Recensione a R. Capasso e P. Piccari (curatori), Il tempo nel Medioevo. Rappresentazioni storiche e concezioni filosofiche

R. Capasso, P. Piccari (curatori), Il tempo nel Medioevo. Rappresentazioni storiche e concezioni filosofiche, Società Italiana di Demodossalogia, Castel Madama (Roma) 2000.

Calcolare il tempo, comprenderne l’essenza, ordinare gli accadimenti umani nello spazio e nel tempo, costituiscono compiti ai quali l’uomo non si è potuto sottrarre sia per ragioni concrete, appartenenti al suo vivere quotidiano, come per esempio l’esigenza di stabilire con precisione un appuntamento, sia per ragioni più propriamente speculative, stimolando così la riflessione filosofica, teologica e scientifica. Se per l’uomo comune occidentale dell’era della tecnica il tempo fluisce scandito dagli orari stabiliti dalle lancette dell’orologio, per lo studioso esso risulta una realtà altamente problematica, oggetto di una continua ricerca. Agli interessati alla questione del tempo, il volume di recente pubblicazione, che raccoglie gli Atti del Convegno internazionale tenutosi a Roma nei giorni 26, 27 e 28 novembre 1998, sul tema Il tempo nel Medioevo: rappresentazioni storiche e concezioni filosofiche, offre un interessante contributo per la finezza storica e filosofica degli interventi, alcuni dei quali mantengono nella stesura scritta lo spiccato carattere della comunicazione orale, mentre altri, benché ordinati anche essi alla comunicazione orale, si presentano come dei veri e propri articoli.

Il volume si apre con la presentazione di Ludovico Gatto, il quale, in modo conciso ed efficace, introduce il tema, presentando, da diverse angolature, un quadro storico della questione del tempo per l’uomo medievale, fino a concludere con il riconoscimento del diverso scorrere del tempo per il medievale dall’uomo contemporaneo: «Ma il tempo — e questo è il vero problema — scorre allora assai diversamente da oggi» (p. 13). Comprendere questa diversità è, in fondo, il compito che si sono prefissi di raggiungere i diversi relatori, ognuno secondo la propria prospettiva.

Il primo intervento dal titolo Dall’unità cronografica al particolarismo medievale, è di Riccardo Capasso, il quale, fondandosi sulla distinzione tra Cronologia, «scienza che ha il compito di sistemare i fatti storici a principiare da avvenimenti ben precisati e ritenuti di importanza fondamentale ed indiscutibile per chi li prescelse, denominati Ere» (p. 19), e Cronografia, «lo studio dei sistemi adottati dalle diverse istituzioni, in epoche anch’esse diverse, per misurare e descrivere razionalmente il preteso ed illusorio trascorrere del tempo» (Ibid.), traccia una breve storia del Calendario, dal quello romuleo, modificato sostanzialmente già dal secondo re di Roma, Numa Pompilio, fino alla sistemazione del Calendario giuliano fatta nel 1582 da Gregorio XIII. Nel periodo che va dall’unità cronografica dell’impero romano rappresentata dal Calendario giuliano, alla nuova unità cronografica che si afferma nel 1582, si assiste all’affermarsi del particolarismo cronografico, che raggiunse il suo massimo sviluppo sul finire del Medioevo: nonostante, infatti, il Cristianesimo si sia imposto nella cronografia pubblica con la riforma dionisiana del 532, tuttavia non sostituì in toto altri sistemi cronografici, «ma convivendo con essi in un mondo che sapeva sì rifarsi ad una ferrea unità spirituale, ma che, nella vita pratica, aveva appreso il verbo dell’autonomia e della conseguente differenziazione» (p. 27).

Il contributo di Kurt Flasch, Nota sulle condizioni generali della riflessione filosofica medievale sul tempo, offre, forse in modo troppo sintetico ma senz’altro efficace, una serie di indicazioni utili per la chiarificazione del problema del tempo nel Medioevo, affrontando le condizioni generali delle teorie filosofiche medievali sul tempo: condizioni religiose; condizioni socio-culturali; condizioni generali della filosofia antica. Di questa, Kurt Flasch elenca i testi principali sul tempo recepiti nel Medioevo: Platone, Timeo, 37 c 6-39e; Aristotele, Fisica IV, c. 10-14; indirettamente Plotino, Enneadi III, 7; Seneca, Epistolae morales, n. 88, 33; De brevitate vitae; Sextus Empiricus, Pyrrhoneioi hypotyposeis III 19, 136- 150; Adversus mathematicos X 3, 169-247; infine due testi importantissimi dell’antichità cristiana, che hanno condizionato la filosofia medievale del tempo: Agostino, Confessiones XI; Boezio, Consolatio V. Data la diversità dei testi antichi che fanno da sfondo alla riflessione medivale sul tempo, per Kurt Flasch non dovrebbe stupire che «la filosofia medievale non abbia sviluppato una teoria unica e uniforme sul tempo» (p. 42). Quello che il Medioevo ci ha trasmesso si riduce, per lo studioso tedesco, a: «una rete di testi importanti, in parte fra di loro contrastanti, ma sempre con tanti problemi aperti; una serie di idee culturali e religiose; un elenco di problemi che ogni teorico del tempo dovrebbe risolvere […]; dibattiti serrati, fra di loro ben connessi, ma senza risultati da tutti accettati; luoghi specifici della discussione: i trattati sulla categoria del quando; il libro IV della Fisica; nei commenti sul Libro delle Sentenze le parti sulla creazione e sull’inizio del tempo; le questioni sul rapporto fra predestinazione eterna e la libertà temporale del libero arbitrio» (Ibid.). L’Autore, inoltre, nota en passant la vittoria della teoria aristotelico-araba del tempo su quella agostiniana, avutasi con la riscoperta della Fisica di Aristotele. Vittoria che comincia con il commento al testo aristotelico di Roberto Grossatesta, matura con Alberto Magno ed è consacrata da Enrico di Gand nel suo Quodlibet III, 11. Infine, Kurt Flasch prende in considerazione un aspetto della filosofia medievale sul tempo, la produttività dell’anima, richiamando Meister Eckhart, Alberto Magno e Teodorico di Freiberg. Quest’ultimo, nel De origine rerum praedicamentalium e nel De natura et proprietate continuorum, considera non solo l’esperienza del tempo, come voleva Alberto, ma l’essere stesso del tempo costituito come ens conceptionale. Tutto questo non significa eine radikale Subjektivierung der Zeit, come vuole Anneliese Meier, «Teodorico, infatti, presuppone il moto celeste come fondamento, utilizzando i due argomenti di Averroè: a) solo l’intelletto può numerare; b) la vera realtà è quella naturale, non quella potenziale» (p. 47).

I dati temporali nell’Alto Medioevo erano ordinati secondo un procedimento denominato computus o compotus. L’esame di questo procedimento è oggetto dello studio di Paolo Piccari, Il Computus nell’Alto Medioevo, in cui si delinea lo sviluppo storico della nozione, ripercorrendo le fonti principali: il secondo libro delle Institutiones di Cassiodoro; le Etymologiae di Isidoro di Siviglia, che comprende anche un De cyclo paschali contenente preziose indicazioni sul computo; il De temporibus e il De temporum ratione di Beda; le Sententiae sancti Augustini et Isidori in laude compoti; il De computo dialogus e un altro trattato irlandese ugualmente anonimo il De ratione computandi. Non mancano riferimenti ad Alcuino; al Liber de astronomia et computo di Decuil, un testo che non incontrò molto successo; ed infine al Liber de computo di Rabano Mauro, ampia sedimentazione delle tappe che hanno scandito lo sviluppo della cultura cristiana. L’opera di Rabano favorisce l’ascesa del computus, la cui utilità sarà riconosciuta fino a quando non si affermeranno i nuovi orizzonti nel campo della matematica e dell’astronomia con le traduzioni dei testi arabi.

Elaborato ed ampio si presenta il contributo di Pasquale Porro, Il vocabolario filosofico del tempo e della durata. Analizzando i termini più adottati dai medievali per indicare le principali forme di durata, ossia il tempo, l’aevum e l’eternità stricte sensu, Porro riesce a rappresentare, in un unico quadro d’insieme, la profondità della riflessione filosofica medievale sul tempo. L’ampiezza semantica del termine tempus, suddivisa in tre precise accezioni — tempus come numerus motus, tempus come morae motusque dimensio, tempus come distentio animi —, è analizzata soprattutto in autori appartenenti al Basso Medioevo, con continui rimandi alle principali fonti, così che il panorama preso in considerazione risulta sensibilmente ampliato.

Verso la fine del XIII secolo si impone una sintesi, fondata per lo più sull’interpretazione averroista della trattazione aristotelica, la cui elaborazione più rappresentativa è offerta dalla quaestio 11 del Quodlibet III di Enrico di Gand: il tempo risulta essere partim in re extra e partim in anima. L’anima, infatti, conferisce al tempo il suo complementum formale, altrimenti il tempo esisterebbe solo in potenza, nulla di diverso dal movimento: «Segnando un prima e un poi, l’anima introduce un elemento discreto nel continuo del movimento. Così, sottolinea Enrico di Gand, il tempo è continuo dal punto di vista materiale, discreto dal punto di vista formale: ma poiché esso risulta alla fine dalla composizione dei due aspetti, la sua vera natura è di essere discreto nel continuo» (p. 66). Il tempo non risulta essere, così, direttamente la misura degli enti in movimento, ma la misura del movimento stesso. Porro è ben consapevole di aver proposto un modello interpretativo, quello di Enrico di Gand, che non rende giustizia della varietà delle prospettive medievali, e riferisce a proposito la proposta di Bonaventura, offre alcune indicazioni su Olivi, Durando di San Porziano e Erveo di Nédellec, per soffermarsi su Ockham. Per quest’ultimo, il tempo non indica nulla di distinto dal movimento, il quale a sua volta non importa nessuna realtà ontologica distinta da quella del mobile. Per Ockham, in definitiva, tempo è «un termine connotativo che nomina in recto il movimento in sé, e in obliquo l’anima che misura tale movimento» (p. 68).

Il concetto di tempus come morae motusque dimensio ha in Giovanni Scoto Eriugena una delle più rappresentative autorità, che favoriscono il successo di questo concetto. L’Eriugena, infatti, nel Periphyseon, fornisce questa definizione di tempo: Est enim tempus mutabilium rerum morae motusque certa rationabilisque dimensio; Est enim tempus morarum vel motuum certa et naturalis dimensio. Fondandosi sulla persistenza di queste due definizioni del Periphyseon fino al XIII secolo, Porro conclude che la terminologia sul tempo sia già segnata dall’Eriugena prima ancora della reintroduzione di Aristotele in Occidente. La fortuna del vocabolo mora è attestato, per esempio, da Gilberto Porretano, il quale contrappone nella Expositio in Boecii librum primum De Trinitate, mora temporis a mora aeternitatis, e da Alano di Lilla. Ciononostante si deve ricordare anche la diffusione della definizione del tempo data da Platone nel Timeo come imago aeternitatis, che ebbe una grande diffusione nella scuola di Chartres, in particolare in Bernardo Silvestre e Guglielmo di Conches.

Il tempo, invece, inteso sulla linea del XI libro delle Confessioni di Agostino come distentio animi è recepito con diversi atteggiamenti, schematizzabili per Porro in due principali: uno di rifiuto, come per esempio in Enrico di Gand; l’altro, invece, che può essere rappresentato dalla posizione di Giacomo da Viterbo, di aggiustamento terminologico e concettuale, così da rendere la prospettiva agostiniana compatibile con quella aristotelica. Tuttavia, anche in questo secondo atteggiamento si assiste ad un fondamentale spostamento: Giacomo, infatti, modifica la terminologia agostiniana e dalla distentio animi si passa alla distentio motus.

Richiederebbe senz’altro più spazio presentare per esteso il contributo di Porro, accenniamo pertanto ai punti che lo studioso tocca nel suo intervento: si prendono in esame i termini aeternitas, sempiternitas, perpetuitas, per poi passare alla terza forma di tempo concepita dai medievali, l’aevum. Oltre a questi concetti vengono trattati il Tempus angelorum, i termini saeculum ed aeternitas participata, per concludere con una fugace menzione alle valenze di nunc. L’intervento, così, tenta di mostrare la parabola della riflessione medievale sul tempo, seguendone il vocabolario: dall’attenzione nei confronti della durata in quanto tale e del permanere di una cosa in un determinato stato, come si mostra nella recezione del lessico altomedievale, all’elaborazione di nuove nozioni sorte dal confronto con i testi aristotelici, fino al tentativo di recuperare, al tramonto del XIII secolo, l’idea di durata in generale attraverso un uso allargato di concetti non aristotelici, elaborati originariamente in campo teologico.

Gli Atti del Convegno sono arricchiti da altri tre contributi: Paolo Daffinà, Sistemi cronologici e tempo storicizzato; Marta Cristiani, Il tempo nell’Alto Medioevo; infine Giulio D’Orazio, Il tempo dall’età medievale all’età contemporanea: interpretazioni demodossalogiche. In quest’ultimo, dopo aver preso in esame, forse in maniera un pò troppo frettolosa, i diversi modelli interpretativi del tempo che si sono succeduti nel corso della storia dell’umanità, si propone una concezione del tempo come una spirale tendente all’infinito, che dovrebbe approfondire un’idea di Jung e conciliare diverse concezioni: quella filosofica lineare e quella ciclica, ma anche «la cosiddetta «simmetria della direzione del tempo» elaborata dalla fisica quantistica» (p. 141). Per D’Orazio, il tempo dovrebbe essere rappresentato come «Un cono rovesciato contenente “la memoria” di tutti gli avvenimenti succedutesi nel Tempo, attraverso la dilatazione nello spazio; “memoria” che condiziona (in quanto inestricabilmente biologica e culturale) gli eventi ed i comportamenti sociali e quindi le interpretazioni dei fatti, le sensazioni e le aspettative. Una memoria inconscia e collettiva, che protende verso il futuro, verso nuovi percorsi in un continuum inscindibile di spazio-tempo, dal Medioevo alla futura età robotica, a sottolineare la causalità del percorso umano nel Tempo» (p. 142).

Paolo Daffinà tenta, invece, di comprendere come e quando si è passati da una concezione del tempo fondamentalmente ciclica ad una lineare: sebbene già in Solone fosse presente l’idea lineare del tempo, tuttavia, per una sua più decisa affermazione, si deve attendere l’èra seleucide, quando Antioco, figlio di Seleuco Nicatore, invece di incominciare una nuova datazione secondo i suoi anni di regno, continuò quelli del padre. È, però, con il Cristianesimo e la sua necessità di fissare in un sistema cronologico l’irripetibilità dell’evento spirituale storico, che si distingue una percezione naturalistica del tempo e una storicistica. Nei secoli questo sistema è stato perfezionato, tanto da poter definire la completa strutturazione cronologica del passato un processo d’integrale storicizzazione del tempo.

Suggestivo per diversi motivi risulta essere il contributo di Marta Cristiani: per il materiale preso in esame, attinto principalmente dalla tradizione dell’esegesi biblica dell’Alto Medioevo; per alcune implicanze esistenziali della riflessione della Cristiani; per la capacità di condurre in una «selva», certo ormai non oscura per il moltiplicarsi degli studi, ma senz’altro in cui è facile smarrirsi. Il primo autore introdotto dalla Cristiani è Gregorio Magno con le sue Omelie su Eziechiele, opera in cui, sembra, si accolga la lezione del Genesi ad litteram di Agostino, secondo la quale la dimensione temporale è la dimensione della creatura spirituale, mentre al corpo appartiene la dimensione spazio-temporale. Nella vasta opera di Gregorio prende forma una riflessione fondata sulla coscienza della solitudine individuale, «ai limiti della disperazione, di fronte all’onnipotenza divina, ma anche sulla percezione dell’unicità della persona del prossimo, in quella che definirei la sua evangelica immediatezza, impossibile a cogliere attraverso un processo conoscitivo che utilizza lo strumento della species, le categorie universali dell’insegnamento scolastico» (pp. 112-113). Per Gregorio, infatti, species quippe hominis est alter homo: nostra specie è detto il nostro prossimo, perché in esso possiamo cogliere quello che noi stessi siamo. Ciononostante, l’istituzione ecclesiale esige un sapere che sia al tempo stesso istituzionale e individuale, i cui codici non appartengono alla tradizione delle scuole. Così, la Regula pastoralis, manuale per la guida delle anime, utilizza, per conoscere l’individuale, una serie di categorie classificatorie, di ordine naturale, sociale e soprattutto psicologico, fondate sullo strumento concettuale della differentia (uomini/donne; ricchi/poveri; soddisfatti/scontenti, etc.). Tuttavia, più della Regula pastoralis, è nelle Omelie su Ezechiele che Gregorio sostiene l’irriducibilità dell’oscura natura umana alla conoscenza: «Unica scienza possibile dell’oscuro è un sapere strutturalemente fondato sulla temporalità, in contrasto quindi con la nozione filosoficamente dominante di scientia fondata sull’immutabile, il sapere profetico, che è imprescrutabile dono della grazia divina e al tempo stesso istituzionalmente necessario alla vita della chiesa e all’attività dei suoi pastori, nella predicazione» (p. 114). In questo modo, la prospettiva gregoriana conduce «a una dilatazione della nozione corrente di profezia come conoscenza del futuro, perché suo oggetto sono in realtà le oscurità delle cause, imparzialmente nascoste nelle tre dimensioni del passato, presente, futuro» (Ibid.).

Il compito del profeta si configura così nel diffondere nell’ordo mutabilitatis l’eternità della parola che non si scandisce in sillabe temporali, cosicché la temporalità del sapere profetico ha per oggetto la conquista della dimensione della verità immutabile, mentre il vertice della visione escatologica è lo stadio della trasmutazione dell’homo temporalis resa possibile dall’incarnazione. A riguardo la Cristiani cita un significativo testo delle Omelie, destinato ad esercitare una lunga influenza, fino ad ispirare, sebbene interpretato in una diversa prospettiva, la nozione di immutatio vitalis in Giovanni da Ripa: Immutabimur quippe in ipso quem uidebimus, quia morte carebimus uidendo uitam, mutabilitatem nostram transcendens uidendo immutabilem (Hom. in Ez., I, 2, 20, CCh, S.L., CXLII, p. 30).

Per la comprensione del tempo nell’Alto Medioevo, senz’altro sono rilevanti i due trattati di Beda, De temporum ratione, De temporibus liber, nonché il De rerum natura, su cui la Cristiani si sofferma, ma la sua attenzione si rivolge soprattutto a Pascasio Radberto e a Giovanni Scoto Eriugena, due protagonisti del pensiero altomedievale dialettici tra di loro: il primo, infatti, commentando la genealogia del vangelo di Matteo, afferma con una radicalità estrema la concezione di Cristo come evento biologico-storico, inserito in un preciso momento nell’ordine delle generazioni; il secondo, invece, si rivolge alla luce folgorante e intemporale del Cristo-Logos, infinitamente al di sopra delle ombre della «valle della storia». Il rapporto fra l’eternità e la parola del profeta che ad essa si ispira, viene così compreso da Pascasio, ponendo un accento sul verbo adimpleri, che implica una plenitudo, una pienezza dei tempi.

Rilevante nel Commentario a Matteo di Pascasio è anche l’utilizzo del V libro della Consolatio di Boezio sui futuri contingenti: infatti, «Pascasio sembra seguire Boezio nel rapporto che si stabilisce fra dimensione temporale e dimensione dell’eternità, che ingloba e in definitiva recupera il tempo, ma è ben lontano dall’attribuire al mondo quella perpetuitas, ontologicamente distinta e subordinata all’aeternitas, che ad esso attribuisce Boezio» (p. 125). Il fulcro dell’interesse di Pascasio, infatti, è costituito dall’evento nel quale Dio afferma la sua pienezza nell’ordine del tempo, possibile perché è di Dio quella onnipotenza che ha creato dal nulla ciò che non era, e può imporre quindi ai tempi la loro pienezza.

In risposta alla cristologia immanentistica di Pascasio e alla sua teologia dell’azione divina nel tempo, si pone la posizione di Giovanni Scoto Eriugena, il cui programma ermeneutico è costantemente indirizzato a un processo di «destoricizzazione» del testo narrativo, mentre la riflessione sulla spazio-temporalità è ricondotta al momento decisivo del manifestarsi dell’assoluto, infinito, inconoscibile, ineffabile: «Spazio e tempo sono i limiti, le leggi originarie, che l’assoluto pone a se stesso per manifestarsi come natura, nell’ambito del linguaggio, coincidente integralmente con l’ambito della realà, restando infinitamente trascendente allo spazio-tempo, che costituisce e fonda il linguaggio e la realtà ontologica dell’essere» (pp. 130-131). L’onnipotenza divina, che per Pier Damiani può sovvertire finanche l’ordine temporale, diviene così, con Giovanni Scoto, un’onnipotenza che trascende la realtà in quanto integralmente la possiede, immersa nelle sue più intime strutture.

Sarebbe senz’altro interessante seguire per intero l’intervento della Cristiani, molto più articolato della semplificazione qui proposta, ma è un compito che lasciamo al lettore. A titolo di esempio, si possono ricordare i riferimenti alle controversie eucaristiche del periodo, una questione alla quale la Cristiani ha dedicato lunghi anni di studio, i cui risultati sono raccolti in diversi lavori scritti.

Gli Atti di questo convegno si presentano, in definitiva, stimolanti per la riflessione e l’approfondimento culturale, sia filosofico sia storico. L’eterogeneità delle prospettive rende il volume ricco di suggestioni ed offre un confronto con il problema del tempo di ampio respiro, in grado di renderci più luminosa e più vicina un’epoca, in cui, nonostante le differenze rispetto al sentire e al pensare contemporaneo, si trovano elementi fondanti la nostra civiltà.