Introduzione
La ricerca della verità è una delle spinte fondamentali dell’impresa filosofica e umana e Socrate è una figura che ha incarnato, vissuto e praticato tale ricerca. Lo scopo di questo saggio è quello di analizzare la figura del filosofo come raccontata da Platone nell’Apologia di Socrate, anche attraverso la lettura che ne fa Michel Foucault nel corso del 1984 del College de France chiamato Il coraggio della verità. L’indagine che Socrate intraprende e che racconta, per difendersi durante il processo, può essere divisa in tre momenti specifici e si articola su tre livelli. Partirò ad analizzare il rapporto che Socrate intraprende con la verità del responso dell’oracolo di Delfi, mettendo in luce la relazione tra piano divino e piano individuale (§ 2); successivamente sarà esaminata la relazione che si instaura tra piano individuale e piano sociale nell’indagine intrapresa all’interno della città per verificare il responso (§ 3). Dopo aver ricostruito le radici profonde delle accuse (§ 4), nel terzo momento saranno analizzate le conseguenze e i significati di tale ricerca su un piano etico-filosofico (§ 5) e nella relazione che si instaura tra il daimonion, Socrate e la città di Atene (§ 6). La tesi che intendo sostenere è che Socrate sia un eroe della verità, del sapere e dell’agire, che, attraverso una nuova dinamica della verità, attua una doppia rivoluzione etica ed epistemologica, esercitando una ricerca costante sui pensieri, atteggiamenti, credenze e comportamenti propri e dei suoi concittadini.
Una dinamica della verità: Socrate, il dio e la città
Nell’Apologia di Socrate il prologo si apre con il filosofo che contrappone la falsità delle accuse rivoltegli, all’affermazione che tutto ciò che dirà è la verità (Platone, Apologia, 17b).1 Il tema del vero rimane centrale lungo tutto il discorso di difesa e quello che Socrate enuncia riguardo a se stesso è di un nuovo tipo, legato ad una altrettanto nuova forma di sapere. Il filosofo espone tale verità per difendersi dalle accuse che erano state mosse contro di lui in tribunale e nell’articolazione del proprio discorso innanzitutto distingue tra le accuse più recenti, con cui è imputato al processo e quelle antiche (18b). L’accusa passata, mossagli anche nella commedia Le nuvole di Aristofane, lo rappresentava come «sapiente che fa indagini sulle cose celesti e fa ricerca su tutte le cose che stanno sotto terra, e che rende più forte il ragionamento più debole» (18b). In questa accusa di occuparsi di filosofia naturale e di sofistica è implicito il richiamo a un legame con la filosofia naturale di Anassagora, a cui si era avvicinato in giovinezza, ma da cui poi prese le distanze, distinguendosene anche durante il processo (26d). Nonostante Socrate iniziò effettivamente la propria indagine filosofica partendo dalla ricerca sulla natura,2 rimase deluso dalla sapienza naturalistica, in quanto incapace di fornire fondamenti alle dottrine e significato ai processi naturali spiegati. Pertanto, all’inizio della difesa afferma di non avere a che fare con quel tipo di ricerche naturali, chiamando a testimoni la maggior parte degli ateniesi presenti (19c-d), e per quanto riguarda gli insegnamenti da sofista sostiene di non avere mai dato lezione dietro compenso e di non conoscere tali cose (20c). Smarcandosi dalle accuse di possedere una tale forma di sapienza, non occupandosi né di natura né di retorica sofistica, deve però rendere conto del perché venga imputato di un tale sapere. Socrate ammette di avere una «certa sapienza umana» (20d), distinta dalla sapienza «più che umana» e, appellandosi al dio di Delfi come proprio testimone (20e-21a), espone di avere iniziato un percorso di ricerca, di un tipo qualitativamente diverso da quella naturale, poiché basato su un’indagine che è simultaneamente interrogazione del dio, di sé e degli altri. Socrate, infatti, fu definito dall’oracolo di Delfi «il più sapiente» (21a) e per verificare tale definizione si rivolse a coloro che riteneva essere i sapienti all’interno della città. Nell’esposizione di tale percorso (21b-24b) Socrate chiarisce quindi quale sia la particolare forma di sapienza di cui è in possesso, scavando fino alle origini e al nucleo originario della propria ricerca,3 la quale si situa simultaneamente su tre livelli strettamente interconnessi: vi è un piano divino, un piano individuale e interiore e infine un livello sociale e relazionale. L’atteggiamento socratico intreccia dinamicamente queste tre dimensioni attraverso tre momenti diversi: il primo (21b) consiste nella ricezione del responso oracolare attraverso l’interrogazione interiore e la consapevolezza di sé, il secondo (21c-22e) si articola nell’indagine relazionale all’interno della città e nel terzo emergono il significato e le conseguenze di tale indagine (23a-24b e 28a-34b).
Foucault, analizzando la figura di Socrate come colui che incarna un nuovo tipo di parresia etica,4 sottolinea come tale tripartizione vada considerata come l’articolazione di tre momenti della verità. Innanzitutto, il filosofo intraprese il proprio percorso di ricerca a partire dal responso che Cherofonte ottenne da Apollo dall’oracolo di Delfi, il quale affermò che nessuno era più sapiente di Socrate (21a). Il primo momento della verità, pronunciata dall’alto del dio verso il basso degli uomini, è caratterizzato quindi da un movimento verticale che si tramuta in movimento interiore ed esteriore. Socrate riceve una verità tradizionalmente enigmatica, ma il suo atteggiamento, come evidenzia Foucault,5 è nuovo e si discosta da quello consueto.
Che cosa dice il dio e a che cosa allude per enigma? Infatti, io ho chiara coscienza, per quanto mi riguarda, di non essere sapiente, né molto, né poco. Allora cosa intende dire il dio affermando che io sono sapientissimo? Certamente non dice menzogna, perché questo, per lui, non è lecito (Platone, Apologia, 21b).6
Socrate, benché consapevole della veridicità dell’oracolo, non accetta passivamente il responso come una verità data, ma, a partire dalla propria consapevolezza di non essere sapiente, ovvero partendo da una verità interiore, mette alla prova e verifica la verità pronunciata dal dio. Il movimento verticale accende un movimento interiore, che si fa indagine orizzontale e umana.
E per molto tempo rimasi in imbarazzo su ciò che il dio intendesse dire. In seguito con fatica intrapresi una ricerca su questo punto nel modo seguente. Andai da uno di coloro che sono ritenuti sapienti nella convinzione che solamente in questa cerchia, se mai da qualche parte, avrei confutato il vaticinio (Platone, Apologia, 21b-c).
Foucault sottolinea la differenza tra l’atteggiamento abituale e quello di Socrate di fronte alla verità del responso oracolare. Il primo era caratterizzato dall’interpretazione: generalmente si cercava di interpretare il messaggio tentando di comprenderlo il più profondamente possibile, attendendo che si verificasse e, nel caso la profezia fosse negativa, si cercava anche di evitarla e fuggirne. Ci si poneva dunque con distacco passivo ed esterno nei confronti della verità, che veniva considerata in sé data e finita e ne si attendeva o temeva la realizzazione. Socrate diversamente non considera tale verità come in sé assolutamente data, ma la vuole verificare e mettere alla prova, andandole in questo modo incontro, ed è tale verifica la condizione stessa dell’inveramento. Questi due atteggiamenti, quello consueto e quello socratico, rivelano dunque due implicite concezioni della verità. La verità ricevuta da Socrate non è concepita come puramente statica, chiusa e finita, ma è umana, dinamica e aperta, poiché si realizza solo venendo messa in dubbio: il tentativo di verifica di tale verità è la sua stessa condizione costitutiva.
Nel primo momento di relazione tra il piano individuale e il piano divino, la verità che il dio enuncia riguardo a Socrate ha dunque due caratteristiche: non è finita e conclusa in se stessa e non è basata solo sul rapporto unilaterale tra il dio e Socrate. Il rapporto tra il piano individuale e divino può realizzarsi compiutamente solo in una dinamica che apra anche a quello socio-relazionale. Il primo momento, caratterizzato dal movimento veridico dall’alto del dio alla dimensione umana, si realizza dunque attraverso un movimento orizzontale all’interno della città. Si instaura un gioco tra la verità esterna pronunciata dal dio, secondo cui Socrate è il più sapiente, e la verità interiore di Socrate, di non essere sapiente. Queste due verità sono andranno a congiungersi e confermarsi reciprocamente nell’indagine: Socrate invera la parola dell’oracolo mettendola alla prova attraverso l’interrogazione di coloro che erano ritenuti essere dotti all’interno della città (21c), incarnando così una dinamica della verità come bios filosofico.
Politici, poeti e artigiani
Se il primo momento è caratterizzato dalla parola del dio, il secondo momento si gioca nella dinamica delle parole che Socrate scambia all’interno della città, attraverso l’inchiesta in cui, mettendo alla prova il responso delfico, interroga coloro che venivano ritenuti sapienti. Socrate, primi fra tutti, interrogò un uomo politico che si considerava sapiente e con fama di essere tale, ma che in realtà si rivelò non esserlo affatto. Né Socrate né il politico sapevano «niente di buono né di bello; ma costui era convinto di sapere mentre non sapeva e invece io, come non sapevo, così neppure credevo di sapere.» (Platone, Apologia, 21d). Sono qui implicitamente distinte due forme di sapere, che possiamo definire "esterno" e "interno": il primo riguarda le conoscenze che si posseggono in generale, in questo caso riguardanti «il bello e il buono», il secondo riguarda la consapevolezza del rapporto che si ha con tali conoscenze. Socrate si rende conto di essere più sapiente del politico, poiché, anche se il loro sapere esterno era ugualmente nullo, sul piano del sapere di sé aveva un maggiore grado di consapevolezza. Sia lui che il politico sono ignoranti per quanto riguarda il bello e il buono. Tale ambito di conoscenza morale verrà attribuito da Socrate in modo assoluto soltanto al dio. L’ambito della scienza morale si divide però su due livelli: mentre il sapere assoluto dei valori morali è una prerogativa divina, all’umano spetta la conoscenza interiore della propria insufficienza e un conseguente lavoro critico e trasformativo su di sé. È il sapere interno, legato all’ambito morale, che rende Socrate più sapiente del politico, poiché è su questo campo del sapere morale, alla portata della dimensione umana, che si fonda il criterio di distinzione tra il grado di maggiore o minore sapere.7
Socrate, dopo aver interrogato altri politici, si rivolse ai poeti, partendo dal presupposto di poter verificare di essere più ignorante di loro, smentendo in questo modo il dio (22b). Questo atteggiamento di Socrate è importante, poiché evidenzia come anche lui avesse un sapere infondato e non ancora esaminato, in quanto basato unicamente sulla tradizione e convenzione, che delineava i poeti come figure di sapienti. Chiedendo loro il senso dei loro poemi si rese però conto che non li componevano grazie a un sapere, «ma per una certa dote di natura e perché erano ispirati da un dio, come i vati e gli indovini» (Platone, Apologia, 22c), tuttavia i poeti si credevano più sapienti degli altri uomini anche in campi in cui non lo erano.8 Socrate rivela che i poeti non solo non erano autentici depositari di un reale sapere esterno acquisito, lasciando intendere che non fossero responsabili di esso, ma avevano anche una percezione totalmente distorta di tale conoscenza, ovvero non possedevano affatto quello che abbiamo definito sapere interno ed è questo che rende Socrate più sapiente di loro. Socrate accosta i poeti ai profeti e agli indovini, considerando l’arte poetica come una forma di sollecitazione irrazionale e non una forma di sophia. Questo accostamento implica due elementi: prima di tutto Socrate si distacca dalla tradizione che considerava la poesia come una forma di sapere,9 inoltre distingue il proprio rapporto con la verità del dio dal rapporto che i profeti e gli indovini hanno con la parola divina. Foucault sottolinea infatti la differenza tra la parresia socratica da quella profetica:10 il profeta pronuncia un tipo di verità che non ha prodotto lui, ma di cui è stato è stato un passivo ricettore, chiedendo ai suoi ascoltatori di ricevere a loro volta passivamente tale verità. Socrate invece, in quanto figura della parresia, enuncia una verità che ha avuto un effetto trasformativo su di lui, contribuendo egli stesso alla produzione di tale verità invitando gli altri all’esercizio di un lavoro critico e trasformativo su loro stessi.
Il profeta è portatore di una verità esterna, passiva, statica, data e conclusa; Socrate incarna invece una verità critica, autocritica e dialogica che non può prescindere dalla relazione e riflessione su di sé e sugli altri.11 Questa è una delle caratteristiche della parresia socratica fondata sull’asse dell’etica,12 poiché il suo rapporto con il vero si gioca all’interno della dimensione dell’azione. Il dire-vero di Socrate, diversamente da quello dei poeti o profeti, si concretizza in agire-vero in relazione agli altri.13 Dopo aver interrogato i poeti si rivolge agli artigiani, riconoscendo in partenza di essere più ignorante di loro, in quanto detentori del sapere esterno di una techne, competenza di cui lui si riconosce privo. Tuttavia, pur possedendo un tale sapere esterno, come i poeti «per il motivo che sapevano esercitare bene la loro arte, ciascuno di essi era convinto di essere sapientissimo anche in altre cose grandissime, e proprio questo difetto metteva in secondo piano la sapienza che pur avevano» (Platone, Apologia, 22d). Le «cose grandissime» riguardano l’ambito morale e Socrate ribadisce quindi la superiorità del sapere interno, legato proprio alla moralità, rispetto a quello esterno. Politici, poeti e artigiani non conoscono il rapporto che intercorre tra il loro sapere esterno e loro stessi e tale discrepanza determina una spaccatura tra l’unione di sapere e agire, che è invece fondamentale.
Durante l’inchiesta Socrate rielabora le proprie credenze riguardo a quelle figure che erano ritenute essere sapienti, scoprendo in questo modo il significato delle parole dell’oracolo: comprende di essere effettivamente il più sapiente, poiché non ignora di non sapere ed è consapevole di tale mancanza, evitando così di attribuirsi conoscenze che non possiede.14 L’esame altrui diviene occasione di una presa di consapevolezza di sé e di trasformazione interiore ed esteriore. Socrate trasforma non solo se stesso ma, come evidenzia Brancacci,15 attua un’operazione di sistemazione e critica epistemologica nei confronti del quadro dei saperi della sua epoca, ridefinendoli all’interno di una nuova gerarchia. Viene sancito che l’unica vera sophia è detenuta dal dio: a lui solo è accessibile una conoscenza assoluta sia della scienza morale, sia delle realtà naturali. Infatti, il concetto limite «le cose più importanti», inaccessibile all’umano e prerogativa del dio, diventa il criterio di classificazione della gerarchia,16 e per quanto riguarda la filosofia della natura, Socrate dubita che di tale scienza possa esistere davvero un sapiente (19c), considerandola una forma di sapere «più che umana» (20e).
La politica viene presentata come pura apparenza ed è posizionata al livello più basso, la poesia viene spodestata dalle forme di sophia e accostata all’arte profetica e divinatoria, le arti e le tecniche vengono poste invece all’apice tra i saperi esterni, in quanto gli artigiani vengono riconosciuti come competenti nella materia trattata e dunque possessori di un sapere effettivo, che abbiamo definito esterno. Tale sapere riguarda infatti le conoscenze che permettono di interagire con il mondo, esercitando un’azione su di esso. Tuttavia, per Socrate è fondamentale il sapere di sé, ovvero conoscere quali sono quelle credenze e conoscenze che si detengono e che determinano e orientano l’interazione con il mondo. Riconoscendo la prerogativa alla forma del sapere interno, legato all’ambito morale e dunque alle «cose più importanti», Socrate si pone eroicamente come figura intermedia tra gli uomini e il dio, dotato della vera sapienza, incarnando l’esempio e la missione affidatagli da quest’ultimo. Lui possiede infatti più di tutti gli altri uomini il sapere di sé, riguardante il rapporto che intercorre tra lui e le proprie conoscenze e questo sapere ha una portata morale, poiché orienta l’azione ed è acquisita attraverso un nuovo rapporto con la verità che si struttura nella relazione con l’alterità. L’inchiesta nella città si realizza dunque sui due piani del sapere interno ed esterno, sottoponendo ciascuno ad un esame di ciò che sa e non sa, ciò che sa riguardo alle cose e riguardo a se stesso.17 Questa indagine non mette solo alla prova il sapere altrui, ma è un continuo confronto tra le anime degli esaminati, l’anima di Socrate e la verità pronunciata dal dio: questi sono i tre poli relazionali che nel controllo e inveramento della verità si implicano vicendevolmente. Se Socrate avesse accettato passivamente il responso Delfico come verità indubitabile, data ed esterna, questa verità sarebbe stata falsificata, poiché in questo caso Socrate, non intraprendendo il movimento di ricerca per verificarla, non sarebbe stato «il più sapiente». Infatti, nonostante sin dall’inizio possedesse già un chiaro sapere interno (21b), raggiunse il massimo grado di consapevolezza di sé e di sapienza solo nel confronto con l’alterità. Socrate, ad esempio, sarebbe rimasto ancorato alla tradizione nel considerare il politico, i poeti e gli artigiani come sapienti, senza esaminare la propria credenza. Invece esaminando gli altri, esamina anche se stesso, venendo trasformato nella relazione. Dunque, anche se solo il dio possiede il vero sapere che gli fa considerare Socrate come il più sapiente, senza il movimento umano di inveramento relazionale, lo stesso sapere divino sarebbe stato falsificato, non vero. Piano divino, individuale e relazionale si implicano vicendevolmente e la verità è tale solo nel suo farsi, all’interno della dimensione dell’agire, realizzandosi in un movimento umano, sociale e trasformativo di sé, degli altri e della tradizione.
Accusa di empietà e corruzione
Dopo essersi quindi difeso dall’accusa antica, Socrate espone il significato del responso oracolare e della missione di cui è stato investito e afferma che è a causa della sua dedizione a tale impegno che si è procurato tante inimicizie (23a-24b). Successivamente deve affrontare le accuse recenti, con cui era stato processato, di non riconoscere gli dei della città, di introdurre nuove divinità e di corrompere i giovani.18 Il filosofo smentisce e confuta l’accusa di empietà e corruzione dei giovani, portando Meleto a contraddirsi. Per prima cosa dimostra che chi lo accusa non conosce la natura dell’educazione e della corruzione giovanile, mostrando così che all’accusatore non sta a cuore il bene dei giovani, ma li usa solo come pretesto per attaccarlo (24d-26a). Inoltre, dimostra la contraddittorietà dell’accusa di empietà, rivelando che Meleto intende imputargli simultaneamente di non riconoscere nessuna divinità e di introdurne di nuove (26b-28a). Socrate riconosce che tali accuse false e contraddittorie hanno all’origine un profondo odio e antipatia dovuti alla pratica della sua ricerca: Meleto, infatti, incarnava l’odio dei poeti, Anito quello degli artigiani e degli uomini pubblici e Licone quello dei retori (23e-24a).
In realtà le radici dell’accusa sono molteplici e profonde e intrecciano tra loro il piano religioso, sociale e politico dell’Atene del tempo. Per quanto riguarda la religione Socrate aveva sicuramente un atteggiamento particolare nei confronti della sfera del divino,19 infatti, pur non intendendo trasgredire le norme del culto, criticava la mitologia olimpica e la tradizione religiosa. Come sottolinea Gregory Vlastos,20 Socrate attua una rivoluzione anche sul piano teologico e religioso, affermando per la prima volta che la caratteristica essenziale della divinità è quella di essere buona.21 Pensare che il divino coincida con la natura stessa del bene si pone in contrasto con la teologia tradizionale, in cui gli dèi commettono continuamente lotte, conflitti, vendette e adulteri, rendendo dunque impossibile fondare su di essa regole per l’agire morale umano.22 La religione si struttura su due livelli: un piano verticale, che connette sfera divina e mondo umano e un piano orizzontale, in cui vengono delineati i rapporti tra uomini e tra gli esseri umani e il mondo. Socrate sottolinea dunque l’esigenza di un ripensamento del divino in funzione di un ordine morale umano, ponendo quest’ultimo in primo piano: la rivoluzione religiosa attuata è inserita quindi all’interno di quella morale.
L’atteggiamento di Socrate, essendo innovativo e rivoluzionario, si pone effettivamente in contrasto con la tradizione ed è per questo che, durante la propria difesa, svia l’accusa di non riconoscere gli dèi della città e non nomina mai la dea Atena Poliade, protettrice e patrona di Atene. Inoltre, pur rivendicando un’investitura divina, si riferisce sempre genericamente al «dio», senza nominare mai esplicitamente Apollo, pur essendo egli che ha parlato attraverso l’oracolo di Delfi. Questo riferimento vago al dio e il distacco dalle divinità tradizionali può dipendere dal legame particolare e privilegiato che Socrate ha con la sfera del divino. L’imputazione di introdurre nuove divinità era dovuta al particolare tipo di relazione che Socrate intratteneva con il divino attraverso il daimonion. Quest’ultimo è una voce di natura divina che Socrate sente dentro di sé e che fin da ragazzo, in alcune situazioni, lo ha fermato, impedendogli di intraprendere determinate scelte o azioni. La natura e il significato del daimonion sono stati ampiamente dibattuti e interpretati arrivando anche ad attribuirgli la funzione di coscienza interiore.23 Tuttavia, la nozione di coscienza come intesa nella modernità, in quanto elemento assolutamente autonomo e individuale, è estranea all’orizzonte del pensiero antico. Il daimonion non rappresenta nemmeno una nuova divinità, quanto piuttosto il punto di incontro e canale comunicativo privilegiato che Socrate intrattiene con il divino. Si potrebbe tracciare una linea che connette questa voce alla missione affidatagli dal dio di Delfi e questa connessione non è da escludere, bisogna però sottolineare che Socrate sentì la voce interiore «fin da fanciullo» (31d) e quindi precede l’investitura. Così come la concezione del divino viene rivoluzionata e riletta in funzione della sfera morale e umana, vedremo che anche il daimonion assume un forte significato morale, realizzando quella relazione verticale in un agire orizzontale. L’accusa di empietà non è però dovuta ad un’incomprensione della religiosità socratica, ma risulta probabilmente essere un pretesto, in quanto i veri motivi del processo sono da rintracciare nella complessa situazione politica e sociale che la città viveva in quegli anni.24 Atene infatti, in seguito alla sconfitta nella guerra del Peloponneso, nel 404 a.C. perse il proprio impero e fu governata fino al 403 a.C. dal regime oligarchico dei Trenta tiranni. Nel 399 a. C. il regime democratico era quindi debole e culturalmente reazionario, inoltre Socrate aveva sempre frequentato membri dell’aristocrazia, come Crizia e Carmide, parte dei Trenta, e Alcibiade, traditore di Atene, ed è su questi legami che l’accusa di corruzione dei giovani può trovare origine. Inoltre, il filosofo era contrario ad alcuni principi dell’istituzione democratica, tra cui quello del sorteggio delle cariche, criterio che non assicurava il possesso di nessuna competenza specifica in ambito politico. Non è quindi casuale che il processo fosse stato orchestrato proprio dai politici, categoria che viene ulteriormente sminuita da Socrate proprio nell’Apologia. Come mostra Diogene Laerzio nel II libro de Vite dei filosofi, fu il politico Anito a organizzare il processo, convincendo il poeta Meleto a presentare l’accusa, mentre il retore e politico Licone aiutò a redigere la procedura. In questo teso clima sociale e politico l’atteggiamento critico e trasformativo di Socrate nei confronti della tradizione era letto come pericoloso ed eversivo.
Rivoluzione epistemologica ed etica
Dopo essersi difeso dalle accuse di empietà e corruzione dei giovani, mostrandone le contraddizioni (24b-28a), Socrate approfondisce ulteriormente il significato della missione affidatagli dal dio (28a- 34b). La sua ricerca si divide in due parti: inizialmente verifica il responso delfico e, una volta compreso il messaggio e sentitosi investito di una missione, la intraprende, incarnando in questo modo un esempio per la città.
Il dio […] servendosi di me come di esempio, come se dicesse: «Uomini, fra di voi è sapientissimo chi, come Socrate, si è reso conto che, per quanto riguarda la sua sapienza, non vale nulla». Appunto per questo ricerco e indago, in base a ciò che ha detto il dio, se io possa giudicare sapiente qualcuno dei cittadini e degli stranieri (Platone, Apologia, 23b).
Lo scopo di questa indagine eroica, dedicata totalmente alla città, non è semplicemente quello di falsificare la sapienza dei propri concittadini, quanto quello di invitarli a prendere consapevolezza del proprio non sapere e agire di conseguenza. Il senso della missione e della vita di Socrate si gioca dunque nel campo morale della cura di sé e degli altri e per comprenderlo a pieno è necessario partire del verbo elenchein, che significa interrogare, confutare, smentire. Questo termine è cruciale in quanto filo rosso che connette il rapporto di verità tra Socrate, il divino e la città, essendo usato da Socrate quando sostenne di avere voluto mettere alla prova l’oracolo (21c), ed è l’elemento che lega la dimensione conoscitiva e quella morale all’interno della sua pratica filosofica. Socrate mise alla prova i sapienti per confutare l’oracolo (21b-c), effettuando un controllo e verifica delle loro conoscenze e credenze. La verifica delle credenze è ciò in cui consiste il senso profondo dell’indagine filosofica inaugurata da Socrate. La pratica dell’elenchos socratico, mostrata nei dialoghi platonici, si basa su una domanda definitoria in cui viene chiesto al proprio interlocutore, presunto sapiente, di definire una certa cosa come ad esempio il bene, il bello o il coraggio. L’esaminato esprime dunque una proposizione e Socrate, interrogandolo ulteriormente e facendogli sviluppare le premesse implicite della proposizione, basate sul senso comune, mostra come esse entrino in contraddizione con la proposizione iniziale.25 L’interlocutore viene posto così in una condizione di aporia e viene confutato. Tale controllo e falsificazione delle credenze ha un valore profondamente morale, poiché oltre a verificare la cogenza del discorso, è un esame che coinvolge la vita intera dell’individuo: credenze ed esistenza sono infatti intimamente intrecciati e interdipendenti, poiché gli atteggiamenti che ogni uomo attua dipendono dalle credenze sviluppate su di sé, sui suoi simili e sul mondo. Davanti a tale messa a nudo la vergogna e il fastidio sono le reazioni più comuni, ma lo scopo dell’elenchos non è semplicemente quello di falsificare le credenze altrui, quanto quello di spingere ciascuno a riflettere e agire su se stesso. Socrate, come eroe del sapere e dell’agire, attua una doppia e unica rivoluzione, simultaneamente etica ed epistemologica, in cui la prima si realizza grazie alla seconda attraverso l’elenchos.
Socrate viene spesso celebrato per aver spostato l’indagine filosofica dalla natura alla dimensione etica e umana; nonostante sia scorretto ritenere che prima di Socrate non esistesse riflessione in ambito morale, va tuttavia riconosciuto l’elemento innovativo che lui introduce all’interno della ricerca filosofica. Usando una terminologia kantiana il passaggio della ricerca che Socrate avrebbe attuato dal "cielo stellato" alla "legge morale" passa attraverso la vera svolta fondamentale dall’indagine sull’oggetto, all’interrogazione delle credenze e i discorsi (logoi) riguardo all’oggetto. Socrate è certamente mosso dall’esigenza di delineare un quadro di valori oggettivi; tuttavia, non si chiude in una speculazione solitaria cercando di definirli oggettivamente, ma, interrogando i propri concittadini chiedendo loro che cos’è il bene, il bello, il coraggio, indaga le loro credenze riguardo a tali valori. Attraverso la ricerca della verità Socrate fa emergere la verità riguardo a se stesso e all’anima altrui. La domanda socratica che apre i dialoghi Ti esti?, ovvero «che cos’è?», contiene la domanda «Chi sei tu? Come agisci in base alla tua credenza su quel valore?». La domanda definitoria non punta all’identificazione di un’essenza ontologicamente autonoma del concetto, ma a un criterio orientativo dell’azione.26 Ogni azione dipende da una credenza e dal desiderio di felicità, vero fine ultimo verso cui è orientato l’agire di ognuno. La credenza è quella costruzione che permette di rappresentare il mondo e interagire con esso in funzione della realizzazione del desiderio. È per questo che Socrate, dopo la prima votazione in cui venne sancita la sua colpevolezza,27 rivendica di essere un beneficio per la città poiché rende felici i propri concittadini (36e). Questa azione di cura si realizza spronandoli a coltivare loro stessi, in bontà e saggezza, invece che dedicarsi alle cose (36c), sostenendo «che la virtù non nasce dalle ricchezze, ma che dalla virtù stessa nascono le ricchezze e tutti gli altri beni per gli uomini» (Platone, Apologia 30b).
Essendo prerogativa del dio il sapere assoluto del mondo e delle realtà morali, l’uomo deve indagare se stesso e il rapporto che intercorre tra le proprie credenze e le proprie azioni. Nonostante l’acquisizione di un sapere morale sia lo scopo ultimo dell’esame socratico, esso funziona come un concetto limite, un ideale regolativo il cui fine prossimo è quello di esercitare un’azione critica e trasformativa su sé stessi, agendo coerentemente al logos béltistos, ovvero le credenze risultate provvisoriamente le migliori dopo essere state esaminate.28
Socrate non solo riorganizza il sistema del sapere della propria epoca, ma attua anche una rivoluzione del quadro dei valori morali della tradizione,29 mettendo in primo piano la saggezza e la verità dell’anima rispetto ai beni tradizionali come le ricchezze, la fama e l’onore (29d-e). Questa rivoluzione etica si attua attraverso un’azione critica e trasformativa nei confronti delle convenzioni della città: Socrate è come un tafano che pungola un cavallo di razza, ovvero la città di Atene, (30e) facendo acquisire a ciascun individuo una maggiore consapevolezza, svegliandolo dal sonno del pensiero della convenzione. Lo scopo della pratica filosofica non è quello di sovvertire l’ordine della città in modo distruttivo, ma di migliorarlo costruttivamente dall’interno. La prova che Socrate non si ponga in un’azione distruttiva e di rifiuto radicale della tradizione e delle leggi è il fatto che non rifiuti la condanna a morte, in quanto pronunciata legalmente.
Il daimonion, Socrate, la città
Socrate incaricato dal dio si prende così cura dei cittadini ateniesi, i quali, non interrogandosi sulle proprie credenze e idee, sarebbero rimasti legati unicamente all’autorità della tradizione e alla banalità della convenzione, lasciando che il loro agire fosse passivamente condotto. Socrate, mettendo a nudo l’ignoranza di chi si reputa sapiente, libera dall’amathía, l’ignoranza doppia di chi non sa ma presume di sapere, e risveglia da un agire eterodiretto e inconsapevole. Questa liberazione e risveglio sono però difficili da accettare, poiché richiedono un esercizio critico nei propri confronti e finiscono così per suscitare odio e inimicizie invece che riconoscenza. Socrate ne è ben consapevole e il tema semantico dell’avversione, del fastidio e dell’antipatia come reazioni alla propria pratica è dominante lungo tutto il discorso di difesa.30 Socrate, tuttavia, attraverso un’atletica incessante del pensiero e dell’azione si sforza di tenere uniti i due poli della dimensione divina e sociale, perseverando nel proprio compito, nonostante le resistenze e inimicizie che questo gli procura. Questi due piani della missione divina e le reazioni della città a tale ricerca, non trovano definitiva conciliazione, poiché i suoi concittadini, non comprendendo il beneficio che porta, si liberano di lui condannandolo a morte.31 È necessario dunque concludere esaminando definitivamente il legame che si instaura tra il divino, Socrate e la città: i tre poli che all’interno della dinamica della verità rimandano necessariamente l’uno all’altro. Quando si parla di piano sociale è necessario sottolineare come la missione compiuta da Socrate non si rivolga alla collettività nel suo complesso attraverso un’azione politica, ma si articola in un esame praticato «a tu per tu» (31c, 36c) e ciò ha principalmente due motivi. Socrate non si rivolge a una folla, poiché a essa si può insegnare e diffondere solo una verità e una dottrina morale già date, definite e direttamente trasmissibili, ma lui non dispone di una tale verità e dottrina e non è mai stato maestro di nessuno (33a, 33b). Socrate non è un insegnante che sa ed enuncia una verità,32 ma educa ciascuno a prendersi cura di sé attraverso un esercizio di verità che passa attraverso un lavoro intimo, trasformativo e individuale. Il secondo motivo, enunciato da Socrate stesso (31c-e), per cui non esercita la pratica filosofica nello spazio pubblico e politico, è dovuto alla voce interiore e divina del daimonion,33 che lo ha dissuaso e bloccato dal dedicarsi alla politica. Questa resistenza interiore lo salvò dalla morte, esito certo di coloro che si schierano dalla parte della giustizia e della legalità opponendosi alla maggioranza nell’arena pubblica (31d-32a). Socrate racconta infatti due episodi autobiografici in cui si schierò dalla parte della verità e della giustizia all’interno della dimensione politica, rischiando in questo modo la morte, senza tuttavia temerla (32a-33e). Per primo narra di quando nel 406 a.C. la sua tribù aveva la pritania ed era quindi membro del Consiglio dei 500. In quell’occasione fu l’unico a votare contro la decisione illegale di processare in blocco gli strateghi che non soccorsero i naufraghi nella battaglia delle Arginuse, stando dalla parte della legge e della giustizia e opponendosi all’avversione della maggioranza. Il secondo episodio è quando nel 404 a.C. rifiutò l’ordine impartitogli dai tiranni di portare Leone di Salamina a morire, rischiando in questo modo la vita per non commettere ingiustizia. Questi esempi dimostrano due cose: la prima è che se avesse condotto la propria pratica di verità all’interno dell’arena politica, sia durante il regime democratico che sotto la tirannide, questo lo avrebbe condotto presto alla morte; la seconda è che in entrambi i casi affrontò senza timore la possibilità di morire per agire coerentemente secondo giustizia. Il dàimon, dissuadendolo dall’azione politica è stato dunque benefico non per averlo salvato dalla morte in quanto tale, affrontata senza paura quando necessario, ma perché, evitandogli l’azione politica, ha reso la sua pratica filosofica molto più benefica per la città, dato che l’azione etopoietica può realizzarsi solo sul piano individuale ed è attraverso di esso che si ottengono effetti trasformativi anche sulla collettività. Allo stesso tempo però quando Socrate è entrato in contrasto con la maggioranza non ha mai messo da parte quei principi assoluti di giustizia che regolano la sua azione (33a). Il daimonion rappresenta quindi quell’elemento che connette la sfera divina, la dimensione interiore di Socrate e il suo contatto con gli altri: lo ha sviato dall’azione politica facendogli intraprendere una relazione a tu per tu e nei momenti di contrasto con la collettività non lo ha fatto arretrare a nessun compromesso. Coerentemente a quanto esposto finora, il daimonion potrebbe rappresentare un appiglio irrazionale alla verità morale che solo il dio detiene ed è questo che avrebbe consentito a Socrate di possedere alcuni certi e assoluti principi morali. Socrate si trova in un equilibrio dinamico tra l’ignoranza umana, il dubbio eroico e la certezza divina di alcuni principi morali, quali il non commettere ingiustizia a nessun costo e il fatto che è turpe non ubbidire a chi è migliore, che sia dio o uomo (29b). Questi principi, coerentemente a quanto fa il daimonion, sono di natura negativa, ovvero impediscono di fare qualcosa di determinato, ma per un orientamento positivo dell’azione non ci si può esimere dall’esame di sé e delle proprie credenze.
L’eroismo di Socrate consiste dunque nel porsi a metà strada tra il divino e l’umano, incarnando in un bios filosofico la missione affidatagli e affrontando con il coraggio della verità la condanna a morte. Questa condanna è l’esito di uno scollamento e opposizione tra i due piani che si era sforzato di tenere uniti e che pur nel contrasto riesce a riconciliare. Infatti, ipotizzando che gli venga concessa l’assoluzione a patto di cessare la pratica filosofica, Socrate afferma di volere bene ai cittadini ateniesi, ma sostiene che ubbidirà al dio piuttosto che a loro (29c-d). Questa frase sembrerebbe decretare uno scollamento tra i due piani, ma in realtà è una conciliazione: Socrate, ubbidendo al dio e rimanendo fedele alla propria pratica, allo stesso tempo vuole e fa il bene della città e non le si oppone, accettando la condanna a morte pronunciata legalmente. Ciò dimostra come l’azione critica e trasformativa nei confronti dell’ordine della città non abbia un’intenzione distruttiva e oppositiva, ma costruttiva: è proprio perché vuole bene ai propri concittadini che ubbidirà al dio, ubbidendo anche però all’ordine sociale e umano in cui ha vissuto.
Dopo la seconda votazione che lo condannò a morte, in un discorso di commiato si rivolse prima ai cittadini che votarono contro di lui,34 e poi ai giudici veri e propri che lo assolsero (39c-42a). Nei confronti dei primi, che si sono liberati di lui per non dover rendere conto della propria vita, profetizza che si moltiplicheranno i loro scrutatori, esaminandoli ancora più duramente (39c-d). Questa profezia può essere letta come la visione di Socrate di una vendetta benevola del dio nei confronti della città, che non ha riconosciuto il beneficio portato. Socrate solo in questo caso, essendo vicino alla morte, diventa un praticante della parresia profetica, rivelando un messaggio che però egli ha prima di tutto incarnato e vissuto per tutta la vita. Verso coloro che lo hanno assolto rivolge il discorso finale sul significato della morte, rivelando loro l’ultima grande e certa verità che lui detiene: «Che a un uomo buono non può capitare nessun male, né in vita né in morte: le cose che lo riguardano non vengono trascurate dagli dèi» (Platone, Apologia, 41d). Siccome, il daimonion, quel giorno del processo, non lo ha mai ostacolato (40a), ciò può implicare che la morte non sarà un male per lui.
Conclusione
Come abbiamo visto, Socrate durante il proprio processo si difende raccontando la verità riguardo alla propria vita e al senso della sua ricerca. Attraverso l’analisi dei momenti e delle modalità di tale indagine abbiamo messo in luce il rapporto che lega Socrate, il divino e la città. Abbiamo dunque mostrato che Socrate è un eroe della verità, poiché incarna un rapporto nuovo con essa (§ 2), è un eroe del sapere, poiché ridefinisce il quadro epistemologico della propria epoca a partire da un sapere interiore (§ 3), è un eroe dell’agire perché tale sapere è ciò che permette di orientare il comportamento morale (§ 5). Dopo aver ricostruito le intrecciate e molteplici ragioni che portarono al processo per empietà e corruzione dei giovani (§ 4), nel terzo momento abbiamo mostrato il significato della sua missione e la sua portata rivoluzionaria sul piano etico ed epistemologico (§ 5). Infine, Socrate è un eroe poiché ha dedicato l’intera sua vita al servizio della sua missione, in una relazione che lega il daimonion e la città, senza venire mai a compromessi con i propri principi personali e senza rifiutare le conseguenze della sua azione (§ 6). Ha vissuto eroicamente e coraggiosamente la propria vita e la condanna a morte, realizzandole entrambe filosoficamente grazie al pensiero che, come un tessuto, permea e connette insieme l’ignoranza e la conoscenza, il piano divino e umano, la cura di sé e degli altri.
-
Tutte le traduzioni citate provengono da Platone, Apologia di Socrate, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2006. ↩︎
-
Platone, Fedone, 96a-100a. ↩︎
-
M.M. Sassi, Indagine su Socrate: Persona filosofo cittadino, Einaudi, Torino 2018, p. 54. ↩︎
-
M. Foucault, Il coraggio della verità: Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), trad. it. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 89-90. Parresia, dal greco παρρησία, composto di pan (tutto) e rhema (ciò che viene detto), è la capacità di dire il vero, parlare con franchezza. La parresia viene declinata da Foucault secondo diverse accezioni e significati. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 88. ↩︎
-
A. Brancacci, Il sapere di Socrate nell’Apologia, in G. Giannantoni e M. Narcy (a cura di), Lezioni socratiche, Bibliopolis, Napoli 1997, p. 322. ↩︎
-
Socrate può essere definito il primo scopritore del Dunning-Kruger effect, ovvero una distorsione cognitiva in cui persone poco competenti di un campo tendono a sovrastimare le proprie abilità e conoscenze, senza rendersi conto della loro ignoranza. Per approfondire si veda J. Kruger, D. Dunning, «Unskilled and unaware of it: How difficulties in recognizing one’s own incompetence lead to inflated self-assessments», Journal of Personality and Social Psychology, (1999) 77, 6, pp. 1121-34. ↩︎
-
A. Brancacci, Il sapere di Socrate nell’Apologia, cit., p. 323. ↩︎
-
M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 93 ↩︎
-
M. Iofrida, D. Melegari, Foucault, Carocci, Roma 2017, p. 269. ↩︎
-
M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 92. ↩︎
-
Foucault dice «dire-vrai», ovvero dire-vero, ma in italiano viene tradotto «dire-il-vero»: questa apparente sottile differenza in realtà rischia di fare perdere il significato profondo della parresia socratica come intesa da Foucault. Nella locuzione «dire-vrai» il vero è un carattere e qualità del dire e non il suo oggetto. Traducendo erroneamente «dire-il- vero» la verità diventa un oggetto del dire, esterno e indipendente al dire stesso, che può essere pronunciata oppure no. Il vero invece esiste nella pratica del dire stesso, poiché è un carattere del dire e dell’agire, che è dunque un agire-vero. La traduzione scorretta rimanda implicitamente a una concezione esterna e statica della verità, mentre il «dire-vrai» foucaultiano pone la verità nella dimensione dell’agire. ↩︎
-
A. Brancacci, Il sapere di Socrate nell’Apologia, cit., p. 327. ↩︎
-
Ivi, p. 325. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 90. ↩︎
-
Il testo dell’accusa ci è fornito da Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 18-47. ↩︎
-
M.M. Sassi, Indagine su Socrate, cit., pp. 179-181. ↩︎
-
G. Vlastost, Socratic Studies, Cambridge University Press, Cambridge 1994. ↩︎
-
Questo principio sarà alla base della riforma educativa che Platone proporrà nella Repubblica. ↩︎
-
Vedi l’introduzione di G. Reale in Platone, Apologia di Socrate, Bompiani, Milano 2006, pp. 13-14. ↩︎
-
M.M. Sassi, Indagine su Socrate, cit., pp. 163-174. ↩︎
-
Ivi, pp. 182-186. ↩︎
-
C. Capuccino, Socrate, in U. Eco (a cura di), L’Antichità: Grecia, Encyclopedia Publischers, Milano 2012, p. 391. ↩︎
-
M.M. Sassi, Indagine su Socrate, cit., pp. 59-61. ↩︎
-
La prima votazione si concluse con 280 voti a favore della colpevolezza e 220 dell’innocenza. ↩︎
-
C. Capuccino, Socrate, cit., p. 391. ↩︎
-
Cfr. P. Donatelli, Etica: I classici, le teorie e le linee evolutive, Einaudi, Torino 2015, pp. 4-5. ↩︎
-
I temi dell’odio, dell’inimicizia e dell’antipatia compaiono in (21e, 23a, 28a, 32c, 34d, 37d) ↩︎
-
La seconda votazione si concluse con 360 voti contro e 140 a favore. ↩︎
-
M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 94. ↩︎
-
Ivi, pp. 82-87, in cui si evidenzia la differenza tra la parresia etica di Socrate e la parresia politica. ↩︎
-
Socrate si rivolge ai 360 uomini che votarono contro di lui definendoli cittadini e non giudici, poiché il compito del giudice è di giudicare secondo giustizia. ↩︎