1. Introduzione
Tra Emmanuel Levinas e Jaques Derrida c’è stata un’intimità sostanziale, e il secondo si è sempre sentito in un fortunato debito nei confronti del primo, un debito nell’ordine di un sì incondizionato che, al momento dell’addio a Levinas, Derrida rimpiange di non avergli detto abbastanza.1 Il rapporto tra i due filosofi si costruisce in riferimento a un certo rinvio all’ebraismo che costituisce il luogo dell’intrecciarsi di alcune tematiche come quella dell’unicità, della contaminazione, del nome, della legge, e dell’etica che costituisce l’orizzonte di tutte.2 Anche altri autori si sono confrontati con Levinas, ma Derrida è forse l’unico che ha avuto il sereno coraggio di compiere un’analisi profonda del suo sionismo sulla base delle sue concezioni etiche e politiche. Il confronto diretto con Levinas avviene in tre opere: Violenza e metafisica,3 In questo medesimo momento in quest’opera eccomi,4 e Addio a Emmanuel Levinas. Si è voluto individuare una distanza tra il primo testo, più critico, e i successivi più favorevoli a Levinas, ma questa interpretazione, che tende a separare il saggio del ’64 dagli altri, sembra poco accettabile.5 Vediamo dunque quali sono i temi che possiamo cogliere in questo percorso che giunge a compimento con l’analisi della «parola d’accoglienza», nell’ultima opera dedicata a Levinas.
2. Violenza e metafisica
In Violenza e metafisica compare l’intenzione che Derrida persegue, al contempo metodo della sua analisi, che ritroveremo anche in Addio espressa con un’immagine molto evocativa.
Saremo dunque incoerenti, ma senza risolverci sistematicamente all’incoerenza. La possibilità del sistema impossibile, resterà all’orizzonte, per preservarci dall’empirismo.6
Mentre questo metodo porta Derrida ad affermare che Levinas tradisce le proprie intenzioni nel suo discorso filosofico non accettando la necessità di una certa contaminazione,7 nell’opera del ’97 la contaminazione investe lo stesso Derrida, lettore di Levinas, che intravede la possibilità di ritrovarsi col suo interlocutore nel cuore di un chiasmo.8 L’intenzione principale del testo del ’64 è, dunque, la necessità del ricorso a una certa contaminazione e quindi a una certa violenza da parte del discorso stesso, violenza necessaria al rapporto con l’altro e all’istaurazione della pace: «l’origine trascendentale di una violenza irriducibile»9. Per Derrida questa contaminazione della «violenza irriducibile» abita la dimensione del rapporto con Altri che è la storia, rapporto con altri che è, secondo la concezione del Levinas di Il tempo e l’altro, una «escatologia disperata» nella quale la «rinuncia fa parte della sua significazione essenziale»10. Quindi, continua Derrida, per Levinas l’incontro con Altri che avviene nel presente della Traccia è già evento escatologico: «L’esperienza stessa è dunque escatologica»,11 ma in questo presente, nella Traccia e nella storia, abita l’irriducibile violenza trascendentale. Ciò introduce una contaminazione irriducibile ed essenziale al discorso che Levinas ritiene giusto, un discorso che è, dunque, «originalmente violento» ma, ed è qui la forza delle affermazioni di Derrida, anche se poste con la discrezione di una forma interrogativa, lo stesso tipo d’interrogazione che Derrida troverà nelle affermazioni di Levinas analizzate in Addio a Emmanuel Levinas, «la guerra abita il logos filosofico, il solo nel quale, tuttavia, può essere dichiarata la pace». La pace quindi non è per Derrida essenza del discorso ma suo telos, un compimento che si realizza come un certo «non-discorso», come silenzio. «La pace, come il silenzio, è la strana vocazione di un linguaggio chiamato fuori di sé da sé»12.
Ma se la violenza abita il discorso col quale si vuole instaurare la pace contro la guerra che vive il sistema della totalità, allora, continua Derrida, è necessaria una «violenza contro violenza», una «economia della violenza» che si realizza proprio nel discorso filosofico nel quale «è necessario battersi contro la luce con una certa luce». E «questa vigilanza è una violenza accettata come la violenza meno grave da una filosofia che prende sul serio la storia, cioè la finitezza». La storia è trascendenza, ma è anche violenza.13 Per Derrida ,dunque, nella storia il discorso è sempre violento, anche quando vuole fare violenza alla stessa violenza. Esso non può mai emanciparsi dall’irriducibilità della violenza che lo ha originato. Per fare in modo che ciò avvenga, sarebbe necessario un «trionfo messianico» che però, come ammette lo stesso Levinas, va al di là dei limiti del discorso.14 A questo punto, sentenzia Derrida, «l’escatologia è possibile solo attraverso la violenza», ma in questa «attraversata infinita» che è la storia, l’irriducibilità della violenza richiama la responsabilità del «discorso filosofico finito»; tra la tragedia originaria e il trionfo messianico sta la filosofia.15 Tuttavia, afferma Derrida, il discorso filosofico come lo vorrebbe Levinas, cioè come fenomenologia, come discorso che si interroga sulla propria apertura, si ferma alla pripria origine: «la sua apertura silenziosa sfugge alla fenomenologia, come l’origine alla fine del suo logos». Il silenzio dunque costituisce la dimensione protologica ed escatologica che chiama la parola nella storia, «la fenomenologia e l’escatologia possono interminabilmente intrecciare il dialogo, interpretarsi in esso, invitarsi reciprocamente al silenzio». Ora, se la pace messianica, come dice Levinas, è «la mia pace, in una relazione che parte da un io e va verso l’Altro»16, allora, conclude Derrida, la pace si fa solo in un certo silenzio.17 Violenza e metafisica fu pubblicato in due parti. Derrida ricorda le parole dettegli da Levinas, che aveva letto l’opera, in quella occasione: «Mi ha anestetizzato nella prima parte, e operato nella seconda». Non ne parlarono mai più. Solo anni dopo Levinas ricordò il testo di Derrida con un sorriso: «In fondo, mi rimproverate di aver preso il logos greco come si prende l’autobus, per scendere»18.
3. In questo medesimo momento in quest’opera eccomi
Nel secondo testo dedicato al confronto diretto con Levinas, Derrida ritorna sull’esigenza della contaminazione – intesa qui soprattutto come contaminazione della lingua, del testo – e afferma che Levinas ama la lacerazione, ma detesta la contaminazione la quale pure «mantiene la sua scrittura in esercizio» concatenando le lacerazioni e riprendendole regolarmente nel tessuto o nel testo filosofico.19 Nel 1980 Derrida riconosce dunque una contaminazione nel testo di Levinas alla luce della scrittura di Altrimenti che essere, e afferma che i libri scritti mantengono, loro malgrado, una traccia dell’interruzione che vogliono creare col mondo della filosofia, della medicina o dello Stato, che li accoglie rimarcando ma anche riannodando l’interruzione con essi. Ora, afferma Derrida, Levinas non scrive «libri di Stato», e lo fa creando interruzioni e lacerazioni recuperate da nodi, ma «altrimenti»20. Alla «violenza contro violenza» proposta nel saggio del ’64, Derrida lascia il posto a «un rischio della negoziazione obbligata» nella quale la non violenza etica deve essere negoziata politicamente, anche se ciò potrebbe sembrare scorretto. Derrida scorge questo elemento in Levinas nel passaggio dal tema della «violenza» di Totalità e Infinito a quello dell’«obbligazione» di Altrimenti che essere, e nella contaminazione presente nel tentativo di riannodare le interruzioni.21 Ora, afferma Derrida, se l’Altro è il movente dell’opera – il testo e l’«apertura» – tramite l’obbligazione, Levinas stesso, consegnando la sua opera al mondo e a Derrida, diviene soggetto obbligante all’apertura di una lettura disposta al rischio della contaminazione. «Egli avrà obbligato» – ripete spesso Derrida – in questo medesimo momento, in quest’opera (ouvrage), con una catena di nodi multipli che conserva la traccia appena apparente di «interruzioni assolute, dell’ab-soluto come interruzione», di uno «iato» che troveremo in tutta la sua assolutezza nelle considerazioni di Addio a Emmanuel Levinas.22
Questa serie ab-soluta è senza un solo nodo ma annoda una molteplicità di nodi ri-annodati, e che non ri-annodano fili ma interruzioni senza filo lasciando aperta l’interruzione tra le interruzioni. Questa interruzione non è una cesura, non appartiene alla logica della cesura ma della de-stretturazione [dé-stricturation] ab-soluta. Perciò l’apertura dell’interruzione non è mai pura.23
Derrida riferisce qui due elementi che riporterà anche in Addio a Emmanuel Levinas e che analizzeremo più avanti. Innanzitutto l’interruzione, lo iato, che non chiude ma apre alla responsabilità del lettore. In secondo luogo Derrida riconosce che l’apertura di questa interruzione non è mai pura, proprio come dirà, nell’opera del ’97, del confine tra etica e politica in Levinas. Nel tentativo di riannodare le interruzioni, continua Derrida, c’è una contaminazione, una «negoziazione obbligata», sia nel testo di Levinas sia nel lettore al quale è affidata l’opera di Levinas. «Ciò che scrive fa opera [ouvrage] e Opera nell’opera [ouvrage]?»24 Tornando alla questione del «trionfo messianico» che Levinas lascia aperta all’opera nell’Opera Totalità e Infinito,25 Derrida scrive:
Interrompo un istante: «nella presente opera» si è allora presentato l’impresentabile, una relazione con l’Altro che fa fallire qualsiasi raccoglimento nella presenza, al punto che nessuna opera [ouvrage] può legarsi e rinchiudersi sulla propria presenza, si può tramare o concatenare per fare libro. La presente opera fa presente di ciò che può essere dato solo fuori libro. E anche fuori quadro: «Il problema esula dal quadro (du cadre) di questo libro»; sono le ultime parole dell’ultimo capitolo di Totalità e Infinito (subito prima delle Conclusioni). Ma ciò che deborda si è annunciato – è l’annuncio stesso, la coscienza messianica – sul bordo interno di questo enunciato, sul quadro del libro se non in esso. E tuttavia ciò che si opera della presente opera [ouvrage] non fa opera se non al di fuori del libro.26
Come la pace poteva essere detta solo col logos filosofico in cui abita la guerra, nell’opera del ’64, così adesso, nel testo del 1980, Derrida ricorda che il trionfo messianico di cui parla Levinas in Totalità e Infinito deborda il quadro dell’opera, ma è annunciato in essa, e il suo annuncio è proprio un richiamo – fa opera – a quella coscienza messianica che deve realizzarsi nel trionfo al di fuori dell’opera. Pertanto, quando Derrida scrive che Levinas ha obbligato a una «dislocazione assoluta», intende il richiamo a una «responsabilità asimmetrica», sottratta al circolo del debito, e quindi «ab-soluta, ab-solvente»27. A questa responsabilità asimmetrica farà da eco, in Addio a Emmanuel Levinas, il silenzio dell’autore dell’opera, che lascia uno iato in cui è possibile l’azione del lettore. Altrimenti che essere, benché prosegua il pensiero sviluppato in Totalità e Infinito, resta certamente un’opera indipendente,28 ma è innegabile, come confessa lo stesso Levinas, che le questioni sollevate da Derrida nei confronti della prima opera lo avessero molto tormentato e spinto verso l’utilizzo di un linguaggio più adeguato.29 Derrida un giorno domandò a Levinas cosa fosse successo tra Totalità e Infinito e Altrimenti che essere. Levinas rispose: «è successo che sono diventato buono!»30.
4. Addio a Emmanuel Levinas
Le aperture che abbiamo esaminato nelle opere Violenza e metafisica e In questo medesimo momento in quest’opera eccomi, si riannodano per aprirsi nuovamente su di noi in Addio a Emmanuel Levinas. Obiettivo dell’analisi di Derrida è il rapporto che il pensiero di Levinas stabilisce tra etica e politica e più precisamente tra l’etica e il diritto, tra l’etica e la storia.31 È un testo davvero denso e, potremmo dire, l’apice o il cuore del confronto con Levinas, ed è rilevante che nel cuore di questo chiasmo ci sia la problematica del sionismo, analizzata all’interno della più generale riflessione sull’ospitalità. Riprenderemo direttamente le osservazioni fatte da Derrida a proposito del sionismo e ci faremo condurre verso un’apertura sugli scenari derridiani che fanno da cornice alle riflessioni del filosofo. Derrida, riflettendo sull’espressione di Berakhoth, commentata da Levinas, «L’Egitto porterà un dono al Messia nel tempo futuro»32, ci fornisce «un’ipotesi insieme timida e provocante» il cui sviluppo vedremo più avanti. La sua riflessione s’inserisce nella trama da lui sviluppata su ospitalità e accoglienza come espressione del soggetto come ostaggio. Da questa premessa «se ne potrebbe trarre un’aspra conclusione: l’ospitalità o è infinita o non è»33. Sull’ospitalità e sui «luoghi» in cui essa si manifesta torneremo in seguito. Secondo Derrida, l’espressione «L’Egitto porterà un dono al Messia nel tempo futuro» s’illumina con il commento che Levinas fa al trattato Peshaim, con queste parole «un riconoscimento della Torah prima del Sinai?».
L’intrigo di questa intrigante questione […] è, per quanto grave sia la portata di gioco, proprio una prova di ospitalità. Ospitalità al di là di ogni rivelazione. Non si tratta, per Levinas, di mettere in questione l’elezione di Israele, la sua unicità e soprattutto la sua esemplarità universale, ma al contrario di riconoscere un messaggio universale di cui esso ha la responsabilità prima o indipendentemente dal luogo e dall’avvenimento del dono della legge: universalità umana, ospitalità umanitaria sradicata da una singolarità dell’avvenimento che diventerebbe così empirico, o tutt’al più allegorico, forse soltanto «politico» in un senso ristretto di questo termine.34
La posta in gioco sulla quale deve confrontarsi tale ospitalità è quella della realizzazione politica dello Stato di Israele, un luogo sulla cui concretezza Levinas insiste, ma che porta con sè delle difficoltà. Nella Torah prima del Sinai, in un’ospitalità al di là di ogni rivelazione, Derrida intravede una messianicità a priori, oltre le intenzioni di Levinas, ma forse nella sua stessa direzione.
Ciò che qui si annuncia è forse una messianicità che diremmo strutturale o a priori. Non una messianicità astorica, ma propria ad una storicità senza incarnazione particolare ed empiricamente determinabile. Senza rivelazione o senza datazione propria ad una data rivelazione. L’ipotesi che così arrischio non è propriamente quella di Levinas, almeno sotto questa forma, ma essa cerca di avanzare nella sua direzione – forse per incontrarlo ancora. «Nel cuore di un chiasmo», come disse un giorno.35
Derrida quindi estrapola tre concetti dalla riflessione di Levinas che farebbero parte di questa messianicità a priori, e sono la fraternità, l’umanità come fraternità del prossimo e l’ospitalità che assume un valore radicale.36 Lo stesso Totalità e infinito è da lui definito come «un immenso trattato sull’ospitalità» ma potremmo considerare tutto il pensiero di Levinas una filosofia dell’ospitalità intesa come struttura profonda del soggetto.37 Levinas, commentando Deuteronomio 23, 8, aveva sostenuto che proprio l’ospitalità o la fraternità evocano un ricordo della «parola di Dio», e che appartenere all’ordine messianico significa saper accogliere l’altro da sé.38 In questa «parola di Dio» che è la fraternità, l’accoglienza e l’ospitalità, Derrida intravede un ricordo prima del Sinai, un «riconoscimento della Torah prima del Sinai».
È un ricordo prima della memoria, memoria di una parola che avrà avuto luogo persino prima di aver luogo, memoria di un avvenimento passato più vecchio del passato e più antico di ogni memoria ordinata alla consecuzione empirica dei presenti, più vecchia del Sinai, a meno che nello stesso nome Sinai tale anacronia allegorica non gli faccia significare, attraverso il suo proprio corpo, un corpo estraneo, anzi il corpo dello straniero. È proprio questo ciò che designerebbe l’esperienza dello straniero, laddove la verità dell’universo messianico eccede, senz’altro, sia il luogo sia il momento determinati, ma anche l’identità, soprattutto l’identità nazionale del portatore o del messaggero della Torah, della Torah rivelata.39
Qualche anno prima di scrivere queste parole, Derrida aveva pensato il messianico come «l’apertura all’avvenire o alla venuta dell’altro come avvento di giustizia, ma senza l’orizzonte d’attesa e senza prefigurazione profetica», aggiungendo che «questa dimensione messianica non dipende da alcun messianismo, non segue alcuna rivelazione determinata, non è la prerogativa di alcuna religione abramitica»40. Sempre negli stessi anni, prima di Addio a Emmanuel Levinas, Derrida aveva affermato di dibattersi da molto tempo nel tema di un messianismo desolante.41 In queste riflessioni il messianico è concepito come il «paradosso irriducibile» di «un’attesa senza orizzonte di attesa», eppure, aggiunge Derrida, «si può sempre considerare l’aridità quasi atea di questo messianico come la condizione delle religioni del Libro, un deserto che non fu neanche loro»42. Ora, nel «riconoscimento della Torah prima del Sinai», Derrida sta sottilmente allargando il concetto di universalismo ebraico e messianico per portarlo oltre la sua determinazione storica e il suo contenuto «nazionalistico», andando oltre Levinas, ma forse anche cogliendo alcune sfumature del suo pensiero che egli fa emergere dalle proprie parole.
Allergia o attitudine alla verità senza ambire al titolo di portatore o di messaggero della Torah. Il «senza» di questa frase (senza ambire al titolo di portatore o di messaggero della Torah) ha una grande potenza analitica. L’analisi sembra liberare o sciogliere la legge fuori dall’avvenimento del suo messaggio, dal qui-ora della sua rivelazione chiamato Sinai; e lo scioglimento di questo «senza» sembra proprio appartenere all’esperienza evocata un istante fa, quello di una Torah prima del Sinai, di un «riconoscimento della Torah prima del Sinai», e se non di un riconoscimento senza elezione (infatti per Levinas il motivo dell’elezione è ovunque all’opera nell’analisi della responsabilità etica), almeno di un’elezione la cui assegnazione non si lascia racchiudere né in tale luogo e in tale momento, né quindi forse – ma non si potrebbe mai esserne sicuri per definizione – in tale popolo o in una tale nazione. Non dimentichiamolo mai, l’elezione è inseparabile da ciò che sembra sempre contestarla: la sostituzione.43
Derrida quindi conduce la sua osservazione quasi-eversiva sulla scia del concetto di sostituzione, presente in Altrimenti che essere insieme con quello di obbligazione, che si declina poi come accoglienza, ospitalità e fraternità. Queste sue riflessioni ci sono parse qui utili da citare, come quasi-contraddittorio alle affermazioni di Levinas, anche per introdurre la contraddizione che esse fanno emergere quando bisogna coniugare etica e politica, o derivare questa da quella. La riflessione di Derrida sui due «luoghi» nei quali si annuncia l’ospitalità, il Volto e il Sinai, può fornirci quella contestazione necessaria all’idea che il messaggio messianico possa istallarsi qui e ora sul Sinai, nello stato di Israele. Mi sembra opportuno, a questo punto, inserire le osservazioni di Derrida a proposito delle affermazioni di Levinas, «dalla forma deliberatamente contraddittoria», quando parla dello stato messianico.44 La forma contraddittoria è data, secondo Derrida, dalla dinamica del compimento dello Stato di Davide in uno stato messianico. Da una parte ci sono le affermazioni di rottura dello Stato di Cesare che, pur partecipando all’essenza dello Stato, è tuttavia luogo dell’idolatria, dall’altra le affermazioni di apertura verso un superamento dello Stato e un compimento dello Stato di Davide in stato messianico.
Superamento di uno Stato (quello di Cesare), compimento di un altro Stato (quello di Davide): entrambi possono sembrare utopici o prematuri, Levinas lo riconosce, ma essi mostrano l’apertura stessa del politico verso il suo avvenire, se ne ha uno. (Se si assumesse come regola quella di parlare di «politica» fin da quando la parola Stato appare, traduzione più o meno rigorosa di Polis, ci si dovrebbe chiedere se tale regola si applica all’espressione «Stato di Davide», o se l’alternativa tra Stato di Cesare e Stato di Davide è un’alternativa tra la politica e un al di là della politica, o un’alternativa tra due politiche o infine una alternativa tra altre alternative […]. Levinas non esita a parlare di «politica messianica», in opposizione a ciò che intendiamo per politica all’interno della tradizione […]. Quando egli dice «al di là della politica», «politica» ha sempre il senso di questa politica dello Stato non messianico, trasgredita verso il suo al di là da ciò che tuttavia resta ancora una politica).45
La «forma deliberatamente contraddittoria» è propria di Levinas, ma non meno di Derrida, del messianismo di Derrida stesso, che prevede uno svuotamento di sé, senza alcuna pre-tesa che precluderebbe l’av-venire dell’Altro, l’apertura «imprevedibile di uno spazio messianico disabitato e desertico, ma proprio per questo lasciato libero alla venuta dell’assolutamente altro, di ogni altro come tutt’altro»46. Per questo Derrida parla di «al di là del politico, ma nel politico. Inclusione aperta sulla trascendenza ch’essa porta, incorporazione di una porta che apre al di là dei muri o delle muraglie che la circondano. Col rischio di far implodere l’identità del luogo e la stabilità del concetto»47. Un al di là della politica che resta ancora politica. È da questa osservazione che mi è parso opportuno chiamare il sionismo di Levinas in-politico riprendendo il senso levinasiano di in-finito in cui in significa «dentro» e «non». Un confine in cui l’etica si risolve nella politica restando tuttavia prima e anarchica, in cui l’Altro a-venire è inatteso e impossibile e quindi «la possibilizzazione di questo possibile impossibile deve restare a un tempo tanto indecidibile, e quindi, decisiva, quanto lo stesso avvenire»48. Tornando alla riflessione di Derrida, egli rileva che per lo stesso Levinas il confine tra la città messianica, che è al di là della politica, e la Città, che non è mai al di qua del religioso, non è un confine netto. Levinas critica la visione cristiana del rapporto tra Stato e religione, rilevandone le possibili commistioni che evolvono fino all’autoritarismo e al dogmatismo della Chiesa, quando essa può dominare lo Stato, ma la sua posizione non si confronta con la possibilità di una religione di stato nello Stato d’Israele. Questa medesima aporia è riscontrata da Derrida anche nel testo Al di là dello Stato nello Stato, in Nuove letture talmudiche, del 1988.49 Andando ad analizzare le parole di Levinas in L’aldilà del versetto, alle quali prima abbiamo fatto riferimento,50 Derrida innanzitutto rileva che la successione dei paragrafi ha una sua retorica alla quale bisognerebbe prestare maggiore attenzione. L’ordine dei paragrafi è «Sì allo Stato», «Al di là dello Stato», «Per una politica monoteistica». Derrida si sofferma sulle parole di chiusura di quest’ultimo paragrafo: impegno, ma.
C’è sì una data: «dal 1948». Data che richiama un avvenimento, la fondazione di uno Stato che s’impegna a non essere solo ciò che è, di fatto e di diritto, e cioè uno Stato come gli altri, ebbene, non approvando né disapprovando il fatto giuridico, Levinas vede nella fondazione dello Stato moderno d’Israele […], solo un «impegno». Un impegno immenso, ma solo un impegno. E poiché questa storia politica, come egli afferma, «è appena all’inizio», ecco allora che il tradimento dell’impegno resta sempre possibile, così come lo spergiuro, e questo Stato può diventare uno Stato come gli altri, anzi a volte o per certi aspetti, direbbero alcuni, peggiore di molti altri, di alcuni altri. Tutto rimane sospeso, tutti gli enunciati sono sorvegliati, come vedremo, dalla prudente vigilanza di un condizionale. L’impegno dovrebbe portarsi «al di là»; «al di là» è la parola di Levinas, al di là del politico, al di là di un problema o di una soluzione strettamente «politica» nella circoscrizione del nazionale e del familiare.51
Questo condizionale «segnerebbe» – nell’espressione di Levinas «questo ritorno sulla terra degli antenati […], segnerebbe uno dei più grandi eventi della storia interiore e della Storia tout court» – dirime tutta l’ambiguità della questione di se lo Stato d’Israele è solo frutto di un intento particolare o nazionale, oppure uno dei più grandi eventi della storia interiore. Tornando al tema dell’ospitalità, Derrida fa delle osservazioni alle considerazioni di Levinas sul diritto degli indigeni o delle città rifugio.52 L’ipotesi per assurdo dalla quale egli parte è che dal discorso etico di Levinas non si possa dedurre sull’ospitalità un diritto o una politica. Per dirimere questa difficoltà, a suo parere, bisognerebbe ritornare alle condizioni della responsabilità o della decisione tra etica, diritto e politica.53 Rileggendo tali condizioni, che sono quelle del soggetto come ostaggio, ospite nella sua stessa dimora, ospite che accoglie l’Altro e che è accolto dall’Altro, Derrida ne desume le stesse conseguenze di Levinas sul diritto degli indigeni.
L’ospitalità precede la proprietà, e questo, come vedremo, non sarà senza conseguenze per quanto riguarda l’aver-luogo del dono della legge, per il rapporto molto enigmatico tra il rifugio e la Torah, la città-rifugio, la terra d’asilo, Gerusalemme e il Sinai.54
Per Derrida ci sono due luoghi fondamentali che sono determinati dall’ospitalità circoscritta tra l’etica, la politica e il diritto. A questi luoghi si possono dare i nomi «Volto» e «Sinai»55. Dirimendo questo intreccio, Derrida si sofferma su un nodo fondamentale, quello del Sinai che è il luogo in cui fu data la Torah, ma che oggi è anche il luogo meta del Sionismo.
Un’altra questione ancora si pone, quella del rapporto enigmatico che si crea, nel pensiero di Levinas, tra un’etica ed una politica dell’ospitalità – o dell’ostaggio. E questo proprio in quel luogo in cui ciò che situa il Sinai, o il nome del Sinai, o il nome «Sinai», appartiene ai tempi più disgiunti […] che forse dobbiamo […] pensare insieme. Il nome Sinai non può che significare, certamente, sia il luogo della Torah data, sia l’olio di messianità consacrata […]. Ma Sinai, oggi, è anche – sempre per ciò che concerne la storia singolare d’Israele – un nome della modernità. Sinai, il Sinai: metonimia per la frontiera tra Israele e le altre nazioni, un fronte e una frontiera tra guerra e pace, una provocazione a pensare il passaggio tra l’etico, il messianico, l’escatologico e il politico, in un momento della storia dell’umanità e dello Stato-Nazione in cui la persecuzione di tutti quegli ostaggi che sono lo straniero, l’immigrato – con o senza documenti –, l’esiliato, il rifugiato, il senza-patria, il senza-Stato, la persona o la popolazione cacciata (altrettante nozioni da distinguere prudentemente) sembra esposta, in tutti i continenti, ad una crudeltà senza precedenti. Levinas ebbe continuamente gli occhi rivolti verso questa violenza e verso questa sventura, che ne parlasse apertamente o meno, in un modo o in un altro.56
Questa riflessione di Derrida mi sembra importante. Essa riprende il rapporto fondamentale tra Israele e la Torah, e il rapporto tra Israele come categoria etica e lo Stato di Israele. Del resto lo stesso Levinas aveva identificato col nome Israele ciò che c’è al mondo di più fragile e perseguitato.57 Pare quindi che nello stesso Levinas manchi un’identificazione tra Israele come categoria etica e Stato di Israele, come se esso fosse uno iato, una diacronia, fra una dimensione totalmente al di qua della politica e una oltre essa. Nelle parole che abbiamo appena letto mi sembra di scorgere la riflessione di Derrida sulla collusione che la «legge paradossale e snaturante» dell’ospitalità assoluta debba avere con lo Stato, e quindi col potere e con la violenza che è sempre propria di un’azione legale.58
Tornando alle riflessioni di Addio a Emmanuel Levinas, Derrida sembra scorgere in Levinas una diacronia tra un sionismo realista, più politico e forse inadeguato all’ideale profetico, e un sionismo che appartiene più alla visione escatologica, al politico al di là del politico. Ed è in questa dimensione che si colloca lo Stato d’Israele come luogo di un’«invenzione politica»59. Esso incarnerebbe, per Derrida, il compito di dar luogo a «una politica e un’etica concrete, che comportino una storia, delle evoluzioni, delle rivoluzioni effettive, dei progressi, insomma una perfettibilità». Tale difficile compito consiste nel «fare e rifare – come dice Levinas – uno Stato nel quale dovrà incarnarsi la morale profetica e l’idea della sua pace». Per Derrida l’accoglienza dell’ospite è sostanzialmente accoglienza dello straniero che deve sempre restare tale. Pertanto le leggi del diritto sono sempre condizionate dalla legge incondizionata dell’accoglienza che quasi spinge a trasgredire le leggi dell’ospitalità. Per Derrida quindi c’è «un’antinomia insolubile, un’antinomia non dialettizzabile tra La legge dell’ospitalità da una parte, la legge incondizionata dell’ospitalità illimitata […], e, dall’altra parte le leggi dell’ospitalità, i diritti e i doveri sempre condizionati e condizionanti». Se ci fosse solo la legge, allora non ci sarebbero leggi pratiche attuabili in un ordine statale e perfettibili nella storia. Viceversa, le leggi condizionate e storiche cesserebbero di essere leggi sull’ospitalità se non fossero costantemente guidate dalla normatività incondizionata della legge dell’accoglienza. La domanda è dunque, come abbiamo letto sopra, come dar luogo a queste leggi concrete e perfettibili in un ordine statale che realizzi l’imperativo etico.60 All’interno di queste considerazioni si pone la riflessione sulla pace di cui Derrida parla in Addio a Emmanuel Levinas.
È, la pace, una cosa politica? E in che senso? A quali condizioni? Come leggere la suggestione di Levinas, «suggestione» è un suo termine: «suggestione che la pace è un concetto oltrepassante il pensiero puramente politico»?. Levinas rischia quindi una «suggestione», solo una suggestione, che dà fiducia e inquietudine insieme. Egli non afferma che la pace è un concetto non politico, ma suggerisce che tale concetto forse eccede il politico.61
C’è qui uno sviluppo dell’idea, espressa in Violenza e metafisica, che la pace si dice solo tramite il logos che comprende la guerra.62 Per Derrida il concetto di pace, che in parte partecipa della politica e in parte no, è un concetto che oltrepassa se stesso e nel quale si rivela la decostruzione e la trascendenza. Egli rimarca le parole di Levinas: la pace è un concetto che oltrepassa il pensiero puramente politico. Derrida insiste sulla parola “puramente”: per capire il politico bisogna comprendere il puramente politico, all’interno dello schema di Levinas per il quale anche la Città propriamente detta non è mai al di qua del religioso, quindi uno schema in cui i confini non sono netti, un sistema nel quale ci si attende un oltrepassamento del politico che è ancora un’«invenzione politica».63
In Israele una tale invenzione politica è mai avvenuta? In Israele […]? Io sono tra coloro che attendono una simile «invenzione politica» in Israele, appartengo a coloro che la chiedono nella speranza.64
Una speranza che per ora fa da controcanto al silenzio. Derrida si pone quindi in una posizione critica, non negando le possibilità delineate da Levinas, ma anche sollevandone le difficoltà. Israele può essere il luogo di quella particolare «invenzione politica» che già oltrepassa il politico? Su quale concetto bisogna ruotare per darsi una direzione? Derrida lo individua nella pace, pace della quale compie un’analisi, confrontando Kant con Levinas, e ritrovando il nodo in cui essa si produce, ovvero nel soggetto come ostaggio o ospite, e nel Volto d’altri. Per Kant tutto in natura nasce dalla guerra. Ne consegue che la pace è un’istituzione politico-giuridica e che essa, nel momento in cui non è la semplice cessazione delle ostilità, deve essere perpetua.65 Levinas invece preferisce la pace ora, e l’universalità al cosmopolitismo. Quindi «mentre in Kant l’istituzione di una pace eterna, di un diritto cosmopolita e di un’ospitalità universale conserva la traccia di un’ostilità naturale […], in Levinas accade esattamente il contrario: la stessa guerra conserva la traccia testimoniale di un’accoglienza pacifica del volto».66 Questa pace originaria è ingiunta dalla Torah quando afferma: tu non ucciderai. E poiché la Torah è ciò che ordina, essa significa il volto dell’altro.67
Dove trovare una regola o uno schema mediatore tra questa ospitalità pre-originaria o tra questa pace senza processo, e, dall’altra parte, la politica, la politica degli Stati moderni (che esistano o siano in via di costituzione), come per esempio, poiché non è che un esempio, la politica in corso nel «processo di pace» tra Israele e la Palestina? Tutte le retoriche e tutte le strategie che oggi pretendono riferirsi ad essa lo fanno in nome ed in vista di «politiche» non solo diverse, ma apparentemente antagoniste ed incompatibili.68
Per Derrida, come per Levinas, la pace è anteriore alla guerra, la guerra non è che il rifiuto dell’ospitalità pre-originaria.69 La relazione tra politico e non-politco si gioca quindi in un campo nel quale i confini si confondono, e lo Stato può paradossalmente essere di cornice a ciò che lo oltrepassa.
Levinas infatti riconosce ciò che si «identifica al di fuori dello Stato» (la pace, l’ospitalità, la paternità, la fecondità infinita, ecc.) ha una cornice nello Stato, «si identifica al di fuori dello Stato, anche se lo Stato le riserva una cornice». Questa complicazione strutturale del politico ha quindi un destino topologico. Enclave della trascendenza, dicevamo poc’anzi. La frontiera tra l’etico e il politico perde definitivamente la semplicità dell’indivisibile di un limite. Qualunque cosa possa dire Levinas, la determinabilità di questo limite non è mai stata pura, non lo sarà mai.70
In questo passo troviamo portate a compimento: l’idea della «contaminazione irriducibile» essenziale al discorso giusto;71 l’idea dell’escatologia possibile solo attraverso la violenza nell’«attraversata infinita» che è la storia;72 l’intrecciarsi, nel dialogo, di fenomenologia ed escatologia;73 infine l’idea che l’«apertura dell’interruzione» non è mai pura.74 Più su abbiamo visto le considerazioni di Derrida su questa «suggestione». Si può dunque delineare un possibile percorso di questa speranza verso una politica migliore? Una politica che oltrepassa la politica, una politica a-venire. C’è uno iato, afferma Derrida, uno iato nel quale egli scorge un silenzio da parte di Levinas. Un silenzio che è estraneo alla non-risposta. Esso determina quello spazio nel quale si pone la nostra responsabilità.
Ma lo iato deve anche restare tra la promessa messianica e la determinazione di una regola, di una norma o di un diritto politico. Esso sottolinea un’eterogeneità, una discontinuità tra due ordini, foss’anche all’interno delle Gerusalemme terrena. Frattempo di un’indecisione a partire dalla quale devono essere prese e devono determinarsi una responsabilità o una decisione. È proprio a partire da questa non risposta che una parola può essere presa, e innanzitutto data, che chiunque può pretendere di «prendere la parola», prendere la parola in politica, per fedeltà alla parola data, alla «parola d’onore» che evocavamo all’inizio. Questo silenzio è dunque anche quello di una parola data. Esso dà la parola, è il dono della parola. Questa non risposta condiziona la mia responsabilità, laddove sono solo a dover rispondere. Senza il silenzio, senza lo iato, che non è assenza di regole, ma necessità di un salto nel momento della decisione etica, giuridica o politica, non dovremmo che svolgere il sapere in un programma d’azione. Nulla sarebbe più irresponsabile e più totalitario. Del resto questa discontinuità permette di sottoscrivere tutto ciò che Levinas ci dice della pace o dell’ospitalità messianica, dell’al di là del politico nel politico, senza condividere necessariamente tutte le «opinioni» che, nel suo discorso, rientrano nel campo di un’analisi intra-politica delle situazioni reali o dell’effettività, oggi, della Gerusalemme terrena, anzi di un Sionismo che non sarebbe più un altro nazionalismo.75
Per Derrida nello iato tra diritto e giustizia si colloca la decostruzione che «ha luogo nell’intervallo che separa l’indecostruibilità della giustizia e la decostruibilità del diritto. È possibile come un’esperienza dell’impossibile»76. È in questo iato che si colloca anche la distinzione tra diritto e giustizia. Al primo spetta, come direbbe Levinas, di «comparare l’incomparabile». Al secondo, invece, quello del rispetto dell’alterità assoluta dell’altro. È in questo iato della responsabilità del soggetto, che deve trasformare in ogni istante la norma assoluta della giustizia in diritto e politica, che si può compiere, nell’assoluta fedeltà al diritto, la più grande violenza alla giustizia. E tuttavia, perché sia possibile la giustizia, è necessario che la decisione del soggetto responsabile si trovi nel paradosso di questo indecidibile, perché né un’applicazione meccanica della regola, né la pura e semplice invenzione potranno essere sufficienti.77 Questa politica che, restando fedele alla sua etica assoluta, corre il rischio dell’applicazione pratica da determinare, di volta in volta, nella decisione del soggetto responsabile, è stata definita anche «politica dell’evento»78. Nelle parole di Addio a Emmanuel Levinas troviamo la maturazione dell’idea che la pace può essere detta solo nel silenzio;79 che l’interruzione non è mai cesura, ma «de-stretturazione» che chiama alla nostra responsabilità;80 infine l’idea dello iato come interruzione ab-soluta, «il paradosso assoluto (dell’ab-soluto)».81 Nella «necessità di un salto nel momento della decisione etica» ritornano le idee elaborate da Derrida in De la grammatologie82 e La difference,83 sulla scia di Levinas, intorno alla Traccia, intesa come rapporto all’alterità di un passato mai presente, e alla responsabilità del soggetto intesa qui come luogo di una scelta singolare eterogenea rispetto al sapere e alla scienza. Le «aporie della responsabilità» saranno il «groviglio irriducibile tra teorico e pratico»84 che alimenteranno la riflessione etico-politica di Derrida negli anni ’80.85
In questo lungo e difficile confronto con Derrida ho voluto circoscrivere il pensiero di Levinas sul sionismo inserendo le sue considerazioni, apparentemente animate da un particolarismo di tipo nazionalista, all’interno di una dimensione che coinvolge la natura stessa del soggetto come ospite/ospitato, e l’applicabilità della legge dell’accoglienza nelle leggi dell’ospitalità in uno stato moderno, fatto di possesso territoriale, confini e polizia, che traduca l’imperativo etico, a fondamento del pensiero di Levinas, in una politica im-possibile e a-venire: un sionismo in-politico. L’ultima parola a Levinas:
Non abbiamo intenzione di prolungare la traiettoria di un pensiero dal lato opposto a quello in cui il suo verbo si dissemina. La ridicola ambizione di «migliorare» un vero filosofo non rientra certamente nei nostri propositi. Incrociarlo sul suo cammino è già una cosa ottima ed è questa probabilmente la modalità stessa dell’incrocio in filosofia. Nel sottolineare l’importanza primordiale dei problemi posti da Derrida, abbiamo voluto dire il piacere di un contatto nel cuore di un chiasmo.86
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Derrida J., Adieu à Emmanuel Levinas, éditions Gelilée, Paris 1997; trad. it. Addio a Emmanuel Levinas, Jaca Book, Milano 1998 20072, p. 67; d’ora in poi indicato con la sigla AD. ↩︎
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Petrosino S., L’umanità dell’umano o dell’essenza della coscienza. Derrida lettore di Levinas, in AD p. 12. ↩︎
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Derrida J., Violence et métaphysique. Essai sul la pensée d’Emmanuel Levinas, in «Revue de métaphysique et de morale» nn° 3-4, 1964, successivamente ripreso in Derrida J., L’écriture et la difference, Seuil, Paris 1967, pp. 117-228; trad. it. La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 19902, pp. 99-198; d’ora in poi indicato con la sigla ED. ↩︎
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Derrida J., En ce moment même dans cet ouvrage me voici, in AA. VV., Textes pour Emmanuel Levinas, Jean-Michel Place éditeur, Paris 1980, pp. 21-60, ripreso successivamente in Derrida J., Psyché. Inventions de l’autre, Galilée, Paris 1987, pp. 159-202; trad. it. Psyché. Invenzioni dell’altro, Jaca Book, Milano 2008, pp. 173-225; d’ora in poi indicato con la sigla PS. ↩︎
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Cfr. Petrosino S., L’umanità dell’umano o dell’essenza della coscienza, op. cit., pp. 10-11. ↩︎
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ED p. 106. ↩︎
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Cfr. ED p. 194. ↩︎
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Cfr. AD p. 133. «L’ipotesi che così arrischio non è evidentemente quella di Levinas, almeno sotto questa forma, ma evidentemente cerca di avanzare nella sua direzione – forse per incontrarlo ancora. “Nel cuore di un chiasmo”, come disse un giorno». Il riferimento è a NP p. 81. ↩︎
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«C’è una certa violenza trascendentale e pre-etica, una dissimetria (in generale) la cui archia è lo stesso e che permette ulteriormente la dissimetria inversa, la non violenza etica di cui Levinas parla […]. Questa violenza trascendentale […], instaura in effetti la necessità di accedere al senso dell’altro […], questa necessità a cui nessun discorso può sfuggire fin dalla sua più giovane origine, questa necessità è la violenza stessa, o meglio l’origine trascendentale di una violenza irriducibile». ED p. 138 passim. ↩︎
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Cfr. ED p. 120. ↩︎
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Cfr. ED p. 121. ↩︎
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Cfr. ED p. 148. ↩︎
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Cfr. ED pp. 148-149. È interessante sottolineare il corsivo della parola vigilanza, di una coscienza come veglia – tema caro a Levinas – originariamente aperta all’altro, ma anche al Terzo per attuare la giustizia nella storia. Non troviamo inoltre, in queste parole di Derrida, una somiglianza con quanto dice Levinas a proposito del giorno del Messia che dovrà essere un giorno di tenebre per oscurare la luce fittizia della ragione incapace di portare a compimento la pace escatologica? ↩︎
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Cfr. ED p 164-165. Cfr. Sul trionfo messianico come trionfo puro Cfr. TI p. 295. ↩︎
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Cfr. ED pp. 165-166. ↩︎
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Levinas E., Totalité et Infini, Nijhoff, La Haye 1961, trad. it. di A Dell’Asta, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1980 19902, p. 314. D’ora in poi citato TI. ↩︎
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Cfr. ED p. 190. ↩︎
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Cfr. MALKA S., Emmanuel Levinas. La vie et la trace, éditions Jean-Claude Lattès, Paris 2002, trad. it. Emmanuel Levinas. La vita e la traccia¸ Jaca Book, Milano 2003, p. 174. ↩︎
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Cfr. PS p. 194. ↩︎
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Cfr. PS p. 196. ↩︎
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Cfr. PS p. 199. ↩︎
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Cfr. PS p. 197. ↩︎
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PS p. 198. ↩︎
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Cfr. PS 199 e 180. ↩︎
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Cfr. TI p. 295. ↩︎
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PS p. 201. ↩︎
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Cfr. PS p. 206. ↩︎
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Cfr. Paperzack A., Introduzione a Altrimenti che essere, in Levinas E. – Paperzack, Etica come filosofia prima, a cura di F. Ciaramelli, Guerini e Associati, Milano 1989, p.113. ↩︎
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«Ci tenevo a sottolineare tutte queste questioni e a rispondere a esse perché mi hanno molto tormentato, e particolarmente perché mi vengono da un uomo oggi assente, ma così vicino, lucido e nuovo come Derrida». AA. VV., Autrement que savoir. Emmanuel Levinas, Osiris, Paris 1988, p. 70. ↩︎
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Cfr. MALKA S., Emmanuel Levinas, op. cit., p. 181. ↩︎
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Cfr. Petrosino S., L’umanità dell’umano o dell’essenza della coscienza, op. cit., p. 22. ↩︎
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Cfr. Levinas E., A l’heure des nations, Les éditions de minuit, Paris 1988, trad. it di S. Facioni, Nell’ora delle nazioni, Jaca Book, Milano 2000, p. 110. D’ora in poi citato AHN. ↩︎
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AD p. 111. Non è possibile trattare in questa sede il tema dell’ospitalità per Derrida. Basti dire che, partendo dall’oscillazione lessicale e semantica hostis-ospes, Derrida conduce la sua riflessione concentrandosi sullo Straniero come arrivante assoluto privo di nome e d’identità prefissata, un ospite come spettro (Cfr. Derrida J., De l’ospitalité, Calmann-Lévy, Paris 1997; trad. it. Sull’ospitalità, Baldini & Castoldi, Milano 2002, p. 84). L’arrivante assoluto dunque bussa alla mia porta senza che io lo abbia invitato, trasformando colui che ospita in ostaggio di colui che viene ospitato (Cfr. p. 113. Ripreso anche in AD p. 103). Il rispetto per l’alterità assoluta dell’ospite richiede pertanto un’ospitalità assoluta, prima di ogni pensiero, norma o legge. «La legge dell’ospitalità assoluta impone di rompere con l’ospitalità di diritto, con la legge o la giustizia come diritto» (p. 53). Il problema che si pone, e lo riconosce lo stesso Derrida, è che questa legge dell’ospitalità assoluta rischia di non potersi tradurre nel diritto o nella politica di qualsivoglia Stato, soprattutto se pensiamo all’idea di padronanza delle frontiere sulla quale è basato il concetto moderno di Stato-nazione (Cfr. p. 127. Su questo tema vedi anche Resta C., L’evento dell’altro. Etica e politica in Jaques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino 2003, in particolare p. 52). Ciò che Levinas cerca di compiere, e Derrida glielo riconosce in Addio a Emmanuel Levinas, è proprio questo tentativo di traduzione dalla legge assoluta al diritto e alla politica che si compie in quel luogo dell’«invenzione politica» che è Israele. ↩︎
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AD p. 131 passim. ↩︎
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AD p. 133. In Politiche dell’amicizia Derrida compie una meticolosa decostruzione del paradigma che attraversa tutta la politica tradizionale, ovvero quello della fraternizzazione, che bisogna snaturalizzare perché esso alimenta tutti i discorsi politici sulla nascita dell’etnia fondandoli su di un presunto richiamo alla naturalità del rapporti tra fratelli dal quale nascono anche i concetti di cittadinanza e di nazione. C’è bisogno dunque di una ex-appropriazione di questi due ultimi concetti, una loro spoliticizzazione. In questo divario sarebbe possibile «un’altra politica, un’altra democrazia» nel senso di un altrimenti. (Cfr. Derrida J., Politiques de l’amitée, Galilée, Paris 1994; trad. it. Politiche dell’amicizia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1995). Al centro di questo divario, «nel cuore di un chiasmo», troviamo, dunque e ancora, il punto di contatto tra Derrida e Levinas. ↩︎
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Cfr. AD pp. 133-134. ↩︎
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AD p. 83. Cfr. Tarter S., Evento e ospitalità. Levinas, Derrida e la questione straniera, Cittadella Editrice, Assisi 2004, p. 86. ↩︎
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Cfr. AHN p. 110. ↩︎
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AD p. 135. ↩︎
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Cfr. Derrida J., Fede e sapere. Le due fonti della «religione» ai limiti della semplice ragione, in AA. VV., La religione, Laterza Roma-Bari 1995, pp. 3-73, in particolare pp. 19-20. ↩︎
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Cfr. Derrida J., Artefattualità, in Derrida J. – Stiegler B., échographies de la télevision, Galilée / Institut national de l’audiovisuel, Paris 1996; trad. it. Ecografie della televisione, Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 13; Cfr. Derrida J., Spectres de Marx, Galilée, Paris 1993; trad. it. Spettri di Marx, Raffaello Cortina, Milano 1994, p. 211. ↩︎
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Cfr. ID, Spettri di Marx, op. cit., p. 211. ↩︎
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AD p. 136. ↩︎
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Cfr. Levinas E. L’au-delà du verset, Les éditions de minuit, Paris 1982, trad. it. di G. Lissa, L’aldilà del versetto, Guida, Napoli 1986, p. 275. D’ora in poi ADV. ↩︎
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AD pp. 142-143 passim. ↩︎
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Cfr. Resta C., L’evento dell’altro. Etica e politica in Jaques Derrida, Boringhieri, Torino 2003, pp. 93-95. ↩︎
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AD p. 144. ↩︎
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Derrida J., Politiques de l’amitié, Galilée, Paris1994; trad. it. Politiche dell’amicizia, Raffaello Cortina Ed., Milano1995, p. 43. ↩︎
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Cfr. AD pp. 143-144. Per il testo di Levinas cfr. NLT pp. 46-77. ↩︎
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Cfr. ADV pp. 265-276. ↩︎
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AD pp. 145-146 passim. ↩︎
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Cfr. ADV pp. 115-119. ↩︎
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Cfr. AD pp. 81-82. ↩︎
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AD p. 107. ↩︎
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Cfr. AD p. 109. ↩︎
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AD pp. 129-130 passim. ↩︎
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Cfr. Levinas E., Du sacré au saint, Les éditions de minuit, Paris 1977, trad. it., Dal sacro al santo, Città Nuova Editrice, Roma 1985, p. 51. D’ora in poi DSS. ↩︎
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«Legge paradossale e snaturante: riguarda la collusione tra ospitalità in senso corrente, e il potere. Tale collusione è anche il potere nella sua finitezza, cioè la necessità, per l’ospite, per colui che riceve, di scegliere, eleggere, filtrare, selezionare gli invitati, i visitatori o gli ospiti, coloro a cui decidere di concedere l’asilo, il diritto di visita o l’ospitalità. Non l’ospitalità in senso classico, senza sovranità di sé sul privato, ma poiché non c’è ospitalità senza finitezza, la sovranità può esercitarsi solo filtrando, scegliendo, dunque escludendo e facendo violenza. L’ingiustizia, una certa ingiustizia, cioè un certo spergiuro, comincia subito, a partire dalla soglia del diritto all’ospitalità […]. Ma poiché questo diritto, privato o familiare che sia, può esercitarsi e farsi garantire solo attraverso la mediazione di un diritto pubblico o di un diritto di stato, lo snaturamento avviene dall’interno». Derrida J., Sull’ospitalità, op. cit., pp. 70-71 passim. ↩︎
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Cfr. AD p. 147; Cfr. ADV p. 283. ↩︎
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Cfr. Derrida J., Sull’ospitalità, op. cit., pp. 80-127. ↩︎
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AD pp. 148-149. ↩︎
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Cfr. ED p. 148. ↩︎
-
Cfr. AD pp. 149-150. ↩︎
-
AD. p. 150 passim. ↩︎
-
Cfr. Kant I., «Per la pace perpetua», in Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 177-179. ↩︎
-
AD p. 156 passim. ↩︎
-
Cfr. AD pp. 153-160. ↩︎
-
AD p.160 passim. ↩︎
-
Cfr. AD p. 163. ↩︎
-
AD p. 167. ↩︎
-
Cfr. ED p. 148. ↩︎
-
Cfr. ED pp. 165-166. ↩︎
-
Cfr. ED. p. 190. ↩︎
-
Cfr. PS p. 198. ↩︎
-
AD p. 187. ↩︎
-
Derrida J., Force de loi. Le «fondement mystique de l’autorité», Galilée, Paris 1994, trad. it. Diritto alla giustizia, in Derrida J. – Vattimo G., Diritto, giustizia e interpretazione, Annuario filosofico europeo, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 20. ↩︎
-
«Indecidibile è l’esperienza di ciò che, estraneo, eterogeneo all’ordine del calcolabile e della regola, deve nondimeno […] procedere alla decisione impossibile tenendo conto del diritto e della regola». Ibid. p. 29. ↩︎
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«Di fronte allo iato che si spalanca tra l’etica e ciò che comunemente si intende per politica, la politica messianica non si ritira nel non-politico, ma, al contrario, rilancia la politica oltre se stessa, annunciando un’altra politica, quella che vorrei chiamare una politica dell’evento. Giacché, se la politica consisterebbe semplicemente nell’applicazione dei precetti, comandamenti, regole già predeterminati, verrebbe meno ogni responsabilità e l’azione politica si tradurrebbe semplicemente nell’esecuzione di un programma. Viceversa, una politica messianica, pur riconoscendo la propria dipendenza dall’etica, deve lasciare assolutamente indeterminati i propri contenuti, poiché, volta per volta, essi restano “sempre da determinare al di là del sapere e di ogni presentazione, di ogni concetto e di ogni istituzione possibile, singolarmente, nella parola e nella responsabilità assunte da ciascuno” (AD p. 185)». Resta C., op. cit., p. 137. ↩︎
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Cfr. ED p. 148. ↩︎
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Cfr. PS p. 198. ↩︎
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Cfr. PS p. 197. ↩︎
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Cfr. Derrida J., De la grammatologie, Minuit, Paris 1967, trad. it. Della grammatologia, Jaca Book, Milano 19982, pp. 102-103. ↩︎
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Cfr. ID, Marges – de la philosophie, Minuit, Paris 1972, trad. it. Margini – della filosofia, Einaudi, torino 1997, pp. 27-57. ↩︎
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Cfr. ID, Donner la mort, Galilée, Paris 1999, trad. it. Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002, pp. 95, 63. ↩︎
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Cfr. Petrosino S., La scena umana. Grazie a Derrida e Levinas, Jaca Book, Milano 2010 20162, p. 51. ↩︎
-
Levinas E., Noms propres, Fata Morgana, Paris 1976, trad. it. Nomi propri, Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 73. ↩︎