Recensione a Jürgen Habermas, Il futuro della natura umana

Jürgen Habermas, Il futuro della natura umana, Einaudi, Milano 2001.

1. La tesi di Habermas

Come dobbiamo intendere la possibilità, concettualmente nuova, di intervenire sul genoma umano? Come una crescita di libertà che chiede di essere disciplinata sul piano normativo, oppure come l’autorizzazione a produrre trasformazioni che non hanno bisogno di nessun’autolimitazione? A queste domande — e ad altre a queste riconducibili — il filosofo tedesco Jürgen Habermas cerca di dare una risposta ne Il futuro della natura umana, il suo ultimo saggio.

Fin dalla prima parte («Astensione giustificata. Esistono risposte postmetafisiche alla domanda sulla vita giusta») Habermas avanza alcune riserve circa la legittimità morale di progettare a piacimento gli esseri umani del futuro, riserve che poi verranno argomentate e sviluppate lungo tutto il saggio. Le sue perplessità di fondo trovano il loro spunto iniziale nella seguente considerazione: «Il giorno in cui gli adulti potessero considerare come producibile e modellabile il corredo genetico dei loro figli, e dunque progettarne a piacimento un “design” accettabile, essi verrebbero con ciò stesso a esercitare, sui loro prodotti geneticamente manipolati, un potere di disposizione che — penetrando nelle basi somatiche dell’autoriferimento spontaneo e della libertà etica di un’altra persona — era finora sembrato essere lecitamente esercitato soltanto sulle cose e non sulle persone» (p. 16). Il rischio implicito in una simile eventualità è che la persona il cui genoma sia stato modificato continui a dipendere, anche in età adulta, dalla decisione irreversibile dei suoi genitori, senza alcuna possibilità di ristabilire, attraverso una riflessione etica retroattiva, quella consapevolezza di una responsabilità simmetrica che sta alla base di ogni rapporto paritario. Mentre infatti i giovani — e poi gli adulti — possono normalmente accollarsi in prima persona la responsabilità della loro storia e delle loro scelte, nel caso che il loro genoma abbia subito un intervento irreversibile per decisione di terzi, la stessa possibilità di appropriarsi autocriticamente della propria storia formativa potrebbe risultare compromessa in maniera sostanziale (cfr. p. 17).

La questione cruciale della prima parte del saggio viene poi riproposta da Habermas nella seconda, dove vengono presi in esame in modo più articolato i rischi connessi ad una genetica liberale («I rischi di una genetica liberale. La discussione sull’auto comprensione etica del genere»). Lo spunto iniziale di questa parte della riflessione habermasiana è costituito principalmente dall’incontro tra la medicina della riproduzione e l’ingegneria genetica, incontro che «ha condotto al metodo della diagnosi del preimpianto e aperto la strada alla coltivazione di organi e agli interventi di modificazione terapeutica del genoma» (p. 19). La diagnosi di preimpianto — che rende possibile sottoporre a test preventivo un embrione che ha raggiunto lo stadio di otto cellule — può rivelarsi utile per evitare di trasmettere tare ereditarie, perché dopo aver studiato l’embrione in provetta si può decidere di non più impiantarlo nella madre. Questi tipi d’interventi con evidenti finalità di prevenzione terapeutica sono attualmente considerati leciti sia dalle popolazioni che dai governi dei paesi dotati di costituzioni democratiche (per gli altri le posizioni sono più variegate), ma solo quando destinati ad eliminare quelle tare ereditarie ritenute non accettabili da parte delle persone che potrebbero esserne colpite. Tuttavia, in seguito ai progressi biotecnici e ai successi terapeutici — ma anche in virtù della difficoltà di definire con chiarezza e in modo univoco i criteri per prevedere il parere dei futuri diretti interessati — l’ambito del lecito si è allargato progressivamente, fino a comprendere «interventi di ingegneria genetica sulle cellule del corpo (o persino sui primi stadi embrionali).

Questo secondo passo, che deriva dalla prima decisione, ci costringe a distinguere — scrive Hebermas — una genetica «negativa» (assunta come legittima) da una genetica «positiva» (che in un primo momento viene considerata illegittima). Per motivi concettuali e pratici, questo confine è però difficilmente tracciabile. La conseguenza è che quando cerchiamo di circoscrivere gli interventi escludendo il miglioramento delle caratteristiche genetiche noi ci scontriamo con una sfida paradossale, perché proprio in quelle dimensioni dove i confini risultano più difficilmente determinabili dovremmo poter tracciare (e imporre) confini assolutamente precisi. Già «oggi questo argomento viene di fatto impiegato a difesa di una genetica liberale che — trascurando ogni differenza tra interventi terapeutici e interventi migliorativi — rimette alle preferenze individuali degli utenti del mercato il compito di definire gli obiettivi degli interventi correttivi» (pp. 21-22). I liberali infatti — ricorda ancora Habermas citando Agar — «dubitano che il concetto di malattia possa servire a risolvere, in sede di teoria morale, i problemi posti dalla distinzione tra terapia e selezione genetica» (p. 22, nota 4). Lo stesso Habermas nota del resto come nella diagnosi di preimpianto risulti effettivamente «difficile rispettare i confini che separano l’eliminazione di predisposizioni genetiche indesiderate dalla ottimizzazione di predisposizioni desiderabili» (p. 23) e come sia difficile tracciare con chiarezza il confine concettuale tra «il prevenire la nascita di un bambino gravemente malato e la decisione eugenetica di migliorare il patrimonio ereditario» (pp. 23-24).

Dobbiamo tuttavia essere consapevoli che l’ingegneria genetica potrebbe modificare la nostra autocomprensione, cioè potrebbe incidere in maniera determinante sul modo in cui l’essere umano concepisce sé stesso, i suoi rapporti con gli altri suoi simili all’interno di una società organizzata e la propria visione del mondo. Per questo è secondo Habermas doveroso chiederci «se possiamo giustificare la tutela di predisposizioni genetiche integre, non manipolate, facendo appello alla indisponibilità (Unverfügbarkeit) dei fondamenti biologici della nostra identità personale. Un diritto che è già stato proposto dal consiglio d’Europa e che non pregiudicherebbe affatto la liceità di una genetica negativa fondata in sede terapeutica» (p. 29).

Ma per rispondere a questo interrogativo è necessario prima porci un’altra domanda, secondo Habermas fondamentale: «possiamo considerare l’autotrasformazione genetica della specie come un mezzo per accrescere l’autonomia individuale, oppure questa strada metterà a repentaglio l’autocomprensione normativa di persone che conducono la loro vita portandosi mutuo ed eguale rispetto?» (p. 31) Se fosse vera la seconda alternativa, allora ne deriverebbe un orientamento morale che privilegerebbe una genetica negativa rispetto ad una positiva. In vista delle sfide inedite costituite dalla possibilità di modificare e selezionare le caratteristiche ereditarie, una genetica negativa infatti non rimetterebbe completamente alla nostra disponibilità ciò che siamo per natura. Anche se l’ingegneria genetica tende a mutare i nostri rapporti con questa comune base naturale, una genetica negativa ci permetterebbe di considerarci ancora come «responsabili della nostra storia di vita, e di rispettarci a vicenda come persone uguali per nascita e valore» (p. 31), cosa che non avverrebbe nel caso venisse ammessa una genetica positiva, cioè tale da lasciare i cittadini liberi di scegliere l’opzione che ritengono migliore per il futuro dei loro figli, includendo tra quelle possibili anche un eventuale intervento, con finalità soggettivamente migliorative, sul loro genoma.

Ma la prima opzione dell’alternativa — quella connessa ad una genetica negativa — è razionalmente preferibile a quella di una genetica positiva? I rischi che deriverebbero da quest’ultima sono razionalmente presumibili? Habermas pensa di sì. Questa posizione dipende da alcune considerazioni che sono per lo più incentrate sull’auspicio, razionalmente motivato, che le relazioni tra gli essere umani continuino anche in futuro ad essere concepite come rapporti tra pari, nonché sul diritto di ogni nascituro di non dover percepire la propria libertà modificata e limitata non dal caso e dalla natura, come è sempre accaduto, ma dalla decisione di terzi, anche qualora questi fossero genitori animati dalle migliori intenzioni possibili.

Ogni persona ha disponibilità sul suo corpo e questa disponibilità costituisce secondo Habermas una parte fondamentale della propria visione del mondo e della propria identità. «Il giovane che sia stato geneticamente manipolato scoprirà invece il suo corpo come qualcosa di tecnicamente prodotto» (p. 52). A questo punto la sua vita può entrare in collisione con la prospettiva oggettivante di chi ha deciso per lui su una materia che lo concerne in modo essenziale. Dal punto di vista del bambino, infatti, le intenzioni pianificatrici dei genitori hanno lo statuto di un’aspettativa unilaterale e incontestabile. Decidendo in base alle loro preferenze, come se potessero arbitrariamente disporre di una cosa, scavalcano qualsiasi criterio di pari dignità e di reciprocità tra umani (cfr. p. 52).

Inoltre, quando assimilano l’azione clinica a un intervento di manipolazione essi contribuiscono a cancellare implicitamente la distinzione tra genetica negativa e genetica positiva. Certo, Habermas ammette che esistano obiettivi generali, come «il rafforzamento delle difese immunitarie o il prolungamento delle aspettative di vita, che si configurano nello stesso tempo come determinazioni positive e come finalità cliniche. Ma per quanto possa talvolta essere difficile, nel singolo caso concreto, distinguere gli interventi terapeutici (che prevengono un male) dagli interventi migliorativi», l’idea regolativa cui mirano queste distinzioni habermasiane è riassumibile in un criterio abbastanza semplice: «nella misura in cui l’intervento medico si lascia guidare dall’obiettivo clinico della guarigione e della prevenzione, chi fa il trattamento può sempre presupporre il consenso del paziente che vi si sottopone. La presupposizione del consenso trasforma l’agire strategicamente egocentrico in un agire comunicativo. Nella misura in cui si considera come un medico curante, il genetista può evitare di rapportarsi all’embrione nell’atteggiamento oggettivante di un tecnico che vede in esso semplicemente una cosa da produrre, riparare, guidare in certe direzioni». Quando cioè il genetista adotta l’atteggiamento performativo di un partecipante ad un’interazione, egli può «presupporre in anticipo che la persona futura dia il suo assenso all’obiettivo (in linea di principio contestabile) del trattamento» (pp. 53-54).

Grazie a questa circostanza, il paziente guarito in seguito ad un intervento prenatale, il cui consenso virtuale sia stato preliminarmente valutato, una volta divenuto persona potrà secondo Habermas comportarsi «in maniera diversa da chi apprende che i propri caratteri genetici sono stati programmati a prescindere, per così dire, dal suo consenso virtuale, esclusivamente in base alle preferenze di un’altra persona. Solo in questo caso l’intervento genetico assume l’aspetto di una “oggettivazione tecnica” della natura umana. In questo senso, a differenza dell’intervento clinico, il materiale genetico viene manipolato nella prospettiva di un atto che — agendo in maniera strumentale anche quando adotta strategie “collaborative” — produce nel mondo oggettivo la situazione da lui desiderata a partire da finalità proprie» (p. 54). In questo caso, infatti, «gli interventi modificatori delle caratteristiche genetiche si configurano come “eugenetica positiva”, e oltrepassano i limiti di una logica terapeutica, «vale a dire la logica di una prevenzione dei mali su cui si presuppone ci sia stato un consenso», finendo con l’incidere in maniera non trascurabile sulla condotta di vita e sull’autocomprensione morale della persona programmata (p. 54).

Ogni volta che un giovane venisse a sapere che il suo genoma è stato modificato dai genitori per soddisfare le loro aspettative e i loro desideri nei suoi riguardi egli potrebbe avere qualche difficoltà a concepirsi come un organismo spontaneo e rischierebbe di subordinare la sua personalità al suo corpo, che potrebbe essere percepito portatore di una volontà non sua. Nonostante che Habermas prenda in considerazione i dubbi che potrebbero sorgere sulla sua tesi di fondo, chiedendosi se è davvero possibile sapere con certezza quali effetti potrebbe avere sulla nostra vita il sapere che qualcun altro ha manipolato il nostro genoma, egli crede che in quest’ipotesi potremmo incontrare qualche difficoltà a concepire ancora la nostra umanità come un fine in sé. L’imperativo categorico kantiano, nella sua seconda formulazione — per la quale dobbiamo agire in modo tale da trattare sempre l’umanità, sia nella nostra persona che nella persona di ciascun altro, mai soltanto come un mezzo, ma sempre anche come un fine — non verrebbe in questo caso rispettato, perché l’idea di umanità ci comanda «di assumere quella prospettiva del noi, in base alla quale ci consideriamo reciprocamente membri di una comunità inclusoria che non abbandona fuori di sé nessuna persona» (p. 57), come invece avverrebbe se l’autocomprensione morale di alcuni individui dovesse tener conto di dipendere dalle decisioni unilaterali che qualcun altro ha preso programmando il loro corpo, in assenza di quella reciprocità virtuale che dovrebbe caratterizzare qualsiasi comunità di pari. Una persona può infatti essere sé stessa solo se sente di coincidere con il proprio corpo, in quanto il corpo consente di distinguere tra il proprio e l’estraneo, e ci permette di distinguere tra le azioni ascrivibili a noi e quelle imputabili agli altri. Ma affinché una persona possa sentirsi tutt’uno con il proprio corpo quest’ultimo deve, secondo Habermas, essere «esperito come spontaneo (narwüchsig), ossia come lo sviluppo di quella vita organica che — rigenerando sé stessa — trae fuori di sé la persona» (p. 59).

Habermas a questo punto si chiede per quale motivo una tale persona dovrebbe voler ricondurre la sua origine a un cominciamento «indisponibile», ossia a un cominciamento che non pregiudichi la sua libertà e che si sottragga al potere di disposizione di altre persone nei suoi riguardi. Mentre la nascita spontanea e naturale soddisfa questa condizione «d’indisponibilità» del cominciamento, la persona il cui genoma sia stato manipolato non potrà concepire la sua nascita come un dato di fatto naturale e percepirà un’intenzione estranea nello stesso cominciamento.

Ma cosa c’è di così pericoloso, sul piano morale — si domanda ancora Habermas — in una simile eventualità? Perché dovremmo avvertire come pericolosa la peculiare inafferrabilità con cui l’individuo programmatore fa entrare la sua intenzione nella vita di un suo pari? (cfr. 61). Nelle società liberali tutti i cittadini hanno gli stessi diritti di perseguire i loro personali progetti di vita, ma la loro facoltà di realizzarli è anche determinata da capacità e predisposizioni genetiche. La programmazione genetica di certe qualità potrà allora sollevare un problema morale «nella misura in cui fissa l’interessato ad un determinato piano di vita, e comunque nella misura in cui ne limita la libertà di scelta» (p. 62). Naturalmente, Habermas non esclude affatto che il giovane in questione col passare degli anni possa adottare come sua quella intenzione estranea. Potrebbe, per esempio, accettare di buon grado le sue buone disposizioni genetiche per la matematica o la musica e provare gratitudine per i genitori che le hanno introdotte nel suo genoma. Ma se ciò non dovesse accadere, quando cioè un ragazzo avvertisse come dissonanti con i suoi gusti e interessi le scelte messe in atto dai genitori dovrebbe scoprire simultaneamente che non gli è concessa nessuna possibilità di replica o di correzione della scelta fatta e quindi non potrebbe fare altro che percepire la propria libertà naturale come irreversibilmente limitata dall’intenzione estranea dei genitori-programmatori (cfr. pp. 62-63).

Habermas giunge dunque alla conclusione che gli interventi genetici migliorativi, cioè quelli che farebbero parte di una genetica positiva, compromettono la libertà etica del soggetto interessato. Essi la subordinano all’intenzione di terze persone e «gli impediscono di percepirsi come l’autore indiviso della propria vita» (p. 64). Dal che deriva che sussistono buone ragioni per ammettere interventi sul genoma umano solo quando «si tratti di prevenire mali estremi e universalmente riconosciuti come tali», cioè, solo nell’ambito di una genetica rigorosamente negativa (p. 64). Ora, la genetica liberale è in linea di massima favorevole a consentire la libera scelta, da parte dei cittadini, di una genetica positiva. Ma in questo modo «una genetica liberale non comprometterebbe soltanto il libero poter essere sé stessi della persona programmata. Questo tipo di prassi produrrebbe anche una relazione interpersonale per la quale non esistono precedenti. Quando una certa persona prende una decisione irreversibile sull’auspicabile composizione del genoma di una seconda persona, allora nasce tra i due soggetti un tipo di relazione che mette a repentaglio un presupposto — finora dato per scontato — dell’autocomposizione morale di persone autonomamente agenti e giudicanti. Una comprensione universalistica del diritto e della morale parte sempre dal presupposto che non esistano impedimenti di principio ad un ordinamento egualitario dei rapporti interpersonali. Naturalmente le nostre società sono profondamente segnate sia dalla violenza manifesta sia da una violenza strutturale. Esse sono attraversate dal micropotere di repressioni occulte e deformate da dispotismo, emarginazione, sfruttamento. Ma di ciò non potremmo indignarci, se non sapessimo che questi rapporti inverecondi potrebbero anche configurarsi altrimenti. La convinzione che a tutte le persone spetti un uguale status normativo, e che tutte debbano darsi simmetrico e reciproco riconoscimento, discende da un’ideale reversibilità delle relazioni umane. Nessuno deve dipendere da un altro in maniera pregiudizialmente irreversibile. Sennonché con la programmazione genetica nasce una relazione per molti aspetti asimmetrica, una sorta di paternalismo “sui generis”» (p. 65).

La responsabilità di chi decide di modificare il patrimonio genetico di embrioni è resa per Habermas sproporzionata dall’irreversibilità di una decisione che risulta necessariamente iniqua, perché il futuro individuo programmato «non può a sua volta progettare un “design” per il suo “designer”». In questo modo, l’intervento eugenetico cristallizzerebbe una dipendenza tra persone che sanno di non potersi scambiare reciprocamente le posizioni sociali, infrangendo il principio aureo che dovrebbe regolare ogni comunità morale e giuridica di persone libere ed eguali: quello costituito dalla simmetria dei rapporti su cui dovrebbe fondarsi ogni reciproco riconoscimento (cfr. p. 66).

A questo punto Habermas si domanda però se lo Stato democratico non possa fornire il quadro e gli strumenti più adatti per compensare la carente reciprocità tra le generazioni, «ristabilendo a livello di normativa universalizzante la simmetria disturbata». In altre parole, non potrebbe lo Stato sollevare i genitori dalla difficile responsabilità di una decisione individuale unicamente basata sulle proprie preferenze? In un caso del genere, «i figli non dovrebbero più considerarsi dei semplici dipendenti, dal momento che sarebbero inclusi — come coautori democratici della regolazione giuridica — in un consenso transgenerazionale che innalza al livello superiore della volontà generale un’asimmetria che nel caso singolo resterebbe sempre irredimibile» (p. 66). Un simile tentativo sarebbe però a suo parere destinato a fallire, perché il consenso politico necessario per attuarlo «sarebbe o troppo forte o troppo debole. Troppo forte, in quanto ogni definizione obbligatoria di obiettivi comuni che andasse al di là di mali terapeuticamente concordati inciderebbe — in maniera anticostituzionale — nell’autonomia privata dei cittadini. Troppo debole, in quanto il semplice permesso di adottare procedure eugenetiche non potrebbe certo sollevare i genitori dalla responsabilità morale per una scelta estremamente personale degli obiettivi, dal momento che non si potrebbe escludere l’effetto pregiudizievole di una limitazione della libertà etica» (p. 67) Nel quadro di una società pluralistica e democratica, infatti, non è possibile legittimare degli individui a porre in atto strategie genetiche migliorative nei confronti di altri individui futuri, perché ciò non potrebbe avvenire senza correre il rischio d’influire in maniera determinante sulla libertà di scelta e sui progetti di vita di questi ultimi.

Habermas non crede che il problema al centro dell’attuale dibattito sulle cellule staminali e le diagnosi di preimpianto possa essere risolto con un unico argomento morale di tipo irresistibile, ma si domanda se — nonostante gli argomenti razionali sfavorevoli a quest’ipotesi — «gli uomini del futuro potranno davvero rassegnarsi all’idea di non vedersi più come gli autori indivisi della propria condotta di vita — e quindi di non poter più essere considerati responsabili per questa condotta. Si rassegneranno essi a un modello di relazioni interpersonali non più conforme ai presupposti egualitari della morale e del diritto?» (p. 68). Auspicando che questo non accada — e argomentando in tal senso — Habermas si mostra però preoccupato per la situazione che si profila come probabile in un futuro imminente, quando «sarà possibile far seguire alla diagnosi di una grave malattia ereditaria un intervento di terapia genetica, rendendo così superflua ogni selezione» (p. 70). In questo modo verrebbe infatti superata la separazione tra genetica negativa e positiva, in quanto le ragioni attualmente «addotte per liberalizzare le diagnosi di preimpianto potrebbero essere fatte valere a sostegno degli interventi di modifica genetica», e questa, quando intrapresa per obiettivi terapeutici, potrebbe essere equiparata alla lotta contro malattie epidemiche o endemiche, giacché favorirebbe una selezione della specie atta a evitare malattie trasmissibili geneticamente (cfr. p. 70).

Lo sviluppo dell’ingegneria genetica finirebbe così per confondere distinzioni categoriali che riguardano «l’oggettivo e il soggettivo, lo spontaneo e l’artificiale». In questo modo, la strumentalizzazione della vita prepersonale metterebbe «a rischio quella autocomprensione etica del genere che è discriminante per poter decidere anche rispetto al futuro, se noi vogliamo continuare a intenderci come esseri che agiscono e giudicano in termini morali» (p. 71). Per quale motivo dovremmo continuare a voler essere morali quando «l’ingegneria genetica scalza silenziosamente la nostra identità come esseri di genere?» L’unica risposta possibile a questa domanda è a suo avviso che «senza l’emozione dei sentimenti morali di obbligazione e colpa, senza la libertà del rispetto morale, senza la felicità dell’aiuto solidale e lo sconforto del fallimento morale, senza la “gentilezza” di un procedimento incivilito nel trattamento di conflitti e contrasti, noi dovremmo sentire come insopportabile questo universo abitato dagli uomini». In questo caso saremmo infatti relegati in una sorta di «vuoto morale», in una forma di vita in cui nemmeno il cinismo sarebbe più immaginabile, prede di una freddezza impermeabile ad ogni scrupolo (cfr. p. 73).

In conclusione, per motivi di chiarezza, conviene ricordare, in questo conciso riassunto della sua tesi, quanto Habermas sostiene nel proscritto contenuto nell’appendice al suo saggio, dove riassume nel modo seguente la sua posizione sulla concezione liberale in materia eugenetica. A suo parere la prospettiva liberale tenderebbe a «sottrarre alla normativa statale tutte le decisioni sul patrimonio genetico del bambino, rimettendole semplicemente ai genitori» (p. 78), che diventerebbero quindi i detentori di una responsabilità soggettivamente esorbitante e in grado d’installare nell’autocomprensione del genere umano quel vuoto di sentimenti e riferimenti morali che sono alla base di ogni convivenza tra eguali. Così liberalizzata, la prassi eugenetica, se non offende il diritto di una persona esistente, può però «compromettere lo status di una persona futura». La persona soggetta a trattamento prenatale potrebbe infatti, una volta venutane a conoscenza, non riuscire più a concepirsi come una persona autonoma, «eguale membro di un’associazione di liberi ed eguali» (p. 78); e la sua autocomprensione morale, la coscienza della sua autonomia, potrebbero risultare radicalmente compromesse. Pur conservando formalmente gli stessi diritti giuridici di tutti gli altri membri della società, il giovane geneticamente programmato correrebbe il rischio di vedersi privato, oltre che della contingenza della sua origine naturale, di quel pieno possesso delle proprie facoltà mentali e fisiche indispensabile affinché possa percepirsi come persona giuridica, dato che il dubbio di non essere sé stesso potrebbe instillare il lui anche il dubbio di non poter «giungere al godimento effettivo di diritti eguali». Pur senza interferire direttamente nella sua sfera di azione, la prassi eugenetica potrebbe infatti indurlo a percepirsi come sottomesso «all’ingiustificato arbitrio di un altro» (pp. 80-81), e questa circostanza, assolutamente nuova per il genere umano, potrebbe a sua volta costringerci tutti a ridefinire i margini entro cui potremo ancora in futuro fare uso della nostra libertà (cfr. p. 81).

2. Obiezioni e risposte

All’interno dello stesso proscritto, subito dopo le considerazioni che ho appena citato, Habermas si sofferma ad esaminare alcune delle principali obiezioni che gli sono state mosse, e per prime prende in considerazione quelle di Thomas Nagel e Thomas McCarthey, per i quali non è affatto evidente che «dagli interventi di modifica genetica possa nascere una dipendenza soggettivamente avvertita, che finisca col mettere a repentaglio anche l’ideale eguaglianza del rapporto intergenerazionale. Può forse fare qualche differenza — per la posizione morale di una persona entro la rete delle sue relazioni — il fatto che la sua dotazione genetica dipenda dalla casuale “scelta di partner” compiuta dai genitori, e dall’opera della natura, piuttosto che dalle decisioni di un “designer”, sulle cui preferenze soggettive l’interessato non ha esercitato nessuna influenza?» (p. 81). Per quale motivo i soggetti geneticamente modificati dovrebbero essere danneggiati, nel loro status morale, «da una carente naturalità della loro dotazione genetica?». (p. 82).

Naturalmente, precisa Habermas per sgombrare il campo da un possibile equivoco, «sarebbe assurdo pensare che l’atteggiamento reificante, assunto dai genitori programmatori nei confronti dell’embrione “in vitro”, si prolunghi dopo la nascita in un trattamento oggettivante della stessa persona programmata. […] L’argomento della dipendenza allude a qualcosa di diverso. Non si riferisce a una discriminazione che colpisca l’interessato a partire dall’ambiente, bensì a una sua “svalutazione di sé” indotta riflessivamente prima della nascita, a una compromissione della sua comprensione morale. Ciò che entra in sofferenza è la qualificazione soggettiva che è indispensabile per poter assumere, nella comunità morale, lo status di una piena appartenenza. Decidendo in base a preferenze proprie (o ad abitudini sociali) il “designer” non offende, in realtà, i diritti morali di una terza persona: non le crea per esempio svantaggi nella distribuzione di beni primari, non la esclude da possibilità di scelte legittime, non la costringe a pratiche determinate da cui altri sono esonerati. Piuttosto interferisce in maniera unilaterale e irreversibile nella formazione d’identità della persona futura. In questo senso, egli non pone limiti estrinseci alla libertà progettuale di un altro. Ma interferisce per così dire dall’interno — nella misura in cui si rende coautore di una vita altrui, — nella coscienza che l’altro ha della propria autonomia», rendendo da parte sua problematica una piena ed esclusiva assunzione di responsabilità nei confronti della propria vita (p. 82). Una simile persona dovrebbe infatti spartire con un altro coautore la responsabilità del proprio destino e questa scissione di responsabilità potrebbe comportare anche una scissione della propria identità. I giovani delle generazioni future potrebbero in quest’ipotesi incontrare serie difficoltà — più di quante non ne incontrino attualmente — a rendersi psicologicamente e moralmente indipendenti dai genitori, essendosi incrinata alla radice la possibilità di un equo e reciproco riconoscimento tra membri di generazioni successive (cfr. p. 83).

Contro un simile scenario futuro Habermas ricorda che sono state avanzate tre tipi di obiezioni. Il primo di queste prende le mosse da un dubbio legittimo: «perché un giovane non dovrebbe potersi confrontare allo stesso modo, col passare degli anni, sia con predisposizioni manipolate sia con predisposizioni innate? Perché non potrebbe per esempio, in un caso come nell’altro, mettere “da parte” una sua dote matematica, ove preferisse diventare musicista o sportivo?».

Secondo Habermas, tra predisposizioni manipolate e predisposizioni innate permarrebbe una differenza fondamentale anche nel caso in cui il giovane riuscisse ad assimilare le une alle altre, perché le prime rientrano, al contrario delle seconde, nella sfera delle decisioni responsabili e imputabili, ampliando di fatto il potere che i genitori eserciterebbero sul patrimonio genetico dei figli. Quando questo tipo d’intervento sia stato ammesso, allora ogni persona futura, indipendentemente dal fatto di essere stata programmata o meno, potrebbe «considerare la composizione del suo genoma come il risultato di un’azione rinfacciabile oppure di un’azione tralasciata. Crescendo negli anni, il giovane potrà interrogare il suo “designer” e chiedergli ragione dei motivi per cui egli, risolvendosi per una dote matematica, gli ha negato quella capacità atletica o quella dote musicale che gli sarebbero state molto più utili nella carriera sportiva o pianistica cui egli effettivamente aspira» (p. 83).

Questa situazione ipotetica spinge Habermas a chiedersi fino a che punto noi possiamo «accollarci la responsabilità di distribuire doti naturali, prefigurando con ciò i margini entro cui una seconda persona svilupperà e perseguirà la sua soggettiva concezione della vita». Nella sua risposta, non mi pare tuttavia che Habermas entri nel merito dell’obiezione che gli è stata rivolta. Quando si chiede per quale motivo un giovane non dovrebbe confrontarsi allo stesso modo con predisposizioni manipolate e con quelle innate si vuole infatti sollevare un problema diverso rispetto a quello contemplato dalla sua replica. Se una persona avesse infatti, oltre alle predisposizioni innate, altre predisposizioni manipolate, la sua libertà di scelta risulterebbe accresciuta, e non menomata. Difficilmente, in questo caso, egli potrebbe rimproverare qualcuno di aver scelto per lui in una materia fondamentale per la sua futura costruzione morale, a meno che non si considerino come inibente la libertà soggettiva l’accrescimento delle possibilità di scelta che le sue attitudini, naturali e acquisite, gli consentono.

Inoltre un’ulteriore risposta alla contro-obiezione di Habermas può essere derivata dal fatto che, in ogni caso, una scelta da parte di terzi dovrebbe essere presa, costituendo una scelta anche il tralasciare qualsiasi intervento. Il rimprovero da parte del giovane in questione — come giustamente osserva Habermas — sarebbe sempre possibile. E allora, come possiamo evitare questa possibilità? Precludendola per via legislativa? Ciò naturalmente dovrebbe avvenire per la deliberazione dei rappresentanti politici di una maggioranza. Ma non sarebbe ipotizzabile in questo caso un risentimento nei confronti della decisione che la rappresentanza politica della maggioranza dei cittadini si è arrogata di prendere su una materia che concerne fondamentali libertà morali e civili di altri privati cittadini? Cioè di libertà concernenti la loro vita privata, i loro gusti e attitudini? Non potrebbero sentirsi autorizzati, questi cittadini non modificati, ad imputare a una simile rappresentanza politica il fatto di aver sottratto ai loro genitori il diritto di decidere su una questione che li riguarda tanto da vicino? In fondo, non è verosimile che i figli si fidino di più — essendo costretti a scegliere — dei genitori che non dello Stato, ancorché democratico?

Eviterò per il momento di approfondire questi interrogativi, in attesa di aver preso in esame anche gli altri due tipi di obiezioni rivolte a Habermas, nonché le sue contro-obiezioni. Quella da lui opposta all’argomento della prima obiezione potrebbe a suo avviso perdere d’incisività «se si dimostrasse che, contro ogni aspettativa, la distinzione tra destino-di-natura e destino-di- socializzazione non è tracciabile con chiarezza» (p. 84). Che dire per esempio di un bambino che, sportivamente o musicalmente dotato, può diventare campione di tennis ovvero brillante solista solo nel caso in cui i genitori ne riconoscano e promuovano tempestivamente il talento? Non dovrebbero i genitori intervenire comunque nella sua formazione ancora prima che il bambino sia in grado di scegliere consapevolmente l’attività cui vorrebbe dedicarsi? Oppure, in un caso analogo, ma opposto, cosa pensare di un giovane che, col passare degli anni, venga a coltivare piani di vita totalmente differenti rispetto a quelli che i genitori avevano cercato di fargli sviluppare, tanto da sentirsi in diritto di rimproverare ai genitori esercizi che ai suoi occhi avevano il sapore di vere e proprie torture? Non saremmo anche in questo caso di fronte ad un’indebita ingerenza formativa, che potrebbe avere sull’autocomprensione del giovane un’influenza altrettanto menomante di una modificazione eugenetica?

Per rispondere a queste domande Habermas parte dall’ipotesi che una tale prassi pedagogica non sia sostanzialmente distinguibile da un’analoga prassi eugenetica. «L’elemento comune consisterebbe nell’irreversibilità con cui — in entrambe le prassi — certe decisioni condizionano la direzione della storia di vita di un’altra persona […]. Benché si innestino sulla socializzazione e non sull’organismo, questi programmi di training si collocano evidentemente sulla stessa linea delle programmazioni genetiche (stante l’irreversibilità e la specificità biografico-esistenziale delle conseguenze). Ma il fatto che possano essere colpiti dalle stesse obiezioni, non ci autorizza — secondo Habermas — a servirci di una prassi per scagionare l’altra» (pp. 84-85). Se infatti possiamo rinfacciare ai genitori quelle strategie pedagogiche che potrebbero pregiudicare capacità future, a maggior ragione «l’autore di programmi genetici si esporrà all’obiezione di usurpare, per la vita della persona futura, una responsabilità che deve restare riservata a questa stessa persona, posto che la coscienza della sua autonomia non debba subire danni» (p. 85). Certi addestramenti precoci che possono risultare irreversibili e fortemente condizionanti nella vita dell’interessato possono proiettare «una luce equivoca anche su analoghe pratiche genetiche» e farci capire quanto queste possano rivelarsi moralmente invalidanti.

La replica di Habermas a questo secondo argomento mi sembra non tener conto del suo bersaglio più proprio. Una simile obiezione non mira infatti a sostenere che, essendo possibile un’influenza tanto invasiva sul futuro della persona interessata anche per via pedagogica, allora non dovremmo preoccuparci dei possibili effetti di un eventuale intervento eugenetico. L’osservazione interessante contenuta in una simile obiezione potrebbe invece essere la seguente: poiché gli effetti condizionanti e talvolta irreversibili e limitanti di certi approcci pedagogici sono almeno in parte inevitabili, e poiché essi sono quasi sempre a doppio taglio, nel senso che sono rischi che si debbono correre in ogni intervento formativo, perché dovremmo preoccuparci di tutelare un’ipotetica libertà del nascituro quando non siamo in condizioni di garantire a nessun nato da donna quella libertà naturale che vorremmo attribuirgli? Come può — in altri termini — essere tolta una libertà che è comunque destinata ad essere perduta?

Di nuovo, rinvierò anche il commento delle questioni poste in essere da quest’ultima domanda per esaminare subito la terza delle obiezioni prese in considerazione da Habermas. Per propria ammissione, la sua replica al secondo argomento funziona soltanto «se diamo per scontato che la dote prescelta dai genitori restringa l’orizzonte dei successivi progetti di vita» (p. 85). Ma cosa pensare invece d’interventi volti a migliorare certe qualità senza che comportino il rischio di dover rinunciare ad altre caratteristiche che potrebbero un giorno risultare quantomeno «gradite» ai diretti interessati? Che posizione assumere rispetto alla possibilità di prendere decisioni circa l’aspetto fisico dei nostri figli o circa un eventuale accrescimento della qualità e quantità delle loro attitudini future?

Ma anche in questo caso secondo Habermas dovremmo chiederci: «come possiamo sapere quando una certa dose allarga effettivamente i margini altrui nella progettazione della sua vita? Sono davvero in grado i genitori, pur volendo soltanto il meglio per i loro bambini, di prevedere le circostanze (e l’intrecciarsi delle circostanze) che faranno di una certa memoria brillante o di una certa intelligenza (comunque definite) una dote benefica? Una buona memoria è spesso, ma non sempre, una benedizione. Non poter dimenticare può talora divenire una maledizione. Percepire le cose importanti, così come plasmare tradizioni, presuppone una selettività del ricordo. Una overdose di memoria accumulata può talvolta disturbare il trattamento produttivo dei dati che contano» (pp. 85-86). Lo stesso si può dire, secondo Habermas, per un’intelligenza fuori dal comune, che normalmente può rivelarsi un vantaggio, ma che in taluni casi potrebbe avere effetti negativi sul carattere della persona in questione.

Ad un primo sguardo, tra tutte le contro-obiezioni di Habermas quest’ultima può sembrare la più problematica. Essa potrebbe infatti essere applicata in maniera sostanzialmente analoga di fronte all’opzione di procedere ad interventi terapeutici di tipo classico. Vi sono infatti operazioni chirurgiche, ad esempio, che pur avendo successo in un numero elevato di casi, contemplano la possibilità di un insuccesso, talvolta non privo di conseguenze infauste. Cosa dovrebbero decidere i genitori di fronte a quest’eventualità? Forse di non procedere a simili interventi? Oppure dovrebbe lo Stato scongiurarne la possibilità con una normativa mirata? Il fatto che attitudini e qualità ritenute dai più positive e desiderabili possano essere male usate o assimilate dalla personalità umana nel suo complesso costituisce una possibilità sempre presente, anche quando tali qualità sono possedute in maniera spontanea. Si dovrebbe — per non correre tale rischio, che è sempre insito nella gestione di qualsiasi qualità o capacità — rinunciare a possederla? Si ritiene davvero che di fronte alla possibilità di una scelta in tal senso una persona futura potrebbe rivendicare il diritto di non possederla?

Certo, questo caso non è affatto da escludere. Non si può affatto escludere che un figlio o una figlia possano un giorno rimproverare i genitori per aver loro fornito sembianze attraenti o un’intelligenza versatile e intraprendente, piuttosto che un brutto aspetto e un’intelligenza lenta e poco brillante. Ma cosa penserebbero quei figli degli stessi genitori se, pur potendolo fare, essi non avessero prescelto per loro queste presunte qualità? Come avremo modo di vedere, la loro reazione dipenderebbe in buona parte anche dalla circostanza in cui tale decisione dovesse essere presa. Ma è probabile che se lo Stato vietasse questo tipo d’interventi un rammarico del genere avrebbe probabilmente in ciascun figlio una risonanza minore di quanto potrebbe averne se, mentre a lui non è stata concessa una simile possibilità aggiuntiva, questa fosse stata concessa dai loro genitori ai suoi compagni di classe.

Mi pare comunque opportuno rinviare anche lo sviluppo di queste riserve ad un momento successivo, in modo da poter continuare ora a seguire passo dopo passo il filo dell’argomentazione di Habermas, il quale, prendendo spunto dai suggerimenti fornitigli da Ronald Dworkin, riassume e struttura in quattro situazioni tipiche i casi e le obiezioni già prese in esame. Nel caso a), l’intervento genetico viene compiuto da una terza persona e non dallo stesso interessato. In quest’ipotesi, il «designer» intraprende, in base a sue preferenze soggettive, una pianificazione irreversibile della vita e dell’identità dell’interessato, violando il nucleo deontologicamente garantito della sua persona. Nel caso b), l’interessato viene a sapere in maniera retrospettiva dell’avvenuto intervento prenatale. In questo caso si solleva il sospetto che in assenza d’informazione non ci sarebbe per lui alcun danno tangibile. In realtà, si tratta per Habermas solo di un tentativo inaccettabile d’eludere il problema, nascondendo al giovane un dato di fatto che lo riguarda in maniera essenziale, e che finirebbe con l’aggiungere alla programmazione genetica un inganno ulteriore. Nel caso c), l’interessato si pensa come una persona che, modificata in alcune sue singole caratteristiche genetiche, è tuttavia rimasta identica a sé stessa, al punto da poter assumere un atteggiamento ipotetico nei confronti dell’intervento genetico. In questa circostanza, l’intervento genetico verrebbe registrato dall’individuo in questione come non invasivo e condizionante la propria personalità complessiva, ma secondo Habermas la condanna morale di un simile intervento rimarrebbe ugualmente giustificata, perché è comunque ingiusto chiedere allo spirito umano, che ha una costituzione finita e non dispone di una prospettiva etica universale, dato che essa è invece sempre inscritta in quella di ogni singolo individuo, di decidere per altri stabilendo quale sia la migliore dotazione genetica per loro. Nel caso d), l’interessato rifiuta di fare proprie le modificazioni genetiche che sono avvenute, non volendo accettarle come «parte della propria persona». Quest’ultimo caso conferma agli occhi di Habermas la necessità di un previo consenso virtuale da parte dei soggetti interessati, e quindi che l’unico criterio possibile, l’unica idea regolativa valida per tracciare dei confini entro i quali un qualsiasi intervento terapeutico, anche quello prenatale, risulti moralmente ammissibile consiste nel subordinare a tale consenso qualsiasi intervento (cfr. pp. 86-90).

Rispetto a quest’ultimo criterio potremmo domandarci: come si fa a ipotizzare il consenso di una persona che non è ancora in grado di decidere in merito all’alternativa che dovrebbe essergli sottoposta? Si tratterebbe, per Habermas, di anticipare il consenso dell’interessato, ma in questa operazione, nell’impossibilità di calarci realisticamente nei suoi panni, le uniche circostanze in cui potremmo sentirci autorizzati a prendere una decisione favorevole ad un intervento genetico sono soltanto quelle in cui si tratta di «evitare mali estremi», perché solo in questo caso potremmo «attenderci un ampio consenso in quegli orientamenti di valore solitamente caratterizzati da divergenze profonde» (p. 91).

Da ultimo, Habermas prende in esame le riserve di Ludwig Siep, il quale «dubita che dalle fondate riserve contro l’eugenetica positiva si possano trarre conclusioni importanti per decidere sulla legittimità, oggi in discussione, della diagnosi di preimpianto e dell’uso sperimentale di embrioni. Questa posizione concerne i rischi connessi con la rottura dell’argine tra genetica negativa e genetica positiva, la cui importanza viene da Habermas più volte ribadita lungo tutto il saggio, nonostante l’ammissione di una certa difficoltà a cogliere con precisione tale argine. Ma quanto giudichiamo grave la rottura dell’argine? Quanto è verosimile che i passi indicati conducano verso una tale rottura?

In effetti sono in molti a considerare l’eugenetica positiva come un’opportunità piuttosto che come un pericolo. Tra questi alcuni non sono convinti dell’argomento della dipendenza alienante (come Nagel e McCarthy), mentre altri lo considerano non appropriato (come Dworkin), «in quanto giudicano legittima ogni scelta di caratteristiche genetiche che sia favorevole al bambino» (95). Ma questo dovrebbe secondo Habermas rafforzarci nella convinzione che non sia affatto oziosa speculazione il discutere sulla soglia che separa un’eugenetica negativa da una positiva, così come dovrebbe indurci a chiederci se le procedure della diagnosi di preimpianto e la ricerca sulle cellule staminali embrionali possono promuovere e diffondere atteggiamenti che favoriscono il passaggio dalla prima alla seconda.

La soglia che divide le due genetiche è segnata a suo parere dalla differenza di due atteggiamenti fondamentali. Mentre all’interno di una prassi clinica il terapeuta può comportarsi verso il paziente sulla base di un consenso ragionevolmente presupposto, nei confronti dell’embrione in quanto tale, cioè non bisognoso di un intervento terapeutico, il «designer» adotta inevitabilmente un atteggiamento di ottimizzazione e di strumentalizzazione (cfr. p. 95). Mentre nel primo caso l’embrione viene trattato come una persona futura in grado di dire di sì e di no, «nel caso della genetica positiva subentra l’atteggiamento di uno sperimentatore che — ricollegando le finalità dell’allevatore classico (migliorare le caratteristiche ereditarie della specie) alle modalità operative di un ingegnere strumentalmente progettante — finisce per trattare come semplice materiale le cellule embrionali. Naturalmente» — precisa Habermas — «noi potremo parlare di ‘piano inclinato’ (slippery slope arguments vengono detti gli argomenti dell’argine che si rompe) nella misura in cui avremo motivo di ritenere che legittimare la diagnosi di preimpianto e la ricerca sulle cellule staminali incrementi il diffondersi degli atteggiamenti relativi a un miglioramento (a) e a una reificazione (b) della vita umana prepersonale» (pp. 95-96).

Ora, il problema fondamentale da risolvere per evitare di cedere agli argomenti del piano inclinato potrebbe forse — nelle intenzioni di Habermas — essere riassunto nei termini seguenti: possiamo davvero affermare che ogni scelta da parte dei genitori che sia volta a migliorare il patrimonio genetico del nascituro non comporti il rischio di una strumentalizzazione dell’embrione ogni volta che non si limiti a scongiurare l’insorgere di malattie socialmente riconosciute come menomanti? I genitori, che vogliono un figlio tutto per loro e desiderano che venga al mondo solo se corrisponde a certi standard di qualità, non sono di fatto nella condizione, anche quando sono animati dalle migliori intenzioni, di adottare nei suoi riguardi un trattamento reificante, cioè di ridurlo a strumento dei propri desideri e progetti nei suoi confronti? Dalla risposta affermativa che Habermas tende a fornire a queste domande dipende a mio parere la sua preferenza verso il tentativo di bilanciare i diritti della libertà della scienze e della ricerca con quello dell’embrione a non subire modificazioni che lo riducano a strumento di un progetto irreversibile di terzi. Sia nel caso della diagnosi di preimpianto che in quello della ricerca sulle cellule staminali l’embrione corre infatti il rischio di essere strumentalizzato, trattato come un «mucchietto di cellule», e qualora dov’esse prevalere la liceità di quest’atteggiamento, cioè dovessero potersi adottare simili procedure al di là dei limiti imposti da una genetica rigorosamente negativa, le conseguenze morali e sociali sul futuro della natura umana potrebbero risultare imprevedibili e sconcertanti.

Per questo — come nota Leonardo Ceppa nel saggio finale del libro-, «l’idealismo della teoria morale è ciò che probabilmente spinge Habermas a enfatizzare i rischi dell’ingegneria genetica. Se la diagnosi di preimpianto e la sperimentazione sugli embrioni oltrepassano il limiti di una genetica negativa (cioè terapeutica) e clinica (cioè legata all’ipotetico consenso dell’interessato), esse vanno senz’altro vietate. Ogni forma di intervento genetico migliorativo disturba infatti l’autoriferimento morale della persona alla propria (indisponibile) dotazione genetica. Chi si scopre programmato sa di non essere più l’autore indiviso della sua storia di vita» («Postfazione», p. 120).

3. Riserve possibili sulla tesi di Habermas e sulle sue contro-obiezioni

Nel tentativo di sottoporre le tesi di Habermas ad un ulteriore esame critico, cercherò ora di porre in evidenza quei passaggi delle sue argomentazioni che a mio parere sollevano alcuni interrogativi e fondate perplessità. In primo luogo, mi soffermerò su i criteri che permettono a suo avviso di distinguere una genetica negativa da una positiva, visto che in questa differenza è individuato il limite entro cui un intervento sul patrimonio genetico del nascituro può risultare ammissibile.

Habermas sostiene (punto a) che gli interventi migliorativi sul patrimonio genetico umano possono essere adottati «solo nel caso negativo in cui si tratti di prevenire mali estremi e universalmente riconosciuti come tali». Solo in questa circostanza, esisterebbero infatti «buone ragioni per ritenere che l’interessato sarebbe d’accordo con quelle aspettative (p. 64). Ma cosa vuole dire in questo criterio l’espressione «mali estremi»? Forse che porterebbero alla morte? O anche a un dolore permanente? O anche solo a un permanente disagio? E cosa vuol dire «universalmente riconosciuti»? S’intende riconosciuti da tutti o solo da una maggioranza? E inoltre, come si fa a prevedere la futura opinione dell’interessato non ancora nato? Le difficoltà non marginali sollevate da questi interrogativi testimoniano dell’incertezza che circonda quella distinzione tra genetica positiva e negativa che occupa un ruolo primario nell’argomentazione di Habermas. Ma prima di ritornare su questo elemento cruciale della sua tesi, è forse opportuno, anche per evidenziarne la centralità, compiere un più ampio giro d’orizzonte tra le altre questioni e problematiche che con questo sono connesse

Secondo Habermas (punto b) a tutte le persone spetta un eguale status normativo, tutte debbono darsi un reciproco e simmetrico riconoscimento in quanto tutte le relazioni umane devono essere idealmente reversibili. La possibilità di un intervento genetico unidirezionale previsto da una genetica positiva inficerebbe questa condizione di base. Ma che dire allora del passato che viene donato da ogni coppia genitoriale (in quanto coppia formatrice sotto il profilo psicologico e morale, oltre che genetico) a ogni figlio? Perché considerare meno irreversibili i cambiamenti introdotti con il semplice rapporto umano, con l’attività educativa e formativa, rispetto a quelli introdotti da eventuali modificazioni genetiche? Forse Habermas attribuisce a questi ultimi uno statuto ontologico più oggettivo e determinante? E poi, siamo certi che una certa programmazione genetica possa togliere al soggetto la piena possibilità di assumersi la responsabilità morale di ciò che diviene? (Cfr. p. 17). Un figlio non potrebbe ritenere il genitore responsabile anche per il mancato intervento sul suo genoma, qualora un tale intervento avesse potuto migliorare in qualche modo le condizioni della sua vita? Qual è allora la differenza tra le responsabilità implicite nelle due scelte? Forse la prima è diretta e attiva mentre la seconda è indiretta e solo passiva? (cfr. p. 16).

Lo stesso Habermas si chiede se l’irreversibilità delle conseguenze inerenti a interventi genetici unilaterali debba inevitabilmente comportare anche «una limitazione dell’autonomia morale dell’interessato» (Cfr. pp. 65-66). Ammette infatti che tutte le persone siano, in una certa misura, dipendenti dal loro programma genetico. Ma a suo parere la dipendenza da un programma genetico intenzionalmente stabilito diventa rilevante soprattutto quando «al programmato è pregiudizialmente impedito di scambiarsi di ruolo col suo programmatore» (p. 66). Ora, in merito a quest’argomentazione si potrebbe avanzare la seguente obiezione: un simile scambio di ruolo è forse possibile per quanto concerne il rapporto formativo che intercorre tra genitori e figli? È realmente possibile per dei figli avere un’influenza sulla personalità dei genitori paragonabile a quella che questi ultimi hanno di solito su quella dei primi?

Secondo Habermas, il fatto che la genetica liberale permetta un intervento volontario dei genitori — e non solo una determinazione genetica involontaria e casuale — fa sì che i figli possano percepire i desideri degli stessi genitori nei loro riguardi come andati a buon fine, e possano quindi non considerarsi in grado di rielaborare simbolicamente e criticamente una simile forma di dipendenza, giungendo così a ritenerla, in maniera più o meno cosciente, come pregiudizievole della propria libertà individuale. Ma i figli non possono considerare come andati a buon fine anche i desideri dei genitori nei loro riguardi anche quando tali desideri si realizzano soltanto attraverso l’azione educativa? E poi, perché quest’atteggiamento dei figli dovrebbe essere considerato qualcosa di più fondato di un pregiudizio psicologico superabile? Non potrebbe trattarsi — anche in questo caso, come in quello già avvertito da tanti giovani in condizioni di procreazioni normali — di una dipendenza morale e psicologica che, illusoria o reale, potrebbe non essere comunque accresciuta in maniera sostanziale dalla consapevolezza di aver subito un intervento genetico in età prenatale, come del resto lo stesso Habermas si chiede?

I genitori sono già responsabili del fatto che qualcuno sia al mondo, nonché della sua educazione durante anni decisivi per la formazione del suo carattere e della sua personalità. Anche ammettendo che con l’affidare loro la possibilità d’intervenire sul patrimonio genetico dei figli si determini un cambiamento rilevante nell’autocomprensione morale di questi ultimi, non potrebbero verificarsi tanto un’accresciuta responsabilità dei genitori quanto un virtuale mutamento nell’aucomprensione dei figli anche nel caso in cui, essendo possibile questo tipo d’interventi, i genitori, pur potendo intraprenderli, decidessero tuttavia di non farlo? E qualora fosse lo Stato a vietarli in nome di un’etica di genere condivisa, togliendo in questo modo ogni responsabilità ai genitori, non sarebbe quest’etica sempre impugnabile sia dai genitori che dai figli, così come può essere impugnabile un qualsiasi atteggiamento censorio che, pur assecondando un’etica socialmente condivisa, potrebbe suscitare analoghe e legittime riserve da parte di gruppi significativi di cittadini?

Quest’ultimo interrogativo introduce una terza questione, che viene nel testo rapidamente proposta all’attenzione del lettore e altrettanto rapidamente risolta dall’autore. Essa potrebbe essere succintamente riassunta nel modo seguente (punto c): Habermas prende in considerazione, nel paragrafo sesto de «I rischi di una genetica liberale», piuttosto che una scelta secca tra una genetica positiva e una solo negativa, l’ipotesi di una terza via, che potremmo definire minimalista, in base alla quale potrebbe essere proprio lo Stato democratico a farsi carico della responsabilità delle scelte che — in una prospettiva liberale — spetterebbero invece ai genitori (cfr. pp. 66-67). Garantendo quella reciprocità tra generazioni che andrebbe invece dispersa in una genetica liberale, lo Stato potrebbe infatti individuare quei «mali terapeuticamente concordati» oltre i quali qualsiasi intervento genetico risulterebbe vietato, e i nuovi cittadini geneticamente modificati non dovrebbero per questo — in quanto coautori democratici della regolamentazione giuridica — sentirsi dipendenti o menomati da qualche volontà particolare. Ma qualora i casi di un possibile intervento genetico fossero individuati dalla legge e fosse quindi lo Stato a stabilire cosa è vietato e cosa è invece ammissibile, il suo intervento sulla libertà dei cittadini correrebbe il rischio di risultare politicamente troppo forte, così come il suo eventuale permesso di adottare procedure eugenetiche risulterebbe moralmente e politicamente troppo debole per i genitori che dovessero trovarsi nelle condizioni di dover decidere in merito a tali alternative. «Troppo forte, in quanto ogni definizione obbligatoria di obiettivi comuni che andasse al di là di mali terapeuticamente concordati inciderebbe — in maniera anticostituzionale — nell’autonomia privata dei cittadini. Troppo debole, in quanto il semplice permesso di adottare procedure eugenetiche non potrebbe certo sollevare i genitori dalla responsabilità morale per una scelta estremamente personale degli obiettivi, dal momento che non si potrebbe escludere l’effetto pregiudizievole di una limitazione della libertà etica» (p. 67).

Ma se in entrambi i casi una regolamentazione da parte dello Stato si rivelerebbe inadeguata o insufficiente, non comporta questa difficoltà un’impossibilità vera e propria nel tratteggiare comunque una regolamentazione della questione? E non è questa difficoltà anch’essa riconducibile a quella di distinguere in modo chiaro e non ambiguo tra una genetica positiva e una negativa, piuttosto che risolvibile mediante questo principio di demarcazione? E, soprattutto, può questa difficoltà essere superata rinunciando preliminarmente ad ogni genetica positiva? Insomma, rovesciando il problema: non bisognerebbe forse accettare l’idea che con la genetica oggi possiamo fare ciò che con l’educazione e una comunicazione naturalmente sbilanciata facciamo da sempre: agire su le giovani generazioni più di quanto queste siano in grado di agire su quelle dei loro genitori? (cfr. p. 97). Secondo Habermas può risultare difficile — senza sentirsi figli di una concomitanza unica e casuale — considerarsi un individuo, un unicum libero di dare forma al proprio destino. Ma siamo certi che non potremmo sentirci tutti figli di tale concomitanza anche nel caso di un genoma parzialmente determinato, considerando che le componenti programmate sarebbero comunque percentualmente poca cosa rispetto al numero di quelle non modificate e alla loro combinatoria complessiva? (cfr. pp. 60-61).

Non solo (punto d): Habermas sembra convinto che se non ci affidassimo più alla natura e alla sua insondabile casualità potrebbe scaturirne una concorrenza eugenetica selvaggia. In effetti, potremmo domandarci con lui quale feroce tipo di disuguaglianza potrebbe prendere forma se venisse meno quella parità tra esseri umani che deriva loro dall’essere tutti esposti a tale casualità iniziale, ma avremmo forse buon gioco nel rispondere che noi siamo già tutti immersi in una concorrenza selvaggia fin dalla nascita e che l’esserlo da prima non dovrebbe incrementare di molto di livello complessivo della lotta. Che peggioramento potrebbe infatti derivare alla situazione generale se a tutti fosse concessa la possibilità di partecipare alla stessa battaglia con strumenti più efficaci? Gli effetti complessivamente benefici del perfezionamento di una simile guerra di omnes contra omnes non potrebbero superare quelli negativi? E una conseguenza non secondaria non potrebbe essere proprio quella di avvantaggiare i più deboli rispetto ai più forti, rendendo tutti un po’ più uguali di quanto la natura non faccia spontaneamente?

L’intervento eugenetico sui feti potrebbe infatti permettere di ridurre in parte le differenze presenti alla nascita e porrebbe probabilmente gli individui in condizione di usufruire di più eque condizioni di partenza. Pur perdendo il riferimento comune ad una originaria combinazione genetica insondabile e casuale — e quindi, in questo senso, atta ad essere mantenuta come indisponibile — potremmo però guadagnare in questo modo la possibilità di procurare un miglioramento genetico esteso a tutti, e perciò anche quella di fornire a tutti una qualità di vita almeno virtualmente migliore.

4. Alcuni spunti per una provvisoria riflessione conclusiva

Alla luce di questa prolungata teoria di domande e di riserve, si potrebbe concludere che la tesi di Habermas sia fondata su argomenti poco convincenti, o quantomeno opinabili e precari. D’altra parte, pur potendo suscitare qualche perplessità, pare tutto sommato difficile il non commisurarsi con l’esigenza da cui il filosofo tedesco prende le mosse: quella d’individuare un criterio utile per regolamentare una materia che rischia altrimenti di essere lasciata pericolosamente nelle mani di singoli cittadini e dei loro soggettivi principi etici. In altre parole, per quanto sia possibile ritenersi insoddisfatti dalla linea divisoria proposta da Habermas (quella tra una genetica positiva e una negativa) per distinguere gli interventi eugenetici leciti da quelli che non dovrebbero essere ammessi, credo sia avvertibile dalla grande maggioranza di coloro che si soffermano a riflettere sui problemi posti dal suo saggio il bisogno di trovare un criterio moralmente condivisibile e politicamente praticabile per affrontarli e renderli oggetto di una legislazione adeguata.

Anche se può risultare difficile individuare un criterio migliore di quello proposto da Habermas, tuttavia, qualora rimaniamo scettici verso la sua validità o utilità, in questo caso, piuttosto che persistere nella ricerca di un criterio migliore potremmo chiederci invece quale potrebbe essere un modo alternativo per prendere qualsiasi decisione in merito ai problemi sollevati dalle tecniche eugenetiche; potremmo cioè domandarci non quale sia il criterio migliore da seguire in tale materia, ma quale sia, di volta in volta, il modo migliore per decidere, utilizzando così una domanda simile, ma non identica.

Ora, poiché qualsiasi criterio dovesse essere prescelto per una regolamentazione della questione esso dovrebbe, in ogni caso, essere approvato dai rappresentanti della maggioranza dei cittadini (almeno nell’ambito di paesi dotati di costituzioni democratiche), perché non affidare direttamente alle assemblee parlamentari il compito di stabilire fino a che punto — per esempio — i genitori possono essere lasciati liberi di decidere in merito ad un eventuale intervento genetico sui loro figli? Perché, in altri termini, non potrebbero essere proprio i rappresentanti dei cittadini a stabilire concretamente in quali casi un intervento possa essere ritenuto geneticamente propizio per i figli del futuro? In quest’ipotesi, dovrebbero essere gli stessi parlamenti nazionali — o, nel caso che un accordo sia raggiunto, eventuali assemblee internazionali — a stabilire se un auspicato miglioramento delle capacità matematiche o musicali di un bambino futuro possano — in quanto ritenute plausibilmente vantaggiose per lui — essere predeterminate geneticamente. Infatti, a quale altro principio dovrebbero in questo caso ispirarsi i parlamentari se non ad uno che sia condiviso almeno da una maggioranza della popolazione da loro rappresentata? Solo in questo caso i rappresentanti del popolo avrebbero sia il diritto etico, sia l’interesse politico, a emanare una regolamentazione che sia la più rispettosa possibile del parere della maggioranza, e nessuna motivazione può forse fornire politicamente una garanzia maggiore dell’abbinamento di questi due fattori.

In effetti, se noi ci domandassimo non quale potrebbe essere il criterio migliore, ma quale potrebbe essere il modo migliore per stabilirne uno accettabile, e se rispondessimo semplicemente dando la parola al criterio maggioritario, tutti gli argomenti favorevoli o sfavorevoli alle varie tesi e teorie bioetiche (compresa quella di Habermas) dovrebbero prima confrontarsi pubblicamente e poi rispettare la decisione finale o dei rappresentanti dei cittadini o direttamente di loro stessi, dato che potrebbero esprimersi a riguardo anche attraverso appositi referendum. Questa banale soluzione potrebbe sembrare addirittura scontata e superflua se partiamo dal presupposto che un simile dibattito non possa in fondo essere risolto altrimenti in nessun paese democratico e, soprattutto, se ci rammentiamo di come la discussione in atto concerna il criterio da adottare proprio per fornire qualche strumento utile al fine di sciogliere i nodi che tale dibattito sta ponendo sotto gli occhi non solo di tutti i cittadini, ma anche di tutti i governi.

Ma l’ovvietà e l’inutilità della soluzione mi sembrano solo apparenti. Non sto infatti suggerendo semplicemente di scavalcare il problema rimettendolo all’opinione della maggioranza e dei suoi rappresentanti politici, ma di anteporre al problema della scelta di un criterio plausibile una domanda che con tale scelta è incondizionatamente connessa, e cioè la seguente: chi deve decidere? L’esigenza di anteporre una simile domanda ai problemi che Habermas si pone nel suo saggio deriva del resto dalla constatazione che il dibattito che si sta svolgendo in tutto il mondo su queste tematiche è ben lontano dall’aver raggiunto un soddisfacente livello di concordanza tra le diverse impostazioni e i diversi approcci teorici ed etici. Nessuna delle tesi fino ad oggi proposte — e tutto sommato, probabilmente nemmeno quella di Habermas — è riuscita a convogliare su di sé i consensi di persone originariamente schierate su altre posizioni. Anzi, l’impressione è che, in questa materia, il numero di coloro che sono propensi a mutare atteggiamento sia — almeno nel breve periodo — piuttosto scarso.

Naturalmente, la tesi di Habermas in fondo si proponeva proprio questo: fornire un utile strumento di riflessione a cittadini e governi. Ma per sua stessa ammissione questi ultimi non potrebbero farsi carico d’imporre alcuna decisione tranne quella — l’unica a suo avviso razionalmente sostenibile — di rinunciare ad ogni forma di genetica positiva. Un eventuale imposizione in tal senso risulterebbe infatti politicamente o troppo forte o troppo debole. Ma chi altri, se non i governi dei diversi paesi e i rispettivi parlamenti, singolarmente o unitariamente (differenza tra l’altro non trascurabile), dovrebbe farsi carico di decidere in merito, anche assecondando eventualmente la posizione dello stesso Habermas? Il minimalismo etico estremo di questa proposta «scontata» non solo non comporterebbe la rinuncia ad assecondare tale posizione, ma renderebbe indispensabile quel confronto e quell’azione comunicativa che potrebbero permetterle di conseguire, ad un tempo, quel consapevole consenso morale e quella legittimità politica che potrebbero renderla, agli occhi dei cittadini, né troppo debole né troppo forte, in quanto prescelta con l’unico metodo che li consideri realmente come pari.

Qualsiasi tesi dovesse prevalere nell’opinione pubblica potrebbe quindi essere trasformata in un provvedimento legislativo seguendo la procedura seguita da tutte le altre, oppure per via referendaria; ma la sua approvazione dovrebbe innanzitutto, data la sua evidente rilevanza per il futuro della natura umana, essere preceduta da un dibattito approfondito e capillare che coinvolga realmente tutti i cittadini interessati. Inoltre, «l’agire comunicativo» richiesto da questa procedura potrebbe costituire anche un precedente importante per prendere coscienza del ruolo che lo stesso agire comunicativo assume, o dovrebbe assumere, in ogni società democratica almeno su temi tanto cruciali. In questo modo, qualsiasi tesi dovesse alla fine prevalere, essa sarebbe scaturita da un esame approfondito, che nulla lascerebbe d’intentato per evitare l’adozione di soluzioni di comodo o pericolose.

Purtroppo, è comunque giocoforza ammettere che una simile impostazione del problema — che probabilmente lo stesso Habermas, così come la maggioranza degli studiosi di bioetica, darebbero per ovvia e scontata — non ci fa fare un solo passo avanti verso la sua concreta soluzione. E allora, a questo riguardo, è forse opportuno procedere con un’osservazione conclusiva di carattere generale. Ogni teoria etica può essere ritenuta più o meno giusta da singole persone o da gruppi di cittadini e da sempre è particolarmente arduo — diciamo così, per usare un eufemismo — trovare il consenso desiderato su argomenti del genere. Ma ogni teoria etica annuncia in ogni modo la costruzione e l’orientamento di una certa visione dell’uomo e del mondo, una prospettiva sulla vita futura di ognuno e sulla comprensione che ognuno potrà avere di sé e del proprio operato. Il lavoro filosofico — così come lo stesso «agire comunicativo» di cui parla Habermas in alcuni testi cardinali per la delucidazione della sua filosofia — possono rendere gli esseri umani più consapevoli di tale prospettiva e del destino che vi si può scorgere. Probabilmente non è molto, e quasi certamente non è abbastanza, ma questo è l’unico contributo certo che la filosofia sia mai stata capace di fornire all’umanità.

Al termine di tale lavoro, che essendo interminabile non teme la possibilità di non poter cambiare repentinamente rotta più volte durante il tragitto, non arriveremo probabilmente ad una soluzione razionalmente condivisa da tutti, ma qualsiasi soluzione avremo preso sapremo forse un po’ meglio verso quale mondo, di delizie o di misfatti, ci stiamo dirigendo per nostra scelta, e che quel mondo non sarà in fondo che lo specchio della nostra ragione, più o meno assonnata, e del nostro spirito, che per quanto incerto e variegato non potrà non assumersi, ad ogni passo del suo percorso, le proprie responsabilità verso sé stesso e la sua vita futura.