Prospettiva e verità. La teoria delle rivoluzioni scientifiche secondo Einstein, Popper, Kuhn e Ortega y Gasset

1. Einstein

Dopo aver spiegato l’importanza della teoria dei fluidi elettrici per la comprensione delle leggi elettrostatiche e dopo aver ricordato gli esperimenti atti ad illustrarla — in cui vanivano utilizzati, tra le altre cose, una verga metallica, delle foglie d’oro, dei fiaschi di vetro, una bacchetta di gomma indurita e un pezzo di flanella — Albert Einstein e Leopold Infeld paragonano la funzione del ricercatore a quella del detective, “che dopo aver riunito i fatti necessari trova la soluzione giusta con il solo ausilio del pensiero” (EF, p. 85). C’è tuttavia un motivo per il quale questo paragone può apparire, per loro stessa ammissione, “assai superficiale”. Tanto nella vita, quanto nel romanzo giallo il delitto è un fatto acquisito. Il detective deve bensì cercare lettere, impronte digitali, pallottole e armi, ma sa positivamente che un delitto è stato commesso.

Lo scienziato si trova in tutt’altra situazione. Non è difficile immaginare qualcuno che non possegga nozione alcuna in fatto di elettricità, come gli antichi i quali, non per questo, hanno vissuto meno felicemente. Diamo al nostro qualcuno — continuano Einstein e Infeld — una verga metallica, delle foglie d’oro, dei fiaschi di vetro, una bacchetta di gomma indurita, un pezzo di flanella, in breve, tutto il materiale occorrente per eseguire le nostre tre esperienze. Può darsi che il nostro qualcuno sia istruitissimo, ma è probabile che verserà del vino nei fiaschi, e che si servirà della flanella per far pulizia, senza mai concepire l’idea di procedere agli esperimenti testé descritti. Per il detective il delitto è un fatto positivo e il problema si pone semplicemente in questi termini: chi è l’uccisore? Lo scienziato invece deve, almeno in parte, commettere egli stesso il delitto ed al contempo condurre l’inchiesta. Inoltre il suo compito non è quello di spiegare un caso speciale, bensì tutti i fenomeni che si sono prodotti o che potrebbero ancora prodursi" (Ibidem).

Si tratta indubbiamente di un cammino difficile e complesso, al quale la ricerca scientifica non può sottrarsi: “la scienza ci costringe infatti a creare nuove idee, nuove teorie, il cui primo obiettivo è quello di abbattere il muro di contraddizioni che spesso blocca la via del progresso. Tutte le idee scientifiche fondamentali sono sorte dai drammatici conflitti tra la realtà ed i nostri tentativi d’intenderla” (ivi, p. 274).

Molte pagine dopo, nello stesso testo, gli autori, dopo aver spiegato il programma propostosi dalla teoria della relatività generale, rilevano quanto segue: “più le nostre supposizioni divengono semplici e fondamentali e più gli ingranaggi matematici del nostro ragionamento si complicano. La via che dalla teoria conduce all’osservazione diviene sempre più lunga e più ardua. Per quanto paradossale ciò possa parere, possiamo dire: La fisica moderna è più semplice dell’antica e sembra perciò più difficile e più complicata. Quanto più semplice è la nostra immagine del mondo esterno e tanto maggiore è la dovizia dei fatti che essa abbraccia e tanto più perfetto è il riflesso dell’armonia universale che essa induce nel nostro spirito” (ivi, p. 223).

Si può quindi ritenere — stando a quanto sostengono Einstein e Infeld — che quanto più le nostre immagini del mondo e le nostre teorie sono semplici, tanto più esse riescono ad abbracciare una più vasta gamma di fenomeni e a rendere ragione in modo perspicuo della loro varietà. Per raggiungere questo obiettivo è però necessario, in alcuni frangenti della storia della scienza, saper escogitare nuove teorie per ordinare i fatti osservati, e poi controllare empiricamente l’effettivo verificarsi di quelli che tali teorie sono in grado di prevedere.

Con l’aiuto delle teorie fisiche cerchiamo di aprirci un varco — scrivono ancora Einstein e Infeld — attraverso il groviglio dei fatti osservati, di ordinare e d’intendere il mondo delle nostre impressioni sensibili. Aneliamo a che i fatti osservati discendano logicamente dalla nostra concezione della realtà. Senza la convinzione che con le nostre costruzioni teoriche è possibile raggiungere la realtà, senza convinzione nell’intima armonia del nostro mondo, non potrebbe esserci scienza. Questa convinzione è, e sempre sarà, il motivo essenziale della ricerca scientifica.

In tutti i nostri sforzi, in ogni drammatico contrasto fra vecchie e nuove interpretazioni riconosciamo l’eterno anelo d’intendere, nonché l’irremovibile convinzione nell’armonia del nostro mondo, convinzione ognor più rafforzata dai crescenti ostacoli che si oppongono alla comprensione (ivi, p. 303).

2. Einstein e Popper

Ma come si giunge a costruire teorie che sappiano far fronte a tali ostacoli? Secondo Einstein e Infeld, “nella costruzione delle teorie fisiche sono le idee fondamentali che contano. I libri di fisica sono pieni di complicate formule matematiche. Ma il pensiero e le idee e non le formule stanno all’origine di ogni teoria fisica. È soltanto in seguito, che le idee debbono prendere la veste matematica di una teoria quantitativa, ai fini del controllo sperimentale” (ivi, p. 285).

Creare una nuova teoria non è però “come demolire una vecchia tettoia per sostituirla con un grattacielo. È piuttosto come inerpicarsi su per una montagna, raggiungendo nuovi e più vasti orizzonti e scoprendo inattesi rapporti fra il nostro punto di partenza e le bellezze dei suoi dintorni. Tuttavia, il sito dal quale partimmo è sempre lì e possiamo tuttora scorgerlo, ancorché paia più piccolo e non sia ormai più che un dettaglio nella vasta veduta raggiunta superando gli ostacoli che si opponevano alla nostra avventurosa ascesa” (ivi, p. 162).

Per raggiungere tali orizzonti più estesi, l’induzione non è, secondo Einstein, un metodo adeguato: egli infatti pensa che si trovino in errore “quei teorici che credono che la teoria provenga induttivamente dall’esperienza. Neppure il grande Newton riuscì a liberarsi da quest’errore” (PA, p. 50). Non esiste infatti secondo Einstein “alcun metodo induttivo che possa condurre ai concetti fondamentali della fisica. Il mancato riconoscimento di questo fatto ha rappresentato l’errore filosofico sostanziale di moltissimi studiosi del diciannovesimo secolo” (ivi, 56).

Anche Karl Popper è convinto che le teorie scientifiche non si basino e non possano basarsi sul metodo induttivo, metodo che parte dall’ipotesi empirista, e in particolare lockiana, secondo la quale tutto ciò che si trova nell’intelletto sia stato nei sensi. Ma l’induzione, come già Bacone aveva mostrato, non autorizza secondo Popper a passare da osservazioni particolari alla formulazione di leggi generali. Gli empiristi e i positivisti, inoltre, ritengono che l’esperienza sensibile sia in grado di porci di fronte a dei “fatti”, e che tutta la conoscenza umana dovrebbe costituire un’elaborazione teorica di tali “fatti”. Ma questo presupposto è falso, l’osservazione “pura — cioè l’osservazione priva di una componente teorica — non esiste. Tutte le osservazioni — e, specialmente, tutte le osservazioni sperimentali — sono osservazioni di fatti compiute alla luce di questa o quella teoria” (PR, p. 128). Il metodo induttivo, al contrario, parte dal presupposto che i fatti osservati siano assolutamente oggettivi, esenti da qualsiasi preliminare condizionamento teorico.

Secondo Popper, i “fatti” e le “osservazioni” non sono mai “puri”, cioè sono sempre mediati da qualche teoria. I fiaschi, le foglie d’oro e la flanella di cui parlano Einstein e Infeld direbbero ben poco — anche a chi li vedesse già all’opera nell’esperimento in questione — a chi non avesse formulato già in precedenza domande articolate, e la stessa utilità dell’esperimento risulterebbe molto dubbia a chi non avesse formulato delle precise congetture scientifiche. Tenendo conto di questa precisazione, i “fatti” e le “osservazioni” rivestono comunque un ruolo fondamentale nello sviluppo della scienza, ma non per la formazione delle “teorie scientifiche”, quanto piuttosto per il loro controllo empirico.

Il “falsificazionismo” popperiano è influenzato in maniera decisiva da Einstein, alla cui rivoluzione nel campo della fisica il filosofo austriaco attribuisce un ruolo fondamentale per lo sviluppo della sua teoria epistemologica: dalla rivoluzione einsteiniana è infatti possibile ricavare a suo parere un criterio rigoroso per distinguere le teorie scientifiche da quelle che presumono di esserlo in modo ingiustificato.

Se uno propone una teoria scientifica — scrive Popper — deve essere in grado di rispondere, come fece Einstein, alla domanda: ‘sotto quali condizioni dovrei ammettere che la mia teoria è insostenibile?’. In altre parole, quali fatti concepibili accetterei come confutazioni, o falsificazioni, della mia teoria? (RF, p. 44).

Il criterio di falsificabilità viene così eletto da Popper quale criterio fondamentale per distinguere le teorie scientifiche da quelle che non lo sono, come, ad esempio, il marxismo e la psicoanalisi. Né l’una né l’altra hanno infatti saputo indicare “osservazioni” o “fatti” virtualmente capaci di smentirle. Ciò che della teoria di Einstein colpisce Popper, al punto d’influenzare in maniera decisiva la sua teoria della conoscenza, è la circostanza per cui, che in base ad essa, si potevano formulare delle previsioni ricche di contenuto empirico, ovvero cariche di conseguenze “improbabili”, conseguenze che potevano essere smentite dall’esperienza.

Einstein — scrive Popper — era alla ricerca di esperimenti cruciali, il cui accordo con le sue predizioni avrebbe senz’altro corroborato la sua teoria; mentre un disaccordo, come fu egli stesso a ribadire, avrebbe dimostrato che la sua teoria era insostenibile (ivi, p. 40).

Per questo, la conferma empirica che la teoria di Einstein ebbe nel 1919 costituisce per Popper “una conferma di rilievo storico” (CC, p. 328;). In primo luogo, sotto il profilo scientifico, perché ora una teoria alternativa rispetto a quella di Newton era stata confermata dall’esperienza; in secondo luogo sotto il profilo epistemologico, perché con la teoria della relatività diventava chiaro che il modello teorico newtoniano non era il solo in grado di spiegare i fenomeni: "il fatto stesso che ora ci fosse una teoria alternativa, che spiegava tutto quello che la teoria di Newton non era in grado di spiegare, e, oltre ciò, molte cose in più, e che aveva superato almeno uno dei controlli cruciali che la teoria di Newton sembrava non riuscisse a superare, tolse alla teoria di Newton quel posto unico che essa occupava nel suo campo. La ridusse allo stato di congettura eccellente e riuscita, di ipotesi che si trovava in competizione con altre ipotesi, e il cui status era una questione aperta (PR, p. 134).

Le teorie scientifiche non sono infatti che congetture falsificabili. Tali congetture scaturiscono secondo Popper direttamente dall’ingegno e dall’intuizione umana, e non sono ricavabili con un metodo induttivo. Una volta che siano state formulate in termini chiari e rigorosi, sarà poi possibile fare in base ad esse delle predizioni: se queste verranno confermate dall’esperienza le teorie saranno corroborate, altrimenti saranno falsificate, ma in entrambi i casi esse potranno ritenersi delle teorie scientifiche, perché scientifico è il metodo con il quale le si sono costruite e controllate.

In questo senso è chiaro — come anche Einstein ritiene (cfr. PA, p. 50) — che nemmeno Newton avrebbe davvero rinunciato (quando enuncia il suo famoso “ipotheses non fingo” si riferisce a ipotesi metafisiche non controllabili) a formulare ipotesi, perché anche la sua teoria può essere scaturita solo da un atto intuitivo e da una congettura, e certamente, in ogni caso, non da un processo induttivo.

Abbiamo visto come scopo della scienza sia, secondo Einstein, quello di produrre teorie che siano in grado di farci osservare orizzonti più ampi. In questo modo, non si intende tuttavia sostenere che le impostazioni teoriche in precedenza adottate debbano necessariamente risultare false. La teoria newtoniana diviene infatti, dopo l’affermazione di quella della relatività, un suo caso particolare. Secondo Einstein, infatti, “nessuna teoria fisica potrebbe avere un destino più benigno, che quello di indicare la strada per la costruzione di una teoria più ampia, in cui essa continua a vivere come caso limite”(RE, pp. 102-103).

Tale è il destino della teoria di Newton, che continua comunque a risultare valida per un ambito più circoscritto di fenomeni. Un tempo, ricorda Popper, “si credeva che la scienza, in se stessa, costituisse un corpo di conoscenze. Non di ipotesi, ma di teorie provate: provate come la teoria di Newton” (PR, p. 134). Ma quest’epoca è secondo Popper ormai passata “grazie alla rivoluzione einsteiniana. È interessante notare, a questo proposito, che lo stesso Einstein non riteneva che la sua teoria generale fosse vera, anche se credeva che costituisse un’approssimazione alla verità migliore di quella di Newton, e che un’approssimazione ancora migliore — che, naturalmente, sarebbe stata la teoria vera —, avrebbe dovuto contenere a sua volta, come approssimazione, la relatività generale. In altre parole, fin dai primissimi inizi, Einstein aveva ben chiaro il carattere congetturale delle sue teorie” (ivi, pp. 134-135).

È chiaro a questo punto che quando Einstein parla dei “nuovi e più vasti orizzonti” cui mira la ricerca scientifica allude al fatto che teorie più “potenti”, o “profonde” — in grado cioè di spiegare un maggior numero di fenomeni, e al tempo stesso più “semplici” ed “economiche”, cioè capaci di spiegare questo maggior numero di fenomeni senza ricorrere ad un maggior numero di concetti, pur ricorrendo a dei concetti almeno in parte nuovi — non intende sostenere che in questo modo vengano necessariamente falsificate le teorie che in precedenza erano state corroborate dall’esperienza: queste possono infatti continuare a essere valide in contesti più limitati come casi particolari delle nuove teorie più “profonde” e, nonostante la loro maggiore complessità teorica, sostanzialmente più “semplici” ed “economiche” per il maggior numero di fenomeni che riescono a ricondurre ad una spiegazione perspicua. Questa convinzione di Einstein è fatta propria e ancor meglio esplicitata da Popper, che la adotta come un elemento fondamentale della sua interpretazione del progresso scientifico. Questo procede da teorie che asseriscono di meno verso teorie che asseriscono di più, le quali, assumendo rischi maggiori, in quanto più ricche di contenuto empirico, hanno più probabilità di essere falsificate dall’esperienza (cfr. ivi, p. 138). Gli orizzonti nuovi e più vasti di cui parla Einstein sono accessibili in virtù di tali teorie “più rischiose” e più ricche di contenuto, ma questo non implica una falsificazione complessiva delle teorie in precedenza ritenute valide, che possono essere interpretate come “casi limite” delle nuove teorie, ovvero come teorie che, pur essendo dotate di un minore contenuto empirico, possono tuttavia essere ancora ritenute valide rispetto a un ambito fenomenico più limitato.

3. Einstein, Popper e Kuhn

Thomas S. Kuhn elabora, ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) — che può essere considerata la sua opera più rilevante — una teoria in parte diversa e alternativa a quella di Popper. Secondo tale teoria nello sviluppo della scienza è necessario distinguere fasi che possono essere considerate “normali” da quelle caratterizzate da “rotture rivoluzionarie”, come per l’appunto quella einsteiniana. Nelle fasi così dette “normali” continuano ad essere considerati validi i “paradigmi” teorici tradizionali e gli scienziati si adoperano per risolvere “i rompicapo” che tali paradigmi lasciano aperti; nei periodi “rivoluzionari”, invece, gli scienziati, a causa delle crescenti o insormontabili anomalie cui si va incontro adottando i vecchi “paradigmi”, ne mettono in discussione gli assunti fondamentali, cercando di elaborare nuove teorie in grado di fornire una risposta ai quesiti rimasti insoluti adottando le precedenti impostazioni teoriche.

Dopo l’assunzione di un nuovo paradigma, la scienza riprende, secondo Kuhn, a procedere in modo “normale”, fino alla rivoluzione successiva. Ogni rivoluzione, tuttavia, comporta l’adozione di un modello teorico incommensurabile con quello in precedenza adottato. Al contrario di quello che pensano Einstein e Popper, la teoria einsteinana e quella newtoniana sono per Kuhn “incommensurabili” e incompatibili, o almeno lo sono in misura non minore di quanto lo sono la teoria copernicana e quella tolemaica: la teoria di Einstein può infatti, secondo il filosofo statunitense, “essere accettata soltanto se si riconosce che quella di Newton era sbagliata” (SR, p. 126).

Kuhn ricorda tuttavia come a tale concezione del rapporto tra le due teorie siano state mosse alcune obiezioni rilevanti e come essa fosse condivisa — quando uscì il suo saggio — solo da una minoranza. L’essenza di tali obiezioni è riassunta dallo stesso Kuhn nel modo seguente:

la dinamica relativistica non può avere mostrato che la dinamica newtoniana è sbagliata dal momento che questa ultima viene ancora oggi usata con pieno successo dalla maggior parte degli ingegneri e, per applicazioni specifiche, anche da molti fisici. Inoltre, l’uso che viene fatto della teoria più vecchia può essere giustificato proprio sulla base della teoria nuova che l’ha sostituita per certi altri campi di applicazione. In base alla teoria di Einstein si può dimostrare che le previsioni ricavate dalla equazioni di Newton avranno una precisione altrettanto buona di quella dei nostri strumenti di misura in tutte le applicazioni che soddisfano ad un piccolo numero di condizioni restrittive. Ad esempio, perché la teoria di Newton fornisca una soluzione sufficientemente approssimata, le velocità relative dei corpi presi in considerazione deve essere piccola in rapporto alla velocità della luce. Quando obbedisce a questa e ad altre restrizioni, la teoria newtoniana appare derivabile da quella einsteiniana, di cui viene perciò a rappresentare un caso speciale. Ma — continua l’obiezione — una teoria non può mai entrare in conflitto con uno dei suoi casi speciali. Se la scienza einsteiniana sembra invalidare la dinamica newtoniana, ciò è solo perché alcuni newtoniani furono così poco cauti da pretendere che la teoria di Newton producesse risultati assolutamente precisi o che essa fosse valida per velocità relative molto alte. Poiché essi non potevano avere avuto nessuna prova che giustificasse quelle affermazioni, facendole essi venivano a tradire le regole della scienza. La teoria newtoniana, nei limiti in cui è una teoria veramente scientifica e sostenuta da prove valide, non ha ancora perduto la sua validità: soltanto delle affermazioni estranee alla teoria, le quali non fecero mai propriamente parte della scienza, possono essere state dimostrate sbagliate alla luce della teoria di Einstein. Liberata da queste aggiunte ingiustificate prodotte dalla fantasia umana la teoria di Newton non è mai stata messa in dubbio, né lo può essere (ivi, pp. 126-127).

Le obiezioni ricordate da Kuhn a proposito della tesi da lui sostenuta, si riferiscono dunque al cuore stesso dell’impostazione teorica adottata, come abbiamo visto, sia dallo stesso Einstein che da Popper. Come replica Kuhn a tali obiezioni? A suo pare bisogna prendere atto che i concetti einsteiniani non sono identici a quelli usati da Newton, anche quando possono sembrare tali: per esempio, “la massa newtoniana si conserva immutabile; quella einsteiniana è convertibile con l’energia. Soltanto a basse velocità relative le due masse possono essere misurate nello stesso modo, e anche allora non devono essere concepite come se fossero la stessa cosa” (ivi, p. 130).

Secondo Kuhn, “gli elementi strutturali fondamentali” della teoria di Einstein sono tanto diversi da quella di Newton da indurre a non poter considerare la prima come una estensione della seconda, e questa come un “caso limite” della prima. La trasformazione di una teoria antecedente in una che adotti un nuovo paradigma teorico “può essere tentata soltanto con l’aiuto delle conoscenze a posteriori, ossia sotto la guida esplicita della teoria più recente. Inoltre, anche se quella trasformazione fosse un espediente al quale si può ricorrere legittimamente per interpretare la vecchia teoria, il risultato della sua applicazione sarebbe costituito da una teoria così limitata da essere in grado soltanto di riaffermare ciò che era già noto” (ivi, p. 131). Da queste considerazioni Kuhn deduce che “paradigmi successivi ci dicono cose differenti sugli oggetti che popolano l’universo e sul comportamento di tali oggetti. Differiscono per esempio riguardo a questioni come l’esistenza di particelle subatomiche, la materialità della luce e la conservazione del calore e dell’energia” (ibidem).

Il mutamento del significato “di concetti tradizionali e familiari costituisce il nucleo dell’effetto rivoluzionario avuto dalla teoria di Einstein” (ibidem). Secondo Kuhn, si può infatti considerare la rivoluzione einsteiniana “come il prototipo dei riorientamenti rivoluzionari che avvengono nelle scienze”, ma questi non sono equiparabili a semplici ampiamenti contenutistici, ovvero a trasformazioni teoriche che permettono di conseguire orizzonti teorici più vasti dei precedenti, perché viene modificata la stessa visione del mondo ad essi sottesa e della “struttura concettuale attraverso la quale gli scienziati guardano il mondo” (ibidem). In generale, Kuhn è convinto che durante le rivoluzioni, “gli scienziati vedono cose nuove e diverse anche quando guardano con gli strumenti tradizionali nelle direzioni in cui avevano guardato prima. È quasi come se la comunità degli specialisti fosse stata improvvisamente trasportata su un altro pianeta dove gli oggetti familiari fossero visti sotto una luce differente e venissero accostati ad oggetti insoliti” (ivi, p. 139).

Il problema sollevato da Kuhn a proposito delle rivoluzioni scientifiche potrebbe essere risolto soffermandosi sul fatto che i sostenitori della teoria del “caso limite” — come potremmo definirla concisamente — tra i quali si possono annoverare Einstein e Popper, non intendono asserire che i nuovi “paradigmi” non diano corso a nuove visioni del mondo, fino a trasformare gli stessi oggetti osservati, ma che esse sono semplicemente compatibili con le vecchie teorie quando queste siano applicate a contesti fenomenici più ristretti. Tale compatibilità non esclude un radicale riorientamento teorico, e anzi lo riafferma, ma evita di ritenere falsificate le vecchie teorie quando queste vengano confrontate con i “fatti” e gli “oggetti” che erano in grado di vedere alla luce delle domande che erano in grado di porsi.

Per meglio comprendere la teoria di Kuhn, è però utile ricordare che egli paragona le rivoluzioni scientifiche ad altrettanti cambiamenti della Gestalt visiva. Secondo la psicologia della Gestalt — una teoria sorta nella prima parte del novecento ad opera di M. Wertheimer, K. Koffka e W. Köhler — la visione e la percezione del tutto precedono sempre quella delle singole parti. Così, ad esempio, se vedo — come mostra un noto esperimento gestaltico — una vaso disegnato su un foglio di carta, non posso vedere che le stesse tracce sulla carta mostrano un doppio profilo umano, e viceversa. Se potessi scorgere le due figure nello stesso tempo, ciò significherebbe che le percepisco parte per parte, perché le parti, i tratti della matita, sono esattamente gli stessi. Ma così non è, perché si percepisce sempre l’insieme, e solo successivamente questo può essere scomposto nei suoi costituenti. Per la stessa ragione, “i segni sulla carta che dapprima erano visti come un uccello, sono ora visti come un’antilope, o viceversa” (ivi, p. 112), scrive Kuhn citando un altro esperimento gestaltico.

Questo parallelo — scrive tuttavia Kuhn dopo averlo proposto — “può essere fuorviante. Gli scienziati non vedono qualcosa come qualcos’altro; al contrario, semplicemente lo vedono […]. Inoltre lo scienziato è privo della libertà, che il soggetto della Gestalt possiede, di muoversi avanti e indietro tra diversi modi di vedere” (ibidem).

Nonostante queste differenze, l’esempio ci fa però capire cosa si deve intendere per mutamento di paradigma, e in particolare per un mutamento rivoluzionario. Nel quadro della reazione antimeccanicistica e antielementistica dell’inizio del Novecento, per esempio, le teorie di J. C. Maxwell relative all’elettromagnetismo costituiscono un caso di riorientamento teorico, ma anche di ciò che s’intende per approccio gestaltico, perché mostrano come i campi magnetici debbano essere intesi come delle totalità inscindibili, diverse dalla somma degli effetti prodotti da tutte le loro singole particelle.

Si comprende dunque per quale motivo Kuhn attribuisca tanto rilievo a questa corrente del pensiero psicologico e al concetto stesso di Gestalt per sviluppare la sua concezione delle rivoluzioni scientifiche e perché sia un oppositore della teoria del “caso limite”: quando ci si muove all’interno di una teoria, o più precisamente di un paradigma, questa nostra posizione può risultare irriducibile e non comparabile rispetto ad altri punti di vista teorici. In questo senso, agli occhi di Kuhn, essi risultano “incompatibili”, contrariamente a quanto supposto dalla teoria del “caso limite” avvallata sia da Einstein che da Popper . Il fatto che quest’ultimo citi, in epigrafe a “Congetture” (CC, p. 60) la considerazione di Einstein che abbiamo già riportato, e secondo la quale “non potrebbe esservi destino migliore per una… teoria, che di additare la via che conduce a una teorizzazione più generale, in cui essa sopravvive come caso particolare”, conferma una volta di più il loro accordo su questo tema.

Si tratta, come si è visto, del destino che sia Popper che Einstein attribuiscono alla fisica newtoniana, in quanto nessuno dei due crede che tale teoria sia incompatibile — come invece sostiene Kuhn — con la teoria della relatività, costituendo piuttosto un suo caso particolare, ancora valido e corroborato dall’esperienza in condizioni più limitate, ovvero quando i corpi osservati si muovano a velocità molto inferiori a quella della luce.

In questo modo, sia Einstein che Popper evitano di assecondare una prospettiva epistemologica di tipo relativistico, che invece potrebbe essere suggerita dalla condivisione della tesi di Kuhn sulla incommensurabilità dei diversi “paradigmi” destinati a subentrare sulla scena della storia della scienza dopo ogni rivoluzione teorica. Ma la relatività einsteiniana non sottintende affatto una teoria epistemologica relativistica: “è un errore — scrive ancora Popper — sostenere che l’universo relativistico ignora il tempo e lo spazio continui e tratta solo di ‘connessioni spazio-temporali isolate’; ed è sbagliato inferire dal principio dell’equivalenza dei sistemi di riferimento la relativizzazione del reale: al contrario, la relatività sostiene la realtà e l’invarianza degli intervalli spazio-temporali” (ivi, p. 646).

Popper non condivide il relativismo implicito nella posizione di Kuhn perché è convinto che ogni quadro concettuale possa essere “criticamente discusso”, confrontato con altri (cfr. CR, p. 126), e a suo parere Kuhn “esagera una difficoltà facendola divenire un’impossibilità” (ivi, p. 127). Pur ammettendo che una rivoluzione intellettuale “spesso possa sembrare una conversione religiosa”, e che possa quindi dare l’impressione di imporre una scelta di tipo irrazionale, e pur ritenendo che una nuova intuizione possa “colpirci come un colpo di fulmine”, Popper non pensa che questo ci impedisca di “valutare, criticamente e razionalmente, le nostre opinioni precedenti alla luce delle nuove” (ibidem).

Coerentemente con tale convinzione, egli crede che “sarebbe del tutto falso dire che il passaggio dalla teoria della gravitazione di Newton a quella di Einstein è un salto irrazionale, e che le due teorie non sono razionalmente paragonabili. Al contrario, ci sono molti punti di contatto […] e punti di confronto: dalla teoria di Einstein segue che la teoria di Newton è un’eccellente approssimazione” (ibidem).

4. Einstein, Popper, Kuhn e Ortega y Gasset

Una posizione per certi aspetti simile a quella di Popper era stata in precedenza sostenuta, a proposito della teoria della relatività, anche dal filosofo castigliano Ortega y Gasset, per il quale il relativismo della teoria della relatività einsteiniana non è l’opposto di un assolutismo: “al contrario, si fonde con esso, e lungi dal costituire un difetto della nostra conoscenza, le conferisce una validità assoluta” (TE, p. 186). La meccanica di Einstein “non è relativa, ma relativista, e grazie al suo relativismo consegue un significato assoluto” (ibidem).

Secondo Ortega, “per la fisica di Einstein la nostra conoscenza è assoluta; la realtà è relativa” (TE, p. 187). L’opinione diffusa secondo la quale la dottrina di Einstein confermerebbe quella kantiana almeno in un punto, in quanto asseconderebbe l’idea secondo cui lo spazio e il tempo sarebbero entità soggettive, rivela secondo Ortega un’incomprensione radicale (cfr. ivi, 190). Infatti, “se la prospettiva consiste nell’ordine e nella forma che la realtà riveste (toma) per chi la contempla”, variando il punto di vista di questi muterà anche la sua prospettiva, mentre se chi contempla fosse sostituito, nello stesso luogo, da un altro soggetto, la prospettiva rimarrebbe identica (cfr. ivi, 191). “Certamente, se non ci fosse un soggetto che contempla, non ci sarebbe prospettiva. Questo vuol dire che sia soggettiva? Qui sta l’equivoco che per almeno due secoli ha ingannato tutta la filosofia, e con essa la disposizione dell’uomo di fronte all’universo. Per evitarlo basta fare questa distinzione” (ibidem).

La prospettiva non è soggettiva semplicemente perché non muta con il mutare del soggetto che contempla: semmai è quest’ultimo a mutare ogni volta che modifica il suo punto di vista. Le differenze tra i vari punti di vista ci permettono di comprendere come la realtà non coincida con nessuno di essi, e tuttavia una realtà comune permane sullo sfondo di ogni prospettiva. Tale realtà esiste in quanto è esperibile, ci pone degli interrogativi, ci pone di fronte all’inadeguatezza della teoria quando le fornisce riscontri negativi. E tuttavia la realtà non è assoluta. Non è, per esprimerci con il linguaggio di Popper, una realtà “essenziale”, una realtà “ultima” (si veda a questo proposito la critica rivolta da Popper all’essenzialismo, in TP, pp. 21-27), ma è suscettibile di essere compresa e spiegata in modo sempre più semplice e perspicuo. Nemmeno spazio e tempo sono, come la teoria della relatività dimostra, delle entità assolute, e ciò nondimeno esistono, sono reali.

Quando Galileo e Newton parlano di spazio assoluto, parlano di uno spazio considerato dal punto di vista non di un essere concreto, ma dal punto di vista di Dio: Newton, ricorda Ortega, “chiama lo spazio assoluto Sensorium Dei, l’organo visuale di Dio; potremmo dire la prospettiva divina: ma appena si pensa fino in fondo questa idea di una prospettiva che non è originata (tomada) da nessun punto di vista determinato ed esclusivo, si svela il suo carattere contraddittorio e assurdo. Non c’è uno spazio assoluto perché non c’è una prospettiva assoluta. Per essere assoluto, lo spazio deve cessare di essere reale — spazio vuoto di cosa — e convertirsi in una astrazione. La teoria di Einstein è una meravigliosa giustificazione della molteplicità armonica di tutti i punti di vista. Si estenda questa idea alla morale e alla vita e si otterrà una nuova maniera di sentire la storia e la vita” (ivi, p. 192).

l’evoluzione della nostra scienza ha mostrato che tra le costruzioni teoretiche della scienza, ve n’è sempre una che dimostra decisamente la sua superiorità sulle altre. Nessuno che abbia ben compreso tale affermazione negherà che il mondo delle nostre percezioni determini praticamente, senza possibilità di equivoci, il sistema teorico che vogliamo o scegliamo. Tuttavia, non c’è alcun processo logico che permetta di elaborare i principi della teoria" (CF, pp. 42-43).

Quest’affermazione significa, secondo Ortega, che:

molte teorie sono equamente adeguate tra loro e, rigorosamente, la superiorità di una di esse si fonda esclusivamente su motivi pratici. I fatti la raccomandano, ma non la impongono. Solo in certi momenti il corpo dottrinale della fisica viene a contatto con la realtà della natura: nell’esperimento. E l’esperimento è una nostra manipolazione per mezzo della quale interveniamo sulla natura, obbligandola a rispondere. Né poi è la natura, così come essa è, ciò che l’esperimento ci rivela, ma solo una sua determinata reazione, provocata da un nostro particolare intervento. Pertanto — e questo mi preme ora sottolineare in modo formale — la cosiddetta realtà fisica è una realtà dipendente e non assoluta, una quasi realtà, perché essa è condizionale e relativa all’uomo. Infine il fisico definisce realtà tutto ciò che egli incontra nel momento in cui lo manipola. Solo in funzione di quest’ultima operazione esiste la realtà" (CF, p. 43).

Più in generale, il soggetto non è per Ortega

né un mezzo trasparente, un “io puro” identico e invariabile, né il suo ricevere la realtà produce in essa deformazioni. I fatti impongono una terza opinione, sintesi esemplare di entrambe. Mettendo un setaccio o una rete in una corrente, essa lascerà passare alcune cose e ne tratterà altre; si dirà che le seleziona, ma non che le deforma. Questa è la funzione del soggetto, dell’essere vivente, nei confronti della realtà cosmica che lo circonda (NT, p. 132).

La verità risulterà quindi dalla ricomposizione armonica di punti di vista diversi, capaci di cogliere aspetti diversi di un’unica verità complessiva. Ciò che accade a livello percettivo, si ripete con le teorie conoscitive, nelle cui maglie cadono relazioni più o meno generali in modo più o meno articolato e dettagliato. Dove una certa prospettiva individuale non è capace di scorgere alcuna relazione significativa o di fornire spiegazioni corroborate dall’esperienza, può riuscirci un’altra, e ciò perché

la struttura psichica di ogni individuo è come un organo percettivo: è dotato di una forma determinata che gli permette di comprendere certe verità ed è condannato a un’inesorabile cecità nei confronti di altre. Così ogni popolo e ogni epoca hanno la loro anima tipica, cioè una rete, dalle maglie di larghezza e forma definite, che conferisce una rigorosa affinità con certe verità e una incorreggibile incapacità di raggiungerne certe altre" (ivi, p. 133).

Analogamente, due uomini, pur guardando lo stesso paesaggio, possono non vedere la stessa cosa:

il diverso modo in cui sono situati fa sì che il paesaggio si organizzi davanti a ognuno in modo diverso. Ciò che per uno sta in primo piano e mostra nitidamente tutti i suoi dettagli, per l’altro è molto in lontananza e appare oscuro e confuso. Inoltre, dato che le cose messe una dietro l’altra si nascondono del tutto o in parte, ognuno dei due uomini percepirà porzioni di paesaggio che non arrivano agli occhi dell’altro. Avrebbe senso — si chiede Ortega — che ciascuno dichiarasse falso il paesaggio dell’altro? Evidentemente no; è reale tanto l’uno quanto l’altro. E non avrebbe senso neppure che i due uomini, poiché i loro paesaggi non coincidono, si mettessero d’accordo e li giudicassero illusori. Ciò presupporrebbe l’esistenza di un terzo paesaggio autentico, non sottoposto alle stesse condizioni degli altri due. Ebbene, questo paesaggio archetipo non esiste né può esistere. La realtà cosmica è tale da poter essere vista soltanto da una determinata prospettiva. La prospettiva è una delle componenti della realtà. Lungi dall’essere la sua deformazione, è la sua organizzazione. Una realtà che vista da qualsiasi punto risultasse sempre identica, è un concetto assurdo" (ivi, pp. 133-134).

La realtà, dunque, per Ortega sussiste solo in quanto mediata da certe prospettive, sia percettive che teoriche. Questa circostanza, tuttavia, non solo non comporta la sua adesione alla tesi idealistica o soggettivistica, ma da essa scaturisce piuttosto l’originalità della sua concezione della realtà e della verità, che può consistere solo nel confronto che tali prospettive, con i loro diversi punti di vista, sanno instaurare tra loro misurandosi tutti con l’esperienza, che deve essere — per Einstein, come per Popper e Ortega — considerata comune, così da poter garantire pertanto la possibilità di un confronto critico che risulterebbe altrimenti impossibile o, almeno, dal quale sarebbe comunque impossibile stabilire quale delle prospettive adottate risulti più efficace. Infatti, più efficace rispetto a cosa potrebbe essere, se non vi fosse un elemento comune di riferimento a garantire la possibilità di un confronto?

La compatibilità logica di diversi punti di vista — alcuni più ampi, altri più limitati, corroborati dall’esperienza solo in ambiti fenomenici più circoscritti e ristretti — è per Ortega il segno di una concezione ad un tempo più concreta ed armonica della conoscenza filosofica e scientifica. In questo senso, la teoria “dell’incommensurabilità” tra teorie successive — antecedenti o susseguenti a una rivoluzione scientifica — di cui parla Kuhn, potrebbe essere ancora ritenuta valida nel senso che le prospettive teoriche possono essere verosimilmente ritenute esclusive e simultaneamente non sovrapponibili, ma non nel senso che esse siano logicamente intraducibili. Esse devono esserlo per forza, se devono tutte sapersi misurare con un’esperienza comune. D’altra parte, una tale esperienza intersoggettivamente condivisa deve essere possibile, se lo scopo della conoscenza è quello di fornirne una spiegazione, altrimenti potremmo ottenere solo spiegazioni solipsistiche. Tali spiegazioni condivise sarebbero impossibili — come suggerisce la tesi di Kuhn — se esse derivassero da esperienze soggettive irriducibile e incomparabili. Ma proprio il fatto che diverse prospettive teoriche facciano tutte riferimento ad un’esperienza che può essere condivisa garantisce la comparabilità su base empirica, e quindi anche la comparazione critica, di teorie come quelle di Newton e di Einstein.

Tale comparazione ha indotto Einstein e Popper a considerare la prima come un “caso particolare” della seconda e a interpretare le teorie scientifiche rivoluzionarie come altrettanti ampliamenti degli orizzonti teorici in precedenza adottati. Gli orizzonti più ampi di cui parla Einstein, che la scienza è portata a ricercare per superare i dilemmi o le anomalie che scaturiscono dal confronto con l’esperienza, devono potersi comparare con i precedenti ogni volta che questi si rivelino troppo angusti, perché se così non fosse non si sarebbe nemmeno avvertita l’esigenza d’ipotizzare una nuova prospettiva teorica.

Il fatto che l’adozione di un certo paradigma teorico ci consenta di vedere i fenomeni sotto una nuova luce, e quindi, usando i termini di cui si serve Kuhn, di “vedere oggetti diversi”, non esclude necessariamente la compatibilità logica della nostra attuale visione di tali oggetti “nuovi” con la visione dei “vecchi” oggetti che potevamo avere usando i vecchi paradigmi.

Il prospettivismo orteghiano verte proprio su questo punto cruciale. Se, ad esempio, due persone osservano un parallelepipedo da due diverse prospettive possono avere visioni tanto diverse che, se dovessero attenersi solo ad esse, prese singolarmente, gli oggetti che sono davanti ai loro occhi non potrebbero che risultare diversi e, in certo senso, a prima vista, incomparabili. Ciò nondimeno, le due visioni sono tra loro compatibili, ovvero non risulta contraddittorio ritenere che esse possano costituire due immagini diverse dello stesso oggetto, della stessa realtà. Naturalmente, per convincersi della possibilità di una simile comparazione, bisogna conseguire un punto di vista teoricamente più alto, e cioè, in questo caso, possedere qualche conoscenza della geometria solida e della prospettiva. È infatti decisamente improbabile che, ad uno sguardo totalmente impreparato, esse possano risultare come due immagini diverse dello stesso oggetto.

La verità si trova dunque, per Ortega, in un “luogo” in cui convergono più prospettive. Il saper ricondurre, attraverso una teoria più “profonda” e più “semplice”, la loro molteplicità ad unità, il fare in modo cioè che la teoria rivoluzionaria possa in qualche modo concepire e comprendere anche il punto di vista della teoria di cui ha propiziato il superamento, non è né impossibile né contraddittorio. Se la realtà, e l’esperienza della realtà, possono essere concepite come relative, non è destinata ad essere relativa la conoscenza. La teoria della relatività einsteiniana può essere considerata una conoscenza — se è lecito servirsi di un’espressione che alla lettera è contraddittoria — più “assoluta” della fisica newtoniana: nel senso che essa è capace di abbracciare con un solo sguardo, in maniera più “semplice” e perspicua, una gamma più varia e vasta di fenomeni, e al tempo stesso è capace di comprendere il punto di vista della teoria newtoniana, di confermarne la validità rispetto a un orizzonte fenomenico più ristretto, mentre quest’ultima non sarebbe in grado di fare altrettanto con la prima.

5. Discussione conclusiva

Alla luce di queste considerazioni, la teoria einsteiniana è dunque in condizione non solo di spiegare un arco di fenomeni più ampio di quello che è spiegabile ricorrendo alla teoria newtoniana, ma è anche in grado di comprendere il punto di vista di quest’ultima e di accertarne la correttezza per una gamma approssimativamente più circoscritta di fenomeni.

In altre parole, siamo di fronte a una teoria che è capace d’intendere e di farsi una ragione dell’ambito di correttezza di un’altra teoria antecedente. Così come l’elettrostatica non è stata demolita dalle equazioni del campo ideate da Maxwell per l’elettrodinamica, ma è invece “contenuta nell’elettrodinamica come caso limite”, dato che “le leggi di quest’ultima conducono direttamente a quelle della prima per il caso in cui i campi risultino invariabili rispetto al tempo”, analogamente, secondo Einstein, “il principio generale di relatività ci pone in grado di derivare teoricamente l’influenza di un campo gravitazionale sul corso di un processo naturale, le cui leggi sono conosciute quando manchi un campo gravitazionale” (RE, pp. 102-103).

Il rapporto tra la meccanica classica e quella einsteiniana può essere meglio compreso anche esaminando il rapporto che intercorre tra la “trasformazione di Galileo” e la “trasformazione di Lorentz”. Infatti, “se, anziché la legge di trasmissione della luce”, prendessimo “come base le tacite ammissioni della vecchia meccanica circa il carattere assoluto dei tempi e delle lunghezze”, otterremmo le equazioni della “trasformazione di Galileo”. Il che significa, secondo Einstein, che questa “può venir ricavata dalla trasformazione di Lorentz ponendo in quest’ultima un valore infinitamente grande in luogo della velocità c della luce” (RE, pp. 66-67).

Siamo perciò di fronte esattamente a ciò che Einstein e Popper considerano come “caso particolare” o “caso limite”: la vecchia meccanica, cioè, può essere considerata come “un caso limite” di quella relativistica. Quest’ultima è una teoria di carattere più generale che “non contraddice la trasformazione e la meccanica classica. Al contrario, vi ritroviamo gli antichi concetti quali caso limite, allorché le velocità sono piccole” (EF, pp. 200-201).

È chiaro dunque che, tenendo conto di queste considerazioni, la teoria newtoniana non può essere considerata “sbagliata”, come sostiene Kuhn (cfr. SR, p. 126); e non è nemmeno vero che agli scienziati non siano consentiti quei salti gestaltici “avanti e indietro” che possono intraprendere coloro che sono alle prese con gli esperimenti della psicologia della forma (cfr., ivi, p. 112). La teoria di Newton non può essere considerata falsa perché è corroborata per un ampio arco di fenomeni, risultando inappropriata solo quando si tanga conto di velocità prossime a quella della luce; mentre la possibilità di passare da un modo di vedere all’altro sussiste anche per chi adotti la prospettiva teorica della relatività einsteiniana, che rimane in grado di concepire il mondo fisico secondo i paradigmi della vecchia teoria, per poi passare di nuovo a considerarli secondo il proprio punto di vista. Einstein era perfettamente in grado di vedere il mondo alla maniera di Newton e di tornare poi a vederlo come lo si può vedere secondo la teoria della relatività, e un’esperienza analoga può fare chiunque abbia compreso entrambe le teorie.

Kuhn ritiene tuttavia che dalla teoria newtoniana a quella einsteinana non muta soltanto la forma delle leggi: simultaneamente si sono alterati anche “gli elementi strutturali fondamentali di cui si compone l’universo a cui quelle leggi si applicano. Questa necessità di mutare il significato di concetti tradizionali e familiari costituisce il nucleo dell’effetto rivoluzionario avuto dalla teoria di Einstein” (SR, p 130), che non poté fare a meno di distruggere “un paradigma precedentemente stabilito”, tanto che, secondo Kuhn, possiamo considerare la trasformazione concettuale delle teoria einsteiniana “come il prototipo dei riorientamenti rivoluzionari che avvengono nelle scienze. Proprio perché non comportò l’introduzione di concetti o di fatti addizionali, il passaggio dalla meccanica newtoniana a quella einsteiniana illustra con particolare chiarezza quell’aspetto fondamentale delle rivoluzioni scientifiche che consiste nella trasformazione della struttura concettuale attraverso la quale gli scienziati guardano il mondo (ivi, pp. 130-131)”.

Ma cosa intende Kuhn per “trasformazione delle struttura concettuale”? Qual è a suo parere la differenza tra “mutamento della forma delle leggi” e “mutamento strutturale”? Sembra che per Kuhn questa differenza, a suo avviso fondamentale, concerna il fatto che non si ottengono soltanto dei modi diversi per spiegare gli stessi fenomeni, ma che con la nuova teoria si possono osservare dei fenomeni diversi e incomparabili rispetto a quelli osservabili con la teoria precedente. Il mondo verrebbe dunque a mutare con il mutamento dei paradigmi teorici adottati per interpretarlo. Questa tesi, dalla quale trapela un idealismo di fondo, non è condivisa da Einstein e Popper, per i quali i fenomeni spiegati dalla meccanica classica possono essere spiegati anche con la fisica relativistica, che è in grado anche di spiegarne altri non spiegabili con la vecchia teoria (e da essa non prevedibili). Per Kuhn, invece, non muta solo il modello interpretativo della realtà, ma i fenomeni stessi, che risultano altrettanto incomparabili e incommensurabili delle strutture concettuali adottate.

Tuttavia, pur ammettendo, con Kuhn, che la teoria einsteiniana abbia introdotto una nuova struttura concettuale, ciò non comporta che la nuova struttura non possa riferirsi ai fenomeni osservabili con la precedente teoria, anche qualora tali fenomeni appaiano oggettivamente “diversi”. Come abbiamo visto, secondo Einstein la teoria della relatività è infatti una teoria di carattere più generale che “non contraddice la trasformazione e la meccanica classica. Al contrario, vi ritroviamo gli antichi concetti quali caso limite, allorché le velocità sono piccole” (EF, pp. 200-201). Essendo mutata la struttura concettuale, possiamo ammettere che siano mutati anche i fenomeni, ma questo mutamento non implica che tali fenomeni siano non solo diversi, ma anche incomparabili e incommensurabili con quelli in precedenza osservabili; se infatti non sono incommensurabili le rispettive teorie, allora possono non esserlo anche i fenomeni che tali teorie interpretano, e poiché le teorie che costituiscono un “caso limite” l’una rispetto all’altra sono necessariamente comparabili e commensurabili, devono esserlo anche i fenomeni da esse osservati.

Anche il rapporto che secondo Einstein sussiste tra “la trasformazione di Galileo” e la trasformazione di Lorentz“ sembra confermare questa conclusione: se infatti si trattasse davvero di teorie incommensurabili, non sarebbe possibile definire rigorosamente il loro rapporto, cosa che, invece, Einstein riesce a fare con precisione quando asserisce che la trasformazione di Galileo ”può venir ricavata dalla trasformazione di Lorentz ponendo in quest’ultima un valore infinitamente grande in luogo della velocità c della luce" (RE, pp. 66-67).

Tornando ad avvalerci del “prospettivismo” orteghiano per fare luce sulla controversia Popper-Kuhn intorno a questo tema, potremmo ricordare che, pur essendo effettivamente diverse le figure dello stesso parallelogramma visibili da diversi punti di osservazione, tali figure risultano confrontabili e compatibili con lo stesso oggetto alla luce, per esempio, della geometria euclidea. Certo, per giungere a questo livello di consapevolezza, è necessaria l’adozione di una teoria (nel nostro esempio: la geometria euclidea) che sappia spiegare, a chiunque sia portato a ritenere coincidenti il fenomeno osservato dal proprio punto di vista con l’oggetto, che lo stesso oggetto potrebbe produrre fenomeni diversi se osservato da punti di vista diversi, dissuadendolo così dal credere che a diversi fenomeni, o a differenti apparenze soggettive, siano necessariamente correlati oggetti diversi. Se infatti le immagini risultanti da diverse prospettive possono essere, alla luce di una certa teoria, comparabili e compatibili, allora possono essere anche ricondotte allo stesso oggetto. Questo, naturalmente, non coinciderà più con l’oggetto quale risulta da un paradigma interpretativo puramente visivo, come nel caso di un osservatore ingenuo, ignaro di una qualsiasi teoria geometrica, ma sarà un oggetto che, proprio grazie al punto di vista più ampio offerto dalla conoscenza di una teoria geometrica, saprà fornire una spiegazione delle diverse prospettive compatibili con lo stesso oggetto e saprà rendere ragione della possibilità di una loro armonica conciliazione.

La tesi del “caso limite” può inoltre essere corroborata anche confrontando i punti di vista di persone che adottino diverse teorie geometriche. N. I. Lobacevskij, parlando della sua “geometria immaginaria”, precisa che in essa “rientra la geometria ordinaria come caso particolare” (NP, p. 191): sebbene infatti le geometrie non euclidee possano rivelarsi fisicamente valide su scala astronomica più ampia, quella euclidea può continuare ad essere un’ottima approssimazione alla realtà fisica sulla scala di un’esperienza ordinaria.

Coerentemente con questa ipotesi, H. von Helmholtz scrive che quando la “misura di curvatura dello spazio ha dappertutto un valore nullo, un tale spazio soddisfa dappertutto gli assiomi di Euclide. In questo caso lo possiamo chiamare spazio piano (omaloide), per distinguerlo da altri spazi costruibili analiticamente, che si potrebbero chiamare curvi perché la loro misura di curvatura è diversa da zero” (OS, p. 235). Ciò dipende, secondo Helmholtz, dal fatto che “la geometria euclidea, sferica e pseudosferica consiste nel valore di una certa costante che Riemann chiama misura di curvatura dello spazio in esame e il cui valore deve essere uguale a zero se valgono gli assiomi di Euclide” (ivi, p. 240).

Ora, le figure che si possono immaginare e descrivere nei rispettivi spazi, più o meno incurvati, sono senz’altro diverse: per esempio, su una superficie curva la somma degli angoli di un triangolo non sarà, come nella geometria euclidea, di 180 gradi, ma di più o di meno, a seconda che ci troviamo in uno spazio a curvatura positiva (ellittica) o negativa (iperbolica). Simili risultati, tuttavia, sono ben lungi dal confutare la geometria euclidea, che rimane valida quando la curvatura è nulla, venendo così a costituire un “caso particolare” (o “caso limite”) per chi adotti la prospettiva teorica di geometrie non euclidee. Certo, una simile relazione, e quindi anche il poter considerare la geometria euclidea come “caso limite”, è possibile soltanto a chi conosca e padroneggi entrambi i modelli teorici; altrimenti, è chiaro, nessuna relazione o comparazione sarebbero possibili. Ma il matematico che si trovi in tale condizione non avrà alcuna ragione di considerare incomparabili o incommensurabili le diverse geometrie, sebbene gli sia chiaro che i “fenomeni” in esse osservabili o ricostruibili per via analitica siano effettivamente diversi, come Kuhn correttamente ritiene.

La tesi kuhniana della incomparabilità e incommensurabilità delle teorie non può dunque, nemmeno in questo caso, essere evinta dalla constatazione per la quale le diverse teorie pongono effettivamente davanti a “fenomeni” diversi, a meno che con questa deduzione non ci si riferisca a fenomeni osservati da punti di vista teorici che siano rispettivamente ignari l’uno dell’altro. Ma una simile eventualità, a ben vedere, oltre che poco pertinente, è poco verosimile, perché ogni teoria successiva deve in qualche modo partire dall’eredità lasciatagli dalla teoria in precedenza accettata, e non può ignorarne i presupposti concettuali se vuole costituirne un superamento.

Anche questa relazione tra teorie geometriche diverse ripropone dunque quella che intercorre tra la meccanica classica e quella einsteiniana. Per soggetti che siano in grado di usare i diversi modelli teorici — presupposto indispensabile perché una comparazione sia possibile — la differenza tra i “fenomeni” che vengono osservati non preclude la possibilità di una loro comparazione. Più semplicemente, per la teoria che abbia avuto accesso a quelli che Einstein chiama “orizzonti più ampi” sarà possibile — come anche Popper sostiene — sviluppare un confronto critico tra le diverse teorie, senza doversi limitare — come avviene negli esperimenti visivi della Gestalt — a vedere solo alternativamente le “immagini” da esse risultanti: ciò dipende dal fatto che, per rimanere nella metafora usata da Einstein, dalla teoria più “profonda”, nel senso che abbiamo precisato, è possibile vedere anche ciò che era possibile vedere da quella antecedente e meno profonda; ma non solo: così come dalla vetta di una montagna più alta si può scorgere il panorama che era possibile vedere dalla cima di una montagna più bassa sulla quale prima ci trovavamo, da questa montagna più alta sarà possibile riconoscere anche la vetta di quella più piccola e ricostruire la nostra prospettiva precedente, come avviene, secondo Einstein, ad ogni rivoluzione scientifica che sappia includere la teoria in precedenza accettata come proprio caso limite.

Sigle bibliografiche

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