è un discorso che si dona soltanto; qui «in alto vola la mente» come simbolo del corpo, il simbolo di un‘elevazione (Erhhung) dove il discorso non si fissa in un contenuto dichiarativo, ma vige appunto in sua espressività simbolica perché solo chiama con cenni. Si trova qui la traccia inesauribile del «più di potenza», segno di tramonti, pura donazione, dunque fuori di qualunque reciprocità. Come sperare reciprocità di un discorso che accena soltanto? Ma chi sopporterà vivere in una simile vertigine? Chi potrà vivere in questo orizzonte sacrale dominato per il senza fine e costante «più di potenza»? Dirà Nietzsche, solo l’uomo del futuro sarà capace di una tale elevazione, l’oltre-uomo, e lui dovrà venire un giorno:
Quest’uomo del futuro, che ci redimerà non solo dall’ideale quale è stato sino ad oggi, ma anche da quello che «da esso dovette nascere», dalla grande nausea, dalla volontà del nulla, dal nichilismo, questo rintocco del mezzodì e della grande decisione, che libererà di nuovo l’uomo, che restituirà alla terra la sua meta e all’uomo la sua speranza, questo anticristo e antinichilista, questo vincitore di Dio e del nulla – «dovrà venire un giorno»…26
Si potrebbe trovare qui un certo vincolo con la prospettiva heideggeriana. L’accenare, il chiamare con cenni (winken) proprio dei simboli in Zarathustra, degli uomini del futuro, verrebbe articolato con il cenno (Wink) dell’ultimo Dio annuciato nei Beiträge.27 Senza arché e telos resterà il cenno. Nella lettura che facciamo, si vedono gli uomini del futuro, quelli che dovrano venire un giorno, nei «pre-cursori» (Vor-läufer) dei Beiträge: sono dei «corridori che raccolgono la fiaccola e la passano». Questi devono essere sempre iniziali e «ciò che essi assumono raccogliendo la fiaccola non può esser ciò che è detto come “dottrina”, “sistema” o simile»; questi fanno parte nel «dialogo sempre iniziale dei solitari in cui viene a far cenno l’ultimo Dio, perché nel suo passar via egli è colto da costoro con un cenno».28 Allora si può domandare: a somiglianza di Nietzsche nell’ambito dei discorsi che accennano soltanto, anche in Heidegger si potrebbe assumere il cenno dell’ultimo Dio come apertura all’orizzonte del sacro, del divino?
6. Heidegger: Dio senza essere
Considerando la prospettiva heideggeriana, come già abbozzata all’inizio, si potrebbe pensare in qualcosa come religione non però sul registro di quella teologica che viene stabilita dai calcoli della ragione. L’ultimo Dio è proprio l’ultimo perché «si sottrae a ogni calcolo»; come mai calcolare quel che é ultimo? E come ricorda Strummiello, non ci sembra affatto arbitrario scorgere dietro la prospettiva dell’ultimo Dio anche il rinvio alla indeterminatezza notturna del Sacro e alla sua presenza assente.29 Nei Seminari (testi dal 1951 al 1973), Heidegger mette in evidenza l’impossibilità della relazione predicativa tra essere e Dio.
Essere e Dio non sono identici, ed io non tenterei mai di pensare l’essenza di Dio mediante l’essere. […] La fede non ha bisogno di pensare l’essere. Se avesse bisogno di farlo, già non sarebbe più fede. […] Ho molte riserve a ritenere che l’essere sia adatto per pensare teologicamente l’essenza di Dio. […] Io credo che l’essere non possa mai essere pensato come fondamento ed essenza di Dio, ma che tuttavia l’esperienza di Dio e della sua rivelazione (in quanto essa incontra l’uomo) avviene nella dimensione dell’essere, il che non significa mai che l’essere possa valere come predicato possibile di Dio.30
Nei Beiträge, essere e Dio sono incomparabili. L’ultimo Dio è il tentativo di pensare altrimenti, senza essere. Come dice Safranski, i Contributi sembrano un laboratorio per l’invenzione di nuovo discorso su Dio con delle litanie di frasi che sono diametralmente opposte alla sistematicità teologica;31 non richiamano più le dottrine religiose o la teologia nell’ambito del dibattito sull’esistenza o non di Dio. Secondo Heidegger non si tratta di teismi o di valutare la possibilità dell’esistenza di Dio: «con la morte di questo Dio vengono a cadere tutti i teismi».32 L’accennare dell’ultimo Dio rivela lo stile dell’altro inizio (der andere Anfang) per un’altra storia dell’umanità, nell’attimo della fondazione della verità dell’Essere in cui attimo l’uomo salta dentro l’esser-ci; l’ultimo Dio ha bisogno di questa grande decisione dell’uomo.33 Allora «l’ultimo Dio è il conchiudersi in sè dell’inizio, non una fine come una conclusione o un punto di arrivo». L’ultimo, appunto perché ultimo, è senza telos, anzi è il rifiuto di ogni telos da cui, fin dall’inizio si è da tempo sottratto. Qui è l’inizio di un pensare altrimenti, completamente diverso da ogni calcolo e cioè un pensare al modo di costante tramonto, sempre in transito (Übergang); un pensare che si esercita nel permanere del domandare, nella costanza della Kehre, della svolta.
7. L’altro inizio: spazio del sacro
L’altro inizio è pieno di oscillazione. Qui la parola Kehre guadagna un senso più pieno da includere in sé il ripensamento essenziale della questione dell’essere in Heidegger. Kehre non si confonde con qualcosa di entitativo, ma è il movimento del proprio evento, della Er-eignis in cui si realizza lo stile di pensare dell’altro inizio, un pensare che oscilla; è così che si potrebbe capire la riga dei Beiträge dove si legge: «Kehre ist Wider-kehre» e cioè «la svolta è oscillazione».34 Tradurre «Wider-kehre» con «oscillazione», lo stesso anche se non è molto apprezzabile formalmente, produce l’effetto auspicato dal testo e cioè i costanti andirivieni della Kehre, della svolta in sé stessa; un costante andare e venire nella propria svolta come evento-appropriazione.35 Allora la Kehre, in quanto oscillazione nell’evento, rivela l’Essere e la sua verità che vengono all’uomo e lo chiama per la grande decisione di saltare nel «Ci» dell’esser-ci. Grazie a questo eventuarsi diventa possibile allo stesso tempo intravedere il cenno dell’ultimo Dio. Così si prende congedo dal primo inizio e si inaugura l’altro inizio di incommensurabile possibilità per la nostra storia, «l’inizio della storia più lunga nel suo percorso più breve», senza dottrine, sistemi o redenzione.
L’ultimo Dio aspetta il salto dell’uomo. Dunque, dobbiamo preparare la fondazione della verità per la venuta del cenno dell’ultimo Dio, il suo passaggio. Non si richiede nessuna tavola di comandamenti, ma una certa stabilizzazione che ne sostenga il passaggio. Ma come si potrebbe identificare il passaggio dell’ultimo Dio e il suo cenno? Le istituzioni religiose non potrebbero organizzarsi in modo a possibilitare l’altro inizio di incommensurabile possibilità per la nostra storia? Dice Hedegger:
Provenendo noi da una posizione rispetto all’ente determinata dalla «metafisica», solo difficilmente e lentamente possiamo conoscere ciò che è altro, ossia che il Dio non appare più in un’«esperienza vissuta», sia essa «personale» o «di massa», bensì unicamente nello «spazio» abissale dell’Essere stesso. Tutti i «culti» e le «chiese» invalsi finora, e cose del genere, non potranno essere l’essenziale preparazione dell’incontro dell’uomo e del Dio nel centro dell’Essere.36
Dunque, cosa si deve fare per preparaci per questo avvenimento di incommensurabile possibilità per la nostra storia? La preparazione per questo evento, dove si fa l’esperienza del cenno dell’ultimo Dio, non si realizza mediante progetti di mobilizzazione religiosa, sociale, politica o etica; progetti personali di condotta non sono capaci di far sì che l’altro inizio avvenga; ancora peggio sarebbe stabilire dei calcoli razionali-normativi con la pretesa di arrivare ad un tale posto desiderabile. La preparazione, al contrario, si fa mediante la grande decisione (große Entscheidung) dell’uomo37 di saltare nel «Ci» dell’esser-ci, dove, nel rifiuto, Essere e esser-ci si ricchiamano a vicenda, allo stesso tempo che la loro differenza permane; qui deve essere fondata la verità dell’Essere stesso e, como dice Heidegger, «per far fronte a questo compito, ogni creare dovrà prendere un altro inizio». In questo senso, la grande decisione per il salto già sarà in sé il proprio immergersi nella oscilazzione, «nella svolta dell’evento», dove non si può individuare dei arché e telos precisi. Secondo Heidegger, qui «si fonda l’origine dello stile futuro, cioè il ritegno nella verità dell’Essere», il «ritegno della cura» come lo stato d’animo fondamentale (Grundstimmung) dell’uomo iniziale.
Si potrebbe dire che l’altro inizio, dove il dopo è già da sempre stato, mai si realizza al modo dei calcoli o delle rappresentazioni. L’altro inizio si lascia vedere come quel che transcende in toto lo stile della macchinazione presente al mondo e al nostro modo di pensare comunemente. Qui si arriva a un’orizzonte sacrale, divino. Dice Heidegger: «chiusura puríssima e somma trasfigurazione, la più incantevole attrazione e la più temibile estasi». Una tale trascendenza però avviene solo storicamente. Qui si può parlare di una prontezza religiosa imparagonabile nella quale il supremo stile di vita è il ritegno (Verhaltenheit). Ma cosa vuol dire ritegno se l’inizio dell’altra storia si realizza nella grande decisione dell’uomo di saltare nell’oscillazione, nella vertigine o nella svolta dell’evento, dove ogni operare dovrà prendere altro inizio? Come mai sostenere una tonalità emotiva o uno stato d’animo (Grundstimmung) come il ritegno in questa vertigine?
8. Il ritegno (Verhaltenheit): lo stile dell futuro
La parola ritegno (Verhaltenheit) comincia la sua storia nei lavori di Heidegger negli anni 30. Nel suo Dell’essenza della verità, del 1930, Heidegger parla di questo stato d’animo, il ritegno (Verhaltenheit), vincolato alla serenità (Gelassenheit) termine di lunga storia nell’Occidente. Ma qui, il ritengno viene concepito come una specie di condizione di possibilità della serenità stessa. Così nel ritegno «si dispiega l’essenza originaria della verità» e «nascono le dicisioni semplice e rare della storia».38 In Domande fondamentali della filosofia (1937/38), Heidegger annuncia che la tonalità emotiva fondamentale della filosofia dell’avvenire si chiama ritegno, nel quale sono originariamente uniti in uno stesso ambito: lo spavento di fronte al fatto che l’ente sia e, nel contempo, il timore di fronte al fatto che nell’ente e prima di ogni ente sussista [West] l’essere.
Il ritegno è quella tonalità emotiva come tonalità emotiva fondamentale in cui lo spavento non è superato e accantonato, ma è, al contrario, preservato e custodito per mezzo del timore. Il ritegno è la tonalità emotiva fondamentale del rapporto con l’essere, rapporto in cui il nascondimento dell’essenza dell’essere diventa la cosa piú degna di essere posta como domanda.39
Solo chi si precipita nella fiamma del costante domandare sull’essenza dell’essere «ha il diritto di dire di questa tonalità emotiva fondamentale qualcosa piú del semplice nome», lo stesso se l’ottenimento di tale diritto significherà tacere.40 Nei Contributi il termo Verhaltenheit acquisisce un’importanza capitale ed è assunta come «lo stile dell’umanità futura, quella fondata nell’esser-ci», uno stile che dà il tono emotivo alla fondazione e la sorregge.41 L’altro inizio, sorretto dal ritegno, si realizza nel paziente ritardo dell’uomo di fronte all’ultimo Dio. Questo sarebbe l’altra storia fondata nell’esser-ci: è la storia nascosta del grande silenzio, «nel quale il dominio dell’ultimo Dio aprirà di nuovo l’ente, e gli darà nuova forma».42 Dice Heidegger, «in essa soltanto può ancora essere un popolo».
Il ritegno si realizza nel grande silenzio, nella tensione del costante domandare, che alla fine non è altro che tenersi nell’essenza della verità. Si tratta di un credere originário: «l’essenza della fede, concepita in base all’essenza della verità»; questo tenersi nell’essenza della verità non è un tenere-per-vero, ma un tensersi-nella-verità che è sempre un domandare, un resistere nella domanda. Dice Heidegger, «coloro che domandano in questo modo sono quelli che credono in modo originário e autentico, quelli cioè che prendono sul serio la stessa verità, e non solo il vero, dal fondamento». La fede dell’altro inizio, della grande decisione, non è sicurezza dottrinale, ma il rischio sempre iniziale delle domande; una concezione di sacro pieno di rischi perché un tenersi nella domanda, un credere pieno di oscillazione perché nel silenzio del ritegno: è un credere originario perché un «perseverare nell’estrema decisione» da cui la sicurezza è totalmente svanita, ma solo «esperisce la necessità di ciò che è nel fondo abissale».43 Il credere originário, come abbiamo detto, si mostra nel ritegno che è propriamente un perseverare nella domanda sull’Essere, in questa grande decisione della fondazione della verità dell’Essere stesso e, per far fronte a questo compito, «ogni creare dovrà prendere un altro inizio».44
9. Conclusione
Tanto in Nietzsche così come in Heidegger, lo spazio del sacro si apre mediante una grande decisione che, per il primo, è un accettare di vivere nel più di potenza, nell’Über dell’Über-mensch; per il secondo, è un saltare dentro l’esser-ci, nel Da del Da-sein. Per loro due, si apre l’immensa possibilità di un’altra storia senza però quei comandamenti razionali; nell’altra storia si fa soltanto dei cenni nella grande apertura della dissoluzione arché-teleologica. Ci vuole lo sforzo di trascendenza per la grande decisione; una trascendenza patetica, piena di páthos, di ritegno, piena di rischi e di pericoli: un salto nell’attimo, nell’evento, senza paura di vivere nei eterni ritorni di altri inizi. Ci vuole un «pensare altrimenti» per sopportare una tale vertigine, almeno in quel che concerne il pensiero del calcolo. Pensare altrimenti è un permanere pensante nella verbalità del verbo. Cosa significa pensare in quanto verbalità del verbo? Non si può dire, ma solo pensare e vivere.
La dissoluzione arché-teleologica, come abbiamo visto, apre uno spazio vitale veramente sacrale senza però qualsiasi possibilità di misura. Nessun Dio sará capace di permanere in questo spazio; senza i calcoli della ragione, senza arché e telos, muoiono tutti gli dèi, anche perché questo spazio è solo verbale. Un essere-Dio non ci sarebbe più; ci sarebbe soltanto divinare, mai un divino; göttern, non Gott; deità, mai Dio. Si può dire che la religione in Nietzsche e Heidegger avviene soltanto nel senso del «rilegare» a dei costanti «altri inizi» cioè ad «eterni ritorni di costanti nuovi inizi»; un’orizzonte sacrale di un «Dio senza essere» sopportabile soltanto da un pensiero che si esercita nell’oscillazione della dissoluzione arché-teleologica. Allora un’orizzonte per niente nuovo, ma pieno di nuove ed infinite possibilità per la storia, per l’uomo e per la vita. Alla fine, non sarà troppo avvicinarci alla prospettiva medievale eckhartiana così come rivela il proprio Heidegger nei Problemi fondamentali della fenomenologia (1928):
Meister Eckhart parla il più delle volte di «essenza superessenziale»: a lui non interessa affatto Dio – Dio è per lui ancora un oggetto provvisorio –, ma la «deità». Quando Meister Eckhart dice «Dio», egli intende la «deità», non deus, ma la deitas, non l’ens, ma l’essentia, non la natura, ma ciò che è oltre la natura, l’essenza […]. Dio è per sé stesso il suo «non», vale a dire, è l’essenza più universale, la più pura possibilità ancora indeterminata di ogni possibile, il puro niente.45
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I.V. de Oliveira, Arché e telos. Niilismo filosófico e crise da linguagem em Fr. Nietzsche e M. Heidegger, PUG Editrice, Roma 2004. ↩︎
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M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), Klostermann, Frankfurt am Main 1989, p. 416. ↩︎
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F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift, in Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe in 15 Bänden, G. Colli – M. Montinari, ed., De Gruyter, München 1980, vol. V, [pp. 245-412], p. 410. ↩︎
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M. Heidegger, Die Metaphysik als Geschichte des Seins, in Nietzsche II, Günther Neske, Pfullingen 1961, [pp. 399-457], p. 422. ↩︎
-
M. Heidegger, Nietzsches Wort “Gott ist tot”, in Holzwege, [2ª ed.,] Klostermann, Frankfurt am Main 1972, pp. 193-247. ↩︎
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Ivi, p. 206-207. ↩︎
-
F. Nietzsche, Nachgelassen Schiriften 1870-1873, in Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe in 15 Bänden, G. Colli – M. Montinari, ed., vol. 1, De Gruyter, München 1980, p. 559. ↩︎
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P. Gilbert, Pensiero postmoderno e religione, Horizonte (in linea), 2010, n. 16, jan./mar. 2010, https://doi.org/10.5752/P.2175-5841.2010v8n16p99 (01/10/2017), [pp. 99-116], p. 107-108. ↩︎
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F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches. Ein Buch für freie Geister, in Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe in 15 Bänden, II, G. Colli – M. Montinari, ed., De Gruyter, München 1980, [pp. 9-366], p. 30. ↩︎
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F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse. Vorspiel einer Philosophie der Zukunft, in Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe in 15 Bänden, V, G. Colli – M. Montinari, ed., De Gruyter, München 1980, [pp. 9-243], p. 85. ↩︎
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Ivi, pp. 34-35. ↩︎
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F. Nietzsche, Götzen-Dämmerung. Oder wie man mit dem Hammer philosophirt, in Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe in 15 Bänden, VI, G. Colli – M. Montinari, ed., De Gruyter, München 1980, [pp. 55-161], p. 78. ↩︎
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R. Guardini, Die Bekehrung des heiligen Aurelius Augustinus. Der innere Vorgang in seinen Bekenntnissen, Jakob Hegner, Leipzig 1935, pp. 233-234. ↩︎
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F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, GmbH & Co., Stuttgart 1994, pp. 273-274. ↩︎
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F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift, in Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe in 15 Bänden, V, G. Colli – M. Montinari, ed., De Gruyter, München 1980, [pp. 245-412], p. 410. ↩︎
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F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft, in Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe in 15 Bänden, III, G. Colli – M. Montinari, De Gruyter, München 1980, [pp. 343-651], p. 582. ↩︎
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G. Penzo, Il pensare di Nietzsche e il divino come polarità, in G. Dalmasso ed., Nietzsche e la fine della filosofia occidentale. Cittadella, Assisi 1986, [pp. 64-84], p. 76-77. ↩︎
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G. Penzo, Invito al pensiero di Friedrich Nietzsche, Mursia, Milano 1990, p. 150. ↩︎
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F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, cit. alla nt. 14, p. 80. ↩︎
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F. Nietzsche, Götzen-Dämmerung, cit. alla nt. 12, p. 115-116. ↩︎
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F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft, cit. alla nt. 16, p. 481. ↩︎
-
F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, cit. alla nt. 14, p. 41-42. ↩︎
-
Ivi, p. 15. ↩︎
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Ivi, p. 8. ↩︎
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Ivi, p. 77. ↩︎
-
F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral, cit. alla nt. 15, p. 336. ↩︎
-
M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie, cit. alla nt. 2, p. 410. ↩︎
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Ivi, p. 415. ↩︎
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Cfr. G. Strummiello, L’altro inizio del pensiero. I «Beiträge zur Philosophie» di Martin Heidegger, Levante, Bari 1995, pp. 271-291. ↩︎
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M. Heidegger. Seminari, Adelfi, Milano 1992, p. 207 [Zürcher Seminar, in Seminare, Klostermann, Frankfurt am Main 2005, p. 437]. ↩︎
-
R. Safranski, Heidegger e il suo tempo, Longanesi, Milano 1996, p. 374. ↩︎
-
M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie, cit. alla nt. 2, p. 411. ↩︎
-
Ivi, p. 5-6. ↩︎
-
Ivi, p. 407. ↩︎
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Tradurre «Wider-kehre» per «oscillazione», che in tedesco suona «Schwingung», non è meramente casuale. Comunque, nei Beiträge la oscillazione (allora Schwingung) della Kehre stá tra (zwischen) l’appello (Zuruf) e l’appartenenza (Zugehörigkeit) dell’essere stesso, dunque «Kehre ist Wider-kehre». Cfr. M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie, cit. alla nt. 2, p. 380. Pietro Kobau traduce «Wider-kehre» per «contro-rivertere» (cfr. M. Heidegger, L’ultimo dio, in Aut aut, trad. it. Pietro Kobau, 1990, n. 236, 1990, [pp. 64-72], p. 66). A sua volta, Franco Volpi preferisce la «vincendevole-svolta» (cfr. M. Heidegger, Contributti alla filosofia. (Dall’evento), trad. it. Franco Volpi, Adelphi, Milano 2007, p. 400). ↩︎
-
M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie, cit. alla nt. 2, p. 414. ↩︎
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Ivi, p. 252. ↩︎
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Cfr. M. Heidegger, Vom Wesen der Wahrheit, in Wegmarken, 2. ed., Klostermann, Frankfurt am Main 1976, [pp. 177-202], p. 146. ↩︎
-
M. Heidegger, Grundfragen der Philosophie, Klostermann, Frankfurt am Main 1992, pp. 1-2. ↩︎
-
Ivi, p. 2. ↩︎
-
M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie, cit. alla nt. 2, p. 33. ↩︎
-
Cfr. Ivi, § 13. ↩︎
-
Cfr. Ivi, § 237. ↩︎
-
Ivi, p. 416. ↩︎
-
M. Heidegger, Die Grundprobleme der Phänomenologie, Klostermann, Frankfurt am Main 1975, p. 127. ↩︎