Il giorno della pioggia e il giorno del Messia. Il chiasmo umano-divino del perdono in Arendt e Levinas

Rabbi Abbau ha detto: «Il giorno della pioggia è più grande di quello della resurrezione dei morti, perché la resurrezione dei morti riguarda solo i giusti, mentre la pioggia riguarda i giusti e gli ingiusti». Rabbi Yehdah ha detto: «Il giorno della pioggia è grande quanto il giorno in cui è stata donata la Torah». Rabbi Hama bar Hanina ha detto: «Il giorno della pioggia è grande come il giorno in cui furono creati il cielo e la terra.

— Ta’anit

1. Introduzione

L’intervento — a partire dalla considerazione che è possibile invenire Dio all’interno della relazione etica con l’Altro — vuole sollevare la questione sul rapporto di tensione e di incontro tra la dimensione umana e divina del perdono. Analizzeremo le divergenze e gli incontri di questo chiasmo in due autori, Arendt e Levinas, e solo in pochi scritti. L’intento è provocatorio nel senso positivo del termine, quello di chiamare-innanzi alla responsabilità del soggetto di fronte all’esigenza di giustizia umana che non è soppiantata da un’universale giustizia divina che dimentichi l’ordine interpersonale.1

2. Il miracolo del perdono. La posizione della Arendt

Com’è noto la Arendt in Vita activa distingue tre fondamentali attività umane: quella lavorativa, l’operare e l’agire.2 Il lavoro segue lo sviluppo biologico del corpo umano, è determinato dai suoi bisogni fisiologici e in essi si esaurisce.3 L’opera corrisponde alla dimensione non naturale dell’esistenza e si esprime con la produzione di oggetti artificiali che non sono legati ai bisogni biologici e possiedono una permanenza nel tempo al di là dei limiti fisici della vita umana. L’essere-nel-mondo è la condizione dell’opera umana.4

L’azione mette in rapporto diretto gli uomini partendo dal presupposto che noi tutti siamo uguali, ma che nessuno è mai identico a un altro. Segnato dalla finitezza dell’esistenza, il compito e la grandezza dell’uomo consisterebbero nel produrre cose, opere, azioni e parole che possano essere degne di eternità. Con l’opera e con l’azione l’uomo cerca una permanenza nel tempo, l’immortalità.5 Lavoro, opera e azione sono legati alle condizioni generali dell’esistenza umana e ai suoi eventi principali, ma è in particolare l’azione che è strettamente connessa alla nascita come evento che possiede la capacità di dar luogo a qualcosa di nuovo.6 Avendo il proprio fondamento nella nascita, l’azione possiede eminentemente i caratteri dell’incominciamento. Essa è quindi sempre nuova, imprevedibile nelle sue cause ed è rivelativa dell’agente che la compie.7

Il suo impulso scaturisce dal quel cominciamento che corrisponde alla nostra nascita e a cui reagiamo iniziando qualcosa di nuovo di nostra iniziativa. Agire, nel senso più generale, significa prendere un’iniziativa, iniziare […] . Questo inizio non è come l’inizio del mondo non è l’inizio di qualcosa ma di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore […] . È nella natura del cominciamento che qualcosa di nuovo possa iniziare senza che possiamo prevederlo in base ad accadimenti precedenti. Questo carattere di sorpresa iniziale è inerente a ogni cominciamento e a ogni origine […] . Il nuovo quindi appare sempre alla stregua di un miracolo. Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità […] . Azione e discorso sono così strettamente connessi perché l’atto primordiale e specificamente umano deve nello stesso tempo contenere la risposta alla domanda posta a ogni nuovo venuto: “Chi sei? ” […] . Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono […] . Questo rivelarsi del “chi” qualcuno è, in contrasto con il “che cosa” […] è implicito in qualunque cosa egli dica o faccia […] . Ma la rivelazione dell’identità quasi mai è realizzata da un proposito intenzionale, come se si possedesse questo “chi” […] . Al contrario è più probabile che il “chi”, che appare in modo così chiaro e inconfondibile agli occhi degli altri, rimanga nascosto alla persona stessa.8

Non motivata da bisogni biologici e legata al carattere d’inizio l’azione possiede una «processualità» gravata dal «fardello dell’irreversibilità e dell’imprevedibilità».9 Ogni azione imprevedibile nel suo cominciamento possiede delle conseguenze altrettanto imprevedibili nelle re-azioni degli individui ai quali essa si rivolge, e questo senza possibilità d’interruzione. Contro questa spirale dell’imprevedibilità e dell’irreversibilità dell’azione c’è, tuttavia, una via di salvezza nelle potenzialità dell’azione stessa.

Il rimedio contro l’irreversibilità e l’imprevedibilità del processo avviato dall’azione non scaturisce da un’altra facoltà superiore, ma è una delle potenzialità dell’azione stessa. La redenzione possibile dall’aporia dell’irreversibilità […] è nella facoltà di perdonare. Rimedio all’imprevedibilità, alla caotica incertezza del futuro, è la facoltà di fare e mantenere promesse. Le due attività si completano poiché una, il perdonare, serve a distruggere i gesti del passato […]; e l’altra, il vincolarsi con delle promesse, serve a gettare nell’oceano dell’incertezza, qual è il futuro per definizione, isole di sicurezza […] . Entrambe le facoltà, quindi, dipendono dalla pluralità, dalla presenza e dall’agire degli altri, dato che nessuno può perdonare se stesso e sentirsi legato da una promessa fatta solo a se stesso; perdonare o promettere nella solitudine e nell’isolamento è atto privo di realtà, nient’altro che una parte recitata davanti a se stessi.10

Il perdono, quindi, sembra presupporre l’«intreccio» della pluralità umana, sembra essere un’azione eminentemente umana. La Arendt riconosce l’«invenzione» di questo perdono a Gesù.

A scoprire il ruolo del perdono nel dominio degli affari umani fu Gesù di Nazareth. Il fatto che abbia compiuto questa scoperta in un contesto religioso e l’abbia articolata in un linguaggio religioso non è una ragione per prenderla meno sul serio in un senso strettamente profano […] . È decisivo, nel nostro contesto, che Gesù sostenga in primo luogo contro “scribi” e “farisei”, che non solo Dio ha il potere di perdonare, e, in secondo luogo, che questo potere non deriva da Dio — come se Dio soltanto perdonasse, attraverso la mediazione degli esseri umani — ma al contrario va praticato dagli uomini gli uni verso gli altri prima che essi possano sperare di essere perdonati anche da Dio. La formulazione di Gesù è anche più radicale. Nel Vangelo non si suppone che l’uomo perdoni perché Dio perdona, ma possiamo leggere che, “se perdonerete col cuore”, “anche” Dio perdonerà […] . Il perdono è l’esatto opposto della vendetta, che consiste nel reagire contro un’offesa originale, e lungi dal porre un termine alle conseguenze del primo errore, lega ognuno al processo, permettendo alla reazione a catena implicita in ogni azione di imboccare un corso sfrenato. Diversamente dalla vendetta, che è la naturale, automatica reazione alla trasgressione, […] l’atto del perdonare non può mai essere previsto; è la sola reazione che agisca in maniera inaspettata e che quindi ha in sé, pur essendo una reazione, qualcosa del carattere originale dell’azione. Perdonare, in altre parole, è la sola reazione, che non si limita a re-agire, ma agisce in maniera nuova e inaspettata. La libertà contenuta nell’insegnamento di Gesù è la libertà dalla vendetta che imprigiona chi fa e chi soffre nell’automatismo implacabile del processo dell’azione, che non ha in sé alcuna tendenza a finire.11

In un certo senso potremmo dire che l’azione del perdono, azione eminentemente umana («perché sappiate che il figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati»)12 ha in sé qualcosa di divino. Abbiamo già detto che l’azione è rivelativa del soggetto e possiede gli aspetti del novum come inizio per il fatto stesso che essa è legata all’evento nascita. Ora scorgiamo che quella particolare azione del perdono possiede in modo più marcato l’aspetto del novum creativo, è un miracolo rispetto al presente del mondo e un atto redentivo rispetto al suo futuro.

L’azione è in effetti l’unica facoltà dell’uomo di operare miracoli, come Gesù di Nazareth […] . Il miracolo che preserva il mondo […], dalla sua normale, “naturale” rovina è in definitiva il fatto della natalità, in cui è ontologicamente radicata la facoltà di agire.13

Il perdono sembra avere i caratteri della creazione, della rivelazione e della redenzione. Levinas, commentando il trattato Ta’anit, afferma la subordinazione di tutti i rapporti tra Dio, uomo e mondo — creazione, rivelazione e redenzione — all’istituzione di una società di giustizia nel perdono: il giorno della pioggia!14 La Arent, tuttavia, non propone il perdono come una soluzione irenica ai mali compiuti dall’uomo. Il perdono non giunge a livellare le colpe e le sofferenze da esse inflitte come una sorta di condono universale; permane il bisogno di giustizia personale. Inoltre il perdono è un’azione che resta sempre possibile, proprio perché possiede delle alternative. Infine (è una domanda), esiste qualcosa d’imperdonabile? Se il perdono richiede la socialità umana, la colpa che consiste nel negare tale socialità forse non è per se stessa imperdonabile? «Chiunque parlerà contro il Figlio dell’uomo gli sarà perdonato, ma chi bestemmia contro lo Spirito Santo non gli sarà perdonato» (Lc 12, 10).

L’alternativa al perdono, ma non il suo opposto, è la pena, che ha in comune col primo il tentativo di porre un termine a qualcosa che senza interferenza potrebbe proseguire indefinitamente. È quindi significativo […] che gli uomini siano incapaci di perdonare ciò che non possono punire e di punire ciò che si è rivelato imperdonabile […] . Tutto ciò che sappiamo è di non poter né punire né perdonare tali crimini, che quindi trascendono il dominio delle cose umane e le potenzialità del potere umano […] . Qui, dove l’atto ci priva di ogni potere, possiamo solo ripetere con Gesù: «Sarebbe meglio per lui legarsi una pietra al collo e gettarsi in mare».15

Sembra di scorgere in queste parole una profezia di quella che sarà la sorte di Eichmann il cui processo la Arendt narra in La banalità del male. Nell’epilogo in cui la filosofa, con molto acume, cerca di definire giuridicamente il nuovo genere di crimine, quello contro l’umanità, e spregiudicatamente sfoltisce il concetto di colpa collettiva dai suoi orpelli di perbenismo, rivolta all’accusato pronuncia una sola motivazione alla sua condanna a morte.

La politica non è un asilo: in politica obbedire e appoggiare sono la stessa cosa. E come tu hai appoggiato e messo in pratica una politica il cui senso era di non coabitare su questo pianeta con il popolo ebraico e con varie altre razze (quasi che tu e i tuoi superiori aveste il diritto di stabilire chi deve e chi non deve abitare la terra), noi riteniamo che nessuno, cioè nessun essere umano desideri coabitare con te. Per questo, e solo per questo, tu devi essere «impiccato».16

L’esigenza della socialità (dell’uguaglianza di tutti gli uomini) come fondamento del perdono, e il bisogno di una giustizia che non sia un condono anonimo dei mali commessi e ricevuti, fanno eco alle considerazioni di Levinas sul perdono messianico.

3. Il perdono messianico in Levinas

Il secondo aspetto del perdono che mi preme sottolineare è quello del perdono messianico o del perdono come evento messianico. Vorrei partire da una considerazione contenuta in Totalità e infinito che ci collega direttamente a quanto abbiamo detto su Arendt.

Questo nuovo inizio dell’istante, questa vittoria del tempo della fecondità sul divenire dell’essere mortale e soggetto all’invecchiamento, è un perdono, l’opera stessa del tempo. Il perdono nel suo senso immediato è connesso al fenomeno morale della colpa; il paradosso del perdono dipende dall’effetto retroattivo e, dal punto di vista del tempo volgare, esso rappresenta un’inversione dell’ordine naturale delle cose, la reversibilità del tempo. Essa implica diversi aspetti, il perdono si riferisce all’istante trascorso, esso permette al soggetto che si era compromesso in un istante trascorso di essere come se il soggetto non si fosse compromesso.17

Questo elemento del perdono richiama due punti che io ho accostato al messianismo. Il primo è la liberazione dal presente che è un atto che Levinas definisce messianico.

Il vero oggetto della speranza è il Messia o la salvezza […] . La pena non si redime. Così come la felicità dell’umanità non giustifica l’infelicità dell’individuo, la retribuzione nel futuro non estingue le pene del presente. Nessuna giustizia può porvi rimedio. Sarebbe necessario poter ritornare a questo istante oppure farlo resuscitare. Sperare significa quindi sperare la riparazione dell’irreparabile. Sperare per il presente.18

Il secondo riguarda il soggetto che perdona assolutamente responsabile del prossimo a cui perdona.

Il Messia sono Io, ed Essere Io è essere Messia […] . Designarsi da sé, non sottrarsi fino al punto di rispondere prima ancora che l’appello risuoni: tutto questo è essere Io […] . Concretamente questo vuol dire che ognuno deve agire come se fosse il Messia. Il messianismo non è la certezza della venuta di un uomo che arresta la storia: è il mio potere di sopportare la sofferenza di ognuno.19

Il perdono è quindi un’azione che può compiere l’uomo nel presente e nella storia. Con la responsabilità del prossimo l’uomo è pienamente Messia, ma questo accostamento è foriero di non poche difficoltà. In primo luogo perché il Messianismo è un contenuto della tradizione giudaica ben preciso seppur complesso. In secondo luogo, se per certi versi tale evento si compie nella soggettività responsabile, esso conserva quei caratteri contraddittori della natura umana. Infine, il giorno del Messia come giorno di giustizia dovrà comportare la consolazione di coloro che hanno subito il male e la punizione dei colpevoli.

In Totalità e Infinito Levinas solleva, in modo interlocutorio e aperto a ogni sviluppo, l’aspetto di “purezza” del giorno del Messia. Esso consisterebbe in una coscienza umana priva delle ambiguità dell’egoismo e dell’imperfezione delle proprie azioni.

Il trionfo messianico è trionfo puro. Esso è premunito contro la rivincita del male di cui il tempo infinito non impedisce il ritorno. Questa eternità è una nuova struttura del tempo o una vigilanza estrema della coscienza messianica? Il problema va al di là dei limiti di questo libro.20

S’intravede fin da ora la difficile libertà di questa coscienza messianica, che da una parte è pienamente umana, dall’altra chiede l’intervento del «sovraumano». Levinas ne parla commentando un’espressione di Pesahim: «L’Egitto porterà un dono al Messia nel tempo futuro». Levinas innanzitutto inserisce la sua riflessione nel senso più ampio del discorso, e cioè la partecipazione delle nazioni alla Storia della salvezza. In tale Storia Israele ha un ruolo di elezione, il che non vuol dire di vantaggio rispetto agli altri popoli, ma di maggiore responsabilità. Nella sua spiegazione al testo Levinas afferma che tutte le nazioni vogliono partecipare agli eventi messianici, alla salvezza universale e sono felici di farlo, anche solo come testimoni della bontà che Dio ha riservato a Israele, e questo perché identificano Israele con una categoria dell’umano. Ma l’affermazione dalla quale è partito il commento è che l’Egitto porterà un dono al Messia. Come può dunque l’Egitto, che tenne schiavi gli Ebrei partecipare al mondo messianico? «L’Egitto porterà un dono al Messia nel tempo futuro. Egli pensava di non doverlo accettare, ma il Santo sia benedetto, dirà al Messia: “Accettalo da loro; [dopo tutto] hanno ospitato i nostri figli in Egitto”».21

Come dunque si può appartenere all’ordine messianico? Levinas risponde: quando si è potuto ammettere altri tra sé;22 quando anche si è riusciti a ospitare nel proprio paese un gruppo di stranieri con una lingua e delle tradizioni diverse. Alle orecchie dei benpensanti questa potrà sembrare solo tolleranza, ma Dio solo conosce quanta pazienza ci vuole in tale tolleranza.23

Offrire all’uomo un rifugio […], è il criterio dell’umano? Senza dubbio. E nonostante la schiavitù imposta agli stranieri, si tratta ancora di un omaggio all’Altissimo di Israele e del diritto ad avere una parte nel mondo messianico? Il Messia obbedisce all’ingiunzione del Signore. Accetta il dono dell’Egitto. Ma, da solo, avrebbe rifiutato! Niente pace senza il perdono sovraumano.24

C’è in questo passo certamente sia un riferimento al messianismo come evento assolutamente esterno, sia la tensione dialettica tra le azioni umane e l’intervento di Dio nell’avvento del Messia, ma noi intuiamo anche una relazione più profonda tra pace e perdono che Levinas chiama «sovraumano». Dio si placa, ma perché il Messia avrebbe rifiutato il dono dell’Egitto? Solo per la debolezza della natura umana? Ciò che Levinas dice a proposito del perdono, commentando il trattato Joma, in Quattro letture talmudiche è molto illuminante a riguardo.

Le colpe verso Dio mi son rimesse, senza ch’io dipenda dalla sua buona volontà! Per un verso, Dio è l’altro per eccellenza, l’altro in quanto altro, l’assolutamente altro — e tuttavia, solo da me dipende l’accordo con un Dio siffatto. Lo strumento del perdono è nelle mie mani. Invece, il prossimo, mio fratello, l’uomo, infinitamente men altro dell’assolutamente altro, è, in un certo senso, più altro di Dio: per ottenere il suo perdono, nel Giorno del Kippùr, devo riuscire, prima di tutto a ottenere ch’egli si plachi. E se rifiuta? Tosto che siamo in due tutto è messo a repentaglio. L’altro può rifiutarmi il perdono e lasciarmi per sempre imperdonato. Tutto ciò deve nascondere, sull’essenza del divino, insegnamenti interessanti!25

Levinas fa seguire queste parole a una considerazione sulla dialettica tra interiorità ed esteriorità e sul peccato che lacera l’interiorità dell’individuo e che, pertanto, abbisogna per ottenere la liberazione, dell’ordine oggettivo della comunità.26 Se il male corrompe la volontà umana, c’è bisogno di un passo dell’uomo verso il riconoscimento del proprio male per permettere poi a un altro di guarirlo. Ma se l’uomo pecca contro la propria ragione? Se l’uomo, come abbiamo detto sopra, pecca proprio nel non riconoscere la socialità come elemento fondamentale da cui scaturisce il perdono? Levinas non concepisce il messianismo come una sovrastoria che hegelianamente concili tutto.

Se l’uomo offende Dio, chi potrà comporre il disordine? Non c’è storia che passi sopra la storia, non c’è Idea capace di conciliare l’uomo in conflitto con la ragione medesima. Contro questa tesi virile, troppo virile, nella quale si scorge anacronisticamente qualche eco di Hegel, contro la tesi che mette l’ordine universale al di sopra dell’ordine interindividuale, si leva, appunto, il testo della Gemarà. No, l’individuo offeso deve essere placato, accostato e consolato individualmente; il perdono di Dio — o il perdono della storia — non si può concedere senza che l’individuo sia rispettato […] . La pace non s’installa in un mondo senza consolazione.27

È in questa tensione che si compie il giorno del Signore. Un evento che viene da un oltre la storia, ma che si compie nella storia, che conserva i caratteri della soggettività e, pertanto, mantiene tutte le tensioni che fanno parte dell’umano. Un evento che ha come protagonisti il Signore, il Messia e gli uomini. Nella sua veste di uomo inviato da Dio, il Messia compenetra in sé tutta la debolezza e tutto il potere dell’azione umana del perdono.

4. Conclusioni

Abbiamo visto come per la Arendt il perdono sia una azione umana con la “a” maiuscola. Esso pone fine al circolo della vendetta per assoluta iniziativa del soggetto. Lo stesso obiettivo ha la pena che è alternativa, e non l’opposto, del perdono. Il perno forse intorno al quale pendono questi piatti della bilancia è la giustizia, che non può mai vestire solo i panni di una giustizia divina senza tener conto delle colpe o delle sofferenze degli individui. Col perdono il soggetto si libera dall’istane appena trascorso col quale si era compromesso per aprirsi al futuro. Il perdono è per Levinas il seme fecondo della storia e forse anche della metastoria. Esso però non può non tener conto della giustizia. All’istaurazione di una società di giustizia vanno subordinate tutte le relazioni possibili tra Dio, uomo e mondo. S’intravede un chiasmo in cui perdono e giustizia si accostano e si allontanano, e dimensione umana e divina si tendono per congiungersi e separarsi. Il giorno della pioggia, in cui piove sui giusti e sugli ingiusti, e il giorno del Messia, nel quale la stessa giustizia del giorno della pioggia dovrà agire punendo i malfattori e consolando gli afflitti. Ritroviamo in questa tensione nuovamente il chiasmo nel quale il Messia deve coniugare la dimensione divina e quella umana del perdono e della giustizia. Il che ci riporta di nuovo all’enigma del Messia che è l’enigma dell’uomo, provocazione per l’uomo alla responsabilità verso gli altri. Il trionfo messianico non sarà quello di una ragione (hegeliana) che mette l’ordine universale al di sopra dell’ordine interindividuale. Ciascuno dovrà essere placato e non da Dio! Le lacrime umane non possono essere terse da un Dio apocalittico, ma solo da un altro uomo. Nella storia, che è attesa del Messia, l’altro che è il mio prossimo è più altro di Dio. Al mio prossimo devo chiedere perdono correndo il rischio di non ottenerlo così che i giochi restino in sospeso.

È questa sospensione, nel cuore del chiasmo umano-divino del perdono, che interpella la responsabilità del soggetto verso tutti gli uomini, uno a uno! Solo con tale tensione etica sarà forse possibile esperire fenomenologicamente Dio come termine significante e istaurare in terra, nella storia, un regno di giustizia messianica.


  1. Queste le abbreviazioni delle opere di Levinas utilizzate nel presente lavoro. L’au-delà du verset, Editions des Minuit, Paris 1982, trad. it. di Giuseppe Lissa, L’aldilà del versetto, Guida, Napoli 1986: ADV; A l’heure des nations, Les Éditions de Minuit, Paris 1988, trad. it. Di Silvano Facioni, Nell’ora delle nazioni, Jaca Book, Milano 2000: AHN; Difficile Liberté, Albin Michel, Paris 19833, trad it.di S. Facioni, Difficile Libertà, Jaca Book, Milano 2004: DL; De l’existence à l’existant, Fontane, Paris 1947, trad. it. Di F. Sozzi, Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Genova 1986: EE; Quatres lectures talmudiques, Édition de Minuit, Paris 1968, trad. it. di Alberto Moscato, Quattro letture talmudiche, Il nuovo Melangolo, Genova 2008: QLT; Totalité et Infini, Nijhoff, La Haye 1961, trad. it. di A. Dell’Asta, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1980 19902: TI. ↩︎

  2. Arendt H., The uman condition, The University of Chicago, Chicago 1958, tr. It. Vita activa, Bompiani, Milano 200310, p. 7. ↩︎

  3. Cfr. Ivi↩︎

  4. Cfr. Ivi↩︎

  5. Cfr. Ibid. p. 15. ↩︎

  6. Cfr. Ibid. pp. 7-8. ↩︎

  7. L’azione per la Arendt è del tutto sovrapponibile alla parola. Scorgiamo una vicinanza con il Dire di Levinas che è rivelativo del soggetto significante ↩︎

  8. Ibid. pp. 128-131. Passim. ↩︎

  9. Cfr. Ibid. pp. 169-172. ↩︎

  10. Ibid. p. 175 passim. ↩︎

  11. Ibid. pp. 176-178 passim. ↩︎

  12. Lc 5, 24; Mt 9,6. Non c’è bisogno di fare una lezione di esegesi per comprendere che la Arent intende l’espressione Figlio dell’uomo (ben ‘adam) nel senso di uomo comune e l’uso, in essa, del singolare come singolare collettivo: tutti gli uomini. ↩︎

  13. Ibid. p. 182 passim. ↩︎

  14. Cfr. DL, p 38. ↩︎

  15. Arendt H., cit. p. 178 passim. ↩︎

  16. Ead., Eichmann in Jerusalem, 1963; tr. It. La banalità del male, Fetrinelli, Milano 1964 200712, p. 284. ↩︎

  17. TI p. 293. ↩︎

  18. EE p. 83 passim. ↩︎

  19. DL pp. 116-117 passim. ↩︎

  20. TI p. 295. ↩︎

  21. AHN p. 110. ↩︎

  22. Sull’importanza delle relazioni sociali nel messianismo di Levinas vedi anche quanto detto in DL: “Rabbi Abbau ha detto «Il giorno della pioggia è più grande di quello della resurrezione dei morti, perché la resurrezione riguarda solo i giusti, mentre le pioggia riguarda i giusti e gli ingiusti». Rabbi Yehudah ha detto «Il giorno della pioggia è grande quanto il giorno in cui è stata donata la Torah». Rabbi Hama bar Hanina ha detto: «Il giorno della pioggia è grande come il giorno in cui furono creati il cielo e la terra». Subordinazione di tutte le possibili relazioni tra Dio e l’uomo — redenzione, rivelazione, creazione — all’istituzione di una società in cui la giustizia, invece di rimanere un’aspirazione della pietà individuale, è talmente forte da potersi estendere a chiunque e realizzare. Forse è questo stato spirituale che conviene chiamare messianismo giudaico”, p. 38. ↩︎

  23. Cfr. Ibid. pp. 111-112. ↩︎

  24. Ibid. p. 112 passim. ↩︎

  25. QLT, pp. 44-45. Sul valore del perdono e il potere dei tribunali terreni vedi anche NLT, pp. 15-33. ↩︎

  26. Cfr. Ibid. pp. 45-46. ↩︎

  27. Ibid. pp. 49-50 passim. ↩︎