1. Verobjektivierung
In un scritto degli anni Venti, pubblicato in prima edizione nel 1930 e intriso di un linguaggio e di suggestioni heideggeriane e bultmanniane, Hans Jonas andava misurandosi con un compito oneroso, quello di tratteggiare la genesi della questione della libertà nell’Occidente cristiano.1 Lo scritto è accompagnato da un breve saggio sulla «struttura ermeneutica del dogma», dal quale mi piace pensare di poter prendere le mosse in questa sede per svolgere alcune sintetiche osservazioni.
Nel suo denso saggio Jonas fa riferimento alla battaglia dogmatica intorno al dogma del peccato originale e alla dottrina della predestinazione e rileva come di «radicale importanza» sia la sostituzione di fenomeni esistenziali con «formazioni teoretiche del tipo rappresentato dai dogmi metafisici costruiti in forma proposizionale».2 Ma «cosa significa — si chiede — la formulazione dogmatica nella sfera di esperienza religiosa, ambito che include essenzialmente fenomeni esistenziali o tali da essere in una correlazione esistentiva (realizzata nella fede) con l’esistenza stessa?».3 «Si osservi — prosegue — che già nella formulazione della domanda è incluso un presupposto», quello secondo cui «alla base» delle ipostatizzazioni dogmatiche, «anche le più distanti e metafisiche», si pone un qualche terreno concreto e originario di esperienza sul quale, prima di essere condotti verso quelle ipostatizzazioni, si attuano i vissuti e i motivi fondamentali. In altre parole, pur essendo tali ipostatizzazioni massimamente astratte, esse derivano (o deriverebbero) da qualcosa, cioè da un elemento «originariamente intraesistentivo»: da un vissuto.4
Cosa sono queste ipostatizzazioni dogmatiche? Cosa significa in altri termini «il fatto della dogmatizzazione»? Secondo la loro forma esteriore i dogmi — «valevoli in assoluto, da riconoscere senza riserve»5 — sono «proposizioni dalla struttura razionale» caratterizzate da una architettura apofantica soggetto-predicato; proposizioni che, correlate da un nesso logico pervasivo, collocano il proprio contenuto enunciativo entro «un ambito di oggettualità».6 Sono cioè, afferma Jonas, «proposizioni oggettive adialettiche. Ma gli «oggetti» […], collocati in un orizzonte di realtà uniformemente oggettivato, assumono un carattere simbolico sostitutivo per gli originari fenomeni intraesistentivi — i «vissuti» — che vengono portati a espressione nella modalità di fatti e processi cosalizzati».7 In questo modo però si consegnano a una specifica struttura di razionalità, quella della concettualità mondana. Il dogma formulato rappresenta propriamente questo «livello razionale».
L’atto fondamentale che produce la dogmatizzazione è dunque, sotto il profilo formale, una oggettualizzazione dei fenomeni dell’esistenza trasferiti nel linguaggio. Questa, asserisce Jonas, «spinge verso una trascendentalizzazione nella dimensione «metafisica» o «mitologica», cioè in una sfera simbolica trascendente l’esserci», che si pone oltre ogni dimostrabilità attuabile all’interno di quella esistenza da cui pure originariamente deriva. Di più, l’elemento decisivo in questa trascendentalizzazione e formazione simbolica8 consiste nel fatto che essa include e presuppone una fondamentale trasformazione ontologica dei fenomeni, ossia una loro traduzione in un altro essere: «L’ipostatizzazione da attuabilità solamente esistenziali in intuizioni quasi cosali» di tali fenomeni. Questa trasformazione ontologica9 è dunque preliminare e definisce anticipatamente il modo in cui dai fenomeni esistentivi originari — diciamo: dalle loro formazioni intuitive — si perviene al concetto. Una volta diventati «rigidi sostrati di enunciati» tali fenomeni e tali formazioni si svincolano dal vissuto originario così da essere colti dal concetto oggettivo che le fissa razionalmente.
Cosa comporta tutto ciò? Due generi di conseguenze: a valle per così dire si verifica che, come asserisce Jonas con una formula di tenore bultmanniano, «soltanto in una lunga regressione […] una coscienza demitizzata è in grado di avvicinarsi direttamente […] ai fenomeni originari nascosti sotto il rivestimento»,10 quel rivestimento che «la necessaria, non casuale e inevitabile motilità dell’esserci verso l’auto-oggettivazione» alimenta e produce; a monte invece alla oggettivazione e alla ipostatizzazione trascendente va a aggiungersi la razionalizzazione, vale a dire quella astrazione dal campo di intuizione per mezzo della quale ciò che originariamente era «un essere-di-attuazione esistenziale» si configura come «un essere-in-sé oggettivamente «sussistente»» e può pertanto essere «speso» in ampie costruzioni teoretiche. Beninteso, mediante questa fissità razionale e sostituzione simbolica, una volta divenuti liberamente disponibili per il confronto teoretico, tali vissuti possono esser discussi indipendentemente dall’attuazione dei fenomeni originari nella «esistenza fattuale».
L’applicazione di questo paradigma concettuale, che pure convoglia influenze autorevoli e degne della massima considerazione — da certo neokantismo marburghese a Bultmann alle lezioni heideggeriane (nel cui quadro seminariale questo documento di Jonas di fatto viene concepito) — può servire, prima che alla specifica determinazione delle domande che essa solleva, a focalizzare im allgemeinen, per così dire, oggetto e metodo della filosofia della religione.11
2. «Un santuario in comune»? Annotazioni sul metodo (e sull’oggetto)
Vale la pena ricordare che la filosofia della religione, proprio come la filosofia del diritto o della scienza, è una «filosofia seconda».12 Per filosofia seconda, com’è noto, si intende tradizionalmente ogni estensione dell’indagine filosofica a settori specifici dell’esperire umano che, per quanto autonomi nella propria origine rispetto alla filosofia, rimangono comunque aperti alla sua interrogazione e anzi la richiedono laddove essa si incentri sui loro fondamenti. Ora, è certamente vero che la nozione di «filosofia seconda» intanto ha un senso in quanto si differenzia da una filosofia «prima», «schiettamente teoretica e capace di un’autonoma autofondazione», qual è per es. la metafisica aristotelicamente intesa (la scienza dei princìpi primi dell’essere) o la logica in senso hegeliano (la struttura profonda di tutto il reale); la «filosofia seconda» articola quindi, per intenderci meglio, l’estendersi delle categorie fondanti della filosofia prima alle svariate e multiformi manifestazioni della realtà. È parimenti vero tuttavia che la scienza moderna ha in larga misura destabilizzato la pretesa onnifondativa del sapere filosofico, settorializzando e frammentando il sapere e mettendo perciò in crisi la nozione stessa di «filosofia prima»; questa crisi ha conseguentemente interessato anche le cosiddette «filosofie seconde» facendo sì che, nella nostra congiuntura storica e nella specifica situazione culturale che attraversiamo, non si attribuisca più loro la funzione di un sapere fondante capace di garantire l’apparato categoriale in cui devono strutturarsi i saperi cosiddetti «regionali» ma quella — più «debole» — di un’indagine razionale e critica tesa alla ricerca del senso.
Ma se ciò è certamente e comunemente vero per tutte le «filosofie seconde» — e quindi per la filosofia della scienza come per la filosofia del diritto o della storia — è altresì vero che nel caso della filosofia della religione, accanto a questo dato comune e pacifico, emerge anche una specificità non di poco conto. Che è la seguente: la tensione tra filosofia e religione, la quale si esprime appunto nella «filosofia della religione»13 intesa come dialogo tra queste due polarità e segnatamente come chiarificazione dell’esperienza religiosa, lungi dall’essere un collegamento che sopraggiunge allo scopo di stabilire un punto di contatto tra due realtà di fatto estranee, si configurerebbe piuttosto — almeno secondo uno specifico orientamento intellettuale14 — come lo sviluppo naturale (anche se talora assai tormentato) di una affinità profonda e originaria. «C’è stato un tempo in cui la religione, separata dalla fede popolare, veniva custodita come un fuoco sacro, nei misteri, e la filosofia aveva un santuario in comune con essa», affermava Schelling nelle battute iniziali del suo Philosophie und Religion (1804). Si tratta di una consanguineità, per così dire, che è espressa dallo sforzo comune a entrambe di indagare il rapporto dell’uomo con quell’Altro «che è assieme il suo fondamento, il suo fine e la sua origine»15 e che proprio per questo ha ricevuto molteplici nomi: essere, infinito, assoluto, Dio. Sicché l’interrogazione filosofico-religiosa è una interrogazione sul fondamento, una Grundfrage, organizzata su un delicato equilibrio dialettico o, se vogliamo, su un patto: «La filosofia della religione è possibile — afferma per es. Riconda — solo se si stringe un patto tra filosofia e religione per cui l’una non fagociti o renda insignificante l’altra».
Certo, la tensione tra filosofia e religione conduce assai spesso l’una a allontanarsi dall’altra, l’una a fornire di volta in volta una risposta diversa dalla risposta fornita dall’altra. Resta tuttavia che, per quanto attiene al suo oggetto, pur differendo le risposte, la domanda sia la medesima, sicché unitaria pare essere la radice di queste due polarità in tensione. Beninteso, questa identità dell’oggetto alimenta quella che qualcuno ha definito la «tentazione totalizzante», la tentazione cioè della filosofia (o della religione) di inglobare la totalità del reale nella propria visione interpretativa, sacrificando la dialettica e la tensione, sistematizzando poi il reale in modo unilaterale nelle proprie, specifiche categorie concettuali. Questa «tentazione totalizzante» si è storicamente sviluppata e configurata in vario modo; qui possiamo provare a elencarne qualcuno: A) come la scelta escludente, unilaterale o bilaterale, di un termine rispetto all’altro (la filosofia rispetto alla religione: come nell’illuminismo inglese e francese — e, più problematicamente, in quello tedesco — attraverso le rigide teorizzazioni di impianto deistico; nel positivismo; nel materialismo dialettico; o la religione rispetto alla filosofia: si pensi a Pascal, Kierkegaard o ancora Karl Barth); B) come identificazione per assorbimento di un termine nell’altro (la religione è assorbita e inglobata dalla filosofia, come nel caso hegeliano rappresentato dall’interno movimento dialettico dello Spirito assoluto attraverso le figure dell’arte, della religione e finalmente della filosofia); C) come confinamento (la filosofia è confinata dalla religione in una posizione subalterna, ha cioè «diritto di cittadinanza» per il credente ma soltanto nella misura in cui, fatta salva la fede nella verità rivelata, essa si limiti a approntare quegli strumenti che soli possono sgombrare il campo dal dubbio e «preparare la via» alla ragione; la filosofia intesa cioè come ancilla theologiae); D) come riconduzione — beninteso, da non confondere con l’identificazione per assorbimento vera e propria — dell’esperienza religiosa all’esperienza morale (si pensi ovviamente a Kant — alla ben nota immagine dei «cerchi concentrici» volta a denotare la compartecipazione «nucleare» della religione rivelata o positiva nella pura religione di ragione — ma anche alla tradizione otto- e novecentesca che a lui fa capo a vario titolo e secondo differenti modulazioni).
«La filosofia della religione è in ogni caso filosofia», asserisce a ragione Bernhard Welte. Quando pertanto essa tende a inglobare il religioso o a fondersi con esso — quando cioè essa si fa «religiosa» (cioè la filosofia si fa momento interno alla religione, la ricerca teoretica momento dell’anelito alla salvezza, il procedimento razionale vettore della ricerca di Dio); oppure, al contrario, quando essa respinge e si sottrae scientemente a qualsiasi confronto con la religione, facendosi così «irreligiosa»; ebbene, in questi casi non si dà tensione dialettica tra le due polarità. Di conseguenza, per comprendere cosa propriamente sia la «filosofia della religione» occorre prendere le distanze da derive totalizzanti di questo genere.
Ora, si è detto della radice unitaria di filosofia e religione, intese come due percorsi germinati da una medesima origine o problematica originaria (la meraviglia di fronte all’essere, la domanda di senso, l’ansia dell’assoluto). Si è detto altresì che questa radice unitaria alimenta una comune tentazione totalizzante, la quale si configura come la pretesa — che filosofia e religione accampano, l’una dilatando all’estremo il potere della ragione e l’altra proponendo all’uomo un rapporto con il divino che si istituisce dentro la sua costitutiva dimensione di finitezza — di poter conferire all’uomo un possesso di quell’infinito di cui egli, per dirla di nuovo con Welte, è «ostaggio».16 Conviene allora evocare, almeno brevemente, la questione del metodo.
Non c’è dubbio che la filosofia della religione nasca relativamente tardi come disciplina specifica — non prima, per intenderci, del xvii secolo — e che, almeno nel quadro della civiltà occidentale essa venga a occupare un posto che in precedenza era dominio esclusivo della teologia. È pacifico collocare sullo sfondo di tale divaricazione quello spostamento di interesse, che è tipico dell’età moderna, che pone al centro dell’indagine non più il tutto ma l’uomo con la sua ragione e la sua libertà e pertanto il suo specifico modo di rapportarsi al mondo e a Dio.17 Beninteso, non che le questioni universali dell’essere e di Dio vengano accantonate ma, attraverso una sorta di «conversione antropocentrica», il problema non è più tanto quello di indagarne la natura e l’essenza, nella fattispecie quella del divino, quanto quello di verificare in quale modo e per quali vie l’uomo possa concretamente accedervi. Così l’indagine filosofica, pur muovendosi nella sfera del religioso come proprio orizzonte di riferimento, lascia alla teologia il compito di partire da quell’orizzonte e di assumerlo come fondamento; la libertà e autonomia del pensiero umano non può, secondo la propria natura e pena un suo tradimento, muovere da quell’orizzonte religioso (eventualmente istituito da una rivelazione) ma deve assumerlo come argomento di indagine. Ciò evidentemente comporta una sostanziale e non trascurabile differenza di metodo — che forse non è scontato e superfluo sottolineare, anche in considerazione della vasta fioritura18 nell’ambito della più recente «filosofia analitica della religione» della teologia naturale e di una vera e propria «epistemologia riformata» — tra una indagine che si basa su un nucleo rivelato, che presuppone e svolge, e un’indagine che a quel nucleo viceversa si propone di tornare ripercorrendo e giustificando razionalmente i passaggi che il pensiero umano in questo movimento deve compiere. È conseguentemente quella tra filosofia della religione e teologia non tanto una differenza di oggetto quanto soprattutto di metodo.
Ora, atteso che la medesima differenza di «metodo» preserva la specificità della ricerca filosofico-religiosa anche rispetto agli approcci di carattere scientifico allo stesso «oggetto» (si pensi alla storia delle religioni, alla sociologia e alla psicologia della religione, ecc.), atteso cioè che tali discipline — mediante una rigorosa «raccolta di dati» e l’impiego di strumenti di tipo filologico, etnografico, archeologico, statistico e quant’altro — organizzano «una considerazione neutrale e descrittiva» del fenomeno religioso spogliandolo di ogni eminenza assiologica, resterebbe da capire in qual modo la religione possa propriamente farsi «oggetto» della filosofia, in che modo cioè possano articolarsi le domande (die Fragen) — o meglio, il domandare stesso (das Fragen, das Nachfragen) — della filosofia della religione. Rispondere a questo interrogativo consentirebbe finalmente di chiarire un aspetto tutt’altro che secondario: la filosofia della religione è «l’accostarsi autonomo del pensiero filosofico al fatto religioso concepito nella sua integralità e lo sforzo, operato dalla riflessione, di coglierne e penetrarne l’essenza e i caratteri». Ciò significa che oggetto dell’interrogazione filosofico-religiosa — sempreché di «oggetto» si possa parlare — è tanto l’esperienza che l’uomo fa del divino «in una pluralità storica, esistenziale e soggettiva» quanto ciò che di universalmente essenziale e, diciamo così, di sorgivo opera e agisce in siffatte molteplici (e potenzialmente infinite) esperienze. Ciò consente dapprima di tutelare la problematizzazione filosofica rispetto a un ingenuo «oggettivismo» e di sintonizzarla su una più attenta e penetrante valutazione del fatto religioso come «plesso di molteplici esperienze» informate e accomunate da una stessa «radice»; in secondo luogo permette di calibrare la nozione di fatto religioso in quella, ancora più pregnante, di vissuto e di esperienza religiosa. Beninteso, un’esperienza intesa non già in maniera oggettivamente neutrale alla stregua delle discipline scientifiche ma latu sensu «esistenziale». Nel modo cioè tratteggiato da Hans Jonas nel documento che, a titolo puramente esplicativo, in apertura si è scelto di ricordare.
3. «Una provincia autonoma». Sull’esperire religioso
Desidero in conclusione toccare un punto dianzi soltanto evocato. Nell’articolare il discorso sulla tensione tra filosofia e religione mi sono richiamato a «uno specifico orientamento intellettuale». Esso rinvia a un altrettanto specifico paradigma di intelligenza del religioso. Non è il solo, ovviamente. Nel vasto contesto della cultura, a differenza di quanto accade in campo scientifico dove i paradigmi si succedono diacronicamente, la religione non gode infatti di uno statuto paradigmatico comunemente riconosciuto. Nel campo dell’intelligenza del religioso, in effetti, differenti modelli si avvicendano e sovrappongono in modo «sincronico», essi si affermano e rapportano in una «perenne competizione»19 che alimenta una vivace tensione conflittuale. È allora utile calarsi in questa competizione e ricordare, almeno a grandi linee e a titolo di menzione, un paradigma alternativo a quello fin qui discusso.
Si è detto della necessità di tutelare la problematizzazione filosofica rispetto a un ingenuo oggettivismo e di attuare una più puntuale e penetrante intelligenza del «fatto religioso», calibrandolo sulla nozione di vissuto o esperienza. Da questo punto di vista si può senz’altro riconoscere che, nel quadro del fecondo dibattito tardoilluministico e protoromantico, Friedrich Schleiermacher — «il più grande teologo che sia stato concesso, dal tempo della Riforma, al cristianesimo evangelico»20 — s’è cimentato con successo nell’elaborazione di un paradigma inedito. Una terza via rispetto ai due «tradizionali» modelli — soprannaturalistico e razionalistico — che «si dividevano il campo della teologia fin dai tempi dell’Illuminismo»21 e ai quali è lecito ricondurre, almeno in linea di principio, la maggior parte degli orientamenti intellettuali attivi sull’accidentato terreno della comprensione filosofico-religiosa, siano essi per così dire di taglio «critico, intuitivo o speculativo».22
Il paradigma soprannaturalistico riposa com’è noto su uno schema metafisico ontoteologico ed è incline a inquadrare il religioso in termini eminentemente noetici; è questo il paradigma dell’ortodossia confessionale, è quindi prevalente nella «cultura di Chiesa» e nella sua espressione accademica; quello razionalistico, diversamente, inclina a pensare il religioso a partire dall’unica realtà concepibile e razionalmente accessibile, ancorché non integralmente riducibile alla stessa razionalità; esso intende pertanto il religioso o come intrinsecamente collegato allo sforzo conoscitivo dell’uomo oppure come collegato al suo impegno morale (e alle questioni di carattere per es. teleologico che esso innesca e alimenta). Come ha giustamente notato Ernst Troeltsch, «con la profonda modifica della metafisica per l’impatto della mentalità scientifica moderna e con la conseguente assai ridotta facilità di un collegamento, la religione colta della metafisica speculativa ha sviluppato la tendenza alla completa contrapposizione e al totale affrancamento rispetto alla religione di chiesa. E così la filosofia della religione coincise in ultima istanza con la filosofia in generale; questa va in cerca di conoscenze razionali su Dio, sull’anima e sul mondo».23 Ebbene, assecondando il tentativo di enucleare l’autonomo Wesen del religioso svincolandolo dall’opzione «metafisica» e «morale» e di salvaguardare così l’autentica religione dagli strali degli «aufgeklärte Verächter» che animavano e orientavano il dibattito illuministico, a partire dai suoi celebri Discorsi24 Schleiermacher respinge con forza queste due espressioni di ogni paradigma razionalistico. La religione infatti, come si legge nella seconda e più celebre Rede, «non chiede, come la metafisica, di definire e spiegare l’Universo secondo la sua natura e neppure chiede, come la morale, di perfezionarlo e portarlo a compimento con la forza della libertà e del divino arbitrio dell’uomo».25
Fondamentalmente essa è una esperienza, un vissuto. È una esperienza specifica del nostro mondo e coinvolge il soggetto «nelle sue fibre più intime». Perciò, si legge nel primo discorso (dove il Nostro tende a demarcare per viam negationis l’autentica religione da tutto ciò che religione non è né può ambire a esserlo), non può essere ricondotta — o peggio ancora, ridotta! — a fattori del tutto estrinseci rispetto alle sue reali ragioni di costituzione, fattori quali un corpus dottrinale, un modello sociale, l’appartenenza a una specifica tradizione culturale o a una comunità; né può essere subordinata a realtà altre e ulteriori (il politico, l’etico, il conoscitivo). La religione, che si attua «nell’ordine del senso, ossia nell’ordine di ciò che impegna e coinvolge il Sé»26 e non già nell’ordine dell’oggettivo, nasce necessariamente «dall’intimo di ogni anima migliore», dal Gemüt; a essa conseguentemente spetta, così ammonisce Schleiermacher, una propria «provincia» nell’animo. In cui domina incontrastata. «La religione dunque si demarca sostanzialmente e ultimativamente da ogni altra relazione con la realtà esistita nell’esperire umano. Essa è un’altra, specifica, peculiare modalità di avere contatto con la realtà; talmente specifica e peculiare da contenere, veicolare e istituire il rapporto e il contatto con una realtà altra, o meglio […] totalmente altra».27 Vale a dire, radicalmente altra rispetto al Sé.
L’approccio che Schleiermacher si preoccupa di proporre si rivela pertanto di tipo genealogico. Egli si premura cioè di rintracciare l’origine, la costituzione dell’esperienza religiosa, ossia — detto nei termini familiari a una tradizione teoretica che con il Nostro ha senz’altro contratto un cospicuo debito intellettuale — l’apriori religioso che sottende la fenomenologia storica del fatto religioso. E però egli si preoccupa di rintracciare tale origine e costituzione non già «in continuità» con le altre modalità dell’esperire umano (quella conoscitiva, quella «prassistica» ma anche la modalità estetica — e se ne potrebbero certamente indicare altre) quanto piuttosto, secondo uno schema trascendentale, entro una «originaria connessione esistentiva», entro una «relazione esistentiva originaria» del tutto peculiare e dotata di una propria irriducibile intenzionalità.28 L’esperire religioso interessa la radice e la totalità dell’essere umano e si istituisce in un «vissuto intenzionale» nel quale si impianta una relazione. Sono queste due dimensioni dalle quali non si può prescindere nell’attuare una autentica esperienza religiosa quanto nell’articolare una congrua comprensione del religioso.
Ora, non è certamente questa la sede per enucleare in maniera estesa e discutere dettagliatamente il paradigma proposto da Schleiermacher a partire dalle (varie edizioni delle) Reden e poi attraverso la Glaubenslehre, entrando in modo più specifico nel merito dell’asse portante costituito dalla endiadi «intuizione e sentimento» (Anschauung und Gefühl) e delle molteplici questioni che questo genere di impostazione solleva; a tal riguardo mi limito a rinviare il lettore a una vasta letteratura specialistica.29 In conclusione di queste rapide osservazioni mi preme piuttosto segnalare come questa impostazione, che ha significativamente innervato l’intelligenza del religioso negli ultimi due secoli e che secondo alcuni interpreti30 sopravvive in certa misura nell’odierna comprensione (analitica, fenomenologica e funzionalistica) del fenomeno religioso, si articoli in alcuni stadi essenziali: a) la comprensione dell’elemento storico-positivo (ogni religione autentica assume una forma fenomenica determinata che denota la sua forma di esistenza); b) la teoria comparativa delle religioni, che consente di riconoscere le differenze specifiche nonché il proprium di ogni formazione storico-religiosa; c) il momento, autenticamente filosofico, deputato a mettere in luce criticamente la struttura di costituzione dell’esperienza religiosa; d) la teorizzazione della comunicazione (ogni religione dando luogo a una formazione simbolica e linguistica e la comunicazione e condivisione essendo tutt’altro che un aspetto accessorio dell’esperire religioso, bensì strutturalmente costitutivo).
Tali stadi tracciano il perimetro del terreno sul quale soltanto è dato di fondare una congrua interrogazione filosofico-religiosa.
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H. Jonas, Augustin und das paulinische Freiheitsproblem. Ein philosophischer Beitrag zur Genesis der christlich-abendländischen Freiheitsidee, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1930, 19652 [trad. it. Agostino e il problema paolino della libertà, cur. di C. Bonaldi, Morcelliana, Brescia 2007]. ↩︎
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Ivi, tr.it. p. 111. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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F.C. Baur, Lehrbuch der christlichen Dogmengeschichte, nuova ed. ampliata, L.Fr. Fues Verlag, Tübingen 1858, p. 8. ↩︎
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H. Jonas, op. cit., p. 112. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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In verità il richiamo al processo di simbolizzazione apre uno scenario problematico, non evocato dal testo jonasiano, che in questa sede non può evidentemente essere eviscerato. Rinvio al contributo La funzione del simbolo nell’universo religioso, cap. 5 del volume di S. Sorrentino, Realtà del senso e universo religioso. Per un approccio trascendentale al fenomeno della religione, Carocci, Roma 2004, pp. 115-137. ↩︎
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Ivi, p. 113ss. ↩︎
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Ivi, p. 114ss., corsivo mio. ↩︎
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Molti studiosi hanno cercato di determinare in via negativa lo spettro semantico di questo concetto, ponendo in evidenza per es. le differenze che intercorrono tra la «filosofia della religione» propriamente detta e le discipline «affini», quali sono da un lato le “scienze delle religioni” (storia, antropologia, etnologia, psicologia, sociologia delle religioni e via discorrendo) e dall’altro la teologia in tutte le sue espressioni. Come opportunamente osserva Adriano Fabris nella sua Introduzione alla filosofia della religione, Laterza, Roma-Bari 1996, la filosofia della religione differisce da queste discipline nella misura in cui, a differenza delle scienze delle religioni, essa «non considera il proprio tema necessariamente come un “oggetto” di indagine. Essa non si rivolge cioè alla sfera religiosa applicando un metodo ben definito che le potrebbe consentire di ricondurre quest’ambito entro schemi stabiliti preventivamente»; anzi, «sa che è pregiudiziale e riduttivo considerare i fenomeni del culto e della fede come semplici oggetti, sa che in tal modo va perduto lo spessore vitale di questa dimensione, ed è quindi disposta anzitutto a farsi suggerire dai documenti e dalle testimonianze religiose gli spunti più adeguati per la propria interrogazione su di essi»; inoltre, nell’ambito degli studi filosofico-religiosi «non ci si accontenta di ciò che appare storicamente, nella sua contingenza o nella sua ricorrente storicità. Ci si domanda invece che cos’è ciò che a una tale esperienza si manifesta, quali sono i suoi caratteri distintivi, che cosa lo costituisce». E dalla teologia invece differisce in quanto non si fa carico di compiti di natura apologetica, limitandosi a raccogliere «quella domanda sul senso che anima l’atteggiamento religioso articolandone le ragioni al di là della sfera a cui si limitano le sue giustificazioni»; vale a dire, essa «non fornisce buone ragioni né per credere né per non credere. Essa piuttosto parla di Dio solo in maniera indiretta, passando cioè per il tramite di un’analisi dell’ambito religioso», un’analisi rigorosa della dimensione religiosa nel complesso. ↩︎
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Su questo punto insiste con efficacia M. Ravera, Introduzione alla filosofia della religione, Utet, Torino 1995, cap. 1. ↩︎
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Conviene forse prendere almeno rapidamente in considerazione le obiezioni sollevate nei confronti della denominazione al singolare che caratterizza l’espressione “filosofia della religione”, allo scopo di chiarire ulteriormente l’autentica vocazione degli studi filosofico-religiosi. È stato giustamente scritto — si v. per es. M. Ravera, op.cit., p. 28ss. — che l’alternativa tra la dizione “filosofia della religione” e quella di “filosofia delle religioni” (eletta a torto da alcuni a garanzia del pluralismo religioso) costituisce un falso problema, in quanto «con la denominazione di filosofia della religione si intende infatti, in via generale, l’autonomo accostarsi del pensiero filosofico al fatto religioso concepito nella sua integralità e lo sforzo, operato dalla riflessione, di coglierne e penetrarne l’essenza e i caratteri; e lo stesso parlare di “fatto religioso” nella sua generalità sottintende una radicale apertura, non solo interconfessionale ma genuinamente interreligiosa, a ogni manifestazione del sacro e a ogni contenuto di fede e di esperienza del divino. Non si tratta pertanto, nemmeno nella denominazione usuale, di una particolare religione ma della religione come fenomeno universalmente umano, del suo darsi ed emergere quale comun denominatore delle sue più diverse e lontane apparizioni: e in questo senso il plurale che si vorrebbe preservare è già tutto inscritto nel singolare “collettivo” adoperato tradizionalmente. Tanto varrebbe altrimenti, come fu ironicamente a suo tempo suggerito, porre la medesima questione (smascherandone così la mancanza di senso) a proposito — tanto per fare alcuni esempi illuminanti — di filosofia “dei diritti”, di filosofia “delle politiche”, di filosofia “dei linguaggi”, o “delle storie”», corsivo mio. ↩︎
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In questo solco sembra muoversi per es. il succitato Ravera; un orientamento alternativo è quello che verrà tratteggiato e nell’ultimo paragrafo di questo nostro contributo. ↩︎
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M. Ravera, op.cit., p. 6. ↩︎
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Infinito che si esprime tanto attraverso un’autentica tensione all’incremento e al superamento — un impulso «teologico» verso quanto v’è di più elevato, più buono e significativo — accampata nell’uomo (di cui l’esigenza di progresso costituisce soltanto un indice parziale), quanto mediante una persistente domanda di senso innescata da quella speranza che per Welte — diversamente per es. da Bloch, che non la considera come dimensione costitutiva dell’essere e dunque come una grandezza ontologica ma piuttosto come una forza immanente a quelle dinamiche storiche, culturali e sociali che essa contribuisce a modellare — è «una caratteristica che appartiene all’essere in quanto tale e lo accompagna nel corso delle sue differenti rivelazioni epocali. Insomma, la speranza è un modo di concedersi dell’essere nell’esserci», O. Tolone, Bernhard Welte. Filosofia della religione per non credenti, Morcelliana, Brescia 2006, p. 55. ↩︎
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È da considerare peraltro che il decisivo interesse riservato al linguaggio all’interno della filosofia del Novecento ha favorito la nascita e lo sviluppo di una vera e propria «filosofia analitica della religione», una serie di «tendenze filosofiche che nel pensiero contemporaneo hanno applicato tecniche e strumenti analitici al discorso religioso in ciascuna delle varie fasi dello sviluppo dell’analisi filosofica e del suo complesso rapporto con la ricerca epistemologica. Nella applicazione al problema religioso la svolta linguistica si manifesta per lo più nella caratterizzazione della filosofia della religione come una ricerca sui tipi di enunciati che esprimono la credenza religiosa e sulla logica del discorso in cui la credenza trova espressione», M. Micheletti, Introduzione alla filosofia analitica della religione. Un’introduzione storica, Morcelliana, Brescia 2002; si v. anche l’accurato studio di M. Laube, Im Bann der Sprache: die analytische Religionsphilosophie im 20. Jahrhundert, De Gruyter, Berlin 1995, in particolare capp. 1-3. ↩︎
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Si veda per es. M. Micheletti, Analisi filosofica e teologia naturale, in Aa.Vv., Teologia naturale e teologia filosofica. Atti del IV Convegno annuale dell’Associazione Italiana di Filosofia della Religione (Chieti, 9-10 giugno 2005), Aracne, Roma 2005, pp. 43-79; v. anche Id., Tomismo analitico, Morcelliana, Brescia 2007. ↩︎
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Sergio Sorrentino sviluppa queste considerazioni in modo lucido in Realtà del senso e universo religioso, cit., cap. 1. ↩︎
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È il noto giudizio che all’inizio del secolo scorso W. Herrmann esprime nella sua Christlich-protestantische Dogmatik. Un’accurata ricostruzione della Rezeptionsgeschichte della filosofia della religione schleiermacheriana e una puntuale analisi dei momenti in cui si dipana la sua problematizzazione del fenomeno religioso è contenuta in S. Sorrentino, Schleiermacher e la filosofia della religione, Paideia, Brescia 1978. ↩︎
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Schleiermacher e la filosofia della religione, cit., p. 14ss. ↩︎
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O. Pfleiderer, Geschichte der Religionsphilosophie. Von Spinoza bis auf die Gegenwart, Reimer, Berlin 18933, p. 30. ↩︎
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E. Troeltsch, Religionsphilosophie, in W.Windelband, Die Philosophie im Beginn des zwanzigsten Jahrhunderts, Heidelberg 1904, tr. it. cur. di S. Sorrentino, in E. Troeltsch, Scritti di filosofia della religione, Filema, Napoli 2002, p. 73. ↩︎
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F. Schleiermacher, Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern, Johann Fr. Unger, Berlin 1799 [trad. it. Sulla religione, in Scritti filosofici, cur. di G. Moretto, UTET, Torino 1998, pp. 83-255]. ↩︎
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Sulla religione, cit., p. 111. ↩︎
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S. Sorrentino, Realtà del senso, cit., p. 17. ↩︎
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Ivi, p. 21. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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In particolare, per la ricchezza delle prospettive che esso convoglia e l’autorevolezza dei contributi che ospita mi sento di rinviare il lettore al volume Religione e religioni. A partire dai Discorsi di Schleiermacher, cur. di S. Sorrentino, Cittadella Editrice, Assisi 2000. ↩︎
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«Le filosofie della religione che su scala mondiale oggi trovano maggiore credito traggono origine da tre diversi orientamenti filosofici: dalla filosofia analitica, dalla fenomenologia e dalla teoria dei sistemi o funzionalismo. […] Ora, nessuna di queste correnti si riferisce a Schleiermacher. Tuttavia esse contengono elementi simili a quelli che già possiamo trovare in lui»; G. Scholtz, Schleiermacher e la recente filosofia della religione, in Religione e religioni, cit., p. 241. ↩︎