1. Enigmaticità dell’uomo e ricerca di un nuovo punto di vista sulla natura
All’origine dell’antropologia filosofica del Novecento c’è l’enigmaticità dell’uomo. Nella celebre conferenza tenuta il 28 Aprile del 1927 alla «Scuola di saggezza» di Darmstadt, su invito di H. Keyserling, Max Scheler esplicita molto bene i motivi della nascita dell’antropologia filosofica constatando che di fronte alla crisi delle tre principali concezioni dell’uomo europeo — quella di origine ebraico-cristiana (l’uomo come immagine di Dio), quella greco-filosofica (l’uomo come animal rationale) e quella scientifico-evoluzionistica (l’uomo come vertice della scala biologica) — «in nessuna epoca storica l’uomo è risultato tanto enigmatico a se stesso come in quella attuale».1 Con una diagnosi destinata ad assumere un valore epocale, Scheler osserva che da un lato l’annuncio nietzschiano della morte di Dio ha archiviato quelle metafisiche del dominio che pretendevano di consegnare l’uomo a una qualche definizione conclusa e apodittica, dall’altro l’immensa mole d’informazioni sull’uomo, che la ricerca scientifica continuamente mette a disposizione, se comporta straordinari progressi su specifici temi, lascia tuttavia irrisolta o, se possibile, rende ancora più problematica la questione circa il significato complessivo dell’esistenza umana.
A distanza di anni, e precisamente a partire dal 1990, molte speranze vennero riposte nello Human Genome Project. Anche senza condividere le polemiche conclusioni del genetista Richard Lewontin — secondo cui «ora che abbiamo la sequenza completa del genoma umano, appunto non sappiamo nulla di più di quanto già non sapessimo in precedenza su che cosa significa essere uomini»2 — si può convenire che i risultati di tale progetto, lungi dal confermare i principi della genetica deterministica del Novecento, hanno finito col metterla definitivamente in crisi.3 Ci si troverebbe di fronte a una di quelle classiche rotture epistemologiche della scienza, in cui l’interpretazione dei risultati ha l’effetto di rompere la continuità con il paradigma originale mediante cui quegli stessi risultati erano stati ottenuti. Non si tratta certo di negare alla scienza la capacità di dare risposte significative sull’enigma umano, ma di contestare che a farlo possa essere una scienza positivista indisponibile a quella che, con Prigogine, si potrebbe chiamare una «nuova alleanza» fra scienze della natura e scienze dell’uomo.
L’esigenza di stabilire una nuova alleanza fra scienza e filosofia, sulla base di un nuovo concetto di natura, non era del resto estranea neppure a quell’antropologia filosofica abbozzata a grandi linee da Scheler nella suddetta conferenza del 1927, la cui prima mossa consiste infatti nel posizionare l’uomo all’interno di una natura che, non essendo più riducibile ai paradigmi della meccanica classica, viene designata da Scheler con il termine «cosmo». Una passo che comporta strategicamente la rinuncia a cercare una caratteristica dell’uomo fissa e autoreferenziale (la ragione, il linguaggio, l’autocoscienza, ecc.) e che in tal modo segnala la distanza dalle filosofie di ispirazione trascendentale e idealistica, ma anche da tutto un ambito metafisico e teologico, che si era dedicato con acribia a dedurre l’uomo da un principio contrapposto alla sua concreta posizionalità, declinandosi poi nel corso dei secoli nelle più svariate forme del dualismo di psyche e soma, idealismo-materialismo, meccanicismo e finalismo. Ma «La posizionalità dell’uomo in una natura non riduttivisticamente concepita» (così si potrebbe tradurre il titolo della celeberrima conferenza di Scheler), sfugge pure a quella ricerca scientifica che pone sì l’uomo in rapporto con la natura, ma appunto solo sulla base di un concetto deterministico di natura.
Il problema all’origine dell’antropologia filosofica non è, come a volte è stato suggerito, quello di comprendere l’uomo a partire da qualcosa di esterno al mondo, quasi a ricadere in quello che John McDowell ha definito un «platonismo sfrenato»,4 ma di sviluppare un concetto di mondo capace di armonizzare le diverse forme di sapere scientifico e filosofico fino a includere la posizionalità eccentrica di Plessner o quella che sempre John McDowell ha chiamato Bildung della «seconda natura». Anche la Weltoffenheit, termine coniato da Scheler, non è qualcosa di esterno al mondo, ma l’aprirsi all’apertura del mondo, cioè il modo di essere della posizionalità dell’uomo dentro il mondo. L’equivoco sorge quando non si distingue fra chiusura ambientale e mondo: l’uomo è il gesto con cui la vita trascende la chiusura ambientale per approdare nella realtà tutta terrena dell’apertura al/del mondo. Dal momento che i confini della natura e della chiusura ambientale non collimano esattamente fra loro, l’ex-centricità non significa avere il proprio centro al di fuori della natura, ma solo al di fuori della chiusura ambientale.
Ebbene fra il 1925 e il 1928 era difficile per chi, come Scheler, era interessato a ricercare un nuovo punto di vista sulla natura, l’organismo, la corporeità e l’uomo, non rimanere suggestionato dal crollo della meccanica classica e dalla sfida antideterministica che si stava concretizzando in Germania con la meccanica quantistica. A testimonianza di tale sensibilità Scheler nota come sia «di estrema importanza, anche per la problematica biologica, che ci si sia resi conto che a livello atomico manchi una “legge” capace di determinare univocamente l’accadere e che il principio di energia, così come il secondo principio della termodinamica, possieda solo un carattere statistico» (Scheler GW XI, 239).5 È proprio di fronte a questi mutamenti che Scheler sente il bisogno di ripensare radicalmente il paradigma teleologico, prendendo nettamente le distanze non solo dalla sua applicazione nelle varie filosofie della storia, ma pure dal tentativo di ripensare in base a esso le nuove categorie della biologia, come proposto da Hans Driesch quando, a conclusione delle sue ricerche sui ricci di mare, ipotizzò l’influenza di un fattore non fisico, l’entelechia, sulla rigenerazione e regolazione delle forme degli organismi viventi. Scheler invece ripensa il telos nel senso di un processo teleocline (dal neologismo «teleoklin»)6 che, coerentemente all’ipotesi delle ideae cum rebus, non solo risulta privo di un qualche fine prestabilito, ma il cui processo rimane imprevedibile. Dunque uno sviluppo aperto che sembra ricordare più il clinamen di Lucrezio, che la teleonomia di Jacques Monod. La teleonomia infatti, in senso rigoroso, è il risultato di un programma algoritmico, che quindi sfocia in una genetica deterministica, mentre il processo teleocline include anche forme di auto-organizzazione capaci di riprogrammarsi spontaneamente.
L’antropologia filosofica non si limita tuttavia a importare meccanicamente categorie concettuali elaborate dalla scienza, ma ha la pretesa di ripensarle alla luce di un proprio punto di vista, imperniato principalmente sul concetto di unicità e individualità. Al centro dell’antropologia filosofica si ritrovano le categorie di auto-organizzazione, individualità e interazione ambientale. Questo sia nella citata conferenza di Scheler (pubblicata dapprima su rivista nell’estate del 1927 e poi autonomamente nel 1928, con la sola aggiunta delle tre pagine di Prefazione) sia nel testo di Helmut Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, del 1928.7 Ma da dove provengono queste tre categorie?
2. Alle origini della fenomenologia della corporeità
L’origine dell’antropologia filosofica di Scheler va ricercata nella filosofia della natura di Schelling, e questa a sua volta rinvia al famoso § 65 della Critica del giudizio di Kant. È questo il legame recondito, ma anche quello più fecondo, fra l’antropologia kantiana e l’antropologia filosofica del XX secolo: il posizionamento dell’uomo nella natura viene ripensato da Schelling a partire dalla categoria kantiana di auto-organizzazione, e sviluppato nel senso di una Stufenfolge della natura. Il concetto di auto-organizzazione svolge, assieme a quello di individualità e di «duplicità organica», un ruolo centrale nella Naturphilosophie di Schelling.8 Fino a qualche decennio fa la Naturphilosophie di Schelling godeva di una pessima reputazione. Del resto nel 1844 il biologo Matthias Jakob Schleiden (fondatore assieme a Theodor Schwann e Rudolf Virchow della teoria cellulare) l’aveva criticata senza mezzi termini come esempio icastico di aberrazione filosofica.9 La situazione è tuttavia inaspettatamente cambiata alla fine degli anni Settanta in concomitanza con l’affermarsi del nuovo paradigma della complessità e della teoria del caos di Prigogine.
È vero, nel tentativo d’individuare un’alleanza fra scienza e filosofia, Prigogine manifesta la sua predilezione per la filosofia della natura di Lucrezio, Bergson e Whitehead, senza citare Schelling,10 tuttavia la sua concezione di fondo, volta a superare il dualismo fra necessità della natura e libertà dell’uomo, richiama implicitamente proprio il concetto schellinghiano di vita come «schema della libertà».11 Così negli anni Ottanta, la studiosa tedesca Heuser-Keßler, partendo dal concetto di produttività della natura, cercò dapprima di mettere in evidenza l’originalità del concetto schellinghiano di auto-organizzazione nei confronti di Kant, e successivamente confrontò le posizioni di Schelling con quelle di Prigogine, mettendo in luce alcune rilevanti convergenze. Ne nacque un acceso dibattito volto a verificare la possibilità di ricondurre a Schelling alcuni concetti basilari della fisica e della nuova teoria dei sistemi, come quello di complessità e di auto-organizzazione.12
Più diretto e documentabile (ma finora passato inosservato) è l’influsso che il concetto schellinghiano di auto-organizzazione ha avuto sull’antropologia filosofica di Scheler e di Plessner. Nel tentativo di approfondire una prospettiva non riduzionista sui fenomeni vitali, Scheler si muove in una direzione diversa da quella di Hans Driesch, come traspare dalla Biologievorlesung tenuta all’Università di Monaco nel semestre invernale del 1908/1909.13 Qui emerge l’idea secondo cui i fenomeni vitali sono irriducibili al concetto di cosa (Ding) e di corpo (Körper)14 in quanto caratterizzati dall’essere «psico-fisicamente indifferenti».15 La svolta si espliciterà tuttavia solo fra il 1913 e il 1914, grazie al decisivo incontro con le ricerche del biologo Jakob Johann von Uexküll. È da qui che nasce storicamente la fenomenologia della corporeità. Scheler distingue rigorosamente il corpo vivo (Leib) dal corpo fisico esteso nello spazio (Körper): il Leib (che già etimologicamente si richiama a Leben) palpita e vibra di una intenzionalità pulsional-affettiva. Riconoscere al Leib la vita significa attribuirgli la capacità di esprimere un punto di vista proprio mediante cui orientare il posizionamento nell’ambiente.
La «rianimazione» del corpo vivo ha come immediata conseguenza l’estensione dell’intenzionalità ben oltre quella coscienza elaborata da Husserl in Idee I, e inoltre il radicale ripensamento delle filosofie della percezione che si rifacevano al dualismo cartesiano e all’Estetica trascendentale kantiana. Se la sensazione non viene organizzata dalle forme pure dell’intuizione e dalle categorie intellettuali, ma è funzionalizzata dal modo in cui pulsa la corporeità, se le stesse forme di spazio e tempo diventano «schemi corporei», allora la percezione sensibile trova il suo punto di riferimento nell’interazione ecologica e l’organismo risulta in grado di rielaborare semioticamente la sensazione senza bisogno di passare attraverso la sintesi trascendentale kantiana e la Vorstellung. Altrimenti come potrebbe un organismo sprovvisto dell’intelletto kantiano decifrare gli stimoli ambientali e spostarsi nell’ambiente in modo efficace?
Negli Idola dell’autoconoscenza (1911-1915) è proprio l’esistenza del corpo vivo a costituire per Scheler la migliore prova dell’infondatezza della distinzione fra res cogitans e res extensa: «la costruzione di Descartes si disintegra totalmente se guardiamo al corpo vivo, il quale non trova nessun tipo di collocazione» all’interno del dualismo cartesiano.16 Nel Formalismus (1913-1916), criticando Mach e Avenarius, la particolarità del corpo vivo viene invece individuata nel suo essere irriducibile alla distinzione fra psichico e fisico. È la tesi, già incontrata, sul carattere «psico-fisicamente indifferente» del corpo vivo che assumerà in Scheler un significato declinabile nel senso della psicosomaticità.
Ma per l’esplicitazione della fenomenologia della corporeità sarà necessario un ulteriore passaggio. Fino al 1922 il quadro di riferimento concettuale rimane ancorato alla correlazione fra Leib e Umwelt, sviluppata nel senso dell’ecologismo di von Uexküll, e alla correlazione persona e mondo, pensata a partire dal modello dell’eccedenza agapica cristiana. Si tratta di due correlazioni che si rapportano fra di loro in modo dualistico. Perché questo quadro entra in crisi? L’ipotesi interpretativa (che qui mi limito a riassumere avendola già esplicitata in vari scritti)17 è che la svolta del pensiero scheleriano, collocabile nel biennio 1922-1923, sia stata profondamente influenzata da Schelling. Dopo il 1923 l’antropologia filosofica di Scheler diventa il tentativo di sviluppare la fenomenologia della corporeità e l’ontologia della persona all’interno di una prospettiva molto vicina a quella delineata dall’ultimo Schelling, volto a superare esplicitamente l’Idealismo e il Realismo (tentativo che ispira anche il titolo di un saggio di Scheler). La vita è individualità che si sviluppa in un processo di livelli successivi (Stufenfolge) di autoreferenzialità, mentre l’uomo è il gesto che rovescia la logica oppositiva della vita inaugurando il nuovo terreno empirico dell’ex-centricità.
È a Schelling inoltre che va fatta risalire pure la paternità della categoria antropologica di ex-centricità, non a Scheler, che usa occasionalmente (nel 1925 e nel 1927) il termine nella forma di «weltexzentrisch»,18 e neppure a Plessner, a cui però va senz’altro riconosciuto il merito di aver esplicitato in modo efficace la fecondità del termine, determinandone il successo. Al di là delle violente polemiche è anzi possibile individuare proprio qui un’importante terreno di convergenza fra Scheler e Plessner: la posizionalità dell’uomo è ex-centrica nel senso di porsi al di fuori della logica dominante nella chiusura ambientale, ma contemporaneamente l’essere ex-centrico implica il costituirsi solo in relazione alla centricità organica e il non poter prescindere da essa. L’ex-centricità è dunque cosa ben diversa dal dualismo. Una precisazione che non andrà dimenticata quando si tratterà di sviluppare un’ontologia della persona.
Nell’ultimo periodo di Scheler questa prospettiva schellinghiana dà nuovo respiro a tutta la fenomenologia della corporeità. L’interrogativo che rimaneva aperto nel periodo intermedio era quello relativo a una psichicità che, essendo fondata dal corpo vivo, non aveva scambi con uno spirito confinato nella persona. Ora invece la psichicità viene identificata con la stessa vita e ricompresa all’interno di una teoria della sublimazione delle energie verso i fattori spirituali. Da questa nuova posizione Scheler può osservare che la semplificazione cartesiana ha deviato non solo i filosofi ma pure gli scienziati, inducendoli a condensare tutta la «psichicità» nel sistema nervoso centrale. Auspicando una svolta, Scheler nel 1927 nota che è tutto il corpo vivo che «torna prepotentemente a essere quel campo fisiologico parallelo dei fenomeni psichici, che finora era stato limitato al cervello. Oggi non si può più parlare seriamente di una connessione esterna fra una sostanza psichica e una sostanza corporea così come era stato ipotizzato da Descartes. Si tratta al contrario di un’unica e medesima vita che nel suo «esser-interno» assume la forma dello psichico e nel suo esser-in-relazione-all’altro assume la forma del corpo vivo».19 Per questo «opponendoci nella maniera più risoluta a tutte queste teorie noi affermiamo che da un punto di vista ontologico il processo vitale fisiologico e psichico risultano rigorosamente identici».20 Conseguentemente anche «gli atti spirituali devono possedere una correlazione fisiologica e psichica, infatti essi traggono tutte le loro energie attive dalla sfera della pulsione vitale, tanto che senza una qualche «energia» nessun atto spirituale potrebbe manifestarsi alla nostra esperienza, neppure all’esperienza interiore. Dunque la vita psico-fisica forma indubbiamente un tutto unitario».21
Del resto come spiegare altrimenti il classico problema della causalità mentale? Se il mio braccio non è carne che pulsa psichicamente, ma solo un «pezzo di materia» o meglio una leva da azionare, come può una mia intenzione mentale causare il suo concreto movimento? Scheler può così sottolineare «l’errore fondamentale di Descartes: l’aver misconosciuto completamente il sistema pulsionale nell’uomo e nell’animale. È solo tale sistema che costituisce la mediazione e l’unità fra ogni autentico movimento vitale e il contenuto della coscienza».22 Se il corpo vivo è creatore degli «schemi corporei» di Paul Schilder (Körperschema o body-image) dimostra di essere un «corpo immaginifico», capace di pulsione, volontà, immaginazione.
È proprio partendo da questa psicosomaticità che Scheler propone un riequilibrio (Ausgleich) fra l’unilaterale impostazione della medicina occidentale, orientata prevalentemente a un intervento fisico (chirurgico) o farmacologico, e di quella orientale, concentrata nelle tecniche volte a neutralizzare, dall’interno, il dolore fisico: l’«unità delle funzioni psichiche e fisiche è un dato di fatto che vale incondizionatamente per tutti gli esseri viventi, quindi anche per l’uomo. […] Il fatto che a noi occidentali sembri più facile agire sui processi vitali dall’esterno piuttosto che attraverso un’opera psichica sulla coscienza non deriva necessariamente da un’effettiva separazione fra il piano psichico e fisico, ma si basa piuttosto su di un interesse unilaterale che per secoli ha dominato la medicina occidentale: prova ne sia che la medicina indiana manifesta all’opposto un’impostazione eccessivamente psichica non meno unilaterale».23
3. Due concetti su cui puntare: formazione (Bildung) ed esemplarità (Vorbild)
Ordo Marquard (riferendosi essenzialmente a Plessner) ritiene che l’antropologia filosofica offra la possibilità di svincolarsi dai vetusti moduli di razionalità della filosofia della storia all’interno di una più ampia Wende zur Natur.24 Nella tesi dell’homo compensator Marquard individua nelle scienze umane, e in particolare nell’estetica, la capacità di compensare il progressivo svuotamento di senso e di valori provocato dal disincanto del mondo. Ciò che distingue Marquard da Scheler è il tentativo di comprendere la creatività culturale compensatoria non in riferimento a una qualche dimensione di trascendenza ma nel quadro della dimensione dell’ironia scettica e dell’apologia del caso. Scheler invece vedeva proprio in un riferimento ulteriore alla trascendenza l’unica possibilità di salvarsi dall’autoreferenzialità e da quello che riteneva essere un atteggiamento estetizzante: «la formazione non è «voler fare di sé un’opera d’arte», non è intenzione narcisisticamente rivolta a sé […]. È l’esatto contrario di questo artificioso godimento di sé, il cui culmine è il “dandismo”».25
Quello che invece accumuna è la rinuncia a dedurre l’uomo da un’essenza predefinita. In Scheler la persona non può essere concepita come il compito di realizzare un’essenza potenziale già definita. In questa direzione nello scritto sull’Ausgleich del 1927 Scheler può affermare che l’uomo rimane un sistema aperto che si è palesato di natura enormemente plastica. Non esiste un’essenza dell’uomo che possa essere intuita apoditticamente per il semplice fatto che all’uomo sta stretta qualsiasi definizione. L’uomo si palesa come il gesto con cui la vita trascende se stessa, qualsiasi forma tale gesto possa assumere: spazio dunque «all’uomo e al suo movimento essenzialmente infinito, senza fissarlo a un «modello» o a una sua figura, di carattere storico-naturale o storico-cosmico che sia!».26 Un’idea questa che Scheler riassume nel concetto di Allmensch, l’uomo-globale che, in contrapposizione allo Übermensch di Nietzsche, è capace di accogliere su di sé tutti gli aspetti polimorfici dell’esser uomo che si sono succeduti nel corso della storia, ma senza volerne assolutizzare alcuno e rinunciando quindi a ogni forma di antropomorfismo.
Questi e altri scritti di Scheler vennero raccolti insieme e pubblicati postumi nel 1929 con il titolo Philosophische Weltanschauung. Qui a mio avviso è rintracciabile il nucleo di un’antropologia filosofica della Bildung per diversi aspetti alternativa a quell’antropologia filosofica del Geist che può essere legittimata da una certa lettura di La Posizione dell’uomo nel cosmo. Un’antropologia della Bildung rinvia a sua volta al fenomeno del Vorbild o esemplarità. Per Max Scheler l’esemplarità è il vero centro propulsore dell’etica materiale dei valori, svolge un ruolo primario nella filosofia della religione esposta in Vom Ewigen, nella teoria della funzionalizzazione, nella sociologia del sapere e delle élites e si trova al centro dell’importante saggio Modelli e capi.27 Il problema dell’esemplarità finora non ha avuto una particolare fortuna fra gli interpreti di Scheler, eppure tutto il Formalismus andrebbe riletto proprio alla luce della tesi, emergente nelle ultime pagine del capolavoro di Scheler, secondo cui l’etica non ha a che fare con la ricerca di una norma o di un dover essere universali a cui conformarsi, ma piuttosto con l’esemplarità. L’esemplarità rappresenta infatti per l’etica materiale dei valori di Scheler ciò che il dover essere è per l’etica formale di Kant. Senza mettere a fuoco il concetto di esemplarità risulta pertanto incomprensibile il passaggio dall’etica formale kantiana all’etica materiale di Scheler.
La formazione della persona presuppone un’esemplarità che abbia già aperto il cammino. Che abbia inaugurato nuovi orizzonti. Qualcuno viene afferrato da una esemplarità quando sente di potersi sviluppare o addirittura rinascere «dentro» lo spazio conquistato da un particolare modo di vivere, da un gesto, da un’espressione o da un’opera d’arte. Quando trova nell’esemplarità quello spazio ulteriore che in lui si era bloccato. È il momento centrale dell’analisi di Scheler sviluppata in Modelli e capi: è tutto l’essere e la struttura del sentire della persona del seguace che vengono trainati e sospinti a crescere dentro la struttura dell’esemplarità. L’esemplarità trae infatti la propria forza dall’offrire, sulla scia del proprio sviluppo, uno spazio ulteriore di crescita all’essere del seguace: alla base dell’esemplarità è sempre rintracciabile un ordine e una struttura di valori particolarmente riusciti, che si libra di fronte al seguace di modo che il suo essere personale possa trovare un nuovo e ulteriore spazio di crescita e di riconfigurazione all’interno di questa forma. Consapevolmente o inconsapevolmente, il seguace trova in essa la misura oggettiva del proprio essere, della riuscitezza o meno del proprio vivere: si approva o disapprova al cospetto di tale esemplarità.
È nell’offerta di questo spazio ulteriore che si delinea un concetto «aurorale» di esemplarità. L’esemplarità diventa l’occasione in cui il seguace trova lo stimolo e lo spazio per rinascere dando forma al proprio «dover essere individuale»: «le esemplarità non sono oggetti che richiedono imitazione o cieca sottomissione, come si ritiene così di frequente in questa nostra terra tedesca bisognosa di autorità; le esemplarità sono piuttosto precursori che ci spingono ad ascoltare la chiamata della nostra persona; sono semplicemente aurore che annunciano il giorno di sole, vale a dire, fuor di metafora, quella coscienza morale e quella legge che sono nostre in modo individuale».28
La connessione esplicita e organica fra i termini Vorbild e Bildung avviene nel saggio Le Forme del sapere e la formazione. Qui si afferma che «lo stimolo più efficace e potente della Bildung» è il Vorbild valoriale di una persona.29 «Che cosa si deve aggiungere dall’esterno per farci accogliere attivamente la chiamata della nostra destinazione, la richiesta silenziosa di questa immagine, rispetto alla quale ci facciamo tanto più piccoli, quanto più la avviciniamo? Moltissime cose […] ma la prima e la più importante tra esse consiste nell’esemplarità assiologica offerta da una persona che si è conquistata il nostro amore e la nostra ammirazione».30
La forza di queste strutture valoriali esemplari deriva dal fatto di preparare «al cammino avendolo già compiuto, di illustrare e chiarire a ogni uomo la propria destinazione: commisurandoci a tali esemplarità, possiamo combattere per elevarci a noi stessi».31 Sono esemplari in quanto sono state capaci di procedere nel processo di formazione sciogliendo nodi e superando ostacoli di eccezionale difficoltà, nei cui confronti non è cioè ancora disponibile un sapere nella forma della tradizione. La persona esemplare, con il semplice fatto di esistere e di essere oltre quegli ostacoli che paralizzano il seguace, trasmette il balzo in avanti necessario a superarli.
Proprio in quanto forza volta alla trasformazione della struttura del sentire, e dell’orientatività dell’amare, le esemplarità e le contro-esemplarità si rivelano, nel bene e nel male, le forze più originarie e potenti di ogni divenire e cambiamento etico: «il principale veicolo di ogni cambiamento del mondo etico».
4. La funzione trasformativa dei valori
Per esplicitare la connessione fra esemplarità e formazione è importante chiarire meglio che cosa s’intende con valore e recezione di valore. Il concetto di valore, così come veniva criticato da Heidegger, è ormai da tempo irrimediabilmente screditato. Tuttavia la fenomenologia dell’esemplarità e della formazione hanno messo in luce che la costituzione dell’identità personale avviene attraverso una presa di posizione nei confronti di valori significativi per l’esistenza umana. Che cosa s’intende qui con valore? Tempo fa ho proposto di abbandonare le interpretazioni sul concetto di valore che tendono a considerarlo solo dal punto di vista della percezione dell’oggetto, quasi fosse un attributo o una qualità che il soggetto coglie dopo aver messo a fuoco un oggetto. Si tratta di considerare non solo la prospettiva per cui il valore è percepito nel fenomeno, ma anche quella secondo cui è il valore a rendere possibile la percezione del fenomeno.
Nonostante innumerevoli ambiguità, in Scheler è possibile ritrovare un concetto di valore alternativo a quello criticato da Heidegger. La definizione centrale del concetto scheleriano di valore è sicuramente quella secondo cui il valore precede il suo oggetto, è il primo messaggero (Bote) della sua particolare natura. Là dove il dato empirico non è ancora dato come una rappresentazione (Vorstellung), il valore dell’oggetto è già dato in modo chiaro e preciso. In realtà si può osservare che il valore non solo annuncia il proprio oggetto (ricordando la funzione intermediatrice di Ermes, il messaggero degli Dei), ma funzionalizza la sua manifestazione. Non si limita a trasportare ermeneuticamente messaggi, ma dirige il processo stesso di espressività del fenomeno. Mentre il valore funzionalizza il manifestarsi del fenomeno, la qualità di valore, colta nel fenomeno, funzionalizza la percezione del fenomeno.
Quello che aveva inizialmente attirato la mia attenzione è che Scheler non considera i valori fenomeni, ma protofenomeni (Urphänomen).32 Si tratta di un passo fondamentale perché definire il valore in termini di Urphänomen e non di Phänomen significa mettere in luce che il valore fa parte dell’esperienza come proto-datità (Urgegebenheit): è antecedente alla Gegebenheit del fenomeno stesso in quanto ne orienta il venire alla luce. Non è un attributo o una proprietà, che si coglie in un secondo tempo nella datità contingente di un determinato fenomeno, bensì una Urgegebenheit precedente la Gegebenheit stessa. Non si può pertanto applicare a Scheler la contrapposizione kantiana fra a priori ed empirico: per Scheler la funzione apriorica materiale dell’Urphänomen e dei «dati essenziali» viene a coincidere con la funzionalizzazione di nuove esperienze ma poi interagisce retroattivamente con tali esperienze riprogrammandosi, laddove in Kant il condizionamento è solo dall’a priori all’esperienza. In altri termini in Scheler l’apriori materiale dell’individuo — ad es. l’ordo amoris — è un apriori sui generis che non ha nulla a che fare con l’a priori di Kant, separato dall’esperienza.33
I valori non sono pertanto oggetti o proprietà ideali, ma gli orientatori del processo espressivo con cui un fenomeno viene a datità, capaci quindi di determinare la qualità dell’espressività di un fenomeno e la sua percezione. Forniscono un orientamento essenziale a ogni percorso espressivo e in particolar modo alle aspirazioni e ai bisogni di crescita e di realizzazione della persona, contemporaneamente è proprio nel prender posizione nei confronti di questo orientamento che il singolo costituisce la propria identità esprimendo un proprio punto di vista. Tale presa di posizione valoriale, che come detto si concretizza in uno specifico ordo amoris, determina il raggio di rilevanza e quindi l’interesse alla base dell’atto percettivo.
In questa prospettiva le diverse classi di valore rappresentano altrettanti gradi crescenti di apertura al mondo e altrettanti livelli di qualità del sentire. Risultano cioè funzionare come un «diaframma esistenziale» capace di regolare la qualità della trasformazione e della crescita personale.34 La zecca di von Uexküll regola la propria esistenza in base alla classe dei valori dell’utile-dannoso, la persona invece in base a una classe di valori molto particolare perché capace di sospendere ogni filtro selettivo e di aprirsi completamente al mondo, riuscendo a guardare oltre il proprio egocentrismo. Questo significa che una classe di valore è tanto più alta quanto maggiore è l’apertura al mondo e la ricchezza del processo trasformativo che promuove. Inoltre eticamente corretta non sarà la scelta di un valore in sé, ma la scelta del valore (fra quelli sussistenti all’interno di un determinato contesto) che consenta l’apertura maggiore.35 Se questo è vero, si può affermare che paradossalmente l’etica materiale dei valori di Scheler costituisce la gerarchia delle classi di valore in base a una legge formale universale. È quella individuata da Scheler stesso quando afferma: «quanto più viviamo «nel nostro ventre», come dice l’Apostolo, tanto più povero di valore diviene il mondo». Quanto più prendiamo attivamente parte al nostro centro personale attraverso i valori più alti, tanto meno il nostro sguardo sul mondo coinciderà con quello della chiusura ambientale della zecca di von Uexküll.
A mio avviso ci sono qui i presupposti per ripensare criticamente il significato complessivo della gerarchia scheleriana delle classi dei valori, verificandone meglio la strutturazione in base al principio secondo cui la validità etica di una scelta si misura sulla capacità di incrementare solidaristicamente (e quindi non solipsisticamente) la trasformazione della persona. Le classi di valori più alte sono riconoscibili empiricamente e in tutte le culture come quelle che funzionalizzano meglio esperienze significative e quindi rotture nel processo di formazione. Eticamente vero per una persona è ciò che la trasforma liberandola non solo dagli idola di Bacone, ma anche dagli idola della propria intrascendenza. L’uscita dalla prospettiva del proprio ventre avviene attraverso un incrementando del grado di Weltoffenheit ma questo significa scontrarsi con esperienze via via sempre più significative e capaci di lasciare un segno.
Lo scivolone verso la «tirannia dei valori» avviene se a questo punto la relazione al valore viene invece interpretata nel senso di un intuizionismo etico che ci restituisce un’unica gerarchia di valori valida esattamente allo stesso modo per tutti. Significherebbe spostare ancora una volta il problema dal piano della trasformazione a quello della trasmissione di informazioni neutre e oggettive. Ma significherebbe pure annullare le differenze dei punti di vista e con esse le diverse identità personali. Si tratta di un passaggio delicato su cui da tempo gli interpreti di Scheler discutono. Che cosa significa propriamente intuizione? Qui mi preme sottolineare che l’intuizione o Anschauung a cui faceva riferimento Scheler nei saggi precedenti la Prima guerra mondiale veniva concepita bergsonianamente come una «conoscenza asimbolica»: una conoscenza che pretende di immergersi direttamente nella presenza stessa dell’oggetto ma facendo a meno del segno. Non ho bisogno di segni perché l’oggetto mi è dato direttamente. E poiché mi è dato direttamente, senza mediazioni, non posso ingannarmi. A mio avviso una tale concezione è completamente indifendibile, ed è già stata definitivamente confutata nel 1868 da C. S. Peirce nell’articolo Questions Concerning Certain Faculties Claimed for Man.
Lo stesso pensiero di Bergson conosce su questo punto un significativo sviluppo, passando dall’idea di una conoscenza metafisica che si caratterizza essenzialmente per essere asimbolica a quella di una conoscenza disinteressata.36 Con conoscenza disinteressata si può intendere anche una conoscenza che fa uso di segni, ad es. la simbologia del sacro, ma che non è orientata da interessi utilitaristici o da bisogni organici. Anche se in forme diverse si può notare uno sviluppo simile in Scheler, che negli scritti successivi alla prima parte del Formalismus risulta molto più attento nell’uso del termine Anschauung, riconoscendo inoltre che la relazione al valore è caratterizzata da illusioni e fraintendimenti. È in questo senso che Scheler sviluppa una teoria del risentimento e una fenomenologia dell’illusionismo etico. Superando le ambiguità ancora presenti in Scheler, si tratta d’interpretare la relazione al valore in senso esplicitamente ermeneutico, privandola di ogni garanzia apodittica.
Ad un certo punto nella cultura occidentale il segno sembra subire lo stesso ostracismo conosciuto dal corpo, per cui se prima la verità si otteneva liberandosi dal corpo, carcere dell’anima, ora il miracolo è ottenuto saltando il segno. Il problema invece non è il segno, ma l’orizzonte di rilevanza che dirige il processo percettivo ed ermeneutico. Ciò a cui mira il sapere filosofico non può essere l’eliminazione della semiosi, del simbolo o dell’ermeneutica, ma piuttosto il superamento della chiusura ambientale della zecca di von Uexküll, cioè di una semiosi orientata da una classe di valori incapace di promuovere un qualsiasi processo di trasformazione. L’autorità e l’oggettività delle classi di valore si fonda sulla capacità di trasformare la persona e più in generale di dare forma al processo espressivo attraverso cui viene alla luce un fenomeno.
5. Le nuove domande dell’antropologia filosofica
Le vecchie domande dell’antropologia filosofica riguardano l’opposizione fra spirito e vita e l’intuizionismo dei valori, le nuove domande si rivolgono invece alla novità ontologica rappresentata dal processo trasformativo della persona. La persona implica il definitivo superamento di una «ontologia del possibile» tutta intenta a concepire il reale come la realizzazione ed esplicitazione teleonomica di un programma già definito. In questo senso ogni uomo, ogni persona rimane «non esauribile» in quanto il suo processo di trasformazione non consiste nel dispiegamento di un’essenza, ma nel dar forma a un nuovo inizio. L’uomo è l’essere che nel patimento del «vuoto promettente» e dell’abbandono inaugura un nuovo percorso esistenziale volto a ottenere una pienezza d’essere al di fuori del modello e della logica che dirige il desiderio mimetico. La sua essenza, se di essenza si può ancora parlare, è la matrice del percorso ontologico con cui la persona, deviando, si distacca dallo sfondo abitudinario.
Perché il problema della trasformazione rappresenta il punto di partenza? Che cosa significa che l’uomo ha bisogno di formarsi? L’antropologia filosofica del XX secolo ruotava ancora attorno alla tesi dell’uomo come l’essere biologicamente deficitario. È su questa questione che si è tentato di tracciare una differenza con l’animale. Alsberg, anticipando genialmente la teoria del cyborg, affermava che l’uomo è l’essere che modifica il proprio corpo dando origine a un’evoluzione extraorganica, Gehlen sosteneva invece che l’uomo è l’essere che trasforma il proprio ambiente, l’essere che grazie alla categoria dell’esonero sopravvive creando un ambiente artificiale.
E se invece l’uomo fosse caratterizzato da una mancanza di tipo diverso? Se fosse l’essere da disciplinare non perché nato biologicamente immaturo ma piuttosto culturalmente incompiuto? Se ciò che caratterizza l’uomo non consistesse nell’abilità a modificare tecnologicamente il proprio corpo o a erigere un ambiente artificiale, ma piuttosto nel dar forma a una seconda natura attraverso quel particolare sapere che gli antichi chiamavano cura sui? E in tal caso come si caratterizzerebbe oggi questo sapere della cura sui volto alla trasformazione della persona? Esistono delle caratteristiche, delle problematiche proprie di questo processo che riguardano necessariamente ogni essere umano, indipendentemente dall’epoca storica e dal contesto sociale e culturale in cui è vissuto? Se la cultura è, nel suo momento dinamico, prodotto della cura sui, non potrebbero essere proprio tali categorie a gettare le basi per la comunicazione, fornendo così quegli strumenti indispensabili per confrontarsi con i problemi del pluralismo culturale?
È ancora proponibile oggi il tema di una grammatica affettiva universale dell’esser persona dopo il definitivo superamento dell’etnocentrismo? Ciò che va rivalutato nella fenomenologia di Scheler è senz’altro la differenziazione fra le diverse classi di valori e i diversi strati affettivi. Qui c’è la grande intuizione di una differenza qualitativa, capace ad es. di cogliere l’irriducibilità della dannazione o della disperazione rispetto alla sofferenza causata da un mal di denti. Oggi invece si sta imponendo la prospettiva livellante secondo cui le «emozioni complesse» sarebbero scomponibili in «emozioni basilari», tanto che queste, combinandosi fra loro come gli elementi chimici, esprimerebbero tutta la gamma della vita affettiva umana.37 Ora che ci sia un insieme di emozioni caratteristiche di tutto il genere umano è sostenuto anche nella tesi della grammatica affettiva universale alla base dell’antropologia filosofica di Scheler, come anche nelle analisi sul riso e il pianto di Plessner,38 ma questo non implica che tali emozioni basilari debbano far tutte parte della stessa sfera affettiva. In questa direzione già Plessner affermava che il riso e il pianto sono forme espressive tipicamente umane. È chiaro che poi nella cultura giapponese assumeranno forme diverse da quelle rintracciabili nella cultura europea, ma la storicità e la relatività riguarderà solo il modo di dar forma a tale capacità espressiva, non la capacità espressiva in quanto tale. Allo stesso modo sarebbe possibile individuare le categorie universali proprie della trasformazione della persona?
Qui mi limito ad anticipare schematicamente il nucleo di un’ipotesi al centro di un’ontologia della persona che è ancora in fieri: la trasformazione della persona avviene nel senso della rinascita attraverso l’esemplarità e ambedue sono possibili solo quando la persona si rapporta come totalità incompiuta ai propri atti. La persona, compiendo l’esperienza di un «vuoto promettente» e spinta da un bisogno innovativo di essere, si scopre l’essere incompiuto che non può dar forma alla propria identità nelle modalità tipiche dell’intrascendenza egologica, ma solo portando a compimento una seconda nascita. Un secondo parto che si realizza attraverso la rottura e la fuoriuscita dalla sfera della propria chiusura autoreferenziale grazie all’aiuto maieutico dell’esemplarità altrui. Dal momento che il problema della costituzione dell’identità personale coinvolge tutti gli uomini — indipendentemente dalla cultura, dall’epoca storica e dalla società in cui vivono — atto, rinascita ed esemplarità possono essere proposte come invariabili della persona umana.
Non solo la categoria dell’esemplarità si propone come universale, in quanto presente in ogni processo di formazione dell’identità personale, ma possono anche darsi esemplarità che si danno in modo universale. Un’esemplarità è universale nella misura in cui riesce a trasformare ogni individuo che tocca, suscitando però in ognuno di essi esiti distinti e originali. È la differenza essenziale fra modello ed esemplarità su cui ho già insistito altrove: un modello è universale nella misura in cui rende tutti un po’ più uguali, facendo ripetere le stesse cose secondo una identica procedura, invece un’esemplarità è universale nella misura in cui rende tutti un po’ più unici, motivando ciascuno a seguire un diverso percorso di trasformazione esistenziale.39 Certo il modello non è riducibile a una mimesi meccanica, ed è in grado di offrire le regole di comportamento necessarie al funzionamento di qualsiasi sistema sociale. Ma non è ad esso che fa riferimento la trasformazione della persona.
Attraverso il percorso della trasformazione, la persona diventa l’essere che trascende la chiusura ambientale di von Uexküll e si apre al mondo fino a cogliere l’aprirsi del mondo stesso. Con questo nuovo sguardo negli occhi, in cui si realizza una deviazione decisiva dalla prospettiva predominante, la persona si distingue dall’Io. O meglio: non è un ente astratto che si limita a osservare il mondo da un nuovo punto di vista. La persona è piuttosto un modo particolare d’incarnarsi posizionalmente nel mondo: alla corporeità della persona corrispondono infatti specifici strati affettivi che seguono una logica profondamente diversa dagli strati affettivi che dirigono l’Io. È attraverso questa nuova corporeità affettiva che la persona riesce a vedere il mondo oltre il riflesso dei propri bisogni e dei propri interessi. Essa non avanza più nel mondo solo fin dov’è possibile proiettare la pienezza dei propri schemi, fin dove fanno leva e risultano efficaci le categorie della rilevanza che dirigono i propri interessi. Ora la persona avanza oltre nel mondo proprio grazie allo svuotamento dei meccanismi di rilevanza selettiva che producono l’orizzonte abitudinario, quella mappa mentale di familiarità entro cui l’Io si muove usualmente senza guardare effettivamente ciò che lo circonda. Ciò di cui fa esperienza la persona non è immediatamente ricondotto al già noto e neppure inchiodato, attraverso una serie d’interrogazioni, a un preciso schema di rilevanza, ma piuttosto viene lasciato libero di esprimersi oltre il contesto usuale dell’autoreferenzialità dell’osservatore.
Dinnanzi a questa trasformazione del modo di guardare le cose, si apre la dimensione etica ed estetica in cui diventano accessibili quegli aspetti del reale normalmente insignificanti per il sapere abitudinario e scientifico: la singolarità irripetibile, il volto della persona amata, la bellezza di un fiore, il significato etico del dolore, l’intenzione tradita da un gesto apparentemente insignificante. È su questi particolari «secondari» che è possibile tentare di ricostruire quella razionalità della persona che può determinare il senso complessivo di un’esistenza.
6. L’antropologia filosofica nell’epoca della liquidità postmoderna
Dunque un’antropologia della Bildung. Ma a che cosa serve oggi una tale antropologia? Nella riscoperta delle tematiche legate alla cura sui e alle tecniche di trasformazione e realizzazione non vedo una forma di ripiegamento narcisistico nella sfera intima, conseguente alla crescente impotenza dell’individuo nei confronti di una società sempre più complessa. Al contrario mi pare che il problema dell’identità personale possieda un’immensa carica eversiva nei confronti delle tecnologie e dei dispositivi di eterodirezione dell’opinione pubblica.
La rinascita e l’esemplarità implicano una forma di orientatività non arbitraria: ma non è forse del tutto anacronistico parlare ancora di meta-orientatività nell’era della liquidità postmoderna? Charles Taylor, con la teoria delle strong evaluations, riconosce esplicitamente che la questione del meta-orientamento è centrale nel processo di costituzione dell’identità.40 La formazione dell’identità ha a che fare col problema di punti di riferimento forti, in quanto è nella loro scelta che esprimo chi sono. Se ne deduce che il valore di una società si misura sulla qualità del meta-orientamento che produce. Ma come funziona l’orientamento nella liquidità postmoderna? Qui si tocca un nervo scoperto: l’illusione che l’esigenza di punti di riferimento non autoreferenziali sia solo il residuo di una «mentalità primitiva». Come porre allora il problema dell’orientamento dopo l’annuncio nietzschiano della morte di «Dio» e oltre l’orizzonte della postmodernità, se le ideologie, con la loro pretesa di uniformità, e il nichilismo, con l’annullamento dei punti di riferimento, stanno portando al livellamento delle differenze qualitative? Se da un lato si affermano punti di vista dogmatici, da imporre eliminando il diverso, e dall’altro si negano gli stessi punti di riferimento, magari per assolutizzare surrettiziamente il proprio?
Il pensiero postmoderno riteneva che ci siamo già lasciati alle spalle l’epoca delle ideologie, funzionali al progetto di dominio della soggettività, e delle grandi narrazioni, che ottundevano l’uomo nella logica del pensiero magico. Secondo Jean-François Lyotard nella postmodernità l’uomo rimuove le meta-narrazioni e inizia a vivere con uno sguardo disincantato. In pratica le masse avrebbero finalmente capito l’indiscutibile verità implicita nell’annuncio di Nietzsche: non esistono verità indiscutibili, ma solo interpretazioni.
È lecito avanzare il sospetto che il pensiero postmoderno, nonostante le intenzioni, non sia riuscito a superare il progetto della modernità, ma abbia finito all’opposto col rappresentarne l’apice? Il postmoderno ha superato quella gabbia d’acciaio che Weber vedeva come esito della razionalità rispetto allo scopo? Che rapporto c’è fra il disincanto del mondo e quel politeismo dei valori in cui si finisce con il piegare il capo a uno dei nuovi idoli? Uscendo da troppe ambiguità: che valore attribuire al processo di desacralizzazione del mondo? Se questo è positivo, perché i suoi esiti non sono positivi? Perché questa persistente impressione che la società desacralizzata sia immersa ancora più di prima nelle categorie e nei ritmi del «pensiero magico»? Dove sono queste masse rese adulte e disincantate dalla desacralizzazione? La ribellione delle masse, descritta da Ortega y Gasset, non è forse una plateale smentita ante litteram della postmodernità? L’aver barattato la libertà promessa dalla modernità con la sicurezza non rappresenta la fine inequivocabile della meta-narrazione di Lyotard?
Di fronte a questi interrogativi è opportuno riconsiderare meglio le premesse del discorso postmoderno: fabulazione (mythos) e dominio razionale (logos) sarebbero i tratti distintivi di una modernità già superata. Ma affermare che non ci sono punti di meta-riferimento e che esistono solo interpretazioni non è, essa stessa, una ennesima grande fabulazione? E la liquidità dei punti di riferimento non è funzionale alle possibilità di imporre una standardizzazione dei modelli sociali di consumo? Non è cioè funzionale essa stessa a un progetto di dominio?
Molta parte del pensiero postmoderno ha tragicamente peccato in ottimismo. Ha pensato che i meccanismi tribali fossero circoscrivibili alle sole dimensioni del religioso e della metafisica. Invece essi sanno penetrare altrettanto efficacemente il pensiero scientifico, post-metafisico e laico, spostandosi con incredibile efficacia, parallelamente al processo di secolarizzazione.
7. La morte dell’ermeneutica: dal progetto umanistico all’allevamento mediatico
Se il barbaro sopravvive alle speranze del postmoderno ne risente anche l’orientamento della ricerca scientifica. Nella conferenza sull’Ausgleich del 1927 Scheler accenna a uno dei suoi temi più cari: il fallimento di quel disciplinamento che aveva formato l’uomo europeo coinvolto nel processo di industrializzazione. Un disciplinamento autoritario che per costringere l’operaio ai ritmi della fabbrica aveva obbligato a non dare più ascolto ai ritmi della propria razionalità affettiva, imponendo una «razionalità strumentale» priva di saggezza. Con il fine di sradicarlo dall’ordine del cuore, l’uomo moderno viene educato a dubitare della sfera affettiva e a vedere in essa solo l’origine del male e dell’errore. È un processo di analfabetizzazione affettiva di massa basato su di una forma di iper-razionalizzazione destinata a rovesciarsi dialetticamente nel suo opposto: una esplosione di irrazionalismo. Quello che Scheler vede è dunque una «sistematica rivolta pulsionale all’interno dell’uomo della nuova epoca, una rivolta contro la sublimazione unilaterale, contro l’eccessiva intellettualità dei nostri padri, contro l’ascetismo che essi hanno esercitato per secoli e le tecniche di sublimazione (quasi inconsapevolmente sviluppate) nel cui alveo è stato finora formato l’uomo occidentale».41 Ma tale «rivolta della natura all’interno dell’uomo», nell’incapacità di trovare una nuova armonizzazione (Ausgleich), stava rapidamente degenerando sul piano culturale in nuove forme unilaterali di vitalismo irrazionalistico e di anti-intellettualismo. Un disprezzo generalizzato verso tutto ciò che ha a che fare con la ragione e lo spirituale e una esaltazione (per alcuni versi positiva), del corpo, dell’attività fisica, della giovinezza e del nuovo. Una rivolta delle pulsioni che in campo politico si esprimerà direttamente e senza alcuna mediazione nei movimenti dittatoriali di destra e di sinistra, a cui Scheler contrapponeva un lento processo culturale di ri-sublimazione dell’uomo volto ad armonizzare le ragioni dell’intelletto con quelle del cuore, l’apollineo con il dionisiaco, e «da operarsi nel singolo tramite l’educazione e nella specie tramite l’eugenetica sistematica».42
Fu un tragico passo falso: proprio nel momento in cui denunciava l’incapacità della Bildung a orientare la democrazia di massa, Scheler continuava ingenuamente a sperare nella capacità di orientamento della Bildung nei confronti della ricerca scientifica. Di lì a qualche anno il progetto eugenetico del Kaiser-Wilhelm-Institut, appena fondato nel 1927 da Eugen Fischer e incautamente elogiato da Scheler, invece d’incanalare l’aggressività barbarica verrà a colludere proprio con uno di quei movimenti dittatoriali risolutamente condannati da Scheler. Quella che sembrava un’occasione offerta dalla scienza si trasforma inaspettatamente in uno dei peggiori incubi.
Pur in una temperie culturale completamente diversa, sono questi gli interrogativi che inevitabilmente pesano sulla celebre provocazione di Peter Sloterdijk quando, in Regeln für den Menschenpark (1999), constatando che nelle società di massa entra in crisi il progetto umanistico, basato sulla trasmissione del sapere attraverso la lettura e i dialoghi maieutici, propone un allevamento dell’uomo in base a una «genetische Reform».43 Dove il termine «allevamento» va inteso proprio positivamente, nel senso di una Züchtung o Domestikation genetica dell’Übermensch di Nietzsche. Di Regeln für den Menschenpark non condividevo l’ipotesi secondo cui la crisi dell’umanesimo possa essere fronteggiata indirizzando le energie e il sapere verso una antropotecnica della manipolazione genetica, quasi che si possa ritornare allo spirito di Paul Alsberg, quando vedeva nell’uomo la possibilità di sostituire i lenti e tortuosi ritmi dell’evoluzione naturale con quelli ben più rapidi ed efficienti dell’evoluzione extra-organica.
Il problema è che ora c’è già qualcosa che sta prendendo il posto del progetto umanistico. Rispetto a questo qualcosa la distinzione fra «media inibenti» e «media disinibenti», proposta da Sloterdijk, rimane del tutto inadeguata. È vero: l’equilibrio millenario fra media umanistici inibenti e i media disinibenti (quelli che hanno come modello basilare i ludi circensi) è entrato in crisi a favore di questi ultimi e sta aprendo le porte a una nuove barbarie. Ma è sensato sperare di porre sotto controllo l’aggressività di questa nuova barbarie attraverso la manipolazione genetica, come suggeriva Sloterdijk? Non sarà piuttosto questa nuova barbarie che finirà col porre sotto controllo la manipolazione genetica?
Che cos’è di preciso che si sta imponendo? La questione è centrale perché è a «questo qualcosa» che si affiderà il compito di attuare la soluzione auspicata da Sloterdijk nel 1999. Per comprendere «questo qualcosa» conviene innanzitutto indagare meglio i motivi della crisi dell’umanesimo nella società di massa, fino ad arrivare alla questione centrale, che è connessa alla crisi dell’ermeneutica. In Regeln für den Menschenpark c’era un doppio interrogativo che rimaneva senza risposta: chi tira i fili dopo che si è rivelata problematica la questione su chi educa l’educatore o forma l’élite? E prima ancora perché il progetto educativo «umanistico» è fallito? Il progetto di un dialogo maieutico per pochi eletti si è gradualmente trasformato in scolarizzazione di massa. Ma la scolarizzazione di massa non ha avuto come modello un processo formativo imperniato sulla figura carismatica del Maestro, bensì si è ridotto a trasmissione autoritaria di informazioni da parte di semplici impiegati del sapere. Il progetto è fallito perché l’informazione ha azzerato ogni momento formativo basato sull’esemplarità. Tuttavia almeno nella scolarizzazione era preteso un minimo di fatica ermeneutica. Quello che si sta profilando all’orizzonte è invece l’emarginazione forzata anche dell’ermeneutica e la sua sostituzione con un allevamento dell’identità dell’Io che ricorda, questo sì, le logiche dell’allevamento di animali all’ingrasso.
Che cosa ha preso il posto dell’ermeneutica? Guardiamo a quello che è avvenuto all’opinione pubblica. Come misero in luce Tocqueville prima e Ortega y Gasset poi, la democrazia non è affatto indenne da gravi patologie. Nel corso del XX secolo l’opinione pubblica è stata sostituita da un’opinione di massa composta da un insieme di individui passivi e atomizzati. Se nella modernità l’identità si costituiva nello sforzo della produzione materiale ed ermeneutica, sorretta dall’ideale ascetico, nella tardomodernità44 l’identità dell’individuo «liquido» non si costituisce in un’attività lavorativa sempre più precaria, quanto nel consumo di immagini mediatiche, fruibili senza alcuna fatica ermeneutica perché già predisposte e «metabolizzate» da altri. Il trionfo mediatico dell’immagine coincide con l’eclissi dell’ermeneutica, che appartiene ancora alle vecchie categorie moderne della produzione e non a quelle del consumo. L’immagine mediatica priva di aura viene consumata, non interpretata. E non ha neppure bisogno di scolarizzazione. Proprio l’uomo atomizzato di massa, immerso in una realtà virtuale estraniante, sarebbe allora l’esito coerente della liquidità postmoderna, e la stessa postmodernità non sarebbe altro che una forma di tardomodernità capace di suscitare facili entusiasmi solo perché mascheratasi nelle vesti fabulatorie del superamento della modernità.
È vero che vi è stato un passaggio dall’identità umana come dato a quella come compito,45 ma tale compito è stato delegato alla libertà di scelta, all’autoprogettualità, cioè è stato nuovamente focalizzato sull’identità autoreferenziale dell’Io a scapito dell’identità personale. Infine tale compito è stato neutralizzato e ricondotto nuovamente al dato quando l’individuo, di fronte a un eccesso di possibilità di scelta rispetto alla propria complessità, è entrato in crisi d’identità, dissipandosi secondo le classiche leggi delineate da Luhmann a proposito dei sistemi autopoietici. A questo punto l’automatismo inerziale al consenso — che nell’orientamento della modernità veniva ottenuto mediante le istituzioni tradizionali e autoritarie — nell’orientamento della tardomodernità viene indotto offrendo mediaticamente contenuti intenzionalmente strutturati per essere immediatamente fruibili: si tratta di un numero elevatissimo d’informazioni, stimoli e immagini che emergono dal flusso continuo del sapere mediatico con un effetto a bombardamento.
Questo effetto dipende dal fatto che nel circolo funzional-mediatico le immagini offrono contenuti assimilabili senza alcun sforzo ermeneutico: l’ermeneutica di Gadamer è importante per la comprensione di un testo filosofico, ma non per usufruire di un programma d’intrattenimento televisivo. Per leggere un dialogo di Platone posso accedere a determinate informazioni solo compiendo un notevole sforzo di comprensione, i mass media invece mi offrono direttamente le immagini all’interno di un contesto apparentemente ovvio e senza presupposti, esonerandomi dalla fatica interpretativa e offrendomi in pratica un contenuto «culturale» preconfezionato. È come se qualcuno avesse letto il libro al mio posto consegnandomi i risultati dei suoi sforzi, ma anche traendo le conclusioni al mio posto: l’esonero dal momento ermeneutico comporta l’appiattimento sugli stessi risultati e la scomparsa del senso critico. Inoltre la programmazione televisiva si regola in base a sondaggi d’opinione di modo che l’individuo liquido, trovandosi davanti la rappresentazione fantasmatica di ciò che cercava, ha automaticamente una falsa impressione di verità e oggettività.
Il pensiero magico è stato reintrodotto nella fruizione uniformante di un circolo funzional-mediatico di immagini autoreferenziali che blocca progressivamente qualsiasi spazio di comunicazione reale a favore di un consenso sociale sempre più efficacemente eterodiretto. Il pensiero postmoderno ha focalizzato la propria attenzione sul processo di liquefazione, spesso compiacendosi di trovare in esso la presunta dimostrazione del proprio credo nel disincanto dell’uomo. Esso invece riguardava solo le risorse e gli strumenti a disposizione della formazione personale, la sola capace d’istillare forme d’identità controfattuali, non le strutture aziendali preposte ai processi di ristrutturazione e controllo dell’opinione di massa. La nostra società è sempre più liquidamente decentralizzata nell’atomizzazione dell’opinione di massa, ma sempre più solidamente ed efficacemente ipercentralizzata nella sua eterodirezione.
È qui che il problema dell’incompiutezza della persona si connette drammaticamente a quello del meta-orientamento. L’uomo è l’essere che, uscendo dalla chiusura ambientale ed esponendosi all’apertura, è costretto a dare forma a una nuova esistenza, ma nel dar forma a questa seconda natura non può rifarsi ai modelli della vecchia vita e ha bisogno dell’orientatività della nuova vita, quella basata sull’esemplarità. Se abbandona la vecchia orientatività senza trovare la nuova ricade inevitabilmente in una zona franca, sottratta postmodernamente all’influenza del meta-orientamento. La liquidità postmoderna è l’espressione concreta di questa zona franca in cui a una minoranza privilegiata si aprono le porte dell’estetismo e alla maggioranza quelle dell’allevamento mediatico di massa.
Man mano che l’allevamento mediatico dell’Io celebra la sua apoteosi, i saperi relativi alla trasformazione della persona diventano sempre più rari e incerti. Lasciato postmodernamente in una situazione priva di stimoli valoriali e di orientamento esemplare, l’uomo regredisce antropologicamente all’Io auto-referenziale atrofizzando rapidamente il proprio esser persona. È in questa situazione che si apre la prospettiva della manipolazione genetica avanzata da Sloterdijk. Questa non può essere una soluzione, per il semplice fatto che presuppone proprio quella «saggezza» che viene a mancare con l’eclissi degli spazi a disposizione della Bildung.
Voglio subito precisare che la tesi del postumano mi sembra mal posta, in quanto rischia ancora una volta di fraintendere in senso statico l’esser uomo, identificandolo nei fatti con un determinato prodotto storico del divenire umano, oppure con la sua attuale struttura biologica. Già Alsberg aveva slegato l’essere umano dall’homo sapiens, affermando la sua indefinibilità biologica, e ipotizzando che la sua identità si costituisse piuttosto nell’essere il creatore dell’organismo cibernetico, qualunque forma materiale riuscisse a darsi. Allo stesso risultato si arriva concependo l’uomo come il gesto che trascende la chiusura ambientale dando forma a una nuova esistenza.
L’aporia della manipolazione genetica è piuttosto quella, da tempo sottolineata, di una crescente forbice fra lo sviluppo delle potenzialità della ricerca scientifica e una consapevolezza umana che rimane praticamente invariata nel corso dei secoli. Chi decide, e in base a quali criteri, che cosa realizzare di ciò che risulta tecnicamente possibile? Il problema non è quello, anacronistico, di contrastare una ricerca scientifica inarrestabile, ma di capire se la scienza possa procedere scissa da quella consapevolezza umana da cui è comunque sorta. Che cosa succede alla scienza se questa forbice va oltre un certo limite? È in grado la scienza, in quanto scienza, di produrre al suo interno una qualche forma di «saggezza» e consapevolezza etica o finirà inevitabilmente con l’adeguarsi, per quanto riguarda la razionalità dei fini, al senso comune e alla morale dominante?
Qual è la qualità del senso comune in cui viviamo? Nell’attuale zona franca della liquidità postmoderna si sta affermando il senso comune prodotto dalla logica dell’allevamento mediatico dell’Io, in assenza di un correttivo è a esso che si farà quindi riferimento per stabilire le direttive della manipolazione genetica. Per evitare di affrontare la manipolazione genetica dal punto di vista di un’umanità che ha atrofizzato il proprio centro personale bisognerebbe ritornare a occuparsi, con la massima urgenza, della cura sui.
Ora è interessante notare che nella sua recentissima fatica, apparsa a dieci anni di distanza da Regeln für den Menschenpark, Sloterdijk si ponga il problema di un «imperativo trasformatore» volto a promuovere il cambiamento della propria esistenza grazie a una tensione verticale, nel senso di un’antropologia dell’«esercizio» al miglioramento, un’antropologia dell’uomo come «übendes Wesen».46 Si tratta di un ripensamento in chiave antropologica delle tecniche di trasformazione del sé di Foucault e soprattutto degli esercizi spirituali di Pierre Hadot e del meno noto Paul Rabbow,47 sviluppato anche mediante un’incursione nelle pratiche ascetiche e meditative orientali. Senonchè quel titolo, ripreso da un versetto di Rainer Maria Rilke, Du mußt dein Leben ändern, anche se vagamente kantiano, finisce involontariamente col richiamare alla memoria la metanoia cristiana e col suggerire indirettamente una maggiore complessità nell’analizzare il rapporto, già colto del resto anche da Rabbow e Hadot, fra religione ed esercizi spirituali. In ogni caso, al di là dei limiti e dei pregi insiti dell’ultimo lavoro di Sloterdijk, a trarne nuovi stimoli e impulsi sono proprio le antropologie che muovono in direzione della cura sui.
8. Cura sui e alfabetizzazione affettiva
Il problema all’origine di tutto rimane la crisi di orientamento. E qui bisogna procedere veramente in punta di piedi. Perché il XX secolo ha potuto chiamarsi «figlio di Nietzsche»? Perché il pensiero postmoderno nonostante tutto affascina? Le parole dell’ideale ascetico erano diventate consumate. La morale un insieme di formule vuote e ipocrite. Più le vecchie autorità alzavano il tono della voce, meno risultavano udibili. In pratica già allora la trasmissione del sapere era stata affidata a un apparato burocratico che si limitava a riprodurre meccanicamente un modello, già allora si era verificata una scissione fra progetto educativo e formazione dell’uomo. Non si tratta allora di ritornare indietro rispetto all’annuncio di Nietzsche, ma di ricongiungere trasmissione del sapere e formazione dell’uomo in un percorso alternativo al relativismo nichilista e al dogmatismo etico.
Dietro la trasformazione della persona non c’è neppure quell’impossibile comunità operosa, giustamente criticata da Jean-Luc Nancy in quanto dedita alla realizzazione integrale di una pretesa essenza dell’uomo già definita a priori.48 La trasformazione istillata dall’esemplarità è infatti pluralista e indeterminabile. Tuttavia non si ferma neppure oziosamente di fronte al nulla di quella che ho precedentemente designato come «zona franca». Che cosa permette di superare questo nulla? Sarebbe ingenuo pensare che la fragilità dell’attuale quadro d’orientamento complessivo sia semplicemente dovuta all’incapacità di elaborare una nuova teoria etica convincente. Qui si rimarrebbe invischiati in una evanescente e interminabile contrapposizione fra dogmatismo e postmodernità. La crisi d’orientatività deriva piuttosto da una disattivazione, a livello di massa, degli strati affettivi più profondi della persona, i soli in grado di produrre quella orientatività che dà forma e realizza l’eccedenza propria dell’uomo. È sulla base di questo orientamento affettivo, acceso e curato dall’esemplarità, che si avvia quel processo di formazione che porta alla costituzione dell’identità personale. Senza aver formato se stessi a livello personale non è possibile impostare un dialogo con l’altro da sé, non è possibile neppure mediare culturalmente la propria aggressività pulsionale.
Quella che è stata indicata come una vera e propria emergenza educativa nasce nei confronti di una sempre più diffusa carenza di saperi e di esperienze circa le tecniche atte a riattivare e portare a maturazione gli strati affettivi della persona. Ma nella società dell’allevamento dell’Io lo spazio riservato alle tecniche del risveglio degli strati affettivi della persona viene progressivamente ridotto inducendo un crescente analfabetismo affettivo.
Ma da dove deriva questa disattenzione e dimenticanza verso se stessi? L’ultimo Foucault ha reinterpretato il rapporto fra maestro e allievo attraverso quella nozione di «epimeleia heautou» di origine platonica che i latini tradussero con «cura sui», e che dà origine a una storia molto diversa da quella del famoso «conosci te stesso». Mentre nel «prendersi cura di sé» l’uomo ha cercato di sviluppare un metodo rivolto interiormente alla purificazione dell’individuo, in modo da renderlo degno di ricevere la verità, nel «conosci te stesso» l’attenzione si è spostata alla purificazione della conoscenza: il soggetto, vantandosi già pronto, non lavora più su se stesso ma sul modo di conoscere l’oggetto. Tutto si riduce a un problema di teoria della conoscenza slegato dalla formazione dell’individuo, tanto che la verità diventa accessibile a tutti, solo che vengano correttamente applicate le procedure del metodo cartesiano. Si è poi visto che, in uno stadio successivo, l’individuo di massa presume non solo di essere già pronto a ricevere la verità, ma anche di poterla miracolosamente apprendere nella rivelazione mediatica in modo diretto, senza alcuno sforzo ermeneutico.
Ma ritorniamo a Foucault: riferendosi a Seneca paragona lo spirito umano a un corpo fisico flessibile, che essendo incurvato va raddrizzato con il disimparare.49 Ebbene dove trovare la fonte capace di ispirare questo raddrizzamento, questa rettificazione? Il «prendersi cura di sé» mira alla trasformazione del sé, anche attraverso una messa in discussione del già appreso e della forma mentis iniziale; l’assolutizzazione del «conosci te stesso» conduce invece all’assolutizzazione delle storture del soggetto.
Si può osservare che il «conosci te stesso» rimane in sintonia con la logica del bisogno di certezze dell’Io, mentre la «cura sui» è più congeniale all’incompiutezza della persona e quindi alle logiche della sua trasformazione. In altri termini la predominanza del «conosci te stesso» nella cultura occidentale sarebbe una conseguenza di una progressiva atrofizzazione della persona e del suo essere aurorale.
Per molti aspetti i problemi fondamentali della filosofia deriva dalla tendenza, insita nell’uomo, ad assentarsi in modo prolungato dagli strati affettivi della persona, oppure dal non alimentarne a sufficienza la crescita, rimanendo in una situazione di immaturità affettiva. L’atrofizzazione del livello affettivo personale comporta la progressiva predominanza di quello psichico, particolarmente influenzabile dalle tecnologie di manipolazione sociale del sé, con l’inevitabile appiattimento sui modelli di comportamento conformistici.
La produzione di stili di vita su misura, portatori di un’istanza di realizzazione personale, differisce da quella indotta socialmente dai modelli dominanti, e può provocare gravi conflitti nei riguardi delle aspettative che gli altri hanno nei miei confronti: di conseguenza li vivrò come fattori di disturbo e tenderò a «disattivarli» e rimuoverli; seguendo questa deriva otterrò una completa dissipazione del livello affettivo personale consegnando le redini della mia esistenza all’Io, che però è tutto affaccendato nell’ottenere il riconoscimento altrui. Se oriento la mia vita in base all’Io, finisco con il vivere attraverso gli occhi della gente che mi circonda: giudico un’azione, assaporo la vita, compro un prodotto, esprimo una preferenza politica, sento un profumo solo dal punto di vista del modello dominante.
Ciò in senso radicale: io non nascondo la mia vera identità dietro una maschera, piuttosto io stesso sono diventato esattamente quello che gli altri vedono di me. Sostengo un ordinamento esistenziale solo formalmente «mio», ma in realtà deciso da qualcun altro per me. Una forma di non-essere che non ha nulla da invidiare all’esistenza letargica denunciata da Socrate. Il pericolo è quello di arrivare alla fine dei propri giorni accorgendosi improvvisamente che ad aver vissuto non sono stato io, bensì solo l’opinione che gli altri avevano di me o il ruolo che mi avevano imposto. Per guarire da tale danno e vivere la mia vita, l’unica risorsa che ho a disposizione è la riattivazione degli strati affettivi più profondi, quelli capaci di produrre ordini esistenziali controfattuali grazie al superamento, nell’esemplarità, della propria intrascendenza.
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M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, Milano 2000, 90. ↩︎
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R. Lewontin, Il sogno del genoma umano e le altre illusioni della scienza, Bari 2002, 151. ↩︎
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In questo senso cfr. E. Fox Keller, Il secolo del gene, Milano 2001. ↩︎
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Cfr. J. McDowell, Mente e mondo, Torino 1999. ↩︎
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GW = Max Scheler, Gesammelte Werke, Bern und München 1954 - Bonn 1997. Il numero romano indica il volume mentre quello arabo la pagina. ↩︎
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Attorno al termine scheleriano di «teleoklin» si sono sviluppati vari fraintendimenti. Inizialmente veniva tradotto in italiano con «teleologico» o con «finalistico» (cfr. ad es. la traduzione di R. Padellaro di La posizione dell’uomo nel cosmo, ora ripresa da Armando Editore a cura di M. T. Pansera). In realtà Scheler con questo termine ha in mente un processo aperto alternativo a quello teleologico. Per questo nel 1995 ho proposto di tradurlo con «teleocline» (Cfr. G. Cusinato, La tesi dell’impotenza dello spirito e il problema del dualismo nell’ultimo Scheler, in: «Verifiche», XXIV 1995, 65-100). ↩︎
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La storia dell’antropologia filosofica ci ha consegnato un ritratto conflittuale in cui i suoi tre principali esponenti, Scheler, Plessner e Gehlen, si dedicarono con passione a delegittimarsi a vicenda, una logica che purtroppo ha finito col contagiare anche i rispettivi interpreti. Per un’attenta ricostruzione della storia dell’antropologia filosofica è nel frattempo diventato imprescindibile il poderoso volume di J. Fischer, Philosophische Anthropologie, Freiburg/München 2008. ↩︎
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Mi sono già soffermato su questo punto in: G. Cusinato, La Totalità incompiuta. Antropologia filosofica e ontologia della persona, Milano 2008, 68-79. ↩︎
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M. J. Schleiden, Schelling’s und Hegel’s Verhältnis zur Naturwissenschaft, Leipzig 1844. Per uno sguardo d’insieme cfr. Breidbach/Hoßfeld/Schmidt (Hrsg.), Matthias Jacob Schleiden (1804-1881). Schriften und Vorlesungen zur Anthropologie, Stuttgart 2004. ↩︎
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Cfr. Prigogine/Stengers (a cura di), La nuova alleanza, Torino 1993, 96-102; 278-286. ↩︎
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A proposito di questo tema in Schelling cfr. G. Cusinato, Natura e libertà: Schelling e il problema della causalità, in: «Quaestio» 2 /2002, a cura di C. Esposito, 583-608. ↩︎
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Cfr: L. Hasler (Hrsg.), Schelling. Seine Bedeutung für eine Philosophie der Natur und der Geschichte, Stuttgart 1981; M.-L. Heuser-Keßler, Die Produktivität der Natur. Schellings Naturphilosophie und das neue Paradigma der Selbstorganisation in den Naturwissenschaften, Berlin 1986; Id., Schellings Organismusbegriff und seine Kritik des Mechanismus und Vitalismus, in: «Allgemeine Zeitschrift für Philosophie» 14, Heft 2,17 1989; W. Schmied-Kowarzik, Schelling, in: Klassiker der Naturphilosophie, München 1989; W. Hogrebe, Prädikation und Genesis. Metaphysik als Fundamentalheuristik im Ausgang von Schellings Weltalter, 1989; Heuser-Keßler/Jacobs (Hrsg.), Schelling und die Selbstorganisation. Neue Forschungsperspektiven, Berlin 1994; E. Zimmermann, Die Rekonstruktion von Raum, Zeit und Materie: moderne Implikationen Schellingscher Naturphilosophie, Frankfurt a.M. 1998. In senso critico si sono invece espressi: H.-D. Mutschler, Spekulative und empirische Physik. Aktualität und Grenzen der Naturphilosophie Schellings, Stuttgart 1990; B. O. Küppers, Natur als Organismus. Schellings frühe Naturphilosophie und ihre Bedeutung für die moderne Biologie, 1992 Frankfurt a.M. ↩︎
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Scheler GW XIV, 257-361. ↩︎
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Ibid., 314. ↩︎
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Scheler GW XIV, 325. ↩︎
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Scheler GW III, 231. ↩︎
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Cfr. G. Cusinato, La Totalità incompiuta, op. cit., 81-83. ↩︎
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La lingua tedesca permette qui una duplice traduzione nel senso di ex-centricità propria del mondo nei confronti dell’ambiente ed ex-centricità dal mondo. Ho già dimostrato altrove che solo la prima interpretazione è compatibile con quella di Weltoffenheit. ↩︎
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M. Scheler, La posizione dell’uomo, Milano 2000, 160. ↩︎
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Ibid., 161. ↩︎
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Ibid., 165. ↩︎
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Ibid., 163. Secondo Scheler tutta l’astratta discussione sul dualismo fra anima e corpo avrebbe dovuto entrare definitivamente in crisi già con la teoria del riflesso condizionato di Pavlov e lasciare il posto a un’indagine sulle vaste aree d’interazione fra fenomeni fisici e psichici, e alle prospettive che si aprono in tal senso per la stessa medicina, verificando «in che ampiezza identici modi di comportamento dell’organismo possano essere suscitati da stimoli chimico-fisici esterni o condizionati da una stimolazione psichica, quale ad es. la suggestione, l’ipnosi, i vari tipi di psicoterapia, i cambiamenti dell’ambiente sociale (fattori da cui dipendono molte più malattie di quanto finora si sia potuto supporre)» (Ibid., 164). ↩︎
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Ibid., 166. ↩︎
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Cfr. O. Marquard, Zur Geschichte des philosophischen Begriffs »Anthropologie« seit dem Ende des achtzehnten Jahrhunderts, in: Id., Schwierigkeit mit der Geschichtsphilosophie, Frankfurt a. M. 1973; Id., Anthropologie, in: Historisches Wörterbuch der Philosophie, Basel/Stuttgart, 1971 e seg. ↩︎
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Cfr. M. Scheler, Formare l’uomo, cit., 70. ↩︎
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Ibid., 161. ↩︎
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Cfr. M. Scheler, Modelli e capi, (in corso di stampa presso la FrancoAngeli a cura di E. Caminada). ↩︎
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M. Scheler, La formazione dell’uomo, Milano 2009, 72. ↩︎
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Ibid., 70. ↩︎
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Ibid., 71. ↩︎
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Ibid., 71. ↩︎
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Cfr. G. Cusinato, Absolute Rangordnung und Relativität der Werte im Denken Max Schelers, in: G. Pfafferott (Hg.), Vom Umsturz der Werte in der modernen Gesellschaft, Bonn 1997, 62-80. Noto con piacere che le analisi sul valore come «erster Bote» e «Urphänomen», su cui avevo richiamato l’attenzione nel 1997, sono state recentemente riprese anche nell’articolo di Wei Zhang, Wertapriori und Wertsein in der materialen Wertethik Schelers, in: «Meta: Research in Hermeneutics, Phenomenology, and Practical Philosophy» 2010, 178-194. Wei Zhang se ne differenzia, in parte, quando afferma che il valore è un elemento della Gegebenheit e non della Urgegebenheit. A mio avviso in Scheler il valore, in quanto Urphänomen, fa sicuramente parte dell’ambito empirico, tuttavia non della datità contingente o fattuale (la Gegebenheit): non è coglibile come un attributo o una qualità postuma del dato (questo è il caso della «qualità di valore»), piuttosto è il momento che funzionalizza la datità manifestativa del fenomeno. È proprio per sottolineare questa originarietà del valore rispetto alla Gegebenheit che Scheler definisce il valore come un Urphänomen e non come un semplice Phänomen. Il fraintendimento nasce quando si riconduce semplicisticamente la funzionalizzazione di Scheler all’apriori di Kant, che invece rimane chiaramente distinto dall’empirico (cfr. la nota successiva). ↩︎
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Questa indistinzione fra l’apriori di Kant e l’apriori di Scheler è ancora piuttosto diffusa ed è ad es. alla base dell’articolo di Gerhard Ehrl, Zum Charakter vom Schelers Wertphilosophie, in: «Phänomenologische Forschungen», 2000, 90-115. Ehrl nei fatti finisce con il proiettare nuovamente i valori su di un mondo di oggetti ideali contrapposto all’esperienza, senza accorgersi che Scheler nel Formalismus aveva scritto che i «Werte sind Tatsachen, gehörig zu einer bestimmten Erfahrungsart» (Scheler GW II, 195). Questo spiega anche perché Ehrl confonda poi «valori» e «qualità di valore» (cfr. G. Ehrl, op. cit., 92): nella pagina del Formalismus indicata da Ehrl (43 e non 403) la definizione di «oggetti ideali» non è infatti riferita al valore, ma piuttosto alle «qualità di valore» (cfr. Scheler GW II, 43). ↩︎
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Cfr. G. Cusinato, Katharsis, Napoli 1999, 249-250. ↩︎
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Cfr. Ibid., 11. ↩︎
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Cfr. G. Cusinato, La Totalità incompiuta, op. cit., 184-187. ↩︎
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Sul concetto di «emozioni basilari» cfr. ad es. J. Prinz, Which emotions are basic?, in: Evans/Cruse, Emotion, evolution and rationality, Oxford, 2004. ↩︎
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H. Plessner, Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano, Milano 2000. ↩︎
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Cfr. G. Cusinato, Germinazioni. Rinascita della persona e pratiche di trasformazione, (in corso di stampa). ↩︎
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Ch. Taylor, Human Agency and Language, Cambridge 1985. ↩︎
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Cfr. M. Scheler, Formare l’uomo, cit., 133. ↩︎
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Ibid., 127 (la traduzione italiana è stata parzialmente modificata). ↩︎
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Per un approfondimento di questo testo cfr. G. Salmeri, L’elementare dell’uomo. Ciò che l’antropotecnica costringe a ripensare, in: «Dialegesthai», 2006. ↩︎
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L’interpretazione della postmodernità nel senso di una «ipermodernità» o «modernità radicalizzata» è stata già proposta nel 1990 da A. Giddens, ora in: Le conseguenze della modernità, Bologna 1994. ↩︎
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Cfr. Z. Bauman, La società individualizzata, Bologna 2001. ↩︎
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P. Sloterdijk, Du mußt dein Leben ändern. Über Anthropotechnik, Frankfurt a.M. 2009. ↩︎
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P. Rabbow, Seelenführung: die Methodik der Exerzitien in der Antike, München 1954. ↩︎
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Cfr. J.-L. Nancy, La comunità inoperosa, Napoli 1995; Id., L’esperienza della libertà, Torino 2000. ↩︎
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M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, Milano 2003, 86. ↩︎