Il problema del realismo nella filosofia delle scienze umane di Wilhelm Dilthey

1. Il progetto di Dilthey

Wilhelm Dilthey (1833-1911) è il rappresentante principale di un indirizzo filosofico posthegeliano della seconda metà del XIX e inizio del XX secolo, che cerca di adoperare le categorie trascendentali di Kant nei campi delle scienze dello spirito ossia delle scienze umane (Geisteswissenschaften), nonché delle scienze storiche, aprendo anche la strada di una «filosofia delle visioni del mondo» (Weltanschauungsphilosophie). Fu proprio la multiformità dei suoi interessi che stimolò Dilthey a una vasta gamma di pubblicazioni in diverse direzioni, ma esse mostrano progetti in parte incompiuti e non perfettamente integrati. Sarà poi compito dei suoi scolari B. Groethuysen, G. Misch, H. Nohl e P. Ritter ordinare il materiale degli studi lasciato dal maestro ed editarli nelle Gesammelte Schriften.1

Delle pubblicazioni di Dilthey vorrei menzionare soltanto le seguenti: Über das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Menschen, der Gesellschaft und dem Staat (1875), Einleitung in die Geisteswissenschaften (1883). In questi trattati Dilthey dà inizio alla filosofia con lo studio dello spirito e con le sue operazioni, dando in tal modo priorità alle scienze dello spirito sulle scienze della natura, al contrario di quanto si era fatto prima, quando si cominciava con studi sulla natura. Come Kant ha fondato le scienze della natura con la «critica della ragion pura», così Dilthey intende adesso effettuare una «fondazione delle scienze umane». E poiché egli vede l’esistenza umana soprattutto nella sua storicità, aggiunge a tale intenzione l’altra di una «critica della ragione storica», che vada oltre la «critica della ragion pura» di Kant. Infatti Dilthey ritiene l’antropologia e la psicologia come fondamentali per le scienze umane, che concernono direttamente lo spirito e l’anima. Dilthey cerca, in questi campi scientifici, di elaborare le categorie adatte della vita: l’esperienza vissuta (Erleben), l’espressione (Ausdruck) e la comprensione (Verstehen), che sono eventi e sviluppi storici degli uomini. Da un punto di vista filosofico, i vissuti psichici sono l’elemento reale primario, per cui egli entra in scena come difensore di una «psicologia reale» (Realpsychologie).

Tuttavia questo nuovo progetto di Dilthey implica il problema del realismo, che vorrei discutere brevemente in seguito.

2. Il problema del realismo

Nel suo scritto Beiträge zur Lösung der Frage vom Ursprung unseres Glaubens an die Realität der Außenwelt (Contributi alla soluzione della questione sull’origine della nostra fede nella realtà del mondo esterno, 1890) l’Autore spiega questa fede nella realtà attraverso una trasmissione della nostra esperienza primaria della realtà in noi stessi a quella delle cose esterne. Facendo così, egli intende l’essere in sé sostanziale delle cose esterne come proiezione dell’interno essere in sé del soggetto.

Lo scritto Ideen über eine beschreibende und zergliedernde Psychologie (Idee di una psicologia descrittiva e analizzante, 1894) tratta di una connessione tra lo sperimentare vissuti internamente e il mondo esterno, sulla base dei vissuti, i quali non sono rappresentazioni intellettuali ma vita concreta, dove sperimentare, pensare, istinto, sentimento, volere e simili, coincidono. Il trattato Die Abgrenzung der Geisteswissenschaften (La delimitazione delle scienze umane, 1906-09) coordina le scienze della storia, dell’arte e della società con le tre forme fondamentali del vivere: sperimentare, esprimersi e relazionarsi. Le scienze dell’antropologia e della psicologia si dedicano alla vita umana come esperienza vissuta (Erleben) e conducono a certi atteggiamenti basilari della coscienza storica e di corrispondenti visioni del mondo.

Gli ultimi scritti, Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften (L’edificazione del mondo storico nelle scienze umane, 1910) e Die Typen der Weltanschauung (I tipi della visione del mondo, 1911), insieme alla Einleitung in die Geisteswissenschaften (Introduzione alle scienze umane, Parte I delle Gesammelte Schriften), mettono in rilievo certe «categorie storiche» per l’indagine di queste scienze ed espongono tre tipi di visioni del mondo: 1. il materialismo e positivismo (Democrito, Epicuro, Hobbes, Enciclopedisti, Comte, Avenarius) che cercano di spiegare la natura con concetti razionali, 2. l’idealismo (Eraclito, Stoa, Spinoza, Leibniz, Shaftesbury, Goethe, Schelling, Schleiermacher, Hegel) che considera il mondo con un sentimento di valori e di ideali, e 3. l’idealismo della libertà (Platone, pensatori cristiani, Kant, Fichte, Maine de Biran) che fa dipendere la realtà da uno spirito di libertà. La filosofia cessa di essere visione del mondo quando diventa teoria delle visioni del mondo, ma in quanto tale rimane dipendente da condizioni storiche e dunque non può trascendere la storicità dell’uomo con una costruzione concettuale a priori valida. Perciò la posizione diltheyana si caratterizza come storicismo.

Sotto il profilo gnoseologico, la forma fondamentale del conoscere, per Dilthey, è un intendere storico (geschichtliches Verstehen), soprattutto rispetto allo stesso uomo: «Was der Mensch sei, erfährt er nur durch die Geschichte» (Ciò che l’uomo è, egli lo sperimenta soltanto attraverso la storia). I due ambiti delle scienze naturali e di quelle umane si distinguono, secondo Dilthey, per due forme conoscitive essenzialmente diverse: quella della natura è astorica, occupata di un oggetto alieno all’uomo, invece quella dello spirito, la quale ha come oggetto se stesso nonché le sue attività e i processi storico-spirituali, è un intendere interiore e un rivivere quanto si è vissuto (Nacherleben), che ci fornisce conoscenze sullo spirito e sull’anima. Perciò come scienze fondamentali risultano l’antropologia e la psicologia.2

Sotto il profilo teorico della realtà, la filosofia diltheyana della visione del mondo rifiuta la metafisica come via di spiegazione. Oesterreich caratterizza bene questa posizione: «Die Grundlegung der Geisteswissenschaften findet Dilthey nicht in einer Metaphysik — alle Metaphysik ist für ihn ein vergangenes geschichtliches Phänomen —, sondern in der empirischen Selbstbesinnung des geisteswissenschaftlichen Forschers» (La fondazione delle scienze umane vine trovata da Dilthey non in una metafisica — ogni metafisica è per lui un fenomeno storico passato —, bensì in una auto-riflessione empirica del ricercatore delle scienze umane).3 Noi sperimentiamo la realtà del mondo esterno attraverso la volontà che prova resistenza. Per l’Autore la realtà appare come «pervasa da antinomie» (von Antinomien durchzogen) che non si risolvono razionalmente, in quanto sono irrazionali.

Dilthey cerca di evitare due posizioni: quella delle positive scienze naturali che considerano il mondo storico, spirituale e sociale come intrecciato nel meccanismo totale dei mutamenti naturali, per spiegarlo empiricamente a partire dalle leggi di questi, e quella metafisica che vuole spiegare il mondo empirico con concetti astratti di sostanza, essenza, e simili, il che conduce in antinomie tra il mondo materiale e un mondo dello spirito. Al contrario, la posizione di Dilthey aspira ad una terza via, attraverso le scienze umane che adempiono al compito di analizzare l’immensa ricchezza delle esperienze di vissuti individuali. La vita interiore è la sola fonte originale della realtà. Noi proiettiamo le nostre rappresentazioni interne in un mondo esterno (I, 20). La natura di per sé è un contenuto dello spirito, ossia della volontà intenzionata da finalità (I, 21).

Come accennato sopra, fondamento delle scienze umane, secondo Dilthey, sono antropologia e psicologia. Queste devono procedere con metodo descrittivo, soprattutto con la biografia individuale, nella quale la realtà si rispecchia nel modo più puro. Il singolare di un individuo è più forte del generale (I, 33-34).

Nel trattato storico Metaphysik als Grundlage der Geisteswissenschaften. Ihre Herrschaft und ihr Verfall (I, 123 segg.) Dilthey si confronta con la metafisica di Platone e Aristotele, individuando come problema più grande quello dell’opposizione tra il singolare e l’universale; esso si trova non soltanto in Platone (nella sua concezione dei due mondi sensibile e intelligibile), ma anche in Aristotele che, da un lato, vede il pieno reale nel singolare, però, dall’altro, cerca il conoscibile in forme essenziali universali, cosicché il vero reale rimane inconoscibile. Il problema può essere risolto, secondo Dilthey, soltanto attraverso una moderna teoria della conoscenza che elabori un modo conoscitivo del singolare attraverso lo «sperimentare vissuti» (Erleben).

3. Valutazione critica

Passando ora al problema della realtà insito nella filosofia delle scienze umane in Dilthey possiamo, in primo luogo, apprezzare il suo merito di aver rilevato il modo conoscitivo specifico delle scienze umane come ben diverso da quello delle scienze naturali. Tuttavia, nel fondare le scienze umane sull’antropologia e la psicologia, egli assume erroneamente la prospettiva della psicologia per sviluppare la sua filosofia sull’uomo, sulle visioni del mondo e infine sulla realtà. Infatti, mentre la psicologia ha il diritto di concentrarsi sui vissuti sperimentati nell’anima dell’uomo come unico oggetto delle sue ricerche, la filosofia deve far attenzione al rapporto dei contenuti psichici — sia i vissuti e i movimenti di sentimenti che i contenuti conoscitivi — con la realtà con cui il soggetto è dato e le cose esterne sono date.

a) La gnoseologia e ontologia / metafisica classiche sottolineano che la riflessione psicologica (in intentione indirecta) sui contenuti psichici nel soggetto non sarebbe possibile se non sulla base di conoscenze (in intentione directa) di cose esterne della riflessione. Il soggetto non si dà mai come oggetto diretto, ma solo quando svolge attività in contatto diretto con altre cose come oggetti diretti; allora può riflettere pure su se stesso, diventando consapevole di essere il soggetto delle attività, facendosi in tal modo «oggetto» indiretto a se stesso.

b) Inoltre, il soggetto / l’intelletto non sarebbe in grado di comprendere la «realtà» se non considerando (come ha fatto l’ontologia ossia la metafisica classica) tutte le cose (res), sia gli oggetti che il soggetto stesso: esso neanche potrebbe comprendersi come realtà se non in comparazione con le altre cose. Inoltre il soggetto / l’intelletto è ben consapevole che i contenuti dentro di sé, essendo enti mentali, sono reali soltanto in modo derivato, a differenza della realtà primaria sostanziale di se stesso e delle cose esterne. Secondo Dilthey, invece, i contenuti psichici diventerebbero la realtà primaria sostanziale da cui la realtà delle cose esterne sarebbe derivata, come proiezione dall’interno all’esterno.

c) La comprensione della realtà sia esterna che interna si basa sulla coscienza naturale immediata dell’essere di qualsiasi cosa (gli oggetti e il soggetto stesso) come la più evidente (cfr. la dottrina tradizionale che afferma che «l’ente è il più noto» di tutto). Non si tratta di una mera «fede nella realtà del mondo esterno», come dice Dilthey, ossia di una mera «opinione dell’essere», come dice Husserl, che si potrebbe anche «mettere tra parentesi». Qui troviamo ancora l’influsso del grande dubbio di Descartes sull’esistenza delle cose esterne, ereditato già dall’antico scetticismo empiristico. Quest’ultimo considera l’essere, ossia l’esistere delle cose sensibili materiali, a sua volta come sensibile, il che è falso, perché l’essere delle cose non è visibile, né udibile, né gustabile o toccabile, bensì soltanto intelligibile, cioè afferrabile (intuibile) dall’intelletto. Anche se possiamo dubitare di tutti i contenuti sensibili delle cose empiriche del mondo, non possiamo dubitare che c’è qualcosa di reale davanti a noi, di cui l’intelletto è consapevole. Infatti la coscienza è la rappresentazione di ciò che (nel suo essere) è presente davanti a essa. Anche in Husserl, che voleva superare il positivismo, si trova una premessa positivista-empirista, cioè che l’esistenza delle cose esterne sia una mera fatticità sensibile in spazio e tempo, il che è falso.4

d) Il concetto di «reale» proviene dalla riflessione dell’ontologia classica, che considera tutte le cose — oggetti e soggetto — sotto l’aspetto comune del loro essere, «in quanto sono». Essa ha scoperto che questa comunanza dell’essere di tutte le cose è di una universalità trascendentale, che «trascende i generi», perché è comune ai sommi generi delle categorie. Questa universalità trascendentale, ossia analoga, non esclude il singolare, come fa l’universale univoco (specifico e generico), bensì l’include. Perciò anche l’universale univoco mantiene un rapporto con il singolare, perché si riferisce all’essenziale nelle singole cose, che è la forma del loro essere determinato specifico, cioè non solo dell’esistere ma anche dell’essere una cosa essenzialmente determinata. L’impossibilità di Dilthey di risolvere il problema dell’opposizione tra l’universale e il singolare, ereditato da Descartes, consiste nella perdita dell’analogia dell’essere.

e) Preoccupato da questo problema e deciso ad evitare sia il positivismo che l’ontologia ossia la metafisica, Dilthey offre come terza strada la sua filosofia ermeneutica storica. Essa si presenta come filosofia dei vissuti psichici della vita ossia delle scienze umane, sotto l’aspetto della storicità dell’uomo, cioè delle visioni del mondo, per arrivare a un livello interno dell’uomo laddove questa opposizione tra l’universale e il singolare non esiste più o diventa una coincidenza. Si tratta del livello della vita umana stessa. Ora, certamente è un merito di Dilthey aver analizzato questo ambiente interno dell’uomo con «categorie della vita», diverse dalle categorie tradizionali ontologiche o metafisiche. È chiaro che per tale analisi nella dimensione dei vissuti psichici, che sono movimenti, nonché delle vicissitudini e dei cambiamenti storici, le categorie ontologiche sarebbero inadatte. Ma da ciò non occorre concludere che nella vita umana non vi sia anche una dimensione ontologico-metafisica, come succede in Dilthey. Del resto, si può riflettere sulla storicità dell’uomo soltanto da un punto di vista metastorico; infatti la storia ha presupposti sovrastorici, cioè nella natura, nell’intelletto stesso e in Dio.5

Se dunque Dilthey, con interesse filosofico, a partire dai cambiamenti dei processi storici e del «mondo della vita» (Lebenswelt) elabora certe tendenze di finalità e determinate forme — tipi della visione del mondo (Weltanschauungstypen), disposizioni della coscienza (Bewußtseinsstellungen) — egli costata giustamente che esse non sono a priori intelligibili, universali e necessarie. Tuttavia la spiegazione di Dilthey, che le forme costanti nei cambiamenti consistano nella stessa fatticità storica, non soddisfa, poiché in esse si rivela piuttosto qualcosa di essenziale degli uomini, anche se questa dimensione ontologico-metafisica non viene presa in considerazione dalle scienze umane.

f) Il problema di connettere le conoscenze con la vita non si risolve dichiarando la vita stessa come processo di conoscenze ossia di vissuti sperimentati. Infatti i vissuti sono esperienze che si aggiungono, come attività sensitive e spirituali, all’atto ontologico dell’essere umano che è la vita umana. Le attività storiche culturali sono molteplici, con inizio e fine, mentre la vita è un atto unico costante. Le prime si aggiungono alla seconda senza essere identiche von essa. Risolvere la vita in attività molteplici significa cadere in un attivismo che perde la dimensione ontologica della vita umana. Si perde anche la filosofia, con la sua disciplina fondamentale, l’ontologia / metafisica. Questa si riduce in Dilthey in analisi delle visioni del mondo.

Peraltro si può osservare che la conoscenza di un oggetto ha bisogno della distanza da esso. Ciò vale anche nel caso in cui il soggetto stesso diventa l’oggetto. L’autoconoscenza del soggetto è diversa dall’atto ontologico con cui il soggetto è. (La confusione delle due cosa comincia con Descartes nel quale l’esistenza dell’io coincide con la coscienza.) In Dilthey l’autoconoscenza si riduce allo sperimentare vissuti. Ma questi non sono ancora conoscenza. Infatti si possono vivere mille cose senza aver fatto conoscenza di nessuna.


  1. W. Dilthey, Gesammelte Schriften, Stuttgart (Teubner) — Göttingen (Vandenhoeck & Ruprecht) 1962, 41968. Si veda anche: Materialien zur Philosophie W. Diltheys, ed. Fr. Rodi e H. -U. Lessing, Frankfurt / M. (Suhrkamp) 1984. ↩︎

  2. Cfr. Angèle Kremer-Marietti, W. Dilthey et l’anthropologie historique, Paris (PUF) 1972. ↩︎

  3. Ueberwegs Grundriß der Geschichte der Philosophie, v. K. Oesterreich, Berlin 1916, 453. Cfr. anche W. Dilthey. Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, ed. M. Riedel, Frankfurt / M. (Suhrkamp) 1970. ↩︎

  4. Si veda anche il mio Sein und Bewußtsein, Hildesheim (Olms) 2001. ↩︎

  5. Su questo tema vedi più dettagliatamente il mio Storia della filosofia e verità, Roma (Mursia) 1999. Cfr. anche L. Stefanini, Il problema della storia in W. Dilthey, in Il problema della storia, Milano 1944. Inoltre, Franco Diaz de Cerio, Dilthey y el problema del mundo, Barcelona (Flors) 1959. Idem, Introducción a la filosofía di W. Dilthey, Barcelona 1963. ↩︎