L’atto come cellula della persona

1. Modello ed esemplarità: la differenza essenziale fra Io e persona

Fra l’Io umano e la persona vi è un confine essenziale, ma non immediatamente evidente. L’Io umano ha una «prospettiva in prima persona», è in grado di parlare, di lavorare, di relazionarsi socialmente, possiede una consapevolezza di se stesso, prende decisioni e iniziative autonome e socialmente efficaci. L’Io umano è in definitiva il soggetto che dirige il mio modo di vivere preminente, tuttavia non è ancora sufficiente a caratterizzarmi e individuarmi come persona. Ci sono situazioni in cui il modo di vivere preminente entra in crisi fino al caso limite in cui mi scontro con qualcosa di esistenzialmente imprevisto e capace di suscitare la meraviglia, una meraviglia che costringe a una ristrutturazione del modo complessivo di guardare le cose. È in questi interstizi, in cui è richiesto l’intervento dell’intenzionalità degli strati affettivi più profondi, che torna a manifestarsi la persona.

Al contrario dell’identità dell’Io, l’identità personale non si costituisce prendendo come punto di partenza l’esperienza del familiare, dello scontato — tutti caratteri essenziali per un ruolo sociale — ma si determina in un processo d’individualizzazione che è deviazione, in quanto aperto alla possibilità di venir disorientato da qualcosa che non è stato stabilito da me stesso e neppure dai modelli preminenti di orientamento sociale. È questo il rovesciamento implicito nel passaggio dall’Io alla persona: capacità di farsi deragliare dai binari del noicentrismo, capacità di abbandonare e rinunciare a tutto per esporsi al rischio del rinnovamento.

Ancora oggi non è stata del tutto superata la visione riduttivistica dell’essere umano che considera la persona un semplice ruolo sociale: una maschera, in cui la persona viene confusa con l’Io.1 L’Io emerge dal noicentrismo e costituisce la propria identità nella lotta per il sostentamento e il riconoscimento sociale. Si tratta di una identità necessariamente oppositiva, che avanza attraverso un processo di rafforzamento ed espansione del proprio polo egologico: si corazza, tende a fagocitare e ricondurre tutto al se medesimo, neutralizzando le differenze che incontra sul proprio cammino. La neutralizzazione delle differenze qualitative è particolarmente evidente nel caso della formazione dell’identità di gruppo: questa si forma in base a un modello che produce uniformizzazione fra i diversi membri, riversando discriminazione, cioè differenza arbitraria, verso tutto ciò che rimane non omologabile.

René Girard ha sicuramente il merito di aver riconosciuto la funzione determinante del «modello» nel processo di costituzione dell’identità noicentrica attraverso la triangolazione del desiderio: il mio desiderio per qualcosa in realtà non sarebbe altro che il desiderio mimetico del prestigio di chi possiede quell’oggetto e viene eletto a modello di un’esistenza riuscita. Il desiderio mimetico, mirando a possedere l’oggetto esibito dall’altro, propriamente non è desiderio dell’oggetto in sé, ma piuttosto del riconoscimento a esso connesso. L’uomo desidera

un essere di cui si sente privo e di cui qualcun altro gli sembra fornito. Il soggetto attende dall’altro che gli dica ciò che si deve desiderare, per acquistare tale essere. Se il modello, già dotato a quanto pare di un essere superiore, desidera qualcosa, non può trattarsi d’altro che di un oggetto capace di conferire una pienezza d’essere anche più totale. Non è con le parole, è con il suo stesso desiderio che il modello indica al soggetto l’oggetto supremamente desiderabile.2

L’altro s’impone come modello di pienezza d’essere attraverso l’esibizione degli oggetti posseduti, da qui il tentativo di costituire la propria identità attraverso la lotta per la loro conquista. Pur potendo avere anche una funzione positiva, ad es. nella trasmissione del sapere e nella formazione delle istituzioni sociali, è chiaro che il desiderio mimetico rimane sempre sul punto di cadere in un circolo autodistruttivo. Il valore dell’oggetto conteso aumenterà in modo direttamente proporzionale alla resistenza frapposta dal modello:

se il desiderio è libero di fissarsi dove vuole, la sua natura mimetica lo trascinerà quasi sempre nell’impasse del double bind. La libera mimesis si getta ciecamente sull’ostacolo di un oggetto concorrente (Ibid.).

L’uomo desidera intensamente proprio perché prima di tutto desidera essere. Una volta disimparato a essere cade facilmente nell’equivoco di scambiare l’essere con i segni esteriori del riconoscimento sociale e finisce col vivere nel costante terrore di rimanere invisibile. Nel desiderio mimetico, descritto da Girard, l’uomo s’illude di essere impossessandosi semplicemente dei simboli del prestigio altrui: si tratta di una «credenza magica», ma fondata sulla giusta intuizione che è in direzione della partecipazione all’alterità che è possibile realizzare il desiderio di essere. Ma di quale relazione con l’altro si tratta? Le analisi del desiderio mimetico sviluppate da Girard costituiscono solo il momento più appariscente di questo fenomeno e andrebbero senz’altro integrate con quelle, svolte all’inizio del Novecento, da Max Scheler a proposito della teoria del Vorbild, analizzando come il desiderio di essere, che per realizzarsi non può evidentemente limitarsi all’appropriazione di simboli totemici, abbia bisogno di immergersi concretamente nel «convissuto» di chi è riuscito a «essere» in modo esemplare.

Per poter affrontare più incisivamente il problema propongo tuttavia una distinzione che vuole rimanere libera tanto nei confronti del desiderio mimetico di Girard quanto del Vorbild di Scheler: quella fra modello dell’Io ed esemplarità della persona.3 Il modello, esibendo simboli di prestigio, produce livellamento esattamente come l’esemplarità, offrendo uno spazio di «covissuto» alla compartecipazione, promuove e fa affiorare le differenze qualitative individuali. L’esemplarità è un fattore «spirituale» che agisce nel senso di legare e tenere insieme in modo del tutto diverso dalla paura, dalla minaccia e dalla convenienza. Non si tratta di unire le forze per risolvere una minaccia esterna incombente (questo lo sanno fare anche gli insetti sociali), ma di un legame non simbiotico in cui tuttavia sento una comunanza solidaristica nella crescita della densità esistenziale con l’altro, tanto che quando questo legame si spezza, o si allenta, posso patirne in modo chiaro e distinto l’assenza o l’attenuazione.

Nel covissuto dell’esemplarità, l’altro mi aiuta a entrare in contatto con quella forza che mi fa sentire vivo e che quindi mi fa essere, invece nel modello identifico totemicamente tale energia nei desideri e negli oggetti posseduti dall’altro. Così facendo il modello si presta a diventare lo schermo su cui proiettare fantasmaticamente quella forza che non riesco a trovare, ma che nel contempo intuisco essere indispensabile per dare finalmente densità e visibilità a una vita altrimenti spenta. Certo anche la separazione dall’esemplarità produce sofferenza, ma almeno in relazione a qualcosa che esiste. Inoltre, se tale separazione non avviene troppo presto, non comprometterà l’accesso alla forza che fa sentire vivi. Invece il modello, essendo di natura virtuale, propriamente non abbandona: semplicemente svanisce improvvisamente nel nulla facendo sorgere l’impressione, in chi lo imitava, di essere altrettanto vanescente. L’aspetto tragico (e in alcuni casi tragicomico) dell’innamoramento basato sul proiettivismo egologico, aspetto su cui da sempre fa leva il seduttore, consiste nel non rendersi conto che spesso il momento di massima solitudine è proprio quello che precede la separazione, e non quello che la segue:4 il momento in cui il seduttore è ancora fisicamente presente, ma ingannando ogni covissuto. Almeno la volatilizzazione del seduttore può essere l’occasione per rompere il meccanismo fantasmatico autoreferenziale che aiutava a tener in piedi, un processo doloroso, che però può coincidere con una riconquista di densità esistenziale.

Probabilmente non l’arte, come la concepiamo oggi, ma questo aspetto manipolativo del proiettivismo egologico era il vero obiettivo polemico di Platone. Nel Sofista Platone distingue due modi di creare immagini (o attività di eidola poiein) alla base della mimesis: nel primo, eikastike, c’è una similitudine, una somiglianza con l’originale, nel secondo, phantastike, prevale invece la manipolazione del soggetto (Sofista, 236a-236d).5 Nel primo caso la formazione dell’immagine coincide con lo stesso processo iconico di manifestazione dell’originale e, non risolvendosi in un prodotto meramente gnoseologico o soggettivo, si dà solo di fronte a una capacità di aprirsi e partecipare alla manifestazione dell’originale, comportando un drastico ampliamento dell’orizzonte percettivo. Nel secondo caso invece il soggetto nella costruzione dell’immagine si limita a proiettare in essa i propri bisogni e — deformandola a proprio uso e consumo — si condanna alla chiusura ambientale, cioè a rimanere prigioniero della propria dimensione solipsistica.6

L’arte di fabbricare eidolon (l’eidolopoiike di cui parla Platone) è da condannare nella misura in cui diventa la fabbrica di sogni, o meglio di idoli, che erige i vitelli d’oro nella nuova era della virtualità mediatica, frutto del proiettivismo egologico collettivo,7 apice del processo di centricità organica.8 Da questa fiction eidologico-virtuale di tipo proiettivo va distinta una realtà materialmente iconica che è colta solo in modo recettivo: l’esemplarità. La persona è passiva laddove l’Io è attivo e attiva dove l’Io è meramente passivo. Con la sua intentio preafferrante e anticipante l’Io è attivo nel percepire protenzionalmente9 gli oggetti fantasmatici del desiderio, ma poi passivo nell’imitare i modelli sociali che dirigono il desiderio stesso: ripete meccanicamente il modello fino a uniformarsi ontologicamente a esso; liberandosi dal momento iconico e puntando su quello fantasmatico, è sempre sul punto di trasformare l’eidolon in idolo. La persona invece ha la capacità recettiva-passiva di esporsi all’ascolto del diverso da sé, ma poi è attiva nello sviluppare gli esempi iconici che la contagiano: l’esempio germina dal di dentro fino a diventare il materiale su cui costruire la deviazione precipua del proprio percorso individuale. Per porsi nelle condizioni di ricevere e venir fecondati passivamente dall’esemplarità iconica è necessario innanzitutto un processo di svuotamento kenotico dalla pienezza del proprio egocentrismo proiettivo. Solo dopo l’esemplarità riesce a contagiare nel senso di un’alterità che aiuta maieuticamente a far partorire se stessi una seconda volta.

L’iconicità è alla base dei tre momenti costitutivi dell’esemplarità. In quello maieutico emerge un’istanza anti-assolutizzante in quanto nell’esemplarità non c’è un obbligo: esattamente come il Socrate philo-sophos, l’esemplarità non ha una sophia da trasmettere attraverso comandamenti o norme universali ed eterne. Non impone qualcosa, come avviene per il modello, piuttosto accende e ridesta, suscitando dal di dentro una risposta innovativa; per questo se la partecipazione dell’Io a un modello è obbligata a muoversi lungo un binario uniformante, la compartecipatività propria della persona può irradiarsi liberamente in tutte le direzioni.

In quello rettificante emerge al contrario un’istanza anti-relativistica: nell’esemplarità il rapporto ai valori viene colto come un momento di rettificazione (nel senso di Agostino) irriducibile al soggetto: esisterà un modo corretto o distorto di rapportarmi alle mie aspirazioni individuali più profonde, che trova il proprio punto di equilibrio nella realizzazione di un ordo amoris.

Infine in quello solidaristico è individuabile un’istanza anti-solipsistica: nella misura in cui pretendo di auto-progettarmi cado inevitabilmente vittima del mio désordre du cœur, mentre è solo in una prospettiva solidaristica che riesco a ricostituire al centro della mia esistenza l’ordo amoris che mi consente di essere libero.

L’esemplarità può aspirare a una validità assoluta, ma dandosi a ciascuna persona concreta in modo individuale. L’esemplarità non è un catturare che uni-forma: piuttosto è una tras-figurazione nel senso di una Um-bildung volta a generare qualcosa oltre se stessa. Invece di appiattirmi su se stessa l’esemplarità mi trasmette il balzo in avanti che sta dietro il suo successo, mettendo in moto un processo di valorizzazione delle differenze.

È il problema del carisma esemplare: che rapporto c’è fra l’esemplarità e la seduzione implicita nel concetto scheleriano di capo? Anche una esemplarità seduce, tuttavia il sedurre dell’esemplarità carismatica, essendo preceduta da un atto di kenosis, non se-duce autoreferenzialmente al sé fattuale, ma con-duce al nucleo del gesto esemplare con cui la vita ha trasceso se stessa in direzione dello sforzo solidaristico che quell’individuo lì ha attuato esemplarmente. La sequela dell’esemplarità con-duce nel momento critico del salto necessario a trascendere la propria dimensione egologica, quello in cui si abbandona tutto per guadagnare tutto. In questo salto nel vuoto è effettivamente presupposto un atto di fede: per non rimanere paralizzati dalla paura di saltare occorre farsi prendere per mano e credere che l’esemplarità sia capace di sorreggerci, evitandoci la caduta.

Il modello noicentrico invece paralizza chi è in procinto di saltare infondendo sicurezza e rassicurando sulle basi su cui poggia chi è rimasto fermo in piedi su se stesso, in tal modo si genera consenso, ma anche l’inevitabile restringimento dell’orizzonte axiologico complessivo.

2. Il solidarismo come superamento del relativismo e del dogmatismo etico

In questa prospettiva l’esemplarità permette un superamento non solo del relativismo ma pure del dogmatismo etico. Si tratta di ritornare a riflettere su quella connessione, già rintracciabile nei testi di Max Scheler, fra il principio di solidarietà soterica — enunciato nel manoscritto Absolutsphäre und Realsetzung der Gottesidee (1916) — e la successiva teoria del riequilibrio o armonizzazione (Ausgleich). Il punto di vista caratterizzante con cui la singola persona si rapporta alla gerarchia dei valori non ha nulla a che fare con il relativismo e non intacca minimamente l’oggettività del valore stesso. L’aver misconosciuto che la persona è tale in quanto espressione ontologica di un punto di vista axiologico irriproducibile, di una presa di posizione unica e inconfondibile nei confronti del mondo dei valori, è stato il principale limite dell’etica kantiana. L’equivoco è quello di pensare che più un agire etico s’impone come universale, meno sia relativistico: in questo modo si trasferisce indebitamente sul piano etico la metodologia adottata da Galileo Galilei per determinare le leggi fisiche.

Il problema sollevato dal relativismo etico non è tanto il sostenere l’esistenza di diversi punti di vista axiologici (più propriamente in questo caso bisognerebbe parlare di prospettivismo etico), ma il fatto di ritenere che i punti di riferimento axiologici non abbiano un fondamento ontologico, ma esclusivamente convenzionale o arbitrario. Questo sarebbe vero solo se l’orientamento axiologico si basasse su di un giudizio di valore. In altri termini il momento convenzionale o arbitrario riguarda il giudizio di valore, che è sul piano morale, ma non l’etica che ha a che fare con l’ampiezza della recezione del valore, precedente il giudizio di valore.10 Le diverse prospettive da cui è possibile guardare un monte non sono un fatto convenzionale o arbitrario ma ontologico, il giudizio su quella che si ritiene essere la più estetica avrà invece un carattere arbitrario o convenzionale. Il problema è che la convenzione, per natura, può aspirare ad avere una validità universale, ma se esistono convenzioni con validità universale, allora è necessario abbandonare la via dell’universalità, per cercare di sconfiggere il relativismo etico sul piano opposto, cioè attraverso la dimostrazione della consistenza ontologica del prospettivismo etico.

Il prospettivismo etico si distingue dal relativismo etico nella misura in cui riesce ad ancorarsi allo statuto ontologico dell’ordo amoris della singola persona. Una scelta etica risulta non relativista anche se espressione di una sola vocazione individuale debitamente rettificata. Più quella persona lì diventerà unica, meno il suo agire etico risulterà convenzionale o arbitrario; più quella persona lì svilupperà ontologicamente la propria particolarità mediante l’esemplarità, più il suo agire etico cercherà di corrispondere al bisogno di realizzare la propria vocazione individuale. Tutto si gioca sul fatto che l’agire etico dell’individuo non si fonda sul libero arbitrio. È qui che va scandagliata la fecondità implicita nel concetto di solidarismo: è il solidarismo, non l’universalismo il punto di riferimento finale dell’etica.

La differenza qualitativa non comporta di per sé il relativismo. Se l’emergere di diverse prospettive personali è il risultato di un percorso di formazione individuale non solipsistico, la conseguenza non è il relativismo etico, quanto il solidarismo etico: ogni sviluppo e perfezionamento nell’ordo amoris di una persona singola è da concepire come un passo in avanti nel processo di disvelamento infinito della assoluta gerarchia dei valori.11 Ogniqualvolta un individuo, un popolo, una cultura, una religione o una nazione perde la capacità di sviluppare ermeneuticamente la propria visione complessiva, e interrompe così l’azione dei fattori spirituali volta al solidarismo etico, ricade automaticamente nella logica oppositiva, arrogandosi il diritto di possedere una visione ideologicamente conclusa.

Così come il relativismo cade di fronte al fatto che il processo d’individualizzazione della persona poggia su basi ontologiche, altrettanto il dogmatismo cade di fronte al fatto che tale processo rimane un compito infinito, possibile solo in una prospettiva solidaristica, in quanto il mondo dei valori non si dà mai alla finitudine umana in modo apodittico, ma rimane sempre parzialmente trascendente. Più la singola persona realizza la propria vocazione individuale, e quindi fa emergere le proprie irripetibili differenze qualitative, più contribuisce ad ampliare l’orizzonte axiologico complessivo. A sua volta la singolarizzazione personale richiede un processo di rettificazione esemplare che rimane inscritto all’interno di uno sforzo solidaristico comune.

Questo sforzo solidaristico, orientato dai fattori spirituali, tende in ultima analisi a salvare dal non vivere, quello derivante dal non riuscire a dare forma al proprio essere personale. Più una persona si «individualizza», più riesce a vivere intensamente, più rinasce e si salva. A livello della comunità questo significa che nello sforzo vocazionale di realizzarsi del singolo membro è all’opera e si perfeziona l’esemplarità di tutta la comunità: più un membro viene salvato dallo sforzo solidaristico, più salva la comunità in cui vive.

3. La rinascita attraverso la rettificazione dell’esemplarità

L’antropologia filosofica del XX secolo ha cercato di comprendere l’uomo a partire dal concetto nietzschiano di uomo come animale malato. E se invece il tratto distintivo fosse da ricercare non in una carenza biologica, bensì in una incompiutezza spirituale? Se la persona si distinguesse ontologicamente da tutti gli altri enti in quanto l’essere incompiuto che ha bisogno di nascere una seconda volta? Si tratta di una tesi che, pur essendo molto antica, non è stata ancora filosoficamente recepita e sviluppata come meriterebbe. Il principale riferimento rimane l’incontro con Nicodemo, descritto nel Vangelo di Giovanni. Alla domanda di Nicodemo su che cosa sia la conversione, Gesù risponde:

In verità, in verità ti dico che se uno non è nato di nuovo (anothen) non può vedere il regno di Dio». Gli dice Nicodemo: «Come può un uomo nascere se è già vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» Gesù rispose: «In verità, in verità ti dico che se uno non è nato dall’acqua e dallo Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne, è carne; e quello che è nato dallo Spirito, è spirito. Non ti meravigliare se ti ho detto: bisogna che nasciate di nuovo (anothen) (Gv 3, 1-7).

Quello che notoriamente Nicodemo non comprende è che accanto al primo parto, quello dalla carne, per il cristiano è necessario un secondo parto in cui rinascere nel doppio significato di anothen: «di nuovo» e «dall’alto». Se il primo parto è ancora connesso alle vicende della prima creazione, il secondo parto — dallo Spirito e attraverso il battesimo (come suggerisce il riferimento all’acqua) — implica un cambiamento radicale e inspiegabile rispetto alla logica fattuale, tanto che «l’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio, esse sono follia per lui» (1Co 2, 14). Tale cambiamento nel Nuovo testamento coincide con l’idea di una «seconda creazione».12

Nel cristianesimo il parto biologico dalla carne dà alla luce un essere che dal punto di vista spirituale è ancora incompleto e quindi bisognoso di un secondo parto. È una tesi così dirompente che Nicodemo la fraintende subito in senso fisico, tanto da chiedere sgomento come sia mai possibile ritornare nuovamente nel grembo materno: l’imparare a rinascere viene frainteso alla lettera come ripetizione di un processo immanente al modo di vivere abitudinario. Si tratta di un fraintendimento così naturale e istintivo da ricordare quello che nel platonismo ha spesso accompagnato l’interpretazione dell’imparare a morire: a ben vedere anche qui l’invito a «imparare a morire» viene falsamente preso alla lettera, in senso fisico, riducendo la riflessione sulla morte da occasione di messa in discussione del vivere abitudinario a suo evento culminante.13 Se non interpretati in senso fisico, il «nascere di nuovo» e l’«imparare a morire» convergono verso l’idea di un imparare a vivere, contrapposto non tanto alla vita terrena in quanto tale, ma al modo di vivere abitudinario, fattuale.

In questa occasione preferisco limitarmi alla tradizione cristiana, in quanto mi pare che in Platone il parto, pur al centro della maieutica, propriamente non sia inteso come ri-nascita, quanto come ri-sveglio ottenuto attraverso l’anamnesis. Ebbene come si produce propriamente questa rinascita dall’alto grazie ai fattori spirituali? Nella tradizione filosofica cristiana questa rinascita è il risultato di un processo di rettificazione del proprio désordre du cœur. Secondo Agostino la caritas si oppone al disordine della concupiscentia in quanto «amore ordinato», volto a proporzionare la propria intensità alla dignità ontologica dell’oggetto amato. È solo il riferimento a un ordine axiologico, non costruito dal soggetto, a permettere la rettificazione dei moti altrimenti soggettivi e disordinati dell’animo. In modo simile Scheler sottolinea che la Bildung, cioè la fioritura degli strati affettivi della persona, è possibile solo grazie a un’opera di costante rettificazione della loro orientatività. Il riferimento a un ordine axiologico, oggettivo nel senso di irriducibile al proiettivismo noicentrico, non sottintende un ritorno al dogmatismo etico, ma a qualcosa di ben più dirompente: la possibilità di deviare ex-centricamente dal desiderio mimetico e dal modo di vivere abitudinario.

Ma da dove trae origine la linfa di questo slancio spirituale? In Liebe und Erkenntnis Scheler, sempre richiamandosi ad Agostino, aveva riconosciuto all’atto dell’amare agapico la capacità d’aprirsi a un’intenzionalità che non parte dall’ego quanto dal mondo. Dal momento che la percezione e la conoscenza sono il risultato di un’attività selettiva (e non kantianamente sintetica) esiste una assoluta preminenza ontologica dell’interesse e dell’amare nei confronti del conoscere:

ogni incremento nella pienezza del manifestarsi e del significato con cui qualcosa si dà a noi […] è l’immediata conseguenza dell’incremento del nostro interesse e in ultima analisi del nostro amare nei suoi confronti […] ogni ampliamento e approfondimento della nostra visione del mondo è legato a un antecedente ampliamento e approfondimento della sfera del nostro interesse e amare (GW VI, 96).14

La correlazione fra l’intensità dell’amare e la pienezza con cui ciò che è intenzionato dall’amare si manifesta non è gnoseologica bensì ontologica. Inoltre in quanto correlazione la pienezza della manifestatività non è lontanamente comprensibile rimanendo nell’ottica del soggetto: al domandare dell’amare il mondo risponde dischiudendosi in un rimando infinito fra intenzionalità dell’amare e autorivelazione del fenomeno:

la sempre maggior pienezza con cui si dà l’oggetto col crescere dell’amare e dell’interesse, non è per lui [Agostino] il risultato di un’attività del soggetto conoscente che penetra in un oggetto precostituito, quanto piuttosto una reazione con cui l’oggetto stesso risponde: un offrirsi, un dischiudersi, un aprirsi dell’oggetto, cioè una vera autorivelazione dell’oggetto. Vi è un domandare dell’amare a cui il mondo risponde dischiudendosi e solo così arriva alla sua pienezza di esistenza e valore (GW VI, 97).

Dunque una maggiore apertura fenomenica è la risposta a un’intensificazione dell’amare e corrisponde a un maggior livello di compartecipazione: è la pienezza dell’amare a determinare il grado d’apertura con cui l’uomo s’affaccia sul mondo, fino a quello massimo rappresentato dalla Weltoffenheit. Così attraverso il grado d’intensità del proprio ordo amoris l’uomo penetra i differenti livelli della realtà fino a raggiungere quello che esprime una «risposta» corrispondente alla propria intensità. Ho già proposto in precedenti lavori d’interpretare questo grado di apertura come oggettivamente misurato dalla classe del valore che lo ha reso possibile: il valore diventa in tal modo il «diaframma» che regola la ristrettezza o l’ampiezza del campo di rilevanza, cioè del processo selettivo, fino al valore del sacro che annulla e rovescia sotericamente la selettività stessa nella più completa Weltoffenheit.

Il segreto della persona è racchiuso nel suo modo di venire alla luce: la sua essenza non è altro che la matrice del percorso ontologico con cui quella persona lì si manifesta compiendo una deviazione rispetto al piano noicentrico della quotidianità.15 Si tratta di una Um-bildung in cui l’«um» implica una tras-formazione grazie a un’opera di rettificazione. La Um-bildung raddrizza il désordre du cœur dell’uomo solipsisticamente incurvato su se stesso.

Proprio perché non è in suo potere, proprio perché implica una dimensione puramente «passiva» di patimento, la rettificazione è la croce della persona, vissuta come sofferenza. La rinascita incontra con essa una dolorosa resistenza nella carne della persona, fino a diventare l’incarnazione dello spirituale: è patire nel senso di diventare capaci di ricevere e di farsi afferrare da un’esemplarità. L’essenza della persona, la sua espressività,16 è determinata dal modo in cui viene imitata e realizzata l’incarnazione che guida l’Um-bildung.

Nell’incarnazione lo spirituale diventa iconicamente visibile e quindi imitabile, si rivela cioè il sacro che contagia e fa germinare. Uno dei più influenti casi di imitatio Christi della storia occidentale è quello di S. Francesco: ebbene Francesco spogliandosi del mantello si veste d’esemplarità. Solo in tale «svuotamento», in tale kenosis, lo spirituale diventa iconico e imitabile nel senso della rinascita. All’opposto il modello noicentrico, basandosi su una mimesis proiettiva, produce livellamento.

4. L’atto come «cellula» prodotta dall’ordo amoris della persona

Al centro dell’ontologia della persona va posto il problema della rinascita intesa come parto dallo spirito che dà forma alla propria anima. È questo che distingue ontologicamente la persona dall’Io. Il non aver colto la centralità di questi due temi è il limite decisivo dell’attuale dibattito filosofico sulla persona.17 Ignorare questi temi significa mantenere l’ontologia della persona in una condizione esterna al proprio oggetto: la prospettiva in prima persona, la discussione sull’identità diacronica, la consapevolezza autocosciente di sé, l’autointerpretazione, la capacità di avere un buon progetto di vita, il sentimento del rispetto rimangono altrettanti capitoli immaginari di un Prolegomena allo studio della persona, quasi s’avesse timore a passare dalla delineazione astratta di una teoria generale della persona a una vera e propria ontologia materiale della persona.

È possibile andare oltre e cercare di rispondere concretamente alla domanda: che cos’è la persona? Uno degli ostacoli maggiori nelle attuali filosofie della persona consiste, a mio avviso, nella completa mancanza di un qualche confronto non solo con l’antropologia filosofica del secolo scorso, ma pure con i risultati ottenuti negli ultimi decenni dalle scienze biologiche, come se questo significasse necessariamente ricadere in una qualche forma di riduzionismo naturalistico. Invece è proprio da qui che occorre partire.

Un passo nella giusta direzione venne compiuto, tempo fa, da H. Jonas, in Organismo e libertà, affermando che l’organismo è «una sorpresa ontologica»;18 Jonas ha pure il merito di cogliere l’essenza dell’identità organica attraverso il concetto di metabolismo. Purtroppo si tratta di un’intuizione isolata che rimane circoscritta in una prospettiva finalistica e che mi pare venga sviluppata in modo molto più convincente e approfondito nei decenni successivi attraverso le ricerche di Maturana e Luhmann.

Nelle scienze biologiche si cerca di comprendere l’organismo a partire dalla capacità di auto-organizzarsi, di rapportarsi all’ambiente e di posizionarsi nella vita. Qual è il dato essenziale? La nuova teoria dei sistemi ha dimostrato che un organismo è sì un sistema aperto a uno scambio continuo con l’ambiente, ma attenzione: dall’ambiente importa direttamente solo i materiali di base e le energie che poi la chiusura operativa del sistema s’incarica di metabolizzare negli elementi costitutivi dell’organismo stesso. In altri termini l’organismo non importa direttamente dall’ambiente le proprie cellule e i «pezzi di ricambio» già strutturati, ma solo i materiali di base necessari a produrli. La chiusura operativa si esplicita nel metabolismo. Nella metabolizzazione il materiale originariamente estraneo viene ristrutturato secondo la logica sistemica assumendo una nuova forma, di conseguenza l’organismo si rivela ontologicamente nuovo solo nei confronti dei materiali che metabolizza, ma non delle proprie cellule.

Che cosa avviene con la persona? Relativamente ai sistemi psichici e alle funzioni,19 che costituiscono l’ambiente in cui vive la persona, vi è un processo analogo: la persona in base alla propria chiusura operativa metabolizza le funzioni psichiche in atti. Per precisare meglio la situazione propongo di riferire l’atto esclusivamente alla persona: un Io psichico non può eseguire atti, ma solo azioni e funzioni.20 Ma qui emerge un paradosso in quanto se la persona, in modo analogo all’organismo, si distingue dall’ambiente in base alla propria chiusura operativa è anche vero che non è in tale operazione che la persona costituisce la propria identità ultima, come invece avviene nell’organismo e nell’Io. Scoprendo di avere una forma incompiuta la persona si trova davanti un compito ontologicamente imprevisto: quello di dar forma alla propria anima grazie alla co-esecuzione degli atti metabolizzati. La co-esecuzione, pur rappresentando una forma di apertura, non comporta tuttavia una dissipazione del sistema, come invece avviene nei sistemi autopoietici, ma al contrario un’ulteriore accentuazione del processo d’individualizzazione.

La persona s’avvale di una chiusura operativa solo nel processo di differenziazione dai sistemi psichici mentre, nel darsi quella forma che non possiede fin dall’inizio, s’affida a un’apertura compartecipativa verso gli altri sistemi personali. Il motivo risiede nella natura stessa dell’atto: l’atto non viene eseguito (come un’azione o una funzione psichica), ma per l’appunto co-eseguito, in quanto è sempre parte di un processo compartecipativo che esplicita la propria funzione soterica rettificando il désordre du cœur solipsistico in ordo amoris.

Ma come avviene concretamente questo processo indispensabile a un essere, come l’uomo, che nasce spiritualmente incompleto? La rinascita avviene attraverso la co-esecuzione dell’atto: ogni atto è un passo, un tassello ulteriore nel processo di costituzione dell’identità personale. In tal modo la persona si distingue dall’Io metabolizzando funzioni psichiche in atti ma poi ri-nasce una seconda volta «dall’alto», dando forma alla propria incompiutezza, nella misura in cui co-esegue correttamente gli atti metabolizzati. Nel primo caso l’atto è il punto di arrivo, nel secondo diventa il punto di partenza di quella deviazione ontologica, determinata dalla rettificazione soterica dell’esemplarità, attraverso cui emergono le differenze qualitative e grazie a cui prende forma l’identità della persona.

La persona si costituisce come una totalità incompiuta che metabolizza le funzioni psichiche in atti, ma poi nella co-esecuzione dell’atto metabolizzato, dà forma a se stessa in un processo di tras-formazione non autopoietico, bensì compartecipativo. Mentre l’Io si rapporta agli altri sistemi nel senso della «strukturelle Kopplung» di Luhmann o della uniformizzazione al gruppo, la persona compartecipa agli altri sistemi personali grazie a una singolarizzazione operativa incompiuta. In altri termini nella co-esecuzione la persona non auto-organizza gli atti autopoieticamente, ma li organizza compartecipativamente, nel senso di farsi contagiare da un’esemplarità che porta alla luce le differenze qualitative di quella persona lì.21

5. Totalità incompiuta come apertura temporalizzata

Questo nascere spiritualmente incompleti è un ostacolo alla libertà umana? Non è forse rispondendo alla sfida implicita nella rinascita che la persona si realizza? La persona è una totalità incompiuta, cioè una totalità che non è stata data tutta in una volta sola: ammettendo un momento originario di compartecipatività dichiara definitivamente la propria non autosufficienza, intaccando in tal modo il principio di chiusura operativa autopoietica, almeno così come era stato enunciato da Luhmann. Eppure proprio grazie al fatto di essere totalità incompiuta la persona rimane aperta alla fecondazione della temporalità: se pretendesse di assolutizzarsi, come nel caso del demoniaco, ricadrebbe nel solipsismo, troncherebbe i rapporti con la dimensione compartecipativa ritornando alla logica della ripetizione e della riconduzione psichica al se medesimo.

Questo permette una ulteriore distinzione nei confronti dell’Io. L’identità dell’Io essendo «compiuta» non ha bisogno di una temporalità di ordine superiore, proprio perché il suo orizzonte temporale è quello dell’autoprogettualità e non richiede l’esposizione in spazi aperti, al contrario l’identità compartecipativa si costituisce trasferendosi, con ogni gesto, nell’esposizione al rischio esistenziale. È solo perché il suo percorso espressivo avviene su di un piano temporalmente diverso da quello psichico che la persona si rivela un centro creativo inesauribile.

L’uomo è l’essere in cui le aspettative pulsionali che rimangono inappagate gettano una luce di precarietà su quelle appagate facendo emergere un «campo vuoto». L’eccedenza sulla ripetizione (sull’istinto, tradizione, mondo-ambiente, ecc.) permette all’uomo di temporalizzare e rendere precarie le determinazioni che si sono affermate e imposte socialmente nel modello preminente, indebolendo il legame nei confronti del già scelto. Tutto ciò non si traduce in un maggior potere della propria autoprogettualità, ma nel diventar terreno aperto all’irruzione del futuro: un gettare indietro la fattualità per emanciparsi dalla ripetizione. L’uomo rispetto agli altri esseri viventi risulta pertanto ex-centrico e sradicabile dal senso del proprio passato.

L’anomalia (già rilevata a proposito dell’identità compartecipativa) consiste nel fatto che, a un maggiore grado di libertà nel rapportarmi al mio passato, non corrisponde una dissipazione della mia identità, ma al contrario una sua accentuazione, una maggiore intensità dei miei atti, come resi più appuntiti e in grado d’incidere meglio, e più in profondità, il piano fattuale. Lo spazio guadagnato alla fattualità è uno spazio offerto alla compartecipatività. Si tratta d’istanti molto rari, quali quelli che precedono una decisione importante o che seguono un evento molto grave. Al contrario una maggiore adesione all’Io toglie inevitabilmente spazio ai miei atti e corrisponde a una maggiore dispersione, a una rarefazione della mia identità personale.

Ci saranno diversi gradi d’intensità con cui la co-esecuzione dell’atto può interrompere la successione del tempo lineare, diversi modi d’aprirsi un varco nel piano della fattualità, ma in tutti è il recupero di un contatto compartecipativo a far sgorgare dall’attimo, da un ordine temporale escatologico, un momento creativo indeducibile dalla catena del prima e del dopo. L’emersione dell’atto non rinvia direttamente alla connessione complessiva del mio passato e neppure al suo orizzonte di possibilità, ma li trascende entrambi grazie alla sua natura compartecipativa. È in questo spazio che la persona cresce, cioè si costituisce attraverso un proprio percorso di deviazione ontologica.

6. Pentimento e rinascita

La condizione della rinascita è un’incompiutezza circondata e incubata da un «vuoto promettente»,22 che in quanto tale non s’impone apoditticamente. Dunque non un vuoto nichilistico, bensì un vuoto fecondo, generativo, in cui è implicita la promessa aurorale di un nuovo inizio, anche se imprevedibile. Per questo ciò che caratterizza la persona non è l’essere un ente «ontologicamente nuovo», che determina una rottura autopoietica rispetto al proprio ambiente nella metabolizzazione dell’atto, ma l’essere un ente «ontologicamente innovativo», che inaugura un nuovo spazio innanzi a sé nella co-esecuzione dell’atto. La persona è «ente nuovo» nei confronti delle funzioni psichiche — esattamente come un organismo lo è nei confronti dei suoi costituenti di base (gli elementi chimici e l’energia che importa dall’ambiente) — tuttavia la sua peculiarità consiste nel diventare un «ente innovativo» non appena si rapporta alle proprie cellule (cioè ai suoi atti).23 Se la persona esaurisse il proprio essere ontologico in qualcosa di nuovo rispetto al passato sarebbe una totalità compiuta, invece la persona è una totalità incompiuta proprio perché costantemente innovativa rispetto al presente fattuale che la circonda. È la testimonianza vivente della possibilità di un rovesciamento e di un «secondo inizio» che può germogliare in ogni attimo. In questo senso mi pare che un notevole aiuto a comprendere la persona come l’ente ontologicamente inaugurale possa provenire dall’escatologia di Jürgen Moltmann.

È l’atto del pentimento (un atto oggi in via d’estinzione e sempre più profondamente frainteso) a mettere meglio in evidenza il senso in cui la rinascita è possibile, quel fenomeno del pentimento che Max Scheler riteneva possibile solo di fronte a Dio, tanto da arrivare a vedere in esso addirittura la dimostrazione fenomenologica della sua esistenza.24 Nel pentimento la persona rivolge il proprio sguardo verso un passato invecchiato. È quindi essenzialmente l’esperienza di una frattura. Nel pentimento accade qualcosa di sorprendente: indipendentemente dalla mia volontà trovo ripugnante e profondamente sbagliata un’azione che avevo compiuto nel passato, non m’identifico più in qualcosa che avevo fatto e di cui magari prima andavo molto fiero. Nel pentimento mi accorgo di detestare l’esser stato autore di un determinato atto, constato sulla mia pelle una violenta presa di distanza.

Il pentimento è una ferita dolorante. Che cosa ferisce? Quello che fa star male è l’essere stati responsabili di un certo atto che non ci corrisponde più. È questa responsabilità, che esprime il nucleo più autentico della persona, a premere e ferire fino a segnalare una mancanza: nel pentimento mi trovo nella situazione paradossale per cui sono responsabile di qualcosa che ora contraddice esplicitamente il mio modo di essere. Non devo trasformare o adeguare formalmente il mio essere, come accade nell’opportunismo, perché esso è già stato profondamente trasformato. Com’è possibile? Il pentimento non motiva un processo di tras-formazione, piuttosto ne è la fase finale: prende atto che questo processo non ha ancora coinvolto una parte del mio passato. Nel suo essere ente innovativo, cioè nell’aprirsi al futuro deviando ontologicamente dalla fattualità, la persona, a certe condizioni, riesce ad avanzare sospendendosi liberamente al di sopra del proprio passato, ma poi nell’atto di rivolgersi indietro si accorge sgomenta di non riconoscere più la fisionomia di quel passato che la insegue, pur essendo lo stesso passato identico di prima.

È solo in questa presa di distanza estraniante dal proprio passato che è possibile andare oltre il senso di colpa: non compirò più quell’atto per il semplice fatto che non sono più la stessa persona di prima. Nel senso di colpa sono ancora il medesimo di prima per cui o sono pronto a ripetere all’infinito quell’atto, con la giustificazione che esso corrisponde ancora al mio essere («non ci posso far nulla: sono fatto così!») oppure affondo dolorosamente il mio essere nella colpa stessa senza speranza di salvezza. È nel primo caso che può ingenerarsi il fenomeno dell’opportunismo: con un atto di volontà decido di non ripetere più quell’atto, non perché non corrisponda al mio essere, ma piuttosto perché è il mio essere a non corrisponde ai parametri della morale dominate a cui desidero adeguarmi formalmente per paura di uno svantaggio o una punizione.

Ma in alcuni casi il senso di colpa può essere devastante e scuotere in profondità. Più l’essere umano lotta per superarlo più l’assolutizza. È la tragedia di chi, dopo aver lottato con tutte le proprie forze, finisce col rimane schiacciato dalla colpa e dal rimorso, sprofondando inesorabilmente nella morte. La rottura del circolo vizioso della colpevolezza è al di sopra delle forze umane e richiedere di essere salvati dal di fuori. È questo l’aspetto cruciale del pentimento: in esso la sofferenza generata dalla colpa non è più vissuta come una punizione o un castigo da espiare ma viene posta al servizio della costruzione dell’uomo nuovo, di quella rinascita dall’alto che nel cristianesimo è sinonimo di salvezza.

Ogni atto innovativo getta nuova luce su senso e valore del passato, ma se questo senso è modificabile, allora la persona si scopre per la prima volta responsabile nei suoi confronti. Tale assunzione di responsabilità non si può concludere nella colpa, non si può fermare alla semplice tesi per cui dopo aver sofferto sono a posto in quanto ho pagato il mio debito, quasi a pareggiare i conti con la sofferenza che ho prodotto. Tale assunzione di responsabilità esige qualcosa di più e cioè la capacità, nel pentimento, di scoprire la libertà di rinascere rispetto a quel nucleo ontologico che ora viene percepito come generatore intenzionale di sofferenza negativa.

In tal modo nel pentimento non mi muovo più causalmente dal passato al presente, ma estendo a un senso del passato, che era rimasto identico, una metabolizzazione di significati che fa già parte del nuovo inizio; intuisco che lo strappo in avanti deve ora estendersi all’indietro, fino a investire anche il senso del mio passato. Nel pentimento sperimento il presente come sorprendentemente libero nei confronti del passato, e contemporaneamente scopro un senso del passato che, redimendosi, si palesa modificabile e quindi paradossalmente «attuale». Metabolizzando il senso del passato produco atti nuovi e co-eseguendoli la sofferenza causata dalla colpa viene trasformata in rinascita.

Se esiste il pentimento è inesatto pensare che il passato sia concluso. Nel processo temporale messo in luce dal fenomeno del pentimento il futuro si dischiude nella misura in cui il senso del passato viene ridisegnato e d’altra parte ogni possibilità aperta al futuro, se sperimentata, ha un contraccolpo ulteriore sul presente del passato. Il futuro rimane aperto solo se il senso del passato rimane ontologicamente aperto. Se dovessi confrontarmi con la sua compiutezza rimarrei legato a un passato eternamente irrigidito, rimarrei schiacciato dalla sua forza gravitazionale e alla fine affonderei con esso nella pura ripetizione e quindi nell’inesistenza.

7. Il problema dell’identità oltre il «pensiero della sintesi»

A conclusione di questo lavoro vorrei esporre alcune brevi riflessioni relative alla possibilità di ripensare il problema dell’identità in termini di orientamento axiologico. Questo imporrebbe un superamento di quello che, riferendomi a Kant, ho già definito altrove «pensiero della sintesi». L’ipotesi kantiana secondo cui l’esperienza sarebbe il risultato di un processo sintetico è, come già notava Scheler nel Formalismus, figlia della tesi mitologica d’un caos originario che verrebbe sintetizzato d’incanto da un atto demiurgico ordinatore, che imprime la forma là dove regnerebbe solo un’inquietante molteplicità sensibile informe. Ed è per riequilibrare il relativismo e l’instabilità informe di tale datità originaria che Kant è poi indotto a esaltare oltremodo la stabilità e l’universalità delle categorie trascendentali. La rivoluzione copernicana di Kant coglie nel segno quando denuncia un ingenuo realismo che vede nel dato una struttura oggettiva e conclusa, pronta a essere neutralmente rispecchiata nella mente dell’osservatore, ma rischia poi di cadere in un errore altrettanto inaccettabile: la riduzione del mondo, della natura e dell’essere fenomenico a un ammasso informe ancora da forgiare e comunque esistente solo come oggettività fenomenico-coscienziale.

Nel secolo scorso la tesi secondo cui il soggetto costituisce la propria identità sintetizzando e forgiando un materiale sensibile informe ha gradualmente lasciato il posto, a partire dalle pionieristiche ricerche di von Uexküll, a quella secondo cui il soggetto è tale in quanto centro di un’attività selettiva. L’identità si costituisce in base ai criteri di selezione e di preferenza. In questa prospettiva assume un significato più preciso anche la teoria della Stufenfolge della centricità organica elaborata da Schelling: ai vari livelli del processo di centricità dell’organico corrispondono diversi livelli di complessità delle strutture dell’orientamento valoriale. La qualità della selezione e il livello di individualizzazione procedono di pari passo al processo di auto-organizzazione, dando origine a diverse forme di funzionalizzazione.25

L’individualità è senz’altro la categoria centrale della vita. A ogni specie organica corrisponde un modo particolare di funzionalizzare la percezione e il posizionamento ambientale in base a schemi valoriali che orientano le preferenze e le avversioni. Tali schemi, strutturandosi in un ordine preciso, diventano la materializzazione dell’orientamento axiologico alla base di uno specifico raggio di rilevanza. L’individualità viene alla luce attraverso la funzionalizzazione di tale ordine valoriale: se è un modo di manifestarsi, allora dietro l’individualità non c’è un Ding an sich, ma piuttosto la matrice che orienta tale percorso verso l’espressività. La particolarità della persona consiste nell’avere un ordine di orientamento valoriale ancora incompiuto, questo significa concepire anche il processo di espressività in termini di rinascita. L’identità della persona non consiste nel mantenere stabile nel tempo una determinata prospettiva, ma nello stile inconfondibile con cui quella prospettiva porta alla luce una tras-formazione attraverso il tempo.

Per un approfondimento di queste tematiche mi permetto di rinviare a: G. Cusinato, La Totalità incompiuta. Antropologia filosofica e ontologia della persona, Milano 2008; Id., Persona e rinascita, (in corso di stampa).


  1. Più complessa la posizione di Roberto Esposito quando afferma: «ciò che della persona va rifiutato è precisamente quello che dice “io” o “noi”» (R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Torino 2007, 125). In tal modo l’impersonale non sarebbe «la negazione diretta della persona, ma qualcosa che, della persona o nella persona, interrompe il meccanismo immunitario che immette l’io nel cerchio, contemporaneamente inclusivo ed escludente, del noi» (ibid.). «Das Unpersönliche» era un tema già presente nelle Stutgarter Privatvorlesungen di Schelling: «l’anima è ciò che di divino c’è nell’uomo, cioè l’impersonale, l’essere autentico a cui dovrebbe essere sottomesso il personale» (SW VII, 468). L’«impersonale» era qui il momento di superamento di una egoità paradossalmente identificata con il «personale». Successivamente Schelling ha superato questa ambiguità identificando il momento «impersonale» kenotico (quello che si spoglia dell’egocentrismo) proprio nella persona. Anche se partendo da una costellazione filosofica ben diversa, Esposito sceglie di tener fermo su di una filosofia dell’impersonale in cui traspare un duplice atteggiamento, di condanna ma anche di cautela, nei confronti della persona, tanto da far diventare il concetto di persona un ossimoro: una sorta di «male benevolo». Alla diffidenza nei confronti della persona (a cui non è estraneo l’influsso heideggeriano) si accompagna una esaltazione dell’impersonale inteso (a dir il vero con notevole sforzo contorsionistico) come il benevolo «della persona e nella persona» volto a liberarsi dal personale, cioè dalla fastidiosa aspirazione al riconoscimento egocentrico. Viene perspicacemente colta la centralità del problema egocentrico, ma per annullare assieme all’Io la stessa individualità. L’interrogativo che sorge è se in questo «im-personale» benevolo, l’«im-» sia veramente da opporre alla persona o non piuttosto all’egocentrismo. Tale concezione della persona non finisce essa stessa per nutrirsi della diffusa, quanto avvilente, indistinzione di piani fra Io e persona? Fra discriminazione e neutralizzazione delle differenze qualitative non si dà forse un terzo: un distinguere che non sia necessariamente un discriminare? L’impressione complessiva è che, in mancanza di un confronto effettivo con queste questioni, anche una tale filosofia dell’im-personale finisca col rafforzare involontariamente il concetto di persona. ↩︎

  2. R. Girard, La violenza e il sacro, Milano 1980, 207. ↩︎

  3. La distinzione fra esemplarità e modello non corrisponde pertanto a quella tracciata da Scheler nel 1912 fra Vorbild e Führer. Ad es. il concetto di esemplarità che qui propongo non è conciliabile con tutte le forme del Vorbild (ad es. il «Künstler des Genusses») mentre invece è presente in alcune modalità del Führer. In Scheler il Vorbild rimane qualcosa di più originario e inconscio rispetto al capo: «non i capi determinano i Vorbilder, ma piuttosto i Vorbilder dominanti determinano i capi» (Formalismus, 267). Il capo, in Scheler, dirigendo la volontà e l’azione collettiva diventa il collante essenziale per la riproduzione del consenso sociale, cioè l’a priori materiale della politica. ↩︎

  4. Cfr. G. Cusinato, Katharsis, cit, p. 256. ↩︎

  5. In relazione a questo importante passo del Sofista cfr. Noburu Nôtomi, The Unity of Plato’s Sophist: Between the Sophist and the Philosopher, Cambridge University Press, 1999, pp. 122-162. ↩︎

  6. Quest’ultima è anche la direzione entro cui si costituisce l’immagine organica, la sensazione, prodotta dalla struttura pulsionale dell’organismo. L’errore di Platone consiste nel non rendersi conto che anche questa dimensione fantasmatico-proiettiva non è pura apparenza, ma produce la realtà biologica. ↩︎

  7. Sui limiti del proiettivismo fantasmatico cfr. G. Cusinato, La Totalità incompiuta, cit., pp. 205-208. ↩︎

  8. Sul concetto di centricità organica cfr. G. Cusinato, La Totalità incompiuta, cit., pp. 97-99. ↩︎

  9. Nonostante l’ottimo lavoro di Dieter Lohmar sul concetto di «phantasmatische Selbstaffektion» — un lavoro che comunque raccomando e che sviluppa con intelligenza la sintesi trascendentale kantiana in direzione della tipicizzazione percettiva husserliana (cfr. Id., Phänomenologie der schwachen Phantasie, Dordrecht 2008) — temo che la protenzionalità in Husserl non riesca a uscire dal labirinto dei meccanismi fantasmatico autoproiettivi volti a sopperire a un deficit di Selbstgegebenheit. Diversa sarebbe un’immaginatività «materiale» che ponendosi al servizio del momento iconico riuscisse a sostituire l’attività protenzionale con quella compartecipativa. ↩︎

  10. Cfr. G. Cusinato, Katharsis, op. cit., pp. 167-173. ↩︎

  11. Una direzione per certi aspetti convergente con quella enunciata da Charles S. Peirce a proposito della «comunità illimitata degli interpretanti». ↩︎

  12. Per un approfondimento di tutte queste tematiche cfr. G. Cusinato, Persona e rinascita (in corso di stampa). ↩︎

  13. Cfr. G. Cusinato, Katharsis, Napoli 1999, pp. 11-16. ↩︎

  14. GW = Max Scheler, Gesammelte Werke, Bern und München 1954 — Bonn 1997. ↩︎

  15. Cfr. G. Cusinato, La Totalità incompiuta, cit, pp. 284-290. ↩︎

  16. Cfr.: «Il principio di espressività», in: G. Cusinato, La Totalità incompiuta, cit., pp. 284-290. ↩︎

  17. È indicativo che fra i più recenti studi sulla filosofia della persona la distinzione fra Io e persona e il tema della ri-nascita siano del tutto assenti. Ad es. cfr. sia L. R. Baker, Persons and Bodies. A Constitutions View, New York 2000 (tr. it. Persone e corpi, Milano 2007), sia R. Sokolowski, Phenomenology of the Human Person, New York 2008. Baker ha ragione nell’affermare che nel mondo possono costituirsi delle «genuine entità di tipo nuovo», ma poi alla prova dei fatti è proprio il nerbo della sua tesi, la «prospettiva in prima persona», a rivelarsi del tutto insufficiente a spiegare perché proprio la persona sia un’entità ontologicamente innovativa. Con la tesi della «prospettiva in prima persona» Baker ritorna piuttosto a cercare ciò che funge da minimo comune denominatore di tutte le possibili persone: il suo risulta un metodo adatto a definire un ente astratto o un tavolo o una sedia in generale, ma è già problematico per un essere vivente, cioè un ente che include in sé strategicamente la nozione di individualità. Per questi motivi ritengo ancora oggi produttivo il confronto con le tesi di Scheler e Mounier. Una lettura non banale di quest’ultimo mette in luce che la persona è un’attività di «autocreazione» volta all’uscita da sé, all’esistere nella presenza come realizzazione di un essere insieme comunitario che la nutre (cfr. E. Mounier, Il personalismo, Roma 1996). Per un approfondimento della prospettiva di Mounier cfr. V. Melchiorre, Essere e persona, Novara 2007. La differenza della persona nei confronti dell’Io è invece riconosciuta, anche se in una prospettiva molto diversa da quella qui proposta, nelle indagini di V. Possenti, Il principio-persona, Roma 2006. ↩︎

  18. H. Jonas, Organismo e libertà, Torino 1999, 111. ↩︎

  19. Uso qui il termine «funzione» nel senso precisato da C. Stumpf in: Erscheinungen und psychische Funktionen, «Abhandlungen der Königlich-Preußischen Akademie der Wissenschaften», Berlin 1906, pp. 3-40. ↩︎

  20. Sulla differenza essenziale fra atto e azione cfr. G. Cusinato, La Totalità incompiuta, cit., pp. 296-297. ↩︎

  21. Cfr. G. Cusinato, La totalità incompiuta, cit., pp. 291-296. ↩︎

  22. Sul concetto di «vuoto promettente» cfr. G. Cusinato, La Totalità incompiuta, Milano 2008, 309-310. ↩︎

  23. Sviluppando con perspicacia la teoria husserliana degli interi e delle parti, presente nella Terza Ricerca logica, il bel libro di Roberta De Monticelli e Carlo Conni, Ontologia del nuovo, Milano 2008, ha recentemente proposto di concepire la persona come un ente ontologicamente «nuovo» rispetto ai suoi costituenti di base (cfr. op. cit., p. XII). La mia perplessità, che originariamente era riferita a Husserl, concerne il significato stesso da attribuire qui a «parte». Ad es. che cosa s’intende con «parti» di un organismo? L’organismo non è una «cosa nuova» relativamente alle proprie cellule, piuttosto lo è nei confronti degli elementi chimici che lo compongono: con parti s’intenderanno forse questi ultimi? Vista questa imprecisione non sarebbe meglio reinterpretare tutta la questione dal punto di vista della teoria del metabolismo? In tal caso l’organismo diventerebbe una «cosa nuova» non nei confronti delle proprie parti costitutive (le cellule), ma solo nei confronti degli elementi che metabolizza. Le cellule infatti riflettono già in se stesse la logica dell’organismo: materializzano la sua chiusura operativa. Questa aporia relativa al concetto di «parte» rischia di inficiare anche il tentativo di definire la persona come «un intero le cui parti proprie sono non-indipendenti» (op. cit., p. 85). Si tratta di una definizione che traccia una differenza solo di grado fra una persona, una melodia, un organismo o un Io. Ma se fra persona e Io non sussiste una differenza ontologica, come sarà poi possibile sviluppare una ontologia della persona? Difficile poi, partendo dalla prospettiva husserliana dell’intero e delle parti, arrivare all’aspetto che mi sembra più promettente: quello della persona come ente «ontologicamente innovativo» (cfr. G. Cusinato, La Totalità incompiuta, cit., p. 294). Questo momento innovativo emerge infatti solo mettendo in luce il rapporto fra la persona come totalità incompiuta e quelle che non sono sue «parti», bensì suoi atti. ↩︎

  24. Il riferimento è al famoso scritto: Max Scheler, Pentimento e rinascita (1917). ↩︎

  25. Sul rapporto fra livelli d’auto-organizzazione e processo d’individuazione cfr. G. Cusinato, Il corpo e la persona, in: «Il Pensiero» 1996, in particolare pp. 77-80. ↩︎