Se io non sono per me, chi è per me? E se io sono solo per me stesso, cosa sono io?
—R. Hillel, Pirkei Avot I. 14
1. L’invito
Questa riflessione nasce dal confronto col testo di Vittorio Possenti, Il nuovo principio persona,1 e coglie le sollecitazioni che esso offre laddove afferma il proprio taglio ontologico senza soggiacere all’illusione di aver detto tutto,2 e invita a non dimenticare il pensiero ebraico (Rosenzweig, Buber, Levinas) che, pur non autodefinendosi personalistico, raccoglie e svolge temi affini.3
Nello specifico riferirò alcune osservazioni di Levinas in parte convergenti, in altre divergenti,4 ma che certamente si ritroveranno con le riflessioni di Possenti nel cuore di un chiasmo, per riprendere una felice espressione di Levinas. Mi sembra, infatti, che Il nuovo principio persona abbia in parte già accolto in se le pro-vocazioni del pensiero levinasiano, e possieda sentori che vivacizzano il suo bouquet fruttato come un vino novello e frizzante.
2. L’ontologia dell’inesauribile
Possenti fornisce la prima sollecitazione/invito quando afferma che pensare la persona e pensare l’essere si collocano sullo stesso asse.5
Com’è noto Levinas compie, in Altrimenti che essere,6 un enorme tentativo linguistico per parlare di là dai termini dell’ontologia il cui linguaggio «espone la risonanza silenziosa dell’essenza»7 attraverso la predicazione nella cui copula è «splende o lampeggia l’ambiguità dell’essenza».8 Uno dei problemi principali che tale ricerca mette in questione è: «Il soggetto si comprende fino alla fine a partire dall’ontologia?».9
Nella concezione dell’ontologia il fatto che si possa pensare l’essere significa che l’apparire dell’essere appartiene all’essere stesso che, di conseguenza, si manifesta nella verità la quale, a dire di Levinas, «protegge» lo svolgimento dell’essere dalla proiezione di fantasmi soggettivi che turberebbero la «processione dell’essenza». In tal modo la soggettività si subordina al senso dell’oggettività attraverso il suo potere di rappresentazione. «Ma in quanto altro in rapporto all’essere vero, in quanto differente dall’essere che si mostra, la soggettività non è niente».10
Nel Detto che dice la rappresentazione si trova il luogo di nascita dell’ontologia fondamentale che, a detta di Levinas, mentre denuncia la confusione dell’essere e dell’ente, parla dell’essere come di un ente identificato.11 Bisogna pertanto risalire al di là dell’anfibologia dell’essere e dell’ente, mostrando la significazione anteriore del Dire al di qua della tematizzazione del Detto; questo è «lo sforzo del filosofo e la sua posizione contro natura».12 Più avanti vedremo come esso consista in una riduzione verso un senso fuori dall’ontologia, una significazione al di là dell’essenza, attraverso la sensibilità come pura affezione.13
Possenti nel suo testo sembra compiere questo «sforzo del filosofo» quando propone «un’ontologia dell’inesauribile e dell’ulteriorità»14 in cui la persona è primitiva, non si deduce da nulla e non si può ridurre a cosa o oggetto,15 perché essa è un’eccedenza e un’ulteriorità mai completamente catturabile.16
Tale ontologia dell’ulteriorità potrebbe essere non allergica alle intenzioni di Levinas per il quale «l’eccezione dell’altro dall’essere, al di là del non-essere, significa la soggettività o l’umanità, il se stesso che respinge le annessioni dell’essenza» che pretende di ricoprire e di recuperare ogni eccezione.17 In questo senso, poiché nell’ontologia l’essere e la verità sono intimamente collegati, parlerei di falsa «eccezione dell’interiorità» sia nel senso di ciò che — rispetto ad un sistema che pretende di comprendersi nella verità — risulta falso, sia in quello di falsificante un tale sistema.
Vedremo più avanti che una delle discriminanti della questione si gioca sulla distinzione, rilevata da Possenti, tra sostanza ed essenza, ma la seconda tappa del nostro cammino è la nozione di anima.
3. Il corpo animato
Una delle questioni principali del Personalismo, secondo Possenti, è quella dell’anima assieme al suo rapporto con la mente e col corpo.18 È interessante notare come Levinas, riferendo che la coscienza non esaurisce la nozione di soggettività, definisca ipoteticamente questa come «il termine di una irreversibile convocazione, nascosta, forse, nella nozione superata di anima».19
Il rapporto soggettività-anima si comprende nel loro riferimento alla sensibilità e al corpo. Il concetto di sensibilità per Levinas s’inserisce all’interno del metodo fenomenologico. In tal senso essa è intesa come impressione originaria, passività assoluta. La corporeità rappresenta questa passività che è esposizione del soggetto ad Altri, disinteressamento. È nella corporeità che la passività della significazione non è atto, ma pazienza.20 L’incarnazione, pertanto, non è un’operazione trascendentale di un soggetto che si situa nel cuore stesso del mondo che si rappresenta; essa è l’intrigo in cui sono annodato ad altri nel nodo gordiano del corpo.21 Perciò mentre l’unione anima-corpo, per Cartesio, presuppone un miracolo, la responsabilità, invece, prevede l’uomo incarnato, estirpato dal suo conatus essendi.22
Proprio questo disinteressamento costituisce però, con l’animazione, l’identificazione del soggetto.
Nelle forme della responsabilità, lo psichismo dell’anima è l’altro in me; malattia dell’identità […] . Significazione possibile unicamente come incarnazione. L’animazione, il pneuma stesso dello psichismo, l’alterità nell’identità, è l’identità di un corpo che si espone all’altro, che si fa «per l’altro»: la possibilità del dare.23
In questo senso:
Il corpo non è solamente l’immagine o la figura, è l’in se stesso della contrazione dell’ipseità e della sua esplosione. Il corpo non è né l’ostacolo opposto all’anima, né la tomba che lo imprigiona, ma ciò per cui il sé è la suscettibilità stessa.24
4. Intelletto e volontà
La significazione della sensibilità, della corporeità, è pre-logica o illogica. Con ciò Levinas rompe con la tradizione filosofica dell’occidente per la quale ogni spiritualità resta nella coscienza, nell’esposizione dell’essere, del sapere. Se così fosse, il per sé della coscienza sarebbe il potere stesso che l’essere esercita su di se, la sua volontà, il suo principio.25 Conosciamo e ripetiamo il rifiuto levinassiano di una concezione intellettualistico-volontaristica della soggettività, concepita invece come passività assoluta, esposizione anarchica. Levinas, però, vede nella passività assoluta della sensibilità corporea un inizio, una fermezza più solida di quella della volontà che è ancora tergiversazione.26
In Possenti mi sembra esserci, tuttavia, una concezione diversa dell’intelletto nella quale la passività e il primato dell’altro sono contemplati. Scrive Possenti:
Conoscere non è però riportare a sé e identificare all’io, ma — al contrario — divenire intenzionalmente o immaterialmente l’altro (fieri aliud in quantum aliud), dimorando in se stessi carichi del contenuto intelligibile dell’altro. La dottrina realista della conoscenza incorpora il riconoscimento dell’altro, il primato dell’esteriorità, dell’alterità, della non-identità: è ad essa che occorre rivolgersi per un accesso all’altro mantenuto nella sua alterità, non ricondotto e «digerito» dall’io. Mentre l’amore è ek-statico, la conoscenza è in-statica: l’oggetto conosciuto è conosciuto entro lo spirito, e questo non deve uscire da se stesso per assimilarsi all’ente. È dall’interno del suo atto immanente che lo spirito conosce.27
C’è quindi un rifiuto della concezione dell’intelletto come comprensione che assimila l’altro al medesimo. Anche per Levinas, del resto, la soggettività è indissolubilmente legata al nodo gordiano del corpo e nessuna operazione intellettuale può coglierla in questa sua suprema susceptio: «Sensibilità, di carne e di sangue, io sono al di qua dell’anfibologia dell’essere e dell’ente, il non tematizzabile, il non unibile dalla sintesi».28
Possenti sembra fare riferimento a ciò quando parla dell’amore ek-statico e della conoscenza in-statica.
Se attraverso l’intelletto conosciamo come oggetti i soggetti personali, noi non rendiamo loro giustizia, perché non adeguiamo mai l’intuizione, oscura ma reale, che ogni soggetto ha di se stesso in quanto soggetto; intuizione esistenziale che forse non possiamo concettualizzare pienamente neppure a noi stessi. Solo nell’amore mi è rivelata in qualche modo la soggettività dell’altro. Il concetto oggettiva, l’amore (di dilezione) soggettiva, nel senso che raggiunge oscuramente ma realmente l’interiorità dell’altro. Ma questo genere di amore è raro. Quando esso accade, si può con ugual misura sostenere tanto il «soi-même comme un autre», quanto il «un autre comme soi-même».29
Le cose appena dette ci permettono di fare in intermezzo sui termini amore ed eros.
5. L’intrattenimento erotico
«Definita dall’amore l’interiorità è ekstatica».30 Per Possenti nell’amore s’istituisce la più alta forma di realizzazione della persona: l’apertura e l’uscita da sé per andare incontro a un altro.31 Sappiamo che per Levinas, invece, il medesimo è già da sempre scompigliato dalla presenza dell’altro dentro di sé in modo pre-intenzionale: «Vivere non è un’estasi, è un entusiasmo».32
È interessante notare quella che Possenti chiama «dialettica dell’amore». Innanzitutto egli distingue il «bell’amore» dall’«amore egoista» — il cui senso si può facilmente intuire — senza alcun’altra determinazione. Poco dopo parla, appunto, di dialettica dell’amore, — inteso evidentemente in un senso unitario — aggiungendo tra parentesi i termini eros e agape; quindi sembra che eros sia l’amore egoista, mentre agape sia l’amore di dilezione. Entrambi sono intenzionati o dal Bene e dal Bello, oppure dal Volto dell’Altro come nella filosofia di Levinas, e non si può stabilire quale dei due movimenti sia più originario, se l’ascesa verso la suprema contemplazione del Bene/Bello, «o l’appello del volto dell’Altro e che accende il desiderio dell’Altro» (sic).33 Sembra, quindi, che Possenti stia qui intendendo il Volto d’Altri nella maniera plastica di faccia. Questo sarebbe confermato da una frase nella pagina successiva in cui si parla del volto sfigurato e senza nulla di desiderabile.34 Possenti inoltre sta utilizzando giustamente la parola volto con la «v» minuscola, lasciando intendere che sia il volto plastico; tuttavia quando dice Altro utilizza sempre la «A» maiuscola. Infine a sigillare quanto affermato, cita un’intervista di Levinas, Filosofia, giustizia e amore: «Prima dell’Eros c’è stato il Volto; e Eros stesso è possibile solo tra volti»,35 aggiungendo che questo è «un asserto in cui il platonismo è ad un tempo ridimensionato e oltrepassato verso l’ultima vetta dell’esperienza dell’amore, in cui eros è infine trasceso da agape».36
Ora effettivamente sembra giusto citare Filosofia giustizia e amore in cui Levinas utilizza, su sollecitazione del suo interlocutore, il termine agape, molto raro nel suo vocabolario — se non addirittura un apax — insieme alla parola «amore» che egli stesso definisce in questa intervista una parola «usata e abusata», «usata e ambigua» che non gli piace tanto.37 Eppure è nello stesso testo che Levinas dice «non penso che Agape nasca da Eros […] . Penso che l’Eros non sia l’Agape, che l’Agape non sia un derivato né l’estinzione dell’amore-Eros».38
Nella fenomenologia di Levinas il Volto è, tra le altre cose, astratto,39 insignificante,40 nudo,41 invisibile,42 e quindi non-erotico per eccellenza perché non è mai presente al suo interlocutore, mai oggetto di presa o di mira intenzionale.
Per comprendere meglio questo che, giocando con le parole come fa Levinas, chiamerei intrattenimento erotico (nel doppio senso di tenersi-tra e non-trattenersi) dobbiamo necessariamente fare riferimento all’ambiguità dell’amore descritta in Totalità e Infinito.
Innanzitutto Levinas afferma che il fatto metafisico della trascendenza non si attua come amore, ma la trascendenza del discorso è legata all’amore, il quale, potendo essere diretto alle persone o alle cose, ci rigetta al di qua dell’immanenza stessa facendoci cercare un essere a noi connaturale, presentandosi come «incesto». È il godimento a giustificare questa interpretazione e a far risaltare l’ambiguità di un fatto che resta fra la trascendenza e l’immanenza. Il desiderio è interrotto dal godimento, soddisfatto come il più egoistico e più crudele di tutti i bisogni. Questa, tuttavia, è «un’audacia eccezionale» dell’amore che si muta in bisogno, ma presuppone ancora l’esteriorità della trascendenza dell’amato. «Godimento del trascendente quasi contraddittorio» che non può essere detto né nei termini del parlare erotico né in quelli del linguaggio spirituale. «Questa simultaneità del bisogno e del desiderio, della concupiscenza e della trascendenza […], costituisce l’originalità dell’erotico che, in questo senso, è l’equivoco per eccellenza».43
L’amore tende ad Altri nella sua debolezza, la quale non è una qualche deficienza (come sembra accennare Possenti quando parla di volto sfigurato che non ha nulla di desiderabile); la debolezza qualifica l’alterità stessa del Volto che però si offre «alla mano» in una «ultramaterialità esorbitante» che non indica l’assenza dell’umano, ma una «nudità esibizionistica di una presenza esorbitante […] che profana ed è profanata». La profanazione è la simultaneità del clandestino e dello scoperto; essa appare nell’equivoco. La profanazione, tuttavia, permette l’equivoco e non viceversa. L’impudore e la profanazione sono i fenomeni originali in cui si presenta la nudità erotica. Il movimento dell’amante di fronte a questa debolezza si esprime nella carezza che è contatto e sensibilità, e consiste nel non impadronirsi di niente, nel sollecitare ciò che sempre sfugge. Essa non è intenzionalità di svelamento, ma «cammino nell’invisibile», verso ciò che non è ancora. Nella carezza che è sensibile e non intenzionale, il corpo si spoglia della sua forma, abbandona lo statuto di ente per offrirsi come nudità erotica.44
La carezza nella sua dinamica è com-mossa, è una sofferenza trasformata in felicità, voluttà, che non viene a colmare il desidero, ma è il desiderio stesso, l’impazienza. La voluttà come profanazione scopre il nascosto in quanto nascosto; lo scoperto non perde nella scoperta il proprio mistero. La scoperta/profanazione si mantiene nel pudore, anche se ha la forma dell’impudore. La scoperta non svela un segreto. «La nudità erotica dice l’indicibile, ma l’indicibile non si separa da questo dire». La voluttà profana non vede, è un’intenzionalità senza visione, un’esperienza pura perché resta esperienza senza trasformarsi in concetto.45
Questa «non significanza della nudità erotica» non precede, ma è preceduta dalla significanza del volto. La casta nudità del volto non sparisce nell’esibizionismo dell’erotico; esso resta mistero proprio in questa indiscrezione, può mostrare la propria franchezza proprio nella non-significanza del lascivo.46
In questo senso la nudità erotica è come un significato alla rovescia, che significa falsamente, una parola che s’immerge nel silenzio, perché dice non un senso, ma l’esibizione stessa. Per questo essa rinvia proprio al Volto che si esprime in franchezza e «ride sotto i baffi della propria espressione», facendo allusioni nel vuoto, indicando il men che nulla. Eros è perciò un’estasi al di là di ogni progetto. L’Eros va al di là del volto, ma non perché il volto nasconderebbe qualcosa dietro di sé, un altro volto. Ciò che è nascosto non è un ente, non possiede quiddità; per questo l’amore non va verso un Tu: va in una direzione diversa da quella nella quale incontra il Tu.47 «Niente è tanto lontano dall’Eros come il possesso» conclude Levinas.48 Siamo agli antipodi della visione di eros come amore egoistico o rapace. Eros mantiene un disordine e un’ossessione che lo rendono incapace di possedere ciò che vorrebbe possedere. Ma Levinas, come sempre, osa ancor di più, parlando di Eros come ciò che de-linea l’individuo, riflessione bellissima anche per la sua destrutturazione del soggetto inteso in senso maschilistico.
L’Eros non può essere interpretato come una sovrastruttura che ha l’individuo per base e per soggetto. Il soggetto nella voluttà scopre di essere il sé […] di un altro e non soltanto il sé di se stesso […]. Il turbamento del soggetto non è assunto dalla sua signoria di soggetto, ma è la sua commozione, la sua effeminatezza, di cui l’io eroico e virile si ricorderà come una di quelle cose che sporgono dalla «cose serie».49
L’Eros, e già eros e non agape, impedisce il ritorno del sé a se. Questo non-ritorno è la fecondità che fa parte del dramma stesso dell’io.50
Mi piace intravedere questa straordinaria eccedenza del Volto che ordina il non desiderabile, ma che si offre nella dinamica della soddisfazione del bisogno e del godimento nel capitolo 21 di Giovanni. Gesù domanda due volte a Simone di Giovanni (straordinaria permanenza del nome originale/originato dalla fecondità puramente umana), «agapàs me, mi ami tu?». E Pietro risponde «filò se, ti amo». La terza volta Gesù dice «filèis me?» e Simone si dispiace che il Signore abbia abbassato il tiro della sua richiesta, ma è proprio questa accondiscendenza dell’amore, questo «darsi alla mano» di Gesù che permette a Pietro di affidarsi pienamente al suo Signore.
6. Sinderesi ed elezione
«Fai il bene perché bene; evita il male perché è male — scrive Possenti. Su questo piano la coscienza decide. Essa sceglie, magari sbagliando poiché non si dà coincidenza tra scelta della coscienza e verità del bene».51
Quest’affermazione sembra reggere dal punto di vista formale, se la si intende come un imperativo categorico, ovvero di fare il Bene per il Bene, ma credo possa creare delle difficoltà dal punto di vista materiale. Possenti, infatti, subito dopo associa il bene alla verità, ovvero alla manifestazione dell’essere, rientrando nel piano ontologico. Io mi chiedo, tuttavia: se l’uomo comprende se stesso e quello che dovrebbe essere il Bene sul piano della rappresentazione che appartiene al gesto d’essere, com’è possibile, di là del soggettivismo o dell’inganno e del dubbio insito in ogni rappresentazione, stabilire la bontà del bene? Per garantirla si dovrà fare riferimento alla legge naturale o divina, ovvero si dovrà fare ricorso al concetto di Natura — concetto anch’esso secondo me troppo usato e abusato — o di Dio la cui essenza o volontà dovrebbero essere perfettamente comprese dall’ontoteologia.
«Il soggettivo e il suo Bene non potrebbero essere compresi a partire dall’ontologia» scrive Levinas.52 Per poter strappare il Bene e il Soggetto dal gioco maligno della manifestazione dell’essere bisogna assolvere entrambi mediante il concetto di elezione sulla quale Levinas torna in diversi luoghi. Vorrei sottolineare, citando qualche passaggio, alcuni rapporti.
Innanzitutto il rapporto, più profondo di ogni ontologia, che lega il soggetto al Bene. In Altrimenti che essere Levinas scrive che la bontà «non è un attributo che verrebbe a moltiplicare l’Uno; poiché se lo moltiplicasse, se l’Uno potesse distinguersi dalla Bontà che lo tiene, l’Uno potrebbe prendere posizione rispetto alla propria bontà, potrebbe sapersi buono e così perdere la propria bontà».53
Questa intima unione anarchica, prima della scelta, è ribadita in Dio, la Morte e il Tempo:
Essere responsabile nella bontà è essere responsabile al di qua o al di fuori della libertà. L’etica si insinua in me prima della libertà. Prima della polarità del Bene e del Male, l’io si trova compromesso con il Bene nella passività del sopportare. L’io si è compromesso con il Bene prima di averlo scelto. Il che significa che la distinzione tra il libero e il non-libero non è l’ultima distinzione che distingue l’umano dal non-umano, e nemmeno il senso dal non-senso […] .
Questa anteriorità della responsabilità rispetto alla libertà rappresenta la bontà del Bene: il Bene deve eleggermi prima che io possa sceglierlo; il Bene deve eleggermi per primo.54
Come si può, dunque, cogliere fenomenologicamente il Bene? Attraverso l’eccezionale ingiunzione del Volto d’altri,55 che mi ordina di soccorrere i suoi bisogni più corporei, la sua fame, ma anche di andare oltre l’idea stessa di Bene che io posso avere per lui, e che potrebbe annullare, schiacciare la sua trascendenza.
La bontà del Bene […] inclina il movimento che essa invoca per allontanarlo dal Bene e orientarlo verso altri e così solamente verso il Bene. Non rettitudine che va più in alto della rettitudine. Intangibile, il Desiderabile si separa dalla relazione del Desiderio che esso chiama e, in forza di questa separazione o santità, rimane terza persona: Egli (Il) al fondo del Tu […]: non mi riempie di beni, ma mi costringe alla bontà, migliore dei beni da ricevere.
Essere buono è perdita e deterioramento e stupidità nell’essere; essere buono è eccellenza ed altezza al di là dell’essere — l’etica non è un momento dell’essere — è altrimenti e meglio dell’essere, la possibilità stessa dell’al di là.56
La non rettitudine della Bontà. Quando agiamo per il Bene dell’altro corriamo sempre il rischio di sacrificare la sua alterità all’idea che noi abbiamo del Bene, della Natura o di Dio — spesso mi chiedo quanto i concetti di legge naturale e divina possano costituire un alibi.57 La Bontà, tuttavia, come la intende Levinas, può salvarci da questo residuo di paganesimo.
La bontà distrugge senza lasciare ricordi, senza trasportare nei musei gli altari eretti agli idoli cruenti del passato; essa brucia i boschi sacri in cui si ripercuotono gli echi del passato. Il carattere eccezionale, straordinario, trascendente della bontà dipende precisamente da questa rottura con l’essere e con la sua storia. Ricondurre il bene all’essere — ai suoi calcoli e alla sua storia — è annullare la bontà.58
Questa concezione, tuttavia, lungi dall’essere una negazione assoluta dell’essere o della verità o di Dio, essa vuole comprenderli, a mio parere, all’interno di una più grande realtà. Abuso ancora della pazienza del lettore citando Altrimenti che essere, dove Levinas, parlando della responsabilità per Altri più antica di ogni impegno, di questa «obbedienza senza defezione in cui cova la rivolta» scrive:
È nelle forme di una tale risoluzione che significa non un mondo, ma un Regno. Ma Regno di un Re invisibile. Regno del Bene di cui l’idea è già un eone. Il Bene che regna, nella sua bontà, non può entrare nel presente della coscienza, fosse anche rammentato. Nella coscienza, esso è anarchia. La nozione biblica di Regno di Dio — Regno di un Dio non tematizzabile, di un Dio non-contemporaneo, cioè non presente — non deve essere pensata come un’immagine ontica di una certa «epoca» della «storia dell’Essere», come una modalità dell’essenza. È, al contrario, la stessa essenza ad essere già Eone del Regno.59
L’ontologia e il suo linguaggio potrebbero essere solo un momento all’interno di un respiro più ampio dello Spirito di Dio.
7. Sub-jectum
Ci siamo come allontanati dalla visione di Possenti con le considerazioni sull’Eros e ora, trattando il punto centrale della nostra argomentazione, potremmo credere che queste linee divergano ulteriormente. Scopriremo invece che esse s’incontrano nel cuore di un chiasmo per poi dividersi ancora. Il cuore di questo chiasmo è l’idea di soggetto.
Sappiamo che Levinas, nella ricerca di un senso prima e oltre l’essere, compie prima un’analisi della significazione del Dire inteso come «una passività dell’esposizione in risposta ad un’assegnazione che mi identifica come l’unico, non tanto riconducendomi a me stesso, quanto spogliandomi di ogni quiddità identica e, di conseguenza, di ogni forma, di ogni investitura che si nasconderebbe ancora nell’assegnazione».60 Un sé malgrado sé nell’incarnazione come possibilità stessa dell’offerta, della sofferenza e del trauma.61 La passività, propria della pazienza, significa nelle «sintesi passiva» della sua temporalità.62 C’è come una disgiunzione dell’identità, una non sintesi, una stanchezza. La soggettività nell’invecchiamento, tuttavia, è unica, insostituibile, ma «è malgrado sé».63
Questo paradosso del sé malgrado sé avviene nella dinamica della donazione del proprio pane, ovvero dell’inversione del conatus essendi nella quale però l’egoismo è importante, perché senza di esso il dare non avrebbe senso.64
Perciò nel cuore di Altrimenti che essere Levinas fornisce una «definizione» della soggettività in questi termini: «l’essere-strappato-da-sé-per-un-altro-nel-dare-all’altro-il-pane-della-propria-bocca».65 Questo riferimento alla corporeità riemerge in un passo che ritengo essenziale al nostro discorso. In esso Levinas, ritornando sul concetto di creaturalità, ovvero della nascita del soggetto non da una propria iniziativa dice: «il se stesso si ipostatizza altrimenti» annodandosi in una responsabilità, in un intrigo anarchico in cui è «come espulso in sé fuori dall’essere»; quindi il sé è l’uno o l’unico separato dall’essere, e la coscienza di sé non è di nuovo una coscienza, ma un termine, in ipostasi. Questa eccezionalità, questa «inversione nel processo dell’essenza» questa «in-condizione» è attuata tramite la sensibilità e la vulnerabilità della maternità. Tale in-condizione è un ritrarsi in sé che è un esilio da sé. Ciò rende il sé una disuguaglianza in sé indeclinabile.66
Questi attribuiti negativi della soggettività del se stesso non consacrano un qualche mistero ineffabile, ma confermano l’unità pre-sintetica, pre-logica e in un certo senso atomica — cioè individuale — del sé che gli impedisce di scindersi, di separarsi da sé per contemplarsi o per esprimersi e, di conseguenza, per mostrarsi se non sotto una maschera da commedia […] . Questo impedimento è la positività dell’Uno. In un certo senso atomica, poiché senza quiete in sé, poiché «sempre più uno» fino all’esplosione, alla fissione, all’apertura. Che questa unità sia torsione e inquietudine, irriducibile alla funzione che il se stesso esercita nell’ontologia compiuta dalla coscienza, la quale, attraverso il se stesso, opera il suo ritorno su di sé — ecco il problema. Come se l’unità atomica del soggetto […] non cessasse di fendersi.
Il se stesso non riposa in pace sotto la sua identità, e tuttavia la sua in-quietudine non è scissione dialettica […]. L’unità, qui, precede ogni articolo e ogni processo.67
Dicevo che questo passo è essenziale perché, pur nel suo personalismo ontologico, Possenti fa delle affermazioni assolutamente assonanti alle considerazioni di Levinas. «Ogni persona è in esilio da se stessa» e cerca di tornarvi come Ulisse in viaggio verso la propria interiorità,68 che, tuttavia, resta un «mistero quasi insondabile» poiché «la conoscenza della soggettività è il grande scoglio contro cui si infrange ogni velleità conoscitivo-oggettivante del pensiero».69 La soggettività, aggiunge Possenti, è, come dice Maritain «un abisso sostanziale che, ben lungi dal definirsi mediante la coscienza di sé, sfida la coscienza di sé, perché è per la coscienza una notte che diventa sempre più profonda man mano che essa vi si immerge».70
Non si potrebbe trovare concetto più vicino alle idee di Levinas che stiamo considerando. Eccolo il cuore del chiasmo, io ne sono totalmente esterrefatto! Questa espressione trova una precisa eco nelle parole di Levinas:
È probabilmente a partire dalla prossimità che bisogna affrontare il difficile problema della soggettività incarnata, del soggetto che si vuole ostinatamente libero e che […] si da un non-io nelle rappresentazioni per poi trovarsi, paradossalmente, preso nelle sue proprie rappresentazioni.71
Questo «abisso sostanziale», questa «unità pre-sintetica» fino alla fissione mi sembra espresso dal paradosso personalistico dell’incommunicabilitas che, secondo Possenti è «compresenza di assoluta incomunicabilità ontologica e di illimitata comunicabilità intenzionale».72 Concetto, questo, che Levinas esporrebbe con l’idea di elezione e unicità, per la quale io sono chiamato a rispondere di Altri in modo anarchico. In Altrimenti che essere, però, egli utilizza dei termini con maggiori assonanze con quelli del Personalismo.
La significazione precede l’essenza […]. Ci si può chiedere se la soggettività come significazione, come l’uno-per-l’altro, non si riferisca alla vulnerabilità dell’io, all’incomunicabile, alla non-concettualizzabile sensibilità.73
È dalla vulnerabilità della sensazione, dall’Io «che è in se come nella sua pelle»,74 nel «non luogo, frattempo o contrattempo (o disgrazia) al di qua dell’essere e al di qua del nulla tematizzabile come essere»,75 che possiamo comprendere il sé che svuota se stesso in una ricorrenza che sarebbe l’ultimo segreto dell’incarnazione.76 È da questa in-quietudine, che non è scissione dialettica,77 che possiamo comprendere come il battito della sensibilità è la non coincidenza dell’io con se stesso, un’insonnia causata dall’«altro ispirante il medesimo».78
Questo concetto ci servirà dopo per comprendere meglio l’idea di relazione, ma vorrei dedicare un po’di tempo alla considerazione del sub-jectum perché ci tornerà utile quando rileggerò la definizione tomista di persona in chiave levinassiana.
Dopo aver descritto il soggetto come ricorrenza a sé, come fissione atomica, Levinas esplicita due funzioni di questa unità pre-sintetica: essa sopporta su di sé l’essere e gli dona un senso.
Una condizione che conferisce un senso all’essere stesso ed accoglie la sua gravità: è come riposante su un Sé, sopportante ogni essere, che l’essere si raccoglie in unità e l’essenza in avvenimento. Il Sé è Sub-jectum: è sotto il peso dell’universo — responsabile di tutto.79
Il soggetto è per Levinas il punto cruciale della questione ontologica: quando l’essenza anonima grava sulle spalle di un soggetto responsabile, unico, acquisisce un senso, diviene Universo. «Così si trascende l’essere». In questo senso l’Io non sarebbe una sostanza alla quale si aggiunge, come un attributo, quello del sopportare: è proprio la sua «unicità eccezionale nella passività» a costituire il suo avvenimento come un «mettersi alla rovescia».80 «Nell’espiazione, su un punto dell’essenza pesa — fino ad espellerlo — il resto dell’essenza. Responsabilità per la creatura di cui il Sé è l’enfasi stessa.»81
Vorrei a questo punto fare una divergenza anch’essa necessaria per la nostra ri-definizione o in-definizione di persona. Levinas utilizza i termini ipostasi, soggetto, soggettività, Io, ciascuno con sfumature diverse. Quando usa il termine Io si riferisce alla soggettività responsabile nella sua unicità, al soggetto che dice eccomi (sì io) all’appello d’Altri. In Difficile libertà questa capacità di rispondere all’appello, prima che esso sia pronunciato, è accostata da Levinas al Messianismo: «Il Messia sono Io, ed essere Io è essere Messia […] . Concretamente questo vuol dire che ognuno deve agire come se fosse il Messia».82 Questo mettersi alla rovescia al di fuori dell’essenza per sopportare su di sé l’Universo, il Messianismo, è definito da Levinas in Tra noi, un «apogeo nell’Essere».83
8. Relazione
Tutto il pensiero di Levinas è una filosofia del discorso, del Dire originario, della prossimità. Questo tema è così presente in tutta la sua opera che non si può estrapolarlo in una citazione: sarebbe riduttivo. Ai fini della nostra argomentazione, e anche perché stiamo seguendo il filo conduttore di Altrimenti che essere, farò riferimento a un paio di punti. Più su abbiamo detto come, attraverso il battito della sensibilità, la non coincidenza dell’io con se stesso, ci sia l’insonnia dell’altro ispirante il medesimo.84 Questa ispirazione che è psichismo significa alterità nel medesimo senza alienazione, come incarnazione, come «essere-nella-propria-pelle» come «avere-l’altro-nella-propria-pelle». In questa sostituzione il sé si assolve da sé e «l’essenza si supera nell’ispirazione».85
La parola ispirazione è evocativa, richiama molto le relazioni intratrinitarie (filiazione, spirazione) nelle quali la Persona divina non è definita in base alla propria essenza, perché l’essenza di Dio è una sola, ma in base alla relazione. Dal canto suo Levinas identifica l’espiazione con l’Io che non è un ente (che possiede quindi una sua sostanzialità precedente il suo atto di espiare) capace di espiare per altri: è questa stessa espiazione, è Bontà.86
Levinas si pone quindi al di fuori del concetto realista di relazione, per il quale la relazione è intesa a partire da una sostanza. La responsabilità per altri non è l’accidente di un Soggetto, ma precede in esso l’Essenza.87 In questa passività estrema, in questa sostituzione che è unicità in cui il soggetto vive in una fissione atomica che lo mette in relazione con Altri, non c’è definizione dell’Io. «La ricorrenza diviene identità facendo esplodere i limiti dell’identità, il principio dell’essere in me, l’intollerabile quiete in sé della definizione».88
L’Io è in (de) finito, per la sua relazione pre-essenziale con l’Infinito che si esprime nel Volto d’Altri. Levinas lo ripete, recuperando però un concetto caro al Personalismo: quello di anima.
Dire che l’Io è sostituzione non è dunque enunciare l’universalità di un principio, la quiddità di un Io, ma, al contrario, è restituire all’anima la sua egoità allergica ad ogni generalizzazione.89
Sappiamo da Aristotele che la relazione è una delle categorie che suppone la sostanza, eppure Possenti sembra aver udito la voce dell’altro (Levinas in questo caso) quando afferma che «la persona non è […] una sostanza-sostrato inerte cui a un certo punto si aggiungono la natura razionale e la libertà». La persona non è un semplice suppositum perché ha la razionalità. Perciò è opportuno distinguere soggetto da persona: il soggetto è inerte, mentre la caratteristica della persona è la sua relazionalità o spiritualità. Per questo non tutti i soggetti sono persone. «La persona sta più in alto del soggetto».90
Evidentemente qui ci troviamo molto lontano, se ci riferiamo ai termini, dal pensiero di Levinas, ma nei contenuti tale distanza sembra ridursi. Anzi! Possenti si «approssima» a Levinas quando afferma che la persona non è maschera, ma volto che «porta iscritto l’appello a essere rispettato».91 La disamina di questa prossimità diventa più intrigante e complessa quando studiamo il cuore argomentativo del concetto di relazione.
Nell’analisi del Possenti la relazione accade a partire dalla sostanzialità.92 L’essere in relazione è proprio della persona, ma non la costituisce come se la sua essenza fosse la relazionalità, anche se la relazione non si aggiunge in modo estrinseco alla persona.93
L’importante, per Possenti, è non ridurre la persona a nessuno dei due poli, la relazionalità o la sostanzialità.94 Certo l’esistenza della persona è fondata su una relazione originaria a cui si può dare il nome di «metafisica dell’amore», ma ridurre la persona a relazione comporta che essa valga solo come parte di un Tutto, che diventerebbe fondante nei suoi riguardi.95
Ecco un altro chiasmo col pensiero di Levinas: se da una parte Possenti si avvicina all’idea del Dire originario, dall’altra sembra allontanarsi da quella di relazione anteriore all’essenza. Qui vorrei solo ricordare che per Levinas l’idea di sostituzione, di elezione e quindi di unicità non rende parte di un Tutto neutro che costituirebbe l’Io. Al contrario: proprio la sostituzione espelle l’Io dall’essenza e dai suoi giochi e lo rende unico nella sua elezione. Del resto Possenti più avanti scrive: «La sostanzialità non è priorità dell’io né la relazionalità priorità de tu, ma in entrambe si esprime l’idea che l’io e il tu siano radicati nell’essere».96 Possenti rilancia la palla nel campo di gioco dell’essere. Ma l’essere non è il Tutto neutro al quale egli voleva negare la priorità? Possenti però corregge il suo tiro quando, poco dopo afferma che l’uomo come persona non è una parte o frammento, ma una totalità che possiede un che di singolare e irripetibile e proprio per questo è capace di autotrascendenza e di dono.97 Sembra di ripercorrere le analisi che Levinas compie in Totalità e Infinito quando parla della necessità della «separazione radicale» per l’istaurazione del Discorso, del rapporto non con l’essere, ma con l’Infinito.98
La totalità e l’abbraccio dell’essere e dell’ontologia non detengono il segreto ultimo dell’essere. La religione, nella quale sussiste il rapporto tra il Medesimo e l’Altro nonostante l’impossibilità del Tutto — l’idea dell’Infinito — è la struttura ultima.99
Credo che Possenti e Levinas stiano suonando una medesima sinfonia in chiavi diverse. La separazione radicale e l’incomunicabilitas mi sembrano due chiavi di questa sinfonia. Scrive Possenti in relazione all’incomunicabilitas: «La persona è capacità di porsi in relazione con l’intero; non come la parte si rapporta al Tutto, ma come un tutto al Tutto»,100 «una totalità concreta, un tutto autonomo e indipendente […] un tutto in cui si rispecchia l’infinito».101
È interessante notare anche come Possenti, nel trattare questo insondabile mistero della Persona, utilizzi delle idee molto vicine a quelle di Levinas sulla sensibilità, sull’ambivalenza del linguaggio, e molto simili al concetto di traccia. Accade quando Possenti parla della relazione come revelatio intesa come una «intrinseca ambivalenza, un darsi e un ritrarsi, un rapporto mai pienamente determinato tra lo spirituale e il corporeo».102 Un’ambiguità che vale sia nel rapporto con altri, che in quello con noi stessi.
Allo stesso modo sono vicine a quelle di Levinas, riguardo l’Eros, le considerazioni che Possenti fa della relazione come bisogno ed eccesso.103
I bracci di questo chiasmo infinito si allontanano di nuovo quando Possenti ripete la sostanzialità o identità della persona come presupposto della relazione: «L’esser-persona non dipende dal fatto che qualcuno mi riconosca tale, ma da un carattere più sorgivo ed essenziale, legato alla sostanzialità del mio atto di esistere»,104 per giungere, come alla fine di una questione tomistica, alla «con-clusione»:
Se non sussistono motivi per negare o diminuire il rilievo della relazionalità, cui l’approccio sostanzialistico fornisce il migliore supporto, non è possibile la sostituzione della sostanza con la relazione nella determinazione del concetto di persona umana, il che equivarrebbe ad introdurne una nuova definizione: la persona è una relazione individuale di natura razionale (persona est rationalis naturae indivudua relatio). In tal modo la persona sarebbe una «relazione sostanziale», non una «sostanza relazionale», assunto cui seguirebbe che con la soppressione della relazione verrebbe meno la totalità della persona.105
Credo che la difficoltà di questa espressione stia nel voler comprendere la persona all’interno della diade ente-non ente, o comunque del linguaggio ontologico e dell’anfibologia dell’essere e dell’ente. Quando invece Levinas parla di esposizione sta cercando proprio di sottrarsi a questo «prestigio della Totalità» e all’imperialismo logico dell’essere. Il discorso di Possenti dà per scontato, insomma, che tutto ciò che è logos ha a che fare con l’essere che necessariamente chiude nella definizione dell’essenza tutti gli enti che appartengono al suo atto. Ciò che io, invece, sto difendendo è l’idea di persona come in(de)finita. Scrive Levinas in Altrimenti che essere:
La prossimità è il soggetto che si approssima e che, di conseguenza, costituisce una relazione alla quale io partecipo come termine, ma in cui sono più — o meno — di un termine. Questo sovrappiù o questa mancanza mi getta fuori dall’oggettività della relazione […]. Io sono termine irriducibile alla relazione e tuttavia in ricorrenza che mi priva di ogni consistenza.106
In aggiunta a questo discorso Possenti fa delle considerazioni sulla morte, o sul senso comune della morte, secondo le quali, se la persona fosse solo relazione la morte la annienterebbe e noi conserveremmo degli altri solo un umbratile ricordo. Il concetto di sostanza razionale, invece, introduce l’idea della sussistenza oltre la vita fisica. Levinas, tuttavia, parla della morte di Altri in termini totalmente diversi. È proprio perché la morte d’Altri m’inquieta più della mia che essa rappresenta un disinteressamento, una rottura del conatus essendi, un movimento non intenzionale e un ad-Dio.107
9. Verso un’in-definizione della persona
Possenti si approssima, tuttavia, di nuovo a Levinas quando sottolinea le differenze tra personalismo e individualismo,108 e analizza il dibattito che oppone la «persona come sostanza» alla «persona come relazione».
Esse vengono considerate antitetiche — scrive Possenti — spesso in ragione di un certo concetto di sostanza rifiutato come superato, statico, inerte substrato, per cui le sostanze sarebbero «cose», meri oggetti. Non vi è niente di buono da attendersi da semplificazioni così grossolane, in cui la sostanzialità di un soggetto personale e libero viene rappresentata ad uso degli indotti come un substrato morto, come fosse un sasso. In realtà ontologia della sostanza e ontologia della relazione sono intrinsecamente connesse […] .
La strettissima connessione tra sostanza e relazione significa che l’essere personale è insieme: un esse-in (sostanzialità), esse-per-se (fine in sé), un esse ab (procede da qualcuno), un esse-ad (è rivolto verso qualcuno e qualcosa), un esse-cum (relazione e comunità), un esse-pro (proesistenza e dono in favore dell’altro) […] .
L’opposizione tra sostanza ed esistenza è fittizia e manifesta una comprensione solo essenzialistica e non esistenziale dell’essere e della sostanza. In realtà il genio di Tommaso è calato ben dentro l’esistenza, è il più esistenziale tra tutti i filosofi perché pensa l’essere come atto ed energeia.109
Compiamo, dunque la trasgressione ultima, la prossimità audace, di rileggere la definizione di persona di San Tommaso con le parole di Levinas. Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura, scilicet subsistens in rationali natura (S. Th., I. q. 29. a. 3.): Persona significa l’apogeo nell’essere, cioè chi sopporta su di sé il peso dell’universo nel Dire originario verso Altri.
C’è in questa in-definizione un rapporto originario verso la Trascendenza. Possenti richiama tale rapporto quando afferma che «ogni autentico comunicare fra uomini è un processo triangolare, che non può non passare per la Trascendenza».110 Questa «triangolazione» con la Trascendenza riceve dalle parole di Levinas meravigliose assonanze. «Nella convocazione assoluta del soggetto — scrive Levinas — si ode enigmaticamente l’infinito: l’al di là e l’al di qua. Bisognerà precisare la portata e l’accento della voce in cui l’Infinito così si ode […]. Bisogna assolutamente chiedersi se nella significazione dell’uno-per-l’altro […] non si oda forse una voce che viene da orizzonti altrettanto vasti come quelli nei quali si situa l’ontologia».111
Questi orizzonti evocati da Levinas sono quelli dell’Enigma dell’Infinito in cui il Dire, responsabilità assoluta, nella quale sono solo, può diventare anche contestazione dell’Infinito, ma solo così un’entrata nei suoi disegni.112
Scrive Levinas nelle pagine conclusive di Altrimenti che essere.
Siamo forse ricondotti all’umanità come ad un’estrema possibilità nell’essere in cui la sostanzialità del «sopportarsi» si desostantifica in un «sopportare l’altro», in un «sostituirsi ad esso»? O attraverso questa ipseità, ridotta all’insostituibile ostaggio, il sé equivarrebbe all’entrata del soggetto nel gioco o nei disegno dell’Infinito?113
La «triangolazione» con la Trascendenza è evocata da Levinas nella relazione con il terzo, il prossimo, per il quale l’assolutezza del rapporto etico deve diventare giustizia che modera la sostituzione di me all’altro e mette anche me in società.
«Grazie a Dio» io sono altri per gli altri. Dio non è «in causa» come preteso interlocutore: la correlazione reciproca mi lega all’altro uomo nella traccia della trascendenza, nell’illeità. Il «passaggio» di Dio […], è precisamente il capovolgimento del soggetto incomparabile in membro della società.114
10. In-conclusioni s-conclusionate
In questo percorso chiastico abbiamo cercato un im-possibile incontro tra la filosofia realista, l’ontologia, e il pensiero di Levinas a partire dalla concretezza dell’esistenza, dalle relazioni umane, cercando di cogliere quelle che Levinas chiama «le possibilità estreme delle significazioni umane, stravaganti perché portano a vie d’uscita».115 È stato un cammino faticoso e non privo di pericoli e derive. Ma solo correndo il rischio del delirio si può tentare di esporre, nella modalità del soggettivo, l’altrimenti che essere. «Quanti condizionali! Singolari eventualità in verità»116 direbbe Levinas. Ciascuno di noi, nell’egoità della sua anima allergica a ogni de-finizione è una di queste singolari eventualità.
Abbiamo incrociato concetti in avvicinamento e allontanamento nel tentativo di trovarci nel cuore di un chiasmo per riproporre una filosofia dell’essere in chiave fenomenologica. Sembra che lo stesso Possenti senta il richiamo di questa pro-vocazione che è anche convocazione.
La filosofia dell’essere è anch’essa in un certo modo una filosofia dell’esteriorità, poiché sostiene che dapprima accade la coscienza dell’altro rispetto all’autoconoscenza dell’io […]. Sicché la comunicazione umana, quale scambio fra soggetti spirituali per i quali vale la regola dell’interiorità, è propriamente il riconoscersi e il relazionarsi di due interiorità nell’esteriorità.
Scarso è quindi il fondamento cui si oppongono esteriorità ed interiorità, individualità soggettiva e alterità. La coscienza che risponde all’appello dell’Altro è la coscienza di un io, di un soggetto dotato di interiorità; il pensiero dell’alterità è insieme una (ri)visitazione della soggettività e dell’interiorità.
In una concezione della coscienza come coincidenza di interiorità ed esteriorità e come originariamente etica, la donazione di senso non appartiene alla coscienza trascendentale dei moderni dove non di rado sussiste il rischio di pervenire ad una egologia chiusa, ma all’esteriorità etica del volto d’altri.117
Mi si conceda una finale (ri)visitazione. Levinas dice che bisogna sempre tornare al testo originale per far emergere da esso nuovi significati in una sollecitazione midrashica. Senza voler ridurre la persona a maschera inerte, ma conservando il concetto tomasiano di energeia accostandolo a quello levinassiano di essenza come sonorità del verbo essere, direi che la Persona per-sona: la sua «essenza» consiste nell’amplificare la voce di un tenue sussurro…di Dio?
-
Possenti V., Il nuovo principio persona, Armando Editore, Roma 2013. ↩︎
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Cfr. Ibid. p. 18. ↩︎
-
Cfr. Ibid. p. 25. ↩︎
-
Com’è noto, Levinas mantiene in Totalità e Infinito un linguaggio ancora ontologico dal quale cerca di allontanarsi nel tentativo di «riscrittura» compiuto con Altrimenti che essere. ↩︎
-
Possenti V., Op. cit., p. 28. ↩︎
-
Levinas E., Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974, trad. it. di M.T. Aiello e S. Petrosino, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983. D’ora in poi citato AE. ↩︎
-
Cfr. AE p. 51. ↩︎
-
Cfr. AE p. 53. ↩︎
-
AE p. 38. ↩︎
-
Cfr. AE pp. 165-169. ↩︎
-
Cfr. AE p. 54. ↩︎
-
Cfr. AE pp. 54-55. ↩︎
-
Cfr. AE p. 80. ↩︎
-
Possenti V., Op. cit., p. 95. ↩︎
-
Cfr. Ibid. pp. 25-26. ↩︎
-
Cfr. Ibid. p. 18. ↩︎
-
Cfr. AE p. 12. ↩︎
-
Cfr. Possenti V., Op. cit., pp. 11-12. ↩︎
-
AE p. 128. ↩︎
-
Cfr. AE pp. 69-70. ↩︎
-
Cfr. AE pp. 96-96. ↩︎
-
Cfr. AE p. 178. ↩︎
-
AE p. 86 passim. ↩︎
-
AE p. 136. ↩︎
-
Cfr. AE p. 127. ↩︎
-
Cfr. AE p. 141. ↩︎
-
Possenti V., Op. cit., p. 84. ↩︎
-
AE p. 98. ↩︎
-
Possenti V., Op. cit., p. 80. ↩︎
-
Ibid. p. 74. ↩︎
-
Cfr. Ivi. ↩︎
-
Levinas E., De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982, trad. it. di G. Zennaro, Di Dio che viene all’idea, Jaca Book, Milano 1986, p. 48. D’ora in poi citato DQVI. ↩︎
-
Possenti V., Op. Cit., p. 75. ↩︎
-
Cfr. Ibid. p. 76. ↩︎
-
Levinas E., Entre nous. Essai sur le penser-à l’autre, éditions Grasset et Fasquelle, Paris 1991; tr. it. Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Jaca Book, Milano 1998, pp. 137-156. D’ora in poi citato EN. ↩︎
-
Possenti V., Op. cit., p. 75. ↩︎
-
Cfr. EN p. 137, 142; cfr. anche p. 228. ↩︎
-
Ibid. p. 148 passim. ↩︎
-
Cfr. Levinas E., En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 19743, trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998, p. 227. D’ora in poi citato EDE. ↩︎
-
Cfr. EDE 227. ↩︎
-
Cfr. TI pp. 72-73. ↩︎
-
Cfr. TI p. 32. ↩︎
-
Cfr. TI pp. 261-262. ↩︎
-
Cfr. TI pp. 264-265. ↩︎
-
Cfr. TI pp. 267-268. ↩︎
-
Cfr. TI p.268. ↩︎
-
Cfr. TI pp. 270-271. ↩︎
-
TI p. 273. ↩︎
-
TI p. 279. ↩︎
-
Cfr. TI pp. 280-282. ↩︎
-
Possenti V., Op. Cit., p. 89. ↩︎
-
AE p. 57. ↩︎
-
AE p .73. ↩︎
-
Levinas E., Dieu, la Morte et le Temps¸ édition Grasset et Fasquelle, Paris 1993, trad. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Dio, la Morte e il Tempo, Jaca Book, Milano 1996, pp. 241-242 passim. D’ora in poi citato DMT. ↩︎
-
Cfr. AE p. 16. ↩︎
-
DQVI p. 92 passim. ↩︎
-
Possenti cita a p. 91 la definizione tomasiana di Legge naturale (Lex naturalis nihil aliud est quam participatio legis aeternae in rationali natura - S. Th., I-II, q. 91, a. 2). Con questa affermazione non si corre il rischio del naturalismo, o peggio il rischio di divinizzare quella che riteniamo essere la natura? ↩︎
-
AE p. 24. ↩︎
-
AE pp. 66-67. ↩︎
-
AE p. 62. ↩︎
-
Cfr. AE p. 64. ↩︎
-
Cfr. AE p. 65. ↩︎
-
Cfr. AE p. 66. ↩︎
-
Cfr. AE pp. 92-93. ↩︎
-
AE p. 98. ↩︎
-
Cfr. AE pp. 132-134. Vedi anche DMT p. 244: «L’io è un’ipseità spaiata senza ritorno a sé». ↩︎
-
AE p. 134 passim. ↩︎
-
Cfr. Possenti V., Op. cit., p. 39. ↩︎
-
Cfr. Ibid. p. 99. ↩︎
-
Maritain J., La filosofia morale, Morcelliana, Brescia 1973, p. 185. Citato in Possenti V., Op. cit., p. 97. ↩︎
-
AE pp. 106-107 passim. ↩︎
-
Possenti V., Op. cit., p. 95. ↩︎
-
AE pp. 18-19 passim. ↩︎
-
AE p. 135. ↩︎
-
AE p. 136. ↩︎
-
Cfr. AE. p. 139. ↩︎
-
Cfr. AE p. 134. ↩︎
-
Cfr. AE p. 81. ↩︎
-
AE p. 145. ↩︎
-
Cfr. AE 146. ↩︎
-
AE p. 158. ↩︎
-
Levinas E., Difficile Liberté, Albin Michel, Paris 19833, trad it.di S. Facioni, Difficile Libertà, Jaca Book, Milano 2004, pp.116-117 passim. ↩︎
-
Cfr. EN p. 92. ↩︎
-
Cfr. AE p. 81. ↩︎
-
Cfr. AE pp. 143-144. ↩︎
-
Cfr. AE p. 148. ↩︎
-
Cfr. AE 143. ↩︎
-
AE p. 143. ↩︎
-
AE p. 160. ↩︎
-
Cfr. Possenti V., Op. cit., pp. 35-36. ↩︎
-
Cfr. Ibid. p. 37. ↩︎
-
Cfr. Ibid. p. 69. ↩︎
-
Cfr. Ibid. p. 65. ↩︎
-
Cfr. Ibid. p. 66. ↩︎
-
Cfr. Ibid. p. 67. ↩︎
-
Cfr. Ivi. ↩︎
-
Cfr. Ivi. ↩︎
-
Cfr. TI pp. 51-79. ↩︎
-
TI p. 78. ↩︎
-
Possenti V., Op. cit., p. 95. ↩︎
-
Ibid. p. 99 passim. ↩︎
-
Ibid. p. 96. ↩︎
-
Cfr. Ibid. p. 68. ↩︎
-
Ibid. p. 68. ↩︎
-
Ivi. ↩︎
-
AE p. 102 passim. ↩︎
-
Cfr. DMT pp. 47-167. ↩︎
-
Cfr. Possenti V., Op. cit., p. 73. ↩︎
-
Ibid. pp. 113-115 passim. ↩︎
-
Possenti V., Op. cit., p. 83. ↩︎
-
AE p. 175-176 passim. ↩︎
-
Cfr. AE p. 193. ↩︎
-
AE p. 192. ↩︎
-
AE p. 198 passim. ↩︎
-
AE p. 74. ↩︎
-
AE p. 33. ↩︎
-
Possenti V., Op. cit., p. 88 passim. ↩︎