C’è un’opera,1 tra le recenti proposte della teologia cristiana, nella quale il tema della bellezza assume una rilevanza capitale. Un’opera o una proposta teologica o filosofico-teologica tra le più discusse in ambito cattolico, fortemente caratterizzata dalla questione della bellezza. Un’opera per la quale quello che una lunga tradizione ci consegna come l’ultima parola nella serie dei trascendentali, il pulchrum, diventa prima2 e portatrice di una luce speciale capace di illuminare tutte le altre. Mi riferisco al teologo e filosofo svizzero Hans Urs von Balthasar, il quale, venuto il momento di dare un ordine alla sua Summa, ne organizza la scansione dividendo i 15 volumi che la compongono in tre parti, ognuna delle quali rimanda ad un trascendentale (Verum, Bonum e Pulchrum), ma nella quale il Pulchrum assume il ruolo di prima parola, di via d’accesso alle altre.
Non abbiamo bisogno di interrogarci sulle ragioni di questa scelta: è l’autore stesso a renderle esplicite. Si potrebbe riassumere nel modo seguente: non sarebbe possibile far esperienza dell’avvenimento cristiano della rivelazione se non se ne cogliesse primariamente l’aspetto per cui si dà come esperienza della bellezza,3 e questo perché è nella dinamica stessa Rivelazione il suo darsi nella bellezza, e ancora, non sarebbe possibile nessuna esperienza del reale se l’accesso ad esso non avvenisse a partire dal terzo trascendentale. In altri termini, parafrasando von Balthasar, senza la capacità di vedere la bellezza non sarebbe possibile garantire l’evidenza per la quale il bene deve essere adempiuto e nessun argomento potrebbe garantire il riconoscimento del vero.4
Von Balthasar: il pulchrum, l’estasi e la gloria
Si può affermare che la scelta del pulchrum per Balthasar è suggerita innanzitutto dalla dinamica della Rivelazione, poiché questa è intesa come il manifestarsi a partire da sé di Dio, che ne rende possibile l’esperienza. Von Balthasar utilizza a tal proposito, su un piano teologico, il termine Gloria5 per indicare precisamente ciò che sul piano filosofico è espresso dal termine Pulchrum.6 La gloria è così l’atto con il quale Dio mostra se stesso, la sua estasi, l’uscita fuori di sé per farsi conoscibile e accessibile.
Tale atto di estasi-rivelazione avviene nella forma. Il concetto di forma (Gestalt) in von Balthasar è un concetto dinamico che può essere riferito anche alla vita dell’uomo.7 Dalla questione della forma deriva anche quella della sua percezione che svolge un ruolo fondamentale rispetto all’esistenza: così se la percezione della forma è ciò che del Dio si coglie, il modo di vedere la forma non è indifferente rispetto al modo in cui un’esperienza prende forma. La forma a cui si guarda avrebbe infatti la capacità di dar forma alla vita, di in-formare l’esistenza. L’espressione della forma e il modo in cui è colta generano, infatti, sempre una impressione, nel senso che imprimono un’immagine in chi la contempla, e sono in grado di determinare delle epoche.8 Le considerazioni sulla forma prescrivono quindi un’attenzione e segnalano un rischio: il rischio che le forme a cui si guarda non siano quelle originali (primarie) bensì quelle derivate, che von Balthasar spesso chiama «mitiche».9
Ora, per von Balthasar l’epoca contemporanea si troverebbe in una condizione vantaggiosa. Dopo la fine delle grandi visioni metafisiche che hanno segnato il modo in cui il soggetto della modernità si guardava e si scorgeva in una strana confusione con il divino, e in questa confusione diventava complicato distinguere Dio dal divino, sarebbe oggi più semplice recuperare una genuinità di atteggiamento di fronte alle forme originarie.
La forma ha come sua massima espressione e trova il suo esemplare in ciò che comunemente chiamiamo opera d’arte. È proprio da questo fenomeno che von Balthasar ricava le caratteristiche di quello che intende descrivere con la parola Forma. Così la forma è contrassegnata da un carattere evenemenziale che esclude eventuali principi formali preesistenti. Di fronte alla forma il soggetto risulta come deposto da se stesso e convocato a riconoscere e testimoniare ciò che accade, non a determinarlo. La forma, infatti, si dà a partire da sé, in assenza di condizioni previe, sì dà completamente – senza resto e senza traccia di nascondimento o velamento,10 così da impedire che un soggetto possa farsi carico di ciò che non è manifesto, lasciato nel segreto – e porta con sé la regola della propria manifestazione. Se infatti il concetto di forma è chiamato a definire qualcosa a partire dal suo darsi, la forma che si mostra o che si rivela, non mostra appena qualcosa, ma mostra la forma stessa del suo mostrarsi, esprime le condizioni del suo manifestarsi, e diventa l’archetipo. Si può dire che la forma stessa della rivelazione è rivelazione della forma: rivelazione di se stessa e della forma della rivelazione di se stessa.
Se questa rivelazione della forma si offre come modello, tuttavia, ciò che viene rivelato non è solo la forma o la regola della rivelazione, ma la regola in generale di ogni mostrarsi, di ogni manifestazione. In tal senso il pulchrum va infatti qui correttamente compreso, nella coerenza con quella economia della visione nella quale è originariamente pensato, come un carattere che può essere detto di ogni ente.
Il presentarsi della Gloria invita dunque a comprendere gli enti a partire dal modo della loro esposizione e quindi a superare qualsiasi precomprensione o anticipazione del fenomeno. Quello che Balthasar chiama precomprensione è un prospettarsi di ciò che è offerto nella forma, ovvero del dato, rispetto al soggetto. Il darsi o il mostrarsi della forma è ciò che deve far resistenza a questo prospettarsi. Portando all’estremo questa avvertenza, bisogna anche evitare che una domanda troppo ingombrante circa il cercato, di qualsivoglia tipo, intervenga a determinare ciò che deve essere trovato. Se è vero che niente è tanto incomprensibile come la risposta ad una domanda che non si pone, ed è quindi necessaria una qualche idea o immagine del cercato, occorre vigilare affinché questa idea sia abbastanza discreta da non essere confusa con ciò che dev’essere trovato. Così diverso è dire che ci sono delle condizioni esistenziali o categoriali che permettono di percepire e cogliere la forma, diverso è dire che la forma è un prodotto di esse. La categoria dell’avvenimento è chiamata in causa proprio per evitare che un soggetto intervenga a determinare il dato come oggetto a partire da una anticipazione.
Pareyson: La formatività e il compimento dell’opera
Se il concetto balthasariano di forma ha come sua massima espressione e trova il suo esemplare nell’opera d’arte un approfondimento di questo particolare fenomeno può permettere di comprendere meglio la serie di coerenze che qui si cerca di sviluppare.
Vi è un autore molto importante nell’ambito della filosofia italiana del secolo scorso, che ha dedicato molto tempo e molto lavoro all’estetica. Nell’opera che ha per titolo Estetica. Teoria della formatività,11 Luigi Pareyson pone il problema circa l’arte a partire dal modo in cui si attua il processo artistico. Si può dire che la prospettiva scelta sia una fenomenologia del momento artistico, una descrizione di come avviene l’opera dell’arte, una «estetica della formatività» – o attività formante – più che una «estetica della forma».12
In questa prospettiva l’opera dell’arte è presentata essenzialmente come un «compimento», come il compimento del processo di formazione. Il formare dell’arte è infatti un «fare», dice Pareyson, ed è un «fare che mentre fa inventa il modo di fare».13 In questo fare convergono un processo di produzione o di esecuzione e un processo di invenzione. Si può dire che senza formazione non si avrebbe propriamente l’opera, e senza invenzione non si avrebbe l’opera dell’arte. L’operare inventa la propria regola mentre si esegue ed esegue la propria regola mentre si inventa.
Se il formare non inventa non fa altro che riprodurre, ovvero copiare, mentre se non fa, lascia semplicemente le cose come sono, ovvero non fa opera. In nessuno dei due casi vi sarebbe opera dell’arte. Il processo artistico è, quindi, un «tentare»14 di cui l’opera è il risultato, la «riuscita»15 di una serie di tentativi che dipendono anche dalla materia a cui dar forma.
Il modo di fare è un tentare che, in quanto tale, non è pensabile anticipatamente dall’artista, non è precostituito nella sua mente sotto forma di un progetto definito, ma è la convergenza simultanea16 dei momenti inventivo e produttivo. La materia in questo caso gioca un ruolo fondamentale, si presenta come quell’aspetto del reale che offre resistenza al puro tentare e costringe chi opera ad una relazione con il reale stesso. In ogni momento qualcosa può andar storto e l’opera può fallire. L’opera sarà dunque il frutto, o il colpo riuscito, di una relazione tra il reale su cui si applica il fare dell’artista e il tentativo di realizzare una idea-immagine costantemente aggiornata che funge da guida.
La fine del processo sarà allora qualcosa che è, nel contempo, atteso e non atteso, inventato e scoperto. Nel momento in cui l’opera, dopo l’ultimo ritocco, è compiuta, l’artista l’ha riconosciuta come bella, come ciò che cercava, al punto che non avrebbe potuto dire ciò che cercava se non trovandosela davanti. Pareyson insiste molto sul carattere di avvenimento e di perfezione dell’opera d’arte. Una volta compiuta, l’opera dell’arte accade come «perfetta»:17 tutto è al suo posto, non si può pensare né di cambiare qualcosa né di «alterarne l’ordine».18 L’opera così giustifica interamente il suo processo a cose fatte, après coup, offre la propria giustificazione, la propria regola, a partire dal suo manifestarsi come perfetta.
Una volta compiuta l’opera si separa dall’artista: è altro da lui. Di fronte ad essa l’artista è in qualche misura spettatore e, come lo spettatore, contempla l’opera formata. Potremmo dire che l’opera accade all’artista come a chiunque. Non sarebbe sbagliato dire che per Pareyson è l’opera, o il suo accadere a intimare all’artista di non procedere oltre, di non toccare nulla. Sia per l’artista che per un passante che la vede, l’opera si presenta come bella e chiede di essere contemplata: «La bellezza è – infatti – la contemplabilità della forma in quanto forma che s’offre allo sguardo che sa farsi veggente e contemplante».19 Contemplabilità e bellezza non sono scindibili. L’opera si dà dunque come qualcosa che rinvia solo alla sua esposizione: nulla è nascosto e nulla è rimandato al di là di ciò che si mostra. Al contrario della nozione di utilizzabile, l’opera dell’arte esprime della cosa la sua messa in visibilità. L’opera restituisce così la datità degli enti. Essa non rinvia, espone, ma esposto è l’ente dato nella sua datità: solamente dato come nient’altro che ente.20
Ripresa e rilancio
Si comprende così, forse meglio, il richiamo al bello e all’opera dell’arte da parte di von Balthasar, al suo carattere di avvenimento e datità. L’opera d’arte, infatti, pur presentandosi in una esperienza nella quale è riconosciuta come bella, e quindi in una certa corrispondenza con chi la osserva, in ciò che la rende bella non offre anticipazione. Una qualche corrispondenza deve essere riconosciuta nel momento in cui accade un apprezzamento estetico e si tratta di una corrispondenza con qualcosa di costitutivo e originario, come con la risposta ad una attesa, il cui riconoscimento avviene tuttavia sempre a posteriori, après coup. Come se l’accadere del bello portasse con sé la capacità di suscitare in colui a cui si mostra il suo desiderio o la sua attesa, come se nessuna attesa previa fosse in grado di restituire o predeterminare l’immagine dell’atteso.
In altri termini: nel momento in cui si vede un’opera e appare bella agli occhi di chi la guarda, non si può dire che questa corrisponda semplicemente ad un cercato: è infatti possibile riconoscere un’opera bella semplicemente trovandosela davanti senza che la si sia cercata. Nel momento in cui la si vede, senza poterne avere in alcun modo una immagine anticipatrice,21 la si riconosce come corrispondente. La presenza del cercato, nel caso dell’opera d’arte, avrebbe, quindi, una certa capacità di risvegliare l’esigenza che il cercante ha di essa nel momento stesso in cui si dà. Quando si riconosce la bellezza di un’opera, e la necessità di un darsi «così e non altrimenti», si sta di fatto riconoscendo una corrispondenza che l’opera stessa comunica come inanticipabile rispetto ad una attesa e tale per cui chiarisce necessariamente anche l’attesa stessa.
Dall’opera d’arte si apprenderebbe così un atteggiamento diffidente nei confronti delle mitologie e di quelle istanze che pretendono di definire una idea del divino a prescindere dalla Rivelazione, o che pretenderebbero di adeguare ciò che nella rivelazione si mostra a categorie previe. Così come dalle gnoseologie nelle quali la riconduzione ad un soggetto rischia di compromettere il darsi degli enti come oggetti. Non sarebbe così assurdo dire che dall’operare dell’arte e dalla sua opera si apprenderebbe un atteggiamento molto simile a quello prescritto dalla fenomenologia, nei termini di una fedeltà al dato, nei termini di un l’asciar apparire l’ente e al disporsi per accoglierlo così come si offre.22
Se qualcosa è stato detto circa il rapporto o la convertibilità di pulchrum e verum, non si è ancora parlato del rapporto con il bonum. Come richiamato all’inizio, von Balthasar ritiene infatti che senza la capacità di vedere la bellezza, non sarebbe possibile garantire l’evidenza per la quale il bene deve essere adempiuto.
Ora, se, come abbiamo detto, la rivelazione della forma non si limita ad offrire qualcosa alla contemplazione, ma dà forma, – ovvero determina modi di pensare e così intere epoche – produce anche una immaginazione teologica che è, nel medesimo istante, immagine e forza (dynamis),23 potenza vitale che si realizza in una azione formante. La forza dell’avvenimento di rivelazione diventa vita, opera e popolo. Così se nel pulchrum il verum assume il carattere di avvenimento, il bonum assume invece il carattere di opera.
L’esempio che von Balthasar porta a testimonianza di questo fatto è la vita di san Paolo. È ciò che gli è accaduto che fonda il suo agire. L’avvenimento costituisce la sua vita, la in-forma. Ma oltre a san Paolo si può considerare la vita dei santi in generale. Le agiografie testimoniano fondamentalmente di una vita informata da un avvenimento che diventa immagine dell’avvenimento che la informa.24 Ma prima di questi esempi è la rivelazione stessa a consegnarci l’immagine di Cristo come di una vita che si fa opera e diventa stile e modello.
Queste considerazioni trovano la loro coerenza nell’affermazione secondo la quale in Gesù Cristo vi è identità o coincidenza di persona e missione:25 non vi è scarto tra ciò che egli è e ciò per cui è stato mandato. Tale unicità singolare è data dal fatto che la Trinità economica rivelata da Cristo si fonda nella stessa Trinità immanente. In altri termini, si può dire qualcosa della Trinità immanente soltanto attraverso la Trinità economica.26 Ciò significa che noi sappiamo del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo solo attraverso la persona e il comportamento, la vita, di Gesù Cristo.27 Ma bisogna essere ancora più radicali: processio (intradivina) e missio (extradivina) sono la stessa cosa.28 L’esser mandato dal Padre (missio) della Trinità economica deriva dall’essere dal Padre (processio) nella Trinità immanente.
La missio, tuttavia, consiste interamente nel mostrare la Trinità immanente, o meglio nel mostrare l’amore infratrinitario – dice Balthasar – in una «“assenza di interesse” che il vero amore ha in comune con la vera bellezza».29 Il senza interesse come tratto che accomuna amore e bellezza ha a che fare così con l’universalità della missio e con la trinitarietà di ciò che è rivelato.
Ma c’è ancora un altro aspetto che deve essere considerato. Scrive von Balthasar che lo Spirito è «in Dio, il luogo della bellezza»,30 vale a dire il luogo di questo amore in assenza di interesse o, potremmo dire, incondizionato.
Klaus Hemmerle e l’ontologia trinitaria
È forse possibile comprendere meglio questa affermazione e più in generale le coerenze e la portata di questa proposta filosofico teologica a partire da una lettera che Klaus Hemmerle inviò a von Balthasar in occasione del suo settantesimo compleanno.31 Questa lettera di auguri, pubblicata su richiesta dello stesso von Balthasar per l’editore Johannes di Einsiedeln, porta il nome di Tesi per una ontologia trinitaria. Vi si delinea il progetto di una nuova ontologia, che a partire dall’impulso dell’opera di von Balthasar, tragga le coerenze con le quali ripensare l’ente a partire da quello che la Trinità rivela.32
In queste tesi il punto di partenza è dato dalla rivelazione di un Dio che, pur essendo totalmente altro si consegna alla comprensione a partire da un orizzonte interamente determinato da ciò che è altro da lui,33 ovvero l’uomo. Questi, a sua volta, a partire dalla rivelazione inizierà a comprendere il mondo che lo circonda a partire da quell’Altro, «a lui sottratto», dalla sua rivelazione a partire da sé.34
Ora la rivelazione cristiana, come rivelazione trinitaria, rivela un Dio che in se stesso dice qualcosa della dinamica della relazione che intrattiene con l’uomo. Nella rivelazione trinitaria ad opera del Figlio ciò che è rivelato è un «Dio sopra di noi – scrive Hemmerle – che risponde e va incontro al Dio che è tra noi». Noi saremmo così «in mezzo a Dio e Dio».35 La frase è straordinariamente balthasariana e potrebbe richiamare a quella stessa idea per la quale la salvezza ha raggiunto tutti (o al celebre argomento per cui l’inferno sarebbe vuoto), essendo tutti abbracciati nella distanza tra Dio e Dio.36 Ciò che per Hemmerle unisce il Dio tra noi al Dio sopra di noi sarebbe «l’amore incondizionato, cioè lo Spirito Santo».37 Ma lo Spirito Santo è ciò che unisce il Dio tra noi al Dio sopra di noi, perché è precisamente ciò che permette la relazione tra il Padre e il Figlio, ovvero l’unità divina come relazione d’amore. Un amore come relazione che non accade solo tra Padre e Figlio, ma passa necessariamente per lo Spirito. Uno Spirito che non è semplicemente la relazione, ma un terzo per il quale la relazione d’amore è possibile. Il dogma ci dice cioè che lo Spirito che procede dal Padre e dal Figlio è ciò che rende possibile precisamente quell’amore infratrinitario che non è semplicemente un amore tra un medesimo e un altro, ma un amore che è tale in quanto include sempre un terzo. La rivelazione trinitaria è così la rivelazione di un Dio che è fra noi poiché un noi è già nel dinamismo trinitario.
Come per von Balthasar, anche per Hemmerle la rivelazione non ci comunica semplicemente qualcosa del Divino, ma esige anche una conversione dello sguardo per la quale, a partire da ciò che si rivela e dal modo in cui si rivela, occorre ripensare profondamente il modo in cui si comprendono le cose, gli enti. Il Dio Trinitario porta così con sé l’esigenza di una «nuova ontologia», costituita appunto a partire dalla rivelazione trinitaria. Questa «ontologia trinitaria»38 non potrà che essere sviluppata a partire dal modo in cui Dio si rivela come trinitario. Sarà dunque sviluppata a partire da una fenomenologia dell’amore, ovvero da una fenomenologia del dar-si.39
Coerentemente con l’idea balthasariana per la quale nella forma non vi è distinzione di momenti tra un interno ed un esterno, ma la forma è il darsi dell’interno,40 per Hemmerle il dar-si non è semplicemente una aggiunta al fenomeno della rivelazione trinitaria, ma un aspetto inseparabile da ciò che è dato.41 La forma offre ciò che in essa si sostanzia conducendolo oltre se stessa.42 A partire dal dar-si (Sich-Geben) che è il proprio dell’amore, va così compreso l’accadere, e la struttura stessa dell’essere.43
Il darsi del Dio-uno nella Trinità economica come evento è così l’offerta della Trinità immanente. Ma la Trinità immanente rivela quella che Hemmerle chiama una «intenzione economica» [ökonomische Intention]44 che consiste nel partecipare il più intimo di Dio. Ma partecipare il più intimo di Dio è precisamente ciò che permette di partecipare al più intimo di Dio.
Questa partecipazione, nei termini di una risposta di fronte al darsi del Dio-uno nella Trinità, consisterà nell’entrare nella vita divina ripetendo i momenti costitutivi dell’unità dell’accadere trinitario.45 Ma se quella unità come relazione di amore è possibile grazie allo Spirito anche la nostra partecipazione alla vita divina, il noi tra Dio e Dio deve essere reso possibile dallo Spirito. Ciò significa però che la partecipazione del noi alla vita divina è qualcosa che è già nella vita divina stessa.46
Conclusioni
La Trinità rivelerebbe dunque che l’amore come bellezza e la bellezza come amore possono darsi solo in presenza di un terzo nel quale il noi può essere incluso o è già da sempre incluso. In altri termini: non sarebbe possibile un amore rivolto ad uno nell’esclusione di un altro, o ancora, un amore che escludesse qualcuno non potrebbe essere tale in quanto avrebbe già perduto il suo disinteresse. La bellezza allora è chiamata a garantire il per tutti nell’assenza di interesse e nella garanzia di un terzo.
In termini morali si capisce così anche l’affermazione di von Balthasar, richiamata poc’anzi, secondo la quale, in assenza della bellezza, il bene perderebbe l’evidenza del suo «dover-essere-adempiuto» ovvero il suo carattere categorico. Il carattere categorico è infatti ciò che è chiamato a garantire il bene salvandolo dalla costante possibile caduta nell’ipotetico, ovvero rispetto al fatto che il bene possa essere fatto in vista di un qualche interesse. Il disinteresse della bellezza sarebbe così chiamato a fungere da modello perché il bene fatto a qualcuno non sia fatto nella prospettiva di un bene proprio o nell’esclusione di qualcuno.
Ritroviamo questo aspetto, ancora una volta nell’opera dell’arte, insistendo questa volta sul carattere di inappropriabilità dell’opera. L’opera non è né mia né tua, neppure di chi l’ha fatta. La sua riuscita consiste nel manifestare qualcosa di offerto alla visibilità di tutti e di chiunque. L’opera dell’arte nel momento in cui espone qualcosa nella sua esteriorità o nell’alterità radicale lo sottrae anche da qualsiasi appropriazione, anche dall’appropriazione di colui che la ha prodotta. Non solo, l’alterità per cui l’opera è esteriore e inappropriabile è la stessa per cui nella bellezza essa esige un riconoscimento universale. La sua pretesa di riconoscimento promuove la relazione in un comune inappropriabile, proprio grazie ad una assenza di interesse. Nel suo non essere un utilizzabile l’opera si offre alla condivisione. Nel suo essere né mia né sua l’opera espone il reale come l’inappropriabile. Dato alla visibilità e nient’altro, luogo di una relazione. Esponendo un dato come altro nella forma del bello l’operare dell’arte offre, dunque, il modello di una relazione possibile solo nella non esclusione di un terzo nel quale chiunque possa essere incluso.
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A proposito del lavoro di von Balthasar, della sua biografia e della discussione nata dalle sue opere si veda: Elio Guerriero, Hans Urs von Balthasar, Morcelliana, Brescia 2006. A proposito della bibliografia del teologo svizzero si veda l’articolo di Cornelia Capol, «La bibliografia di Balthasar», Communio 2005, n. 203-204, pp. 199-206. Una bibliografia completa fino al 1975 sempre a cura di Cornelia Capol è riportata in Hans Urs Von Balthasar, Rechenschaft, Johannes Verlag, Einsiedeln 1965, tr. it. di Guido Sommavilla, Il filo di Arianna attraverso la mia opera, Jaca Book, Milano 1980, 1a ed. Per favorire la comprensione del piano delle sue opere, lo stesso autore periodicamente ha dato dei prospetti di massima: in particolare si evidenzia il già citato filo di Arianna e l’articolo «Uno sguardo d’insieme sul mio pensiero», in Communio 1989, n. 105, pp. 39-44. Per ciò che riguarda la trilogia di Gloria, Teodrammatica e Teologica, è importante il già citato Mein Werk. Durchblicke. Epilog, Johannes Verlag, Einsiedeln 1990, tr. it. di Guido Sommavilla, La mia opera ed Epilogo, Jaca Book, Milano 1994. ↩︎
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Hans Urs Von Balthasar, Herrlichkeit, vol. 1, Schau der Gestalt, Johannes Verlag, Einsiedeln 1961; tr. it. di Giuseppe Ruggeri, Gloria, vol. 1, La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1971, p. 9: «l’uomo che comincia, vorrebbe pronunciare una prima parola tale da non essere più costretto a rimangiarsela, a doverla ridimensionare di fronte alla forza delle circostanze, proprio perché era una parola sufficientemente chiara per risplendere con la sua luce attraverso tutte le altre». ↩︎
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Hans Urs Von Balthasar*, Il filo di Arianna…*, cit. alla nt. 1, p. 34: «Dio viene priamariamente non come maestro per noi («vero»), non come redentore con tanti scopi per noi («buono»), ma per mostrare e irradiare Se stesso, la gloria del suo eterno amore trinitario, in quella «assenza di interesse» che il vero amore ha in comune con la vera bellezza». ↩︎
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Hans Urs Von Balthasar, La percezione della forma, cit. alla nt. 2, p. 11: «In un mondo senza bellezza – anche se gli uomini non riescono a fare a meno di questa parola e l’hanno continuamente sulle labbra, equivocandone il senso –, in un mondo che non ne è forse privo, ma che non è più in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-essere-adempiuto e […] gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica». ↩︎
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Aldo Moda, La gloria della croce: un dialogo con Hans Urs von Balthasar, Messaggero, Padova 1998, p. 38: «Il termine Gloria nella Scrittura, designa in forme molteplici la bellezza divina nella sua rivelazione; questa bellezza che certo compie e riassume in se stessa «ogni ontologia ed ogni estetica dell’essere creato» non è mai deducibile dallo spirito umano perché è assolutamente libera ed è compimento che trascende ed abbraccia in maniera assoluta tutte le figure di cui pure è sorgente originante». ↩︎
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Hans Urs Von Balthasar, Il filo di Arianna…, cit. alla nt. 1, p. 35: «Il glorioso sul piano teologico corrisponde a ciò che sul piano filosofico è il bello trascendentale». ↩︎
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Hans Urs Von Balthasar, La percezione della forma, cit. alla nt. 2, p. 15: «Cos’è l’uomo senza la forma che lo segna virgola che lo circonda come una corazza inesorabile e che tuttavia lo rende malleabile, libero da qualsiasi insicurezza e dallo sgomento che inceppa, libero per se stesso e per le sue possibilità più alte: cos’è l’uomo senza tutto ciò?» ↩︎
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Ibid., p. 16: «si danno epoche che, innamorate delle forme originarie dell’esistenza tentano di esprimerle e copiarle dappertutto, ad esempio mediante forme di convivenza e di organizzazione della vita sociale». ↩︎
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Ibid., p. 16: «Laddove queste forme secondarie [forme derivate] si infrangono e si attirano il sospetto di atteggiarsi a ideologie è ad un tempo più facile e più difficile ritrovare la strada che porta alle origini della forma». ↩︎
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Cfr. Giovanni Marchesi, «Gesù Cristo, irradiazione della Gloria», Communio 203-204, cit., p. 95. ↩︎
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Luigi Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Bompiani, Milano 2002, III ed. ↩︎
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Ibid., p. 7 ↩︎
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Ibid., p. 59. ↩︎
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Ibid., p. 69. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Cfr. ibid., p. 72. ↩︎
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Cfr. Luigi Pareyson, Estetica, cit. alla nt. 11, p. 98. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibid., p. 196. Non sarebbe assurdo dire che ogni opera dell’arte impone una certa anamorfosi a partire della quale può essere vista. Per il concetto di Anamorfosi si pensa qui all’uso che ne fa Jean-Luc Marion, Étant donné, PUF, Paris 1997³, tr. it. di Rosaria Caldarone, Dato che, Sei, Torino 2001, p. 150 ss. ↩︎
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Riprendiamo questa idea dall’ultimo libro di Carmelo Meazza, Ontologia del simultaneo. La scena dell’il y a, Orthotes, Nocera Inferiore 2023. ↩︎
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Cfr. Hans Urs Von Balthasar La percezione della forma, cit. alla nt. 2, p. 156. ↩︎
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Hans Urs Von Balthasar, «Uno sguardo d’insieme sul mio pensiero», cit. alla nt. 1, p. 42, la dinamica è così chiarita: nell’esperienza «un essere appare, ne risulta un’epifania: in questo l’essere è bello e ci appaga. Con l’apparire si dona: è buono. Donandosi si dice: svela se stesso: è vero (in sé e nell’altro al quale si manifesta)». ↩︎
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Hans Urs Von Balthasar La percezione della forma, cit. alla nt. 2, p. 460: la dynamis «conferisce all’immagine la profondità plastica in se stessa e la potenza vitale che si afferma all’esterno». ↩︎
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Ibid., p. 463: «Infatti non i manuali asciutti anche se pieni di verità indubitabili, esprimono in modo plausibile al mondo la verità del vangelo di Cristo, ma l’esistenza dei santi che sono afferrati dallo Spirito Santo di Cristo». ↩︎
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Cfr. Teodrammatica, vol. III, cit., pp. 141-154; cfr. Angelo Scola, Hans Urs von Balthasar: uno stile teologico, Jaca Book, Milano 1991, p. 69 e p. 90. ↩︎
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Le teologie trinitarie vengono sviluppate in Gloria VII, pp. 217-238 e pp. 349-386, Teodrammatica III, pp. 172-180 (inversione trinitaria); Teodrammatica IV, pp. 297-361 (dedicato al problema della trinità immanente e Trinità economica) e Teologica II, pp. 109-160. ↩︎
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Angelo Scola, op. cit., p. 71. ↩︎
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Ibid., p. 74. ↩︎
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Il filo di Arianna…, cit., p. 34: «Dio viene priamariamente non come maestro per noi («vero»), non come redentore con tanti scopi per noi («buono»), ma per mostrare e irradiare Se stesso, la gloria del suo eterno amore trinitario, in quella «assenza di interesse» che il vero amore ha in comune con la vera bellezza». ↩︎
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La percezione della forma, cit., p. 463: «Lo Spirito non è il Verbo, e tuttavia è anche lo Spirito del Verbo. Ma egli non procede solo dalla Parola, ma anche dal Padre (GV 15,26) che è Dio «prima» della parola. Egli è Spirito del dicibile e dell’indicibile tempo stesso. Egli spiega la Parola mentre, nella sua processione da essa, mostra ciò che era eternamente al di là della Parola. Egli glorifica i due nell’unità così come è e testimonia l’unità dei due. Egli è quindi al tempo stesso uno Spirito della forma e della formazione, ed è Spirito dell’amore e dell’entusiasmo. In questa unità incomprensibile egli è, in Dio, il luogo della bellezza». ↩︎
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Klaus Hemmerle, Thesen zu einer trinitarischen Ontologie, Johannes Verlag, Einsiedeln 1976; tr. it. con testo a fronte di Maria Benedetta Curi, Tesi per una ontologia trinitaria, Città Nuova, Roma 2021, p. 49. ↩︎
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Il testo ha dato origine ad una corrente filosofica molto attiva anche all’estero che, grazie all’impulso di Piero Coda, lavora per dar seguito a questa proposta di Hemmerle. ↩︎
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Ibid., Tesi 3, p. 63. ↩︎
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Ibid., Tesi 11, p. 77, in tedesco: «sondern von einem ihm entzogenen Anderen her». ↩︎
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Ibid., Tesi, 15, p. 89. ↩︎
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Cfr anche ibid., Tesi, 28, p. 125: «Nel grido del perché sulla croce e nel silenzio dello Sheol, in cui il Figlio è sceso, tutto è integrato e tuttavia niente è fagocitato». ↩︎
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Ibid., Tesi, 15, p. 89. ↩︎
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Ibid., Tesi, 16, p. 91. ↩︎
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Ibid., Tesi, 19, p. 95. ↩︎
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Cfr. Hans Urs Von Balthasar La percezione della forma, cit. alla nt. 2, p. 433. Cfr anche Giuseppe Ruggeri, «Il principio estetico nella teologia di Hans Urs von Balthasar», in Humanitas 1989, n. III, p. 342. ↩︎
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Klaus Hemmerle, Tesi per una ontologia trinitaria, cit. alla nt. 31, (Tesi 23), p. 109: «Dar-si (Sich-Geben): questo intanto non è un’aggiunta esterna ai fenomeni fin qui considerati. […] Il dare non trattiene ciò che ha, ma contiene [enthält] ciò che dà». ↩︎
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Cfr. Ibid., (Tesi 24), p. 111. ↩︎
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Cfr. Ibid., (Tesi 26), p. 119. ↩︎
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Cfr. Ibid., (Tesi 26), p. 120. ↩︎
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Ibid., (Tesi 27), p. 121. ↩︎
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Ibid., (Tesi 29), p. 125. ↩︎